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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

I lautari

 

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Titolo: I Lautari.

Titolo originale: Lautarii.

Regista: Emil Loteanu (1936-2003).

Paese di produzione: Unione Sovietica.

Anno di produzione: 1971.

Attori principali: Sergei Lunkevich (Toma Alistar), Ol’ga Kympianu (Leanca), Willy Musoian (Dragomir), Grigore Grigoriu (Radu Negostin).

Durata: 2h 05’.

 

Il regista

Emil Loteanu

 

Il film

 

Nella Bessarabia della seconda metà dell’Ottocento1, i conflitti fra le etnie si intrecciano a quelli tra poveri e ricchi, tra servi e signori, tra contadini e latifondisti. I lautari, invece, pur calpestando quella stessa terra e mangiando lo stesso cibo, non appartengono ad alcun popolo e non fanno parte di alcuna classe sociale: senza famiglia e senza casa, liberi e poveri in canna, amati da chi è ancora sensibile al potere della musica e odiati da chi non sente che il potere della forza e dei soldi, vanno da un villaggio all’altro portando con sé in un carretto traballante i loro strumenti e i miseri averi, vivendo della riconoscenza della buona gente per l’allegria che di tanto in tanto le recano e perché le rammentano, senza volerlo né saperlo, la comune diversità dalle bestie che rende uguali tutti gli umani.

 

Il vecchio Toma Alistar, figlio di un lautaro dallo stesso nome, fin da bambino ha desiderato di diventare un lautaro, sebbene il padre tentasse di dissuaderlo dal condividere una sorte che a lui era sembrata maligna. E non solo lo è diventato, ma la maestria con cui suona il violino lo ha reso un uomo leggendario, che suscita l’invidia dei potenti con la sua inconcepibile felicità da pezzente, e che la gente semplice, quando Toma entra in un villaggio con i suoi compagni, accoglie invece quasi con venerazione.

 

Ma ora, dopo anni di vagabondaggi e avventure esaltanti o paurose e dopo aver colto riconoscimenti e disprezzo in mille luoghi diversi e lontani, per Toma Alistar non è più molto importante la musica che gli ha reso la vita preziosa come ogni vita umana potrebbe essere: non riesce a pensare che a Leanca, che lo amò quand’erano ragazzi e che quasi sùbito gli fu portata via dalla famiglia di lei, ricchi zingari che lo odiavano perché moldavo e lo disprezzavano perché lautaro. Toma non l’ha mai dimenticata, non ha mai smesso di rivederla in sogno, per tutta la vita ha cercato invano di ritrovarla. E comprende, ora che gli è vicina la morte che tante volte ha simulato per difendersi dai portatori di morte, che il ricordo di Leanca non si è mai spento nella sua mente non solo per la nostalgia del loro giovanissimo amore, ma soprattutto perché l’immagine di lei, creata con lei, era ed è in lui l’immagine della propria umanità e l’unico ma immenso tramite che egli fin da bambino ha tenuto fra sé e il mondo umano.

 

Capolavoro di un regista che ha racchiuso la sua sapienza e arte in un solo film, I Lautari narra la creazione, per tutta la vita di Toma e di Leanca, di quell’opera meravigliosa e immortale, benché invisibile e sconosciuta, che è la donna per l’uomo e l’uomo per la donna; e lo fa con immagini, voci e musiche indimenticabili, piene di passione e di colore, la cui apparente “ingenuità” (imbarazzante per chi non sa più accostarsi senza dolore a ciò che lo fece gioire e senza irrisione a ciò che lo fece piangere) è invece l’unico modo possibile di rappresentare, senza renderlo piatto e insignificante, quel che fa umani tutti noi.

Il commento di Luigi Scialanca

 

La storia di Toma Alistar comincia quando da bambino si ribella al padre che vuole impedirgli di diventare un lautaro come lui. È una vita terribile quella del lautaro, dice il padre che sogna per il figlio una vita normale, e getta nel fuoco il violino che il piccolo Toma si sta fabbricando.

 

Ma un compagno del padre (chiamato Tromba divina per le capacità profetiche, oltre che per le doti di musicista) rivela loro che il bambino, “segnato da un marchio indelebile”, è “predestinato” a essere un lautaro, e che niente potrà impedire che la sua sorte si compia.

 

Non vi è alcun segno sulla fronte di Toma. Ma Tromba divina lo ha scorto in ciò che il piccolo stava facendo e nel modo in cui lo faceva: nel suo essere così intento a fabbricarsi il violino, e così incurante della solitudine, da non accorgersi dell’arrivo del padre. E sarà proprio Tromba divina, per questa capacità di capire e aiutare il bambino in ciò che nel bambino è più prezioso, che gli farà da padre dopo la prematura morte di quel padre biologico che non ha saputo essere un padre umano. Quel padre a cui la vita del lautaro è parsa deforme e ingrata perché, pur mentre suonava e cantava, egli l’ha sempre vissuta (come scopriamo a un certo punto del film) da uomo che uccide i lupi: da uomo, cioè, che non ha con la realtà un rapporto diverso da quello che anche i lupi hanno; da uomo che impugna il violino e lo adopera abilmente, come farebbe con ogni altro strumento, ma la cui bravura è solo l’animalesca destrezza di chi ha disimparato da molto tempo la pretesa dei bambini che sia il mondo a farsi umano, e non il contrario, per effetto dello spietato e interminabile tirocinio che esso impone a ogni nuovo nato.

 

Toma, invece, scopre che il lupo ucciso dal padre era una lupa e aveva un cucciolo, che prende con sé: gli farà da madre, lo addomesticherà, gli insegnerà ad accostarsi a lui quando suonerà il violino e lo porterà con sé finché vivrà, a dimostrare che la musica, come ogni attività materiale e non materiale umana, non è solo bravura nell’adeguarsi al mondo, ma soprattutto è magia che lo trasforma.

 

Del resto non abbiamo visto una moglie accanto al padre di Toma. Il bambino, dunque, è cresciuto senza madre fin dai primi anni; e anche questo ci dice qualcosa, su quel lautaro a cui il figlio deve al contempo esser uguale e diverso. Ma le bambine, fra le quali appare per la prima volta Leanca, che vengono a disturbare il piccolo Toma mentre suona in solitudine (le muova il desiderio della sua musica o l’invidia perché egli sa già così bene cosa vuol fare di sé) gli annunciano invece che il rapporto con la realtà non è qualcosa che si possa mettere al mondo al di fuori dal rapporto fra l’uomo e la donna.

 

Che si può anche esser soli, nel metterlo al mondo, ma che l’uomo e la donna non possono concepirlo e darlo alla luce se non hanno la donna e l’uomo almeno nella mente, se non nella vita.

 

L’uccello rosso che “nasce” e spicca il volo da Toma e Leanca è la bellezza che il loro amore crea nel mondo: d’ora in poi, quali che siano gli esiti delle intenzioni e delle azioni di entrambi, solo la morte potrà cancellare dai sensi e dai pensieri loro l’attrazione verso la realtà, il “modo innamorato” di percepirla e pensarla a cui l’una ha sedotto l’altro per sempre. Ci sarà sempre, per Toma e Leanca, un uccello rosso acquattato fra i cespugli, posato su un ramo o su una roccia o in volo nel cielo. Poiché, anche quando non lo vedranno (cioè, purtroppo, il più delle volte) saranno essi a cercarlo, a evocarlo, a desiderare e pretendere che si mostri: mai si rassegneranno a un’immagine del mondo che non lo contenga, ora che non possono più fare a meno di guardare il mondo l’uno attraverso il ricordo dell’altra.

 

E la musica, dunque – che da bambino egli suonava in solitudine, come un apprendista stregone affascinato da incantesimi che ancora non comprende, ma che d’ora in poi avrà il timbro della voce di Leanca che chiama il suo nome – per Toma Alistar sarà il mezzo per snidare l’uccello rosso, per farlo volare sul mondo a renderlo umano. Ora lo sa, è per tutto questo che è voluto diventare un lautaro: per conquistare l’amore di Leanca, per far apparire l’uccello rosso, per trasformare il lupo in agnello, per far diventare simile a sé il mondo che il padre tentava invece di sottomettere con la destrezza e la forza.

 

Così, quando i genitori e i fratelli di Leanca danno la caccia agli innamorati come il padre di Toma dava la caccia ai lupi, quando ne bruciano la gioia nel dolore delle frustate, quando li separano per sempre nel vano tentativo di far loro dimenticare quel che han veduto l’uno attraverso l’altra, lo fanno per il terrore che il ragazzo e la ragazza cambino il mondo anche per loro: per il terrore che anche a loro cominci ad apparire possibile, se l’amore fra Toma e Leanca non sarà distrutto, quel rapporto umano tra l’uomo e la donna sulla cui negazione hanno fondato la Società, la famiglia e le proprie vite.

 

Come la famiglia di Leanca, infatti, anche i ricchi e i loro servi, anche i potenti e i loro soldati odiano e temono i lautari per la loro immateriale ricchezza e inconcepibile potenza: perché i lautari, cioè (vale a dire gli artisti e gli inventori e gli scienziati, che creano il mondo più di quanto lo consumano e riescono a rimanere umani come e più di quando al mondo son venuti) pur nella loro povertà e impotenza danno agli altri più di quanto da essi ricevono e ne ottengono più di quanto gli chiedono.

 

“Suona il violino anche per me!” dice a Toma il figlio del suo nobile benefattore, il giovane ussaro che l’ha portato con sé nelle grandi città a stupire i cultori di musica mostrando loro che essa può scaturire, oltre che dagli spartiti alla luce delle lampade a gas, dall’immaginazione che anche al buio vive nella mano. “Suona il violino anche per me!” gli dice, separandosi da lui per sempre, quasi si possa demandare la propria umanità a un altro come si assegna un lavoro a un servo. Poiché sta andando in guerra, il giovane ussaro, a uccidere altri giovani come se fossero lupi. Sta andando a prendere il posto che gli spetta nella Società dei Montecchi e dei Capuleti, fondata sull’annullamento e la negazione dell’umanità degli esseri umani. Ed è quasi commovente, nel suo affidare al coetaneo Toma Alistar, il lautaro, il compito di vivere una vita umana anche per lui. È quasi commovente, la sua malinconia, poiché fa sperare che il giovane ussaro parta soltanto perché chiamato, perché costretto anzi, a compiere un dovere che non ama. Ma la commozione lascia il posto al disprezzo quando lo ritroviamo, qualche decennio più tardi, tramutato in un uomo arrogante e stupido che rifiuta di aiutare l’amico in difficoltà: e capiamo, così, che aveva detto addio a Toma non per ottemperare a un doloroso dovere, ma per aver scelto, spinto dall’odio, di diventare lupo fra i lupi, anziché restare uomo tra gli uomini.

 

(Quanto all’incontro dei lautari con i banditi, esso ci ricorda che Montecchi e Capuleti tentano sempre di indurre alla disperazione e al suicidio i figli che non si rassegnano a tramutarsi in lupi. E quanti giovani resistono? Quanti sono, tra loro, i lautari? Poiché la lotta contro la Società anaffettiva fondata sull’odio antiumano ― soprattutto se non c’è l’uccello rosso che nasce dall’amore dell’uomo e della donna ― troppo facilmente è contaminata da quella stessa anaffettività e quello stesso odio antiumano che vorrebbe combattere. E i giovani, allora, anziché lautari, diventano banditi).

 

Toma muore senza aver trovato Leanca. È una sconfitta, come lo è la morte. È il male che la Società dei lupi riesce a fargli, come la morte è la rivincita che la Natura si prende sul nostro orgoglio di animali umani. Ma la sconfitta è parziale, poiché Toma non ha mai perduto Leanca: non solo perchè non ha mai smesso di amarla, ma soprattutto perché non ha mai smesso di essere l’uomo che la fece innamorare. Perché non ha mai smesso di essere, oltre che l’animale umano che subisce le frustate, gli stenti, la perdita delle persone care, le sconfitte, la morte, l’essere umano che realizza la propria umanità immortale, che al pari di ogni nostra creazione non sarà distrutta che dall’estinzione dell’Umanità.

 

Le creazioni di Toma – la sua musica, ma ancor più la sua immagine di donna – non moriranno, dunque (che siano celebri o meno, poiché ciò che è famoso, di tutto quel che sappiamo dell’universo fantastico umano, è solo la parte che siamo consapevoli di avere ricevuto da altri) così come non morirà l’uccello rosso che egli mise al mondo con Leanca: il posto di Toma è preso da un nuovo Toma Alistar, e da qualche parte c’è già un bambino che prenderà il posto di quest’ultimo. Mentre Leanca, divenuta un’anziana signora altrettanto bella della ragazza che per tutta la vita ha chiamato Toma nei sogni di entrambi, nell’ultima splendida scena de I Lautari può piangere per la morte del suo Toma e al tempo stesso gioire per la nascita di un bambino che non la riconosce per la sua Leanca. Così come tutti facciamo (noi lautari) quando ci accade di piangere per una separazione, un distacco, una morte, e al tempo stesso di gioire per l’uccello rosso che di lì a non molto spicca il volo nella mente e nel cuore.

 

Leanca ci chiama, e Toma Alistar e i lautari suonano anche per noi. Ma noi chi siamo? Siamo come il padre di Toma, che uccide il lupo e viene ucciso da una valanga? Siamo il bandito Radu Negostin, ribelle fallito che uccide e si fa uccidere come coloro che crede di combattere? Siamo giovani ussari, che vanno a morire e a suicidarsi dicendo: “Suona tu anche per me”? Siamo i poveri abitanti del villaggio, che rammentano di essere umani solo una volta all’anno, quando passa di qua Toma Alistar?

 

O siamo chi?


[1]. L’odierna Moldavia, stretta fra la Romania, l’Ucraina e il Mar Nero. Vi convivono Moldavi, Zingari, Ebrei, Rumeni, Russi e molte altre genti di lingua, religione e tradizioni diverse.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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