Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino
La vita è bella
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Titolo: La vita è bella. Regista: Roberto Benigni. Scrittore: Vincenzo Cerami. Compositore: Nicola Piovani. Paese di produzione: Italia. Anno di produzione: 1997. Attori principali: Roberto Benigni (Guido Orefice), Nicoletta Braschi (Dora), Giorgio Cantarini (Giosuè Orefice), Giustino Durano (lo zio), Sergio Bini Bustric (Ferruccio Papini, amico di Guido), Giuliana Lojodice (la direttrice della scuola), Amerigo Fontani (Rodolfo), Pietro De Silva (Bartolomeo), Francesco Guzzo (Vittorino), Raffaella Lebboroni (Elena), Marisa Paredes (la madre di Dora), Horst Buchholz (il dottor Lessing). Durata: 2h 02’.
Il regista
Il film
Con il decreto del 17 novembre 1938 (che vieta i matrimoni di cittadini italiani “di razza ariana” con persone di altra “razza”, esclude gli Ebrei dal servizio militare, dalle cariche e amministrazioni pubbliche e ne limita i diritti nella proprietà immobiliare, nella gestione di aziende e nell’esercizio di libere professioni) il regime fascista capeggiato da Benito Mussolini (1883-1945) si accoda servilmente al nazismo tedesco nella persecuzione degli uomini, delle donne e dei bambini italiani di religione ebraica. Così, prendendo vigliaccamente di mira persone innocenti e inermi e rendendosi complice dello sterminio che Hitler si appresta a perpetrare, la dittatura che opprime l’Italia dal 1922 getta la maschera con cui ha finora celato i suoi delitti, manifesta apertamente l’idiozia, la bassezza morale, la disumanità su cui si fonda, e si prepara a sfogare la sua ferocia scaraventando l’intero popolo italiano in una guerra d’aggressione perduta in partenza, che in pochi anni, insieme alle deliranti illusioni mussoliniane d’aver dato inizio a una nuova era e creato un impero, travolgerà e annienterà milioni di esseri umani.
La catastrofe si abbatte anche sulla famiglia Orefice, che negli anni precedenti, benché turbata dai segni non meno minacciosi che grotteschi delle intenzioni del regime, è riuscita a essere, per sé e per i suoi amici, una piccola fucina di felicità: Guido, la moglie Dora, il loro unico figlio, il piccolo Giosuè, e un anziano zio vengono sequestrati dalle SS e condotti in un campo di sterminio, dove saranno tenuti in vita, fra terribili privazioni, solo finché saranno in grado di lavorare. E dove Guido, oltre che dalle sofferenze fisiche e dalla morte, dovrà cercare di salvare il suo bambino dalla devastazione della sua umanità: dalla follia, cioè, che gli orrori a cui sarà costretto ad assistere possono provocare in lui.
Questa, nelle linee essenziali, la vicenda de La vita è bella: in un mondo che la disumanità nazifascista ha reso un inferno, un uomo e una donna s’incontrano, s’innamorano e mettono al mondo un bambino, malgrado l’orrore imperante, senza partecipare a esso in alcun modo, senza cercarvi alcun vantaggio, senza mai chiedere protezione: serbando intatti e potenti, mentre milioni uniformandosi li pèrdono, gli affetti e l’immaginazione umani. Ma l’orrore non accetta la sconfitta e non li dimentica: li raggiunge, li ghermisce, e li sottopone a tutte le orribili prove con cui la Shoah ha infierito sulle sue vittime. Compresa quella, forse la più atroce, di sfidarli a non ridursi a mostri fra i mostri nemmeno quando tutto è finito, quando la vita stessa è perduta, e nella mente e nel cuore imperversa la certezza che se anche si riuscirà a rimanere umani, non si potrà esserlo che per pochi giorni, per poche ore, per pochi minuti.
Ma la Shoah è un tema assai difficile da trattare, poiché altissimo è il rischio di darne una rappresentazione che in qualche modo, contro le intenzioni dell’autore, la faccia parere meno mostruosa di quanto lo è stata. E l’impresa si fa quasi impossibile se si pretende di accostarsi a una vicenda così spaventosa e tragica con gli strumenti della commedia: senza rinunciare, cioè (come non vi rinuncia la vita) a mostrare anche il grottesco e il comico che son sempre presenti nell’orribile quando questo è opera umana; senza rinunciare, intendo, a smascherare lo sgangherato pupazzo che sempre si nasconde nell’essere umano che si è reso disumano; senza rinunciare, insomma, a far sorridere e perfino ridere del mostro, dopo aver fatto piangere per quel che il mostro ha perpetrato. Poiché è di fondamentale importanza non dimenticare mai che il mostro, per quanto orrendo, dell’essere umano non è che una caricatura.
Se c’è una tragedia che si deve raccontare così, è proprio la tragedia del fascismo e del nazismo. Poiché di essi, altrimenti, si rischia di raffigurare solo la potenza distruttiva e non la fragilità psichica, solo la ferocia e non la buffonaggine, solo la fredda e abnorme razionalità organizzativa e non la desolante stupidità. Ma l’impresa è così ardua che è stata tentata solo nel 1940 (con Il grande dittatore di Charlie Chaplin) e nel ’42 (con Vogliamo vivere!, di Ernest Lubitsch): prima, cioè, che si venisse a sapere davvero, in seguito alla vittoria alleata, cosa era stato fatto agli Ebrei europei. Mentre dopo, fino a La vita è bella, c’è qualcosa di simile solo in Schindler’s list (nella scena straordinaria, per esempio, in cui Amon Goeth, il comandante del campo di sterminio, rivela la propria debolezza mentale lasciandosi facilmente indurre da Oskar Schindler a scimmiottare un magnanimo imperatore romano).
Poiché, dicono alcuni critici (chi in buona fede e chi meno) solo a un genio si può chiedere di farci ridere mentre ci fa piangere. Ne sarà capace uno Shakespeare, un Dickens, un Chaplin, non un Roberto Benigni. Un Benigni, se si azzardasse anche solo a sfiorare un tema come la Shoah, non riuscirebbe che a offenderne le vittime e a far sembrare i carnefici meno folli e malvagi...
Invece Roberto Benigni si è dimostrato1 uno dei pochi artisti italiani contemporanei di valore universale: non perché La vita è bella ha vinto tre Oscar (miglior film straniero, miglior attore e migliore colonna sonora) ma perché ha mostrato, del nazifascismo e del suo opposto assoluto (cioè della nostra umanità), qualcosa di fondamentale che mai era stato detto con altrettanta efficacia: del nazifascismo, che esso tentò, oltre che di sterminare un popolo e ridurre in schiavitù il resto del mondo, di distruggere una volta per sempre il “bambino” dell’essere umano: di annientare, cioè, il fondamentale rapporto affettivo e creativo con la realtà umana per il quale siamo umani tutti; e, dell’umanità, che essa invece è sopravvissuta al nazifascismo (e al suo tentativo di contagiare come un “virus” mentale l’immaginazione dei vincitori2) e che continuerà a sopravvivergli, ogni volta che esso cercherà di resuscitare, finchè vi saranno padri e madri che capiscano e abbiano a cuore, oltre ai bisogni materiali dei figli, la loro esigenza di non vivere “soltanto” nel mondo reale (in cui viviamo e moriamo insieme agli altri animali) ma anche nel mondo vero che solo noi siamo in grado d’immaginare, creare e abitare.
[1] Anche se, da allora, non è più stato all’altezza de La vita è bella neanche alla lontana. Non diversamente da Steven Spielberg, del resto, che dopo il capolavoro assoluto di Schindler’s list è sprofondato in una mediocrità perfino imbarazzante. Quasi che la Shoah, in qualche modo, sia stata troppo per entrambi. Quasi che sulla Shoah, se non si è assolutamente certi dell’infinita bellezza e dell’infinito valore dell’essere umano in quanto tale ― se si condivide, intendo, il sia pur minimo “dubbio” razzista antiumano di stampo fascista e nazista ― non si possa fare arte (e chissà, forse nemmeno storia) senza soccombere, come artisti e come esseri umani, alla disperazione che la Shoah continua a emanare contro la nostra felicità di essere nati umani.
[2] Basti pensare a come il nazismo si è trasmesso militarmente e tecnologicamente agli Stati Uniti fin da quando, sùbito dopo la vittoria, sottrassero al tribunale di Norimberga e accolsero con tutti gli onori scienziati nazisti come Werner von Braun, l’inventore dei missili che avevano fatto migliaia di vittime civili in Gran Bretagna. O, molto peggio, al nazismo della cosiddetta “filosofia” di Heidegger, impunemente diffuso a piene mani per oltre mezzo secolo nelle università e attraverso i media di tutto il mondo. |
Il commento di Luigi Scialanca
Guido Orefice non sa di essere ebreo fino al giorno in cui i fascisti, per la prima volta, lo chiamano tale. Né, prima di quel giorno, ha mai pensato a sé con un aggettivo che lo qualifichi come appartenente a una qualsiasi categoria. Non è mai stato bianco, né nero, né giallo. Né italiano, né francese, né extracomunitario. Né cristiano, né mussulmano. Né comunista, né fascista. Né questo né altro.
Vuol forse dire che Guido è sempre stato niente? No. Vuol dire, al contrario, che egli è sempre stato tutto quello che si può essere davvero: un essere umano. E che, da essere umano, si è sempre messo in rapporto con la realtà attraverso sé stesso, con le proprie sensazioni e idee, e non per il tramite del “pensiero” ufficiale di un qualsiasi gruppo o partito o religione (scritto, è ovvio, fra virgolette, poiché il pensiero, come le sensazioni, non può aver luogo in più individui assieme...)
Ma non l’ha mai proclamato. Mai si è presentato a qualcuno dicendo: “Buongiorno, piacere di conoscerla: io sono un essere umano, e lei?” Non ha mai dovuto farlo perché gli esseri umani si riconoscono a vista: basta guardarli, per accorgersi che lo sono. Solo il malato di mente o lo stupido credono che a un essere umano, per esser tale, occorra altro che l’esser nato da una donna. Che gli occorra, per esempio, di essere anche adulto, o maschio, o bianco, o cristiano. O magari d’esser nato qui invece che lì.
Il fatto che Guido non sappia di essere ebreo, ma “solo” di essere umano, significa che quel che accade a lui e alla sua incantevole famiglia per mano dei fascisti e dei nazisti (la persecuzione, la perdita di tutto ciò che possiedono, la deportazione, la schiavitù, la morte) non è una catastrofe che può colpire solo gli Ebrei e solo in un determinato periodo storico, ma, al contrario, qualcosa che può accadere a chiunque e in qualsiasi momento. Significa, cioè, che lo scopo della Shoah non è l’eliminazione degli Ebrei, che quel che i nazifascisti vogliono annientare è piuttosto l’umanità degli esseri umani, di tutti gli esseri umani, e che lo sterminio degli Ebrei (che sono in quel momento i più deboli e attaccabili a causa della millenaria campagna d’odio e di calunnie a cui sono stati sottoposti dal Cristianesimo) è più lo strumento che l’obiettivo della cosiddetta “soluzione finale.” Poiché accanirsi sugli Ebrei serve in realtà a render complici o acquiescenti tutti gli altri, a mortificarne l’immaginazione per i secoli dei secoli, a tramutare la speranza in disperazione, l’amore in odio, l’intelligenza in stupidità, il coraggio in paura. A lasciare, nei cuori e nelle menti di coloro ai quali sarà concesso di sopravvivere, un marchio indelebile, un nuovo (e questa volta effettivo) “peccato originale” che impedisca loro una volta per sempre di tornare ad aver fiducia nella propria umanità. Sterminare gli Ebrei, insomma, serve a rendere disumana l’intera Umanità: questo e non altro è lo scopo più o meno consapevole dei nazisti (e dei fascisti nostrani, loro complici). Poiché nazismo è solo il nome che assume, nella prima parte del ’900, l’antico odio di chi ha devastato la propria umanità contro tutti quelli che sono ancora umani: un odio che è latente in ogni epoca storica e presso ogni cultura, e che è costretto per la maggior parte del tempo a trattenersi, a controllarsi, a intorbidare e avvelenare i rapporti interumani mantenendosi nell’ombra, strisciando in silenzio nel buio e “accontentandosi” di perpetrare continue vigliacche aggressioni agli affetti, alle idee, alle proprietà di quelli che vorrebbe distruggere. Ma che di quando in quando, se non lo si tiene sempre a bada, riesce di nuovo a diffondersi, a dilagare, a esplodere. E allora può assumere qualsiasi nome, vestirsi di qualsiasi casacca, prender di mira chiunque e scagliare contro di lui, questa volta, l’odio che per tanto tempo si è tenuto in corpo contro tutti quanti. Poiché quello che egli vuol far sparire (quale che sia la vittima su cui di volta in volta si scaglia: ieri gli Ebrei, oggi gli Extracomunitari, domani chissà) in realtà è sempre Guido Orefice: è sempre, cioè, l’essere umano in quanto tale, il bambino dell’uomo, di cui non sopporta la vista poiché gli ricorda, momento per momento, quel che egli non è riuscito a rimanere.
Guido, dunque, ucciso come Ebreo il giorno prima del 25 aprile 1945, in realtà viene ucciso perché è un essere umano. Poiché sono gli Ebrei, in questo momento della Storia, a impersonare l’umano che il disumano vuole annientare. Non importa che non tutti gli Ebrei siano brave persone, e che qualcuno di essi non lo sia affatto: agli occhi dei nazifascisti, essi sono tutti come Guido Orefice; sono tutti, cioè, esseri umani assolutamente perfetti. Ed è per questo che devono essere sterminati: affinché sulla Terra, al posto dell’uomo ― di ogni uomo ― ci sia per sempre il disumano che essi chiamano “superuomo”.
Ma Guido è davvero un essere umano perfetto. Poiché per tutta la vita, come ho detto, egli non è stato altro che un essere umano, e il suo rapporto con la realtà, di conseguenza, è rimasto intatto, profondo, potente, pieno d’immaginazione e di desiderio come quello di un neonato: tant’è vero che non è Guido che si adegua al mondo (dato che son gli animali che si adattano alle cose, mentre gli esseri umani le cambiano) ma è il mondo che si adegua a lui, che gli risponde, che a ogni istante intuisce e soddisfa i suoi desideri prim’ancora che egli li esprima, come per incanto. Il che significa che Guido ce l’ha davvero, quel potere sulla realtà di cui gli parla il suo amico Ferruccio (che a sua volta ne ha letto qualcosa in un libro del filosofo Arthur Schopenhauer, ma non ci crede sul serio): quel potere della volontà, “magico”, “ipnotico”, che Guido mette sùbito in pratica inducendo Ferruccio ad alzarsi dal letto per andare a spegnere la luce... Solo che non è magia né ipnosi, ma il naturale potere dell’immaginazione di vedere nella realtà non soltanto quel che la realtà è, ma anche (e soprattutto) quel che la realtà può diventare: un potere a cui il mondo (specialmente umano) non può che corrispondere, prima o poi, quando l’immaginazione è ricca, esultante, generosa, intelligente ed esatta come quella di Guido.
Guardate, per esempio, come Dora gli cade tra le braccia dal cielo (o meglio da un fienile): non è un segno che la realtà (specialmente umana) deve inchinarsi a Guido? E le mirabolanti “coincidenze” che da quel momento assecondano e incoraggiano il suo amore per lei, non sono altrettante prove della stessa cosa? Come si vede già nella prima sequenza del film, il pacifico e inconscio potere di Guido sui cuori e sulle menti degli uomini, delle donne e dei bambini è così forte, che gli basta mostrarsi perché lo scambino per il re. E non c’è abbaglio: Guido è davvero il re, e la gente non può non riconoscerlo tale: è il re dello sconfinato regno fantastico che è il vero territorio dell’animale umano.
Anche gli esseri umani, infatti, come ogni animale, possiedono un territorio, lo delimitano, lo difendono e cercano di ampliarlo. Ma quello umano, più che un territorio fisico, è un territorio mentale, sotteso ovunque alla realtà fisica per conferirle uno spessore, una profondità, una ricchezza di significati, una plasticità e (talvolta) una bellezza che essa, di per sé anaffettiva, non può avere che per noi poiché è da noi che li riceve. Poiché siamo noi, immaginando la realtà a quel modo, che la facciamo tale.
Questo invisibile impero, che rende infinito il mondo finito, essendo fatto di materia mentale non può essere recintato né sottomesso né controllato. Ognuno, per il solo fatto d’esser nato da donna, può far propria con gli affetti e il pensiero la porzione di esso che preferisce. Anche tutto, se lo desidera. Ognuno può, se vuole, essere il sovrano del mondo fantastico umano e realizzarvi tutte le migliorie (o, ahinoi, i peggioramenti) di cui è capace. E Guido, dunque, che è l’essere umano per eccellenza, viene acclamato e ubbidito come un re per l’unica ragione ché egli è il re, e la gente lo sa. Così come Dora è la sua principessa, da lui stesso incoronata e resa tale, e Giosuè il suo piccolo principe: l’erede al trono.
Lo dimostra anche il fatto che Guido, come Teseo, è un gran solutore di indovinelli. Poiché la realtà è un immenso mistero fatto di enigmi, per l’essere umano che si affaccia neonato su di essa. Ma egli ha il potere di inventare le soluzioni, ed esse, se il rapporto con la realtà è intatto, sono sempre esatte. (Mentre il nazista dottor Lessing, malgrado il bel cognome illuminista, non riesce mai a risolvere alcunché: poiché il nazismo perverte l’immaginazione fino a farne uno strumento di violenza contro la realtà, e dunque può solo distruggere, mai creare: ed è condannato, perciò, alla stupidità e all’impotenza).
Tutto va bene, per Guido e Dora e Giosuè, finché nel mondo regna la libertà. Ma poi, a un tratto, approfittando di una serie di circostanze, ecco che il disumano dell’uomo (quel disumano che in ogni epoca e società continua a stillare nel nostro mondo fantastico dalle crepe e dalle fessure delle menti abbandonate, in rovina, devastate da idee deliranti) prende il sopravvento con il nome di fascismo e di nazismo, sopprime la libertà, e pretende di farsi re dell’immaginario umano non come può esserlo chicchessia (accontentandosi, cioè, di regnare insieme a tutti gli altri) ma schiacciando e soffocando e facendo sparire ogni idea, ogni significato, ogni affetto umanamente pensati, sentiti, vissuti. Allora, per la prima volta in vita sua, Guido è detronizzato, non è più re, non riesce più a farsi “ubbidire” dalla realtà (specialmente umana) che fino a quel momento si è sempre inchinata ai suoi desideri. E scopre, così (orrenda verità che non vorremmo mai dover ammettere) che l’umano non ha alcun potere trasformativo sul disumano, se non è quest’ultimo che glielo concede poiché non è ancora del tutto disumano.
Guido e i suoi cari, soli in un mondo violentato che non corrisponde più alla loro immaginazione, vengono sequestrati e condotti in un campo di sterminio. E il campo di sterminio, oltre che un luogo in cui gli esseri umani (rappresentati dagli Ebrei) sono fatti schiavi ed eliminati, è anche un modello mentale, una rappresentazione del rapporto del nazismo e del fascismo con la realtà, un’immagine non soltanto di come tutto dovrà essere dopo che sarà stato interamente conquistato e sottomesso, ma dell’aspetto che il mondo (specialmente umano) ha già ora nelle menti dei fascisti e dei nazisti.
Ecco: Guido, Dora e Giosuè, esseri umani perfetti, si trovano ora a dover vivere (finché, diventati “inutili”, saranno soppressi) in un mondo fantastico del tutto disumano. Che perciò non corrisponde più alla loro immaginazione umana. E in cui gli indovinelli, divenuti mostruosi e incomprensibili, non han più soluzione alcuna. Un mondo che è stato concepito per farvi sparire l’umanità.
Si può mentire a un bambino? La menzogna, la bugia, proprio come il delirio nazista, non è forse un tentativo di imporre con la violenza, sulle menti a cui viene propinata, il dominio di un’idea che non ha rapporto con la realtà, che non indovina la verità della realtà, ma che al contrario la occulta, la cancella, la fa smarrire? Sì, la menzogna è anche (e soprattutto) questo. Ma c’è anche un altro tipo di bugie, le uniche accettabili: quelle che salvano il rapporto umano con la realtà inventando e creando un’illusione in cui esso possa sopravvivere, un miraggio di realtà, un tremulo baluginìo di umanità, laggiù all’orizzonte, che permetta all’umano di resistere, nell’attraversare il deserto del disumano.
Ecco: il mondo fantastico che Guido, nel mondo disumano dei nazifascisti, crea per il bambino Giosuè, ben lungi dall’essere una menzogna, è l’unica verità possibile. È l’unico mondo in cui possa vivere il bambino dell’uomo, il fondamentale rapporto creativo, d’interesse e di desiderio verso la realtà, che rende umani gli esseri umani. Bugiardo, piuttosto, è il campo di sterminio, bugiarda è la realtà disumana creata dai nazifascisti: una realtà che sembra vera ma non lo è, un’illusione, una fantasticheria insensata, un delirio materializzato, che non può che far impazzire (cioè far perdere il rapporto umano con la realtà) chiunque si lasci ingannare da esso fino a crederlo autentico.
Poiché, per gli esseri umani, molto più di quel che è reale, è vero quel che corrisponde all’immaginato. Quel che non corrisponde, non è vero e lo si deve trasformare. E quel che per il momento non si può trasformare, dev’essere almeno sognato diverso. E diverso dev’essere descritto ai bambini.
Certo: il padre dell’uomo (l’uomo, cioè, che come Guido deve vivere o almeno sopravvivere in una realtà disumana) è costretto ad adeguarsi a quel delirio, a rispettarne le assurde regole, a comportarsi in modo da rimanere in vita fisicamente il più a lungo possibile. È suo dovere farlo, poiché, se egli invece muore, muore anche almeno una parte (o forse, in un certo senso, muore tutto quanto) del mondo fantastico di tutti gli altri. Ma al contempo il padre deve a ogni costo riuscire a salvare il figlio dell’uomo, il bambino, l’essere diverso da tutti gli altri che ha un rapporto con la realtà diverso da quello di tutti gli altri. Il padre, cioè (pur mentre è costretto a muoversi nella realtà disumana come se fosse vera, a evitarne gli agguati, a procurarsi il cibo, a cercare una via di fuga che talvolta non c’è) deve però assolutamente continuare a creare e a far apparire, dinanzi agli occhi del bambino, il mondo vero rispetto al quale la realtà ha deviato, il mondo vero che la realtà disumana ha tradito e dimenticato.
Quando la realtà è falsa, per dire la verità il padre deve mentire al bambino affinché non si spenga, in lui, la certezza che la realtà non è come il disumano la fa sembrare (cioè come vorrebbe costringerlo a crederla) ma come lui, il bambino, si aspetta di trovarla dal giorno in cui è venuto al mondo.
Mentire al figlio, se l’ora arriva, anche sulla propria morte. Perché perfino quella gli appaia umana. |
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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.
Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.
Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)
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