Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Come eravamo
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Volevamo, amavamo sapere e saper fare ogni cosa: donne e uomini, giovani e anziani. Tutto ci era necessario, ci incuriosiva, ci appassionava, e intanto ci univa.
Avevamo anche noi inclinazioni e preferenze individuali. Più che in altre epoche, anzi, perché non era ancora spuntata l’idea di tentar di annientare l’immaginazione uniformando le menti. A qualcuno piaceva più fabbricare attrezzi e monili che raccogliere fiori e frutta. Altri erano più portati ad accudire e istruire i piccoli che ad andare a caccia o a pesca. Ognuno tendeva a dedicarsi di più a ciò che più gli era congeniale, e incoraggiarlo in quel che meglio gli riusciva era per ogni altro un piacere. Ma niente ci lasciava indifferenti, e ogni attività suscitava in noi la gioia e la fierezza di sentirci tutti reciprocamente necessari, senza le quali non vi è collettività che non cominci presto a dividersi.
Del resto non eravamo che poche decine, e tutti di vitale importanza, vecchi e disabili inclusi: come avremmo potuto, quando il valore di ogni sapere era inestimabile, affidarne sia pur solo uno a uno solo? Se egli, per malattia o infortunio, fosse morto prima di trasmetterlo ad altri, la perdita sarebbe stata irreparabile. E se qualcuno fosse rimasto solo in luoghi sconosciuti, come se la sarebbe cavata non potendo disporre che delle proprie abilità e conoscenze, anziché di quelle di tutti?
Non si isolava nemmeno chi ambiva a realizzare qualcosa senza alcun aiuto: per quanto lieto e orgoglioso del proprio successo, senza gli altri intorno non lo sarebbe stato molto meno?
Nessuna divisione di saperi e di compiti, dunque, neanche tra uomini e donne. Una donna, forse, andava a caccia un po’ meno di frequente di un uomo, e un uomo trascorreva coi bambini piccoli un po’ meno tempo di una donna. Ma né l’uno né l’altra avrebbero mai rinunciato alla soddisfazione, all’intelligenza e al merito che traevano, ognuno a modo suo, da entrambe le occupazioni.
Comuni i compiti, i saperi, e il piacere e l’impegno di condividerli con le nuove generazioni, comune era anche la proprietà. Ognuno doveva disporre di tutto, per poter fare tutto. Era inconcepibile, per noi, che quanto era fondamentale per la sopravvivenza (e cosa non lo era, a quei tempi?) fosse sottratto a chiunque ne avesse bisogno. Tutti contribuivamo alla riproduzione quotidiana della vita, della sicurezza, del benessere, perfino di un po’ di “superfluo”: chi sarebbe stato così pazzo da voler privare un altro di ciò che anch’egli aveva partecipato a produrre, e che senza di lui sarebbe risultato inutile?
Eppure una proprietà l’avevamo, e ci tenevamo immensamente: di cose inutili, ma amate. Per il niente che servivano e per la gioia che davano. Gioia di uno, legata alla sua storia e ai suoi affetti, e perciò riconosciuta da tutti come privata perché non valeva che per lui, ma che dava gioia anche a noi per la gioia sua. Un’opera d’arte, uno strumento musicale, un monile, una pietra o un legno dall’aspetto curioso, il ricordo di un bel momento, l’intonazione originale di un richiamo, un modo di guardare, un gesto caratteristico: ognuno aveva le sue private proprietà affettive di cui non avremmo mai sopportato di vederlo privo. E che cercava, per quanto possibile, di tenere con sé per tutta la vita. Perfino con le sue ossa nella tomba, se mai: così che tutti vedessero, anche nel più lontano futuro, che per sé e per noi egli non era stato un animale come gli altri: che era stato, finché era vissuto, unico nell’universo.
Il nome: ecco la nostra prima proprietà e il modello delle successive. Benché non avessimo un linguaggio per chiamarlo, e anche se spesso, in un uomo come in una donna, altro non era che il timbro individuale della voce nel canto o la speciale espressione del viso con cui gli altri li salutavano, era per nome che fin dal primo istante ci volevamo bene prim’ancora di conoscerci.
Comune, quindi, era anche la sovranità. Non perché non volessimo capi e cape, ma perché il comando poteva emergere in ognuno, anche in un vecchio cadente, anche in un bambino, in qualsiasi momento: nell’emergenza, o nel lavoro, o nel gioco, il potere insorgeva spontaneo, inatteso anche dall’uomo o dalla donna che all’improvviso si trovava a detenerlo perché proprio allora, in quella particolare situazione, ella o egli davano prova, a sé e a noi, di essere i più bravi a guidare tutti.
C’era sempre chi faceva qualcosa meglio di altri. E quando ci voleva un capo, dunque, c’era sempre chi comandava meglio. Ma la sua speciale eccellenza durava finché serviva: che senso avrebbe avuto un capocaccia durante un banchetto o una danza? Nell’intrattenimento o nel ballo, un altro era più bravo (anche se mai di tantissimo) di chi era stato più bravo di altri nel seguire un’usta. E se talvolta la migliore o il migliore erano gli stessi in entrambi i casi, il primato che veniva loro riconosciuto era comunque legato al momento che tutti stavamo vivendo: era un frutto della storia collettiva, le cui radici comuni né essi né altri avrebbero mai voluto recidere col farne una proprietà esclusiva.
Tanto meno poteva appartenere a qualcuno un essere umano. Tanto meno una donna o un bambino. O una parte del loro tempo. Ciò che oggi comincia di nuovo, finalmente, a ripugnarvi ― preporre aggettivi possessivi ai nomi comuni di persona: mia moglie, i miei figli, i miei allievi, i miei dipendenti, e via disumanizzando ― ai nostri tempi era impensabile. Del resto, non esistevano né aggettivi né nomi. Non, come ho detto, nomi comuni: solo gli ineffabili, incommensurabili nomi privati.
Vi erano, certo, uomini e donne che in momenti particolari, o anche per tutta la vita, arrivavano a essere non più rispettati (ci rispettavamo tutti) e nemmeno più ammirati (l’ammirazione non sapevamo cosa sia) ma invero più sentiti di altri, e perfino di tutti. Però quell’affetto non era mai conseguito una volta per sempre: ogni giorno e ogni momento cimentavano chi l’aveva ottenuto a suscitarlo ancora. Non per una preconcetta sfiducia in noi stessi, ma perché sapevamo che non vi sono due istanti identici, e che tutto, sempre, si decide volta per volta: qui, ora, insieme.
Eppure quel sentimento poteva essere immenso. Tanto che non può essere facilmente capito da voi che vivete oggi. Che vi prosternate a “dei” ed “eroi” immaginari, quando non vaneggiati, ma che non sempre vi accorgete di trovarvi, talvolta, dinanzi a qualcuno che in quel momento fa la differenza, per voi, tra l’umano e il disumano del resto della vita, se non tra la vita e la morte.
Noi cadevamo in ginocchio davvero, fisicamente. Non per esibirci, ma perché le gambe a un tratto si piegavano e non potevamo che seguirle.
Nessuno, del resto, aveva allora segreti per cui dovesse controllarsi e camuffarsi.
Ti accadeva, da ragazzino o da ragazzina, di cadere in ginocchio davanti a una ragazzina o a un ragazzino: un potere ignoto, invisibile, ma reale, fisico, ti atterrava dinanzi a lei o a lui: un potere che sentivi e scoprivi in quel frangente, mentre eri vinto da una bellezza umana così possente, che in men che non si dica ti faceva suo. E appartenerle, anche se a volte non durava che un attimo, era una trasformazione che ti ricreava ― da quello che eri a quello che diventavi ― e che però, lì per lì, ti piegava le ginocchia: come la metamorfosi che rende deboli, per qualche istante, le ali della farfalla neonata.
Cadere in ginocchio è tra le massime prerogative della nostra specie. Ma voi non lo sapete quasi più, ingannati e sopraffatti come siete, da millenni, dall’imposizione di genuflessioni rituali ― istituite da malati di mente religiosi o ideologici, ecclesiastici o politici ― che non assomigliano agli spontanei inchini dei bimbi e dei vostri antenati più che gli scatti di un burattino ai movimenti umani.
L’uomo cadeva in ginocchio dinanzi alla donna, sì. E la donna dinanzi all’uomo. Ma gli uomini di più. È nel maschio, infatti, pur del tutto umano qual è, che l’umanità è più a rischio. Era dalla donna all’uomo, dunque, più spesso che dall’uomo alla donna, che arrivava per entrambi la comprensione immensa della propria bellezza. Ed era più spesso la donna, dunque, ad apparire gigantesca all’uomo.
Cadere in ginocchio era anche innamorarsi? Certo, e per tutt’e due. E far l’amore era tornare in pari per qualche tempo, e per nessuno dei due era il meno importante dei doni reciproci.
Poteva, una donna così ― e fra noi lo erano tutte ― appartenere a un uomo?
Poteva, certo, essergli più vicina di altri per anni, talora per la vita, ma appartenergli no. Se non come “proprietà” affettiva, che solo con lui realizzava quel “qualcosa” che non era che loro.
Tutti, del resto, eravamo “di tutti”, ognuno dovendo a ognuno che la vita potesse restare umana. E non essendoci alcun segreto, ancora, a occultare questa verità assoluta.
Immenso era il piacere di ritrovarci a godere in sicurezza, insieme, della presenza di tutti nel benessere totale ― il corpo e la mente, a quei tempi, non si credevano divisi ― di un luogo privo di pericoli, dalla temperatura mite, abbondante di cibo e acqua, in cui riunirci in festosa libertà. Nessuna condizione era per noi più piacevole, né più rimpianta e desiderata se veniva a mancare. Le vostre piazze, nei meno infelici dei vostri paesi, la ricordano tuttora. E qualche volta, in esse, la ricordate perfino voi.
Poteva qualcuno soffrire “dentro”? Stare male mentalmente?
Un uomo, respinto da una donna, odiare lei e chi gli era stato preferito? Arrivare, dopo più eventi negativi, a isolarsi dagli altri? A far di sé il nemico di tutti?
Soffrire anche a lungo, e per un po’ “guastarsi”, certo che sì. Ma alienarsi incurabilmente, mai.
Non vi erano le condizioni per una sofferenza interumana distruttiva. E se talvolta iniziavano a crearsi, le smantellavamo insieme. Poiché il dolore, a chiunque toccasse, era una diminuzione umana per ogni altro e, di conseguenza, intollerabile e pericoloso per tutti.
L’amante ti respingeva? Poteva succedere. Ed era doloroso, forse anche più di quanto lo sia per alcuni di voi. Ma nessuno restava solo a lungo: le donne, come gli uomini, erano tutte belle, e buone, e sagge, e forti: poiché nessuna, fin dall’infanzia, era stata meno amata o trattata meno bene di un’altra.
Qualcuno si dimostrava più bravo di te, otteneva più stima, emergeva in un momento decisivo mentre tu, benché certo non tremassi, senza di lui quella volta ti saresti sentito perduto?
Accadeva. E per noi era più spiacevole di quanto lo è per voi, perché non eravamo capaci di conformarci e sottometterci. Ma quanto durava? Un’ora prima, non eri forse stato più in gamba e più sentito di lui in qualcos’altro? E un’ora dopo, in altro ancora, un terzo ― o una terza ― non vi avrebbe forse superati entrambi? Nessuno era mai definitivamente “inferiore” in alcunché, tra noi, poiché di tutti ci prendevamo cura tutti, nei frangenti critici in cui chiunque lo sarebbe potuto diventare.
Ma non c’erano individui “superiori”? Non c’erano “geni”?
No. Il “genio”, dinanzi al quale voi fingete di prosternarvi dopo la sua morte, altro non è che il prodotto non voluto di “civiltà” disumanizzanti che solo alcuni ― spesso per la fortuna d’esser nati, come i monarchi nascono figli di re, in famiglie eccezionali ― riescono in parte a eludere.
Ma allora nessuna collettività poteva permettersi, pena l’estinzione, il “lusso” mostruoso di trascurare la piena realizzazione umana di chicchessia. Sapevamo bene, tutti, quanto vale ogni umano per ogni altro. E di fatto, perciò, tutti rimanevamo “geni”, dalla nascita alla morte, pur serbando pienamente ognuno la propria individualità. Credete che saremmo riusciti a non estinguerci, se della splendida natura umana avessimo fatto anche noi lo scempio che ne fate voi, e sui vostri stessi figli?
Tutti inventavamo, e non di quando in quando. Le invenzioni non erano rare come credete ― il fuoco, la pietra levigata, l’agricoltura: un passo avanti ogni migliaia di anni di ripetitiva uniformità ― ma anzi pressoché continue: ogni istante necessitava di un colpo di genio, e ogni istante ne riceveva uno. Così numerose erano le scoperte e le invenzioni, e così forte la certezza di poter contare su di esse, che era inutile (e impossibile, senza scrittura né linguaggio) tenerne memoria da una generazione all’altra finché non ne arrivava qualcuna così indispensabile da tramandarsi da sé.
Tutti eravamo artisti. Ognuno, quando le incombenze quotidiane glielo permettevano, si dedicava all’“inutile” che preferiva, che più corrispondeva ai suoi affetti e alla sua immagine del mondo, e che egli amava ― che ognuno amava ― soprattutto per lo straordinario senso di libertà che lui e tutti noi ne traevamo. Qual è, del resto, la sensazione di essere umani, se non quella di sentirsi liberi dalla lotta per la sopravvivenza a cui gli altri animali non possono sottrarsi neanche per un istante?
C’è una bellezza che solo noi sentiamo, ma offuscata e talora cancellata dalla resistenza che anche a noi il reale contrappone. La libertà, dunque, che è solo umana, è la tregua che concediamo all’esistente per tornare a sentirlo bello e ad amarlo. E l’arte è espressione della gioia per la libertà, e tentativo di renderla duratura imprimendola nell’aspetto nostro e del mondo come verità di essi.
Del resto, senza un linguaggio tranne le poche emissioni di voce con cui ci scambiavamo segnali, come avremmo potuto esprimere gli affetti se non con “inutili” azioni e “inutili” cose ? Tra le quali, non certo le meno importanti erano le sensazioni che ognuno suscitava in ogni altro, ogni volta che ci si ritrovava, riconfermandosi vivo e umano già con la voce, col modo di muoversi, col “tono” emotivo dei gesti e degli sguardi: mille erano i nostri doni reciproci quotidiani, e tutti erano arte.
Sì, l’arte è gioia di sentirsi liberi, cioè umani, che si rende collettiva e duratura immaginando e sentendo e creando, nel reale, la bellezza che agli altri animali è preclusa. È gioire e dar gioia, anche se sembra inconcepibile, perfino quando sente ed esprime affetti dolorosi, e perciò addolora.
Cantare, fare musica, danzare, recitare, decorare il corpo, dipingere, scolpire: le nostre prime espressioni artistiche erano “mute”, compreso il canto. Non consistevano di parole, ma del dispiegarsi degli affetti, che mai è possibile tener chiusi in petto e segreti: così impossibile che nemmeno voi ci riuscite (non tutti, almeno, e neanche la maggior parte) a dispetto del severo controllo che vi viene imposto e vi imponete. Sì: un gran “silenzio” sonoro, impetuosamente affettivo, pervadeva le manifestazioni artistiche individuali e collettive. E l’armonia che raggiungevamo in esse era l’omaggio che ognuno tributava a ogni altro nel riconoscimento che nessuna gioia individuale ― nessuna arte ― sarebbe stata possibile se la lotta di tutti per la sopravvivenza di tutti non avesse permesso, a tutti, i momenti di libertà in cui la lotta era sospesa e l’aspetto umano tornava a essere il solo aspetto del reale. Quando eravamo così “pazzi” da trascurarli, i pericoli del mondo, per non curarci che della sua bellezza.
L’umanità è libertà, la libertà è gioia, la gioia è arte. Arte, dunque, la cui unica “regola” è l’indifferenza alle necessità che il reale ci impone quando il rapporto con esso è di lotta per la sopravvivenza. Proprio perché non si sopravvive, a questo mondo, senza mappe mentali precise e regole di comportamento inderogabili, perciò non si è liberi dalla lotta per la sopravvivenza, cioè non si è umani, se non si può, almeno per qualche istante, difesi e protetti da tutti gli altri e da noi stessi insieme a loro, ignorare come in sogno le mappe e le regole che non possiamo non rispettare per il resto del tempo.
Spazi e tempi quasi di sogno, mai di incubo, liberamente ricreati da svegli nonostante che la vigilanza invadesse, spesso turbandoli, perfino i sonni: questo era l’arte ai nostri tempi. E questo è oggi, per quel poco o quel tanto che riuscite a farne voi che siete liberi dalla lotta per la sopravvivenza come mai immaginammo di poter esserlo noi, e tuttavia vi costringete a non vivere che per essa.
Serbando intatta l’umanità originaria, serbando intatti per la vita il desiderio, la capacità, la possibilità dell’indifferenza alla lotta per la vita: così rimanevamo felici quanto è necessario esserlo per non rendersi inetti alla lotta per la vita, e di conseguenza pericolosi per sé e per gli altri.
Ma lottare per vivere non è meno indispensabile.
E non meno necessaria, quindi, è l’attenzione per l’esistente: la volontà di conoscerlo, raccontarlo e capirlo nel modo più preciso possibile. Per cui anche l’arte, nel suo gioire libera, indifferente alle imposizioni del reale, nondimeno lo conosce, lo racconta e lo spiega creando tutto ciò che nel reale non ci sarebbe, se l’arte non ci fosse: vale a dire l’arte stessa, e nell’arte l’umano infinito che da noi scaturisce.
Nessun umano può non creare il mondo, una volta che al mondo è venuto. Mentre descriverlo è il dono che chi sa ― chi ha scoperto un nuovo territorio di caccia, o inventato una tecnica nuova, o individuato un pericolo, o quant’altro ― non può non fare a chi non ha visto o non è ancòra nato. Riducendo, così, e a poco a poco estinguendo, l’ignoto, il pauroso, il potenzialmente mortale. Riducendo, ed è anche più importante, il bello e il buono che chi non l’ha incontrati o immaginati, e quindi non ne ha idea, da solo potrebbe anche non trovare, forse. Rimpiccolendo e infine cancellando il “segreto” che chi non c’era e ignora si vedrebbe altrimenti imporre, involontariamente e con dolore, da chi invece era lì e sa.
Fu così che cominciammo a parlare.
Da sempre, del resto, non sopportando di tenerci all’oscuro di quel che avevamo visto e udito, cercavamo di descriverlo il più precisamente possibile, o almeno di indicarlo, anche senza la parola. Per far dono l’uno all’altro ― per far dono alla collettività, presente e futura ― della progressiva eliminazione del “segreto” che il mondo non umano “oppone” all’umano non avendo alcun rapporto con esso.
Ma il linguaggio, diventando sempre più preciso e versatile, offrì alla descrizione del mondo una possibilità di esattezza che si rivelò così preziosa, così vitale per la sopravvivenza, che ben presto ci fu necessaria sempre. Che rese il linguaggio ancora più versatile, ancora più preciso. E che però cominciò a dividere la scienza dall’arte, la conoscenza del mondo naturale dall’immaginazione e creazione del mondo umano. Non perché non sia possibile conoscere, raccontare e capire esattamente anche l’umano, ma perché l’esattezza su noi stessi, non ripetendosi identica mai, non è riproducibile: non vale che una volta, ogni volta per un momento, e sùbito è già storia passata di un presente sempre mutevole.
Così la parola, mentre dissolveva il “segreto” nel mondo, creò il segreto fra noi.
Ciò che sentivamo affettivamente, con la certezza dell’immaginazione, ora si poteva revocare in dubbio e contraffare tacendolo o smentendolo: “Io non l’ho detto. Nessuno l’ha detto. Quindi non è vero”.
Accadeva, all’inizio, solo nei momenti più difficili, e non certo a tutti. Ma fu devastante: quando ci avvicinavamo a chi soffriva, a chi sentivamo così in conflitto con la propria e altrui umanità da non riuscire a venirne fuori da sé, ecco che la sua malattia, che prima non aveva dove nascondersi, ora con la parola poteva negarsi e ingannare. Respingere l’aiuto. E confondere chi tentava di porgerlo.
Il linguaggio rese possibile il segreto. Il segreto il silenzio. E il silenzio l’isolamento. In cui rimuginare, come se non parlare che con sé stessi non fosse disumano, e rimuginando guastarsi.
Alla conoscenza sempre più vasta, esatta e trasmissibile di quel che i sensi percepivano e il linguaggio descriveva si unì così, in alcuni, il disconoscimento sempre più distruttivo di ciò che gli affetti sentivano, ma il linguaggio alterava e negava. Sì: benché gli affetti non siano meno materiali e concreti dei sensi, la parola poté smentirli, da quando gli affetti non poterono più opporle... che la parola.
Accadde in un giorno e in migliaia di anni: la parola oscurò gli affetti. E tanto più vi riuscì quanto più il sentire andò perdendo il sostegno collettivo. Quanto più la storia affettiva comune ― “muta” e come immateriale, ma da tutti fisicamente vissuta insieme e, perciò, non meno concreta e percepibile del mondo in cui la vivevamo ― fu revocata in dubbio da una storia orale che tanto più si pretendeva e diventava l’unica vera ― o, piuttosto, l’unica oggetto di fede ― quanto più veniva detta e ripetuta.
Allora, quel che la parola affermava o negava si pretese tanto più certo e indubitabile ― certamente esistente quel che affermava, certamente inesistente quel che negava ― quanto più il sapere degli affetti si affievolì e parve diventare sempre più infido e dubbio ogni volta che la parola lo smentiva.
Allora il segreto, che la parola presidiava occultandolo e negandolo, divenne uno strumento di potere, su sé stessi e sugli altri, che gli affetti non riuscirono più a incrinare.
Allora chi dal segreto traeva potere ― sottraendosi al rapporto collettivo per “descriversi” e “spiegarsi” sovraumanamente appartato e remoto quale voleva che lo credessimo ― rese il segreto sacro.
Il non detto, allora, divenne indicibile: quel che gli affetti avevano sempre sentito, “descritto”, capito (e talora curato) senza la parola, fu divelto dall’umano e allontanato fin dove nessuno poteva più raggiungerlo: in cielo. E la parola, allora, tanto più poté “descriverlo” ― nascondendolo sempre più sotto infinite invenzioni che la ripetizione in coro rendeva “vere” ― quanto meno gli affetti poterono resisterle.
Solo il più disumano, da allora ― cioè il più segreto, e dunque il più celebrato ― poté farsi capo su di noi. E rimanerlo, al di fuori della storia comune, finché la parola sorresse il tuo trono.
Chi si sottrae al rapporto, da allora, tanto più è sacro quanto più gli si sottrae, e quanto più sublimi ed “esatte” sono le parole senza affetti che lo esaltano. E il disumano, il mostruoso che è in lui ― ma che gli affetti non sentono più o, se lo sentono, son costretti a tacere ― tanto più è adorato quanto più le parole senza senso che ne affermano la sacralità la ripetono fino a renderla “vera”.
Perfino gli individui, ora, nella loro “concreta” “interezza” solo verbale ― lo vogliano o meno, rivestiti di sontuosi paramenti o imprigionati in ruvide divise ― son resi segreti e potenti e sacri: statue semoventi che sono esatte riproduzioni anaffettive, solo verbali, dei veri esseri umani che anch’essi furono.
E come gli individui le aziende, le istituzioni, gli Stati son resi segreti ― fisicamente esistenti come simulacri di collettività umane, ma inesistenti, “celesti”, in quanto affettivamente nulli ― di cui possiamo e dobbiamo parlare (di cui soltanto possiamo e dobbiamo parlare) con l’assoluta esattezza piena d’odio e d’incomprensione che rende il parlare perpetuo: all’infinito dir niente, e all’infinito ripeterlo.
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Così diventammo voi. Perciò chi non voleva e non vuole diventare come voi rischiò da allora la morte e continua a rischiarla. Ma lo sterminio totale, benché tentato più volte, fino a oggi non vi è riuscito. Perché noi torniamo: perché noi siamo, a ogni generazione, le figlie e i figli. E per eliminarci tutti non avreste altra scelta, dunque, che cancellare voi stessi ancòra bambini dalla faccia della Terra.
O finalmente lasciarci rimanere umani, e magari perfino aiutarci a rimanerlo. E così, col tempo, voi diventare noi. E di voi non restare, finalmente, altro che il ricordo.
Anticoli Corrado, giovedì 2 gennaio ― giovedì 26 giugno 2014
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