Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Si può “dimenticare” un bambino?
di Luigi Scialanca
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Elena, di un anno e mezzo, “dimenticata” in macchina dal padre in un parcheggio assolato, muore il 21 maggio 2011 dopo tre giorni di agonia. Dimenticata? Sùbito sentiamo che le cose non stanno così, non è vero, un bambino non lo si può dimenticare. Ma allora perché continuiamo a scrivere e a dire che Elena è stata “dimenticata”? C’è dunque un “dimenticare” che è dimenticare a morte?
Sentiamo che il padre non ha “dimenticato” la figlia, ma lo diciamo e lo scriviamo poiché, per dire quel che sentiamo, ci manca la parola vera, esatta. Non perché tale parola non esista ― esiste da cinquant’anni almeno ― ma perché... Già, questo è il punto: se la parola vera, esatta, non è “dimenticare”, e se essa tuttavia esiste da cinquant’anni almeno, perché ci manca?
Sul Corriere della sera del 22 maggio, il giornalista Francesco Alberti elenca i cosiddetti precedenti:
“Nel giugno 2008, a Merate (Lecco), un’insegnante dimentica in auto la figlia Maria, di due anni, e va regolarmente in classe a far lezione nel liceo scientifico Agnesi. Si accorge di lei dopo una telefonata del marito, alle 13.25: la corsa in ospedale è inutile, Maria muore. Nella stessa estate, in Guadalupe, nei Caraibi francesi, un ragazzino di tredici anni muore asfissiato nel Suv dei genitori: rientrati da una festa, l’avevano lasciato che dormiva sui sedili posteriori. Nell’impossibilità di aprire i finestrini, sigillati dalla chiusura centralizzata, Harold cerca di sfondare i vetri con un paio di cesoie senza riuscire a liberarsi. Nei mesi precedenti, in Francia, un bimbo di due anni e mezzo e una di tre erano morti nello stesso modo” (corsivi miei).
Ma l’elenco, purtroppo, è molto incompleto.
Internazionale del 17 giugno pubblica, col titolo Bambini dimenticati, un articolo di Gene Weingarten, Fatal distraction: forgetting a child in the backseat of a car is a horrifying mistake. Is it a crime?, uscito sul Washington Post più di due anni prima, l’8 marzo 2009, e vincitore del premio Pulitzer nel 2010. Dal quale apprendiamo con orrore che negli Stati Uniti questo tipo di disgrazia, vent’anni fa poco frequente, oggi si verifica tra le 15 e le 25 volte all’anno, tra la primavera, l’estate e l’inizio dell’autunno.
“Dimenticare”, “lasciare”, “non accorgersi”, “disgrazia”, “distraction”, “forgetting”, “mistake”: la terminologia, di qua e di là dell’Atlantico, è varia ma concorde: suggerisce che la morte di un bambino possa essere un incidente, una fatalità, un evento ineluttabile. Ma noi non ce ne diamo per intesi: continuiamo a sentire che la parola “dimenticare” e i suoi sinonimi non vanno bene, che ce ne vorrebbe un’altra per dire cosa accade in certe menti quando quel che in esse accade è causa di morte.
Ma forse la questione non è importante? Forse non ci riguarda?
In effetti potremmo pensare che non “riguardi” noi nel senso (molto limitativo del significato del verbo “riguardare”) che a noi non possa accadere. Ma nei giorni successivi alla tragedia, questa rassicurante considerazione si è dovuta confrontare con la campagna mediatica di chi è sicuro del contrario. Di chi sostiene che la cosa può accadere a tutti, nessuno escluso: anche a noi, anche a te, anche a me...
Non è vero, lo diciamo chiaro e forte: no, non può accadere a tutti.
Ma anche se non può accadere a tutti, sentiamo che un fenomeno così terribile, in così rapida crescita, e così “misterioso” che sembrano mancare le parole per descriverlo, ci riguarda ugualmente tutti poiché tutti ci colpisce negli affetti e nell’intelligenza, se affetti e intelligenza abbiamo. Così come riguarda tutti il fatto che la cultura e i media, di qua e di là dell’Atlantico, si sono mobilitati per convincerci che invece può accadere a tutti. Se hanno ragione, se davvero può accadere anche a noi, come non preoccuparci per noi stessi, per i nostri figli, per tutti i bambini? E se invece hanno torto (e lo hanno), se non può accadere a tutti (e non può) come non preoccuparci per quello che dobbiamo dunque definire un tentativo in atto, consapevole o inconsapevole, di ingannarci sulle nostre menti, cioè di farci impazzire?
Si può “dimenticare” un bambino? E se invece non si può, cosa è accaduto al padre della povera Elena il 18 maggio, e a tanti, a tantissimi, a troppi altri padri e madri dagli anni ‘90 a oggi?
Sul Corriere della sera di giovedì 19 maggio Mauro Covacich scrive:
“Dimenticare. Nessuno può pensare che questo padre abbia dimenticato la figlia. E infatti nessuno lo pensa, tutti noi accorriamo attorno al buco nero che si è aperto nella sua mente e assistiamo ammutoliti al suo dolore. Stiamo immobili e in silenzio davanti alla voragine che si è spalancata nella mente di quest’uomo temendo che anche la più innocua delle parole possa torturare la sua condizione di sovresposto, di senza pelle. Ma sappiamo, forse è l’unica cosa certa, che non si è trattato di dimenticanza. Semmai abbiamo la sensazione di avere a che fare con la madre di tutte le rimozioni, la scandalosa, violenta irruzione del Sacro, quel misterium tremendum in presenza del quale restiamo atterriti e affascinati. Sto parlando della pura e semplice ineffabilità dello stato delle cose, l’enorme punto di domanda al quale ci aggrappiamo per non precipitare nell’orrido in cui è stato inghiottito l’asilo di quella bambina. [...] È come se ieri fosse di nuovo piovuto il monolite di 2001 Odissea nello spazio, non c’è alcun accesso interpretativo per questo blocco di granito. È un evento impenetrabile, conviene averne rispetto, osservarlo da ragguardevole distanza e rinunciare alle spiegazioni. Nel Decalogo I di Kieslowski il laghetto è finalmente ghiacciato, lo spessore del ghiaccio consente di pattinare senza rischi. Lo annuncia la radio, il papà scienziato al figlio. Vai, puoi andare. Io sono il Signore Dio tuo. Anche a Teramo l’asilo era lì saldo nella mente di quel padre, insieme alla bambina. Ora si vede solo il buco. Speriamo di riuscire a salvarla” (corsivi per la maggior parte miei).
È un testo impressionante. L’iniziale sollievo ― oh, dice che “dimenticare” un bambino è impensabile ― si tramuta in sconforto non appena capiamo che il Covacich non esclude il “dimenticare” per offrirci al suo posto la parola vera ed esatta che stiamo cercando, ma al contrario per negare che una spiegazione scientifica dell’accaduto sia possibile. Parla, sì, di buco nero ― che è un termine scientifico ― ma solo per definire l’evento impenetrabile e, in quanto impenetrabile, sacro e, in quanto sacro, tale da obbligarci al silenzio mentale. Ogni ricerca è preclusa, le nostre menti devono fermarsi, svuotarsi, siamo dinanzi a un mistero ― anzi: al Mistero, ché se ne ammettessimo più d’uno staremmo già cominciando a spiegarlo ― e l’immaginazione, che è la facoltà che ci rende umani, non può che oscurarsi: dinanzi al Mistero siamo animali non umani in trappola, atterriti da un Ignoto che, in quanto “rivelazione” che immaginazione e ricerca non sono che miraggi, è negazione dell’essere umano in quel che lo rende umano1.
C’è almeno della pietà, in questo discorso? Forse in quel padre detto povero sovraesposto, senza pelle, che ogni parola può torturare? Sì, ma è la “pietà” feroce dell’insensibilità assoluta: perfino dinanzi a un gatto schiacciato in mezzo alla strada la mente davvero pietosa immagina e cerca rimedi e sanzioni che fungano da deterrente, che salvino almeno alcune di quelle bestiole, ma dinanzi al padre di Elena no: niente possiamo fare per lui, nemmeno pensare: la mente deve svuotarsi, e guai a lei se non lo fa. Impossibile immaginare, cercare, fare scienza. Impossibile essere umani. Impossibile salvare i bambini. E per quei padri e madri abbandono assoluto: né giudizio né cura. Quale giudice oserebbe accostarsi a ciò che neanche lo scienziato può sfiorare? Quale medico sarebbe così temerario?
Tuttavia uno “scienziato” o un “medico” ben “ispirati”, rispettosi del sacro, qualcosa dopo tutto sono autorizzati a dire, rompere l’atterrito silenzio è loro concesso: parlino di “rimozione”, concede il prete-stregone Covacich. Purché sappiano, e dicano, che tutte le “rimozioni” hanno “una madre”, e che “la madre delle rimozioni” è, appunto, l’“irruzione del Sacro”. Purché si guardino bene, cioè, dal tentar di spiegare cosa la “rimozione” sia e se differisca o meno dal “dimenticare”. Purché, cioè, si servano del termine “rimozione” non come di un concetto scientifico (che può essere analizzato e spiegato) ma come di un mistico abracadabra che ci aiuti a mandar giù senza proteste, una volta che la formula magica abbia annullato ciò che sentiamo, quel verbo “dimenticare” che giù non voleva proprio andare.
Il Covacich traccia il solco, interpretando il ruolo del sacerdote ― non importa che non è un prete vero: i preti veri hanno imparato da tempo quanto sono più bravi di loro gli intellettuali devoti ― dello stregone che annuncia il tabù e scaglia anatemi contro i trasgressori: impossibile la spiegazione!, impensabile il giudizio!, inimmaginabile la cura! Poi, seguendo il solco da lui tracciato, una sorta di (inconsapevole?) struttura (dis)informativa entra in azione. La chiamerò la struttura Omega.
Il 22 maggio, sul Corriere della sera, ancora Francesco Alberti scrive:
“Un padre che probabilmente è già morto dentro (Sono pronto a dare la vita per la mia piccola, ha continuato a ripetere per ore), svuotato da un rimorso senza attenuanti e per questo impossibile da cancellare. Una madre, in cinta all’ottavo mese, stravolta dalla disperazione, ma non dal rancore verso quel compagno capace di una simile dimenticanza: Mio marito non è colpevole di niente, singhiozza, leggendo un messaggio, è un padre esemplare, doveva pensare a tutto durante questa gravidanza, io non mi dovevo preoccupare: ciò che è successo a lui, poteva capitare a chiunque, la bimba lo adorava” (corsivi miei).
Si continua, dunque, a parlare di “dimenticanza” ― si teme, forse, che il termine “rimozione” si riveli indigeribile da chi, pur di non cimentarsi con una terminologia “colta” (anche se usata a sproposito, come in questo caso) è pronto come Göbbels a metter mano alla pistola ― ma non è più la dimenticanza del telefonino o delle chiavi: dopo Covacich si è capovolta (come l’uomo che ha dato la morte, trasfigurato in un uomo pronto a dare la vita per la sua piccola) in una dimenticanza sacra; il padre, in quanto già morto dentro, è ora una sorta di zombi, un essere terrificante, al di là del bene e del male, che solo un pazzo o un malvagio può voler processare e curare; e la madre, cui il primo giorno era sfuggita un’invettiva contro il marito, ora ne è la vestale, colei che resterà al suo fianco e che dunque, presumibilmente, morirà dentro con lui. Come un’antica sposa indiana arsa viva sulla pira del marito.
E la donna che si sacrifica sarà d’ora in poi uno dei “pilastri” della campagna mediatica contro di noi che ci sentiamo colpiti negli affetti e nell’intelligenza da quel ch’è accaduto, e che agli affetti e all’intelligenza non vogliamo abdicare: non solo sarebbe impossibile spiegare, non solo dovremmo rassegnarci a non immaginare, a non cercare, a non essere umani, ma dovremmo anche noi, come antiche spose indiane, sacrificarci per chi ha ucciso, anche noi suicidarci nel “far finta di niente” e tirare avanti.
Quello stesso 22 maggio sul Corriere esce anche un articolo di Paolo Di Stefano, Vuoto e pietà, il coraggio di una donna. Forse lei riuscirà ad accompagnare il suo uomo travolto dal senso di colpa:
“Distrazione significa, letteralmente, esser trascinati via da ciò che in quel momento dovrebbe occuparti la mente più di ogni altra cosa. Chissà da cosa è stata trascinata via la mente del papà della piccola Elena, quando ha chiuso la portiera della sua auto per andare a lavorare come tutti i giorni. Producendo una voragine, un buio, un vuoto, proprio là dove invece dovevano esserci presenza, protezione e cura. Avrebbe dovuto portarla all’asilo e probabilmente credeva di averlo già fatto: «credeva» è eccessivo. Diciamo «aveva l’idea», neanche, «aveva una specie di idea», «un’immagine mentale», ma neanche. Non c’è niente, apparentemente, che possa spiegare un salto cognitivo come quello: un padre chiude la portiera dell’auto per andare a lavorare, dimenticando che sul sedile posteriore c’è ancora la sua bambina di due anni, addormentata. Passano le ore e la figura della bambina addormentata non emerge, non viene a galla quella tragica «distrazione». In letteratura la distrazione produce di solito effetti comici, come nella pièce secentesca del francese Jean-François Regnard (Il distratto, appunto), il cui protagonista accetta la mano della donna che ama dimenticandosi di essere già sposato. Oppure in una novella di Pirandello (La distrazione, appunto) dove il nocchiero di un carro funebre si scorda di trasportare una bara e, estenuato dalla sua «vitaccia porca», lascia scorazzare liberamente i cavalli per la città. Distrazione, vuoto, assenza, dimenticanza, cancellazione, blackout, amnesia. Il caso di Teramo, Freud lo chiamerebbe un «lapsus memoriae». Ma va messo tutto fra virgolette, perché ogni tentativo di definizione appare drammaticamente inadeguato alle conseguenze che il gesto (mancato) del papà di Elena ha prodotto. A che serve stare a chiedersi perché e per come? È successo a Teramo, come è successo in un passato recente a Catania, a Lecco, in Francia, in Cina. E spesso in un aeroporto, un centro commerciale o un’area di servizio (due anni fa a San Zenone Lambro), come nel film di Soldini Pane e tulipani, dove a essere dimenticata (dalla famiglia: marito e due figli) è una madre. Una sociologia facile potrebbe trarne la conseguenza che sono i non-luoghi di Marc Augé a favorire l’alienazione, dunque quel clamoroso blackout. Nelle fiabe, i figli vengono abbandonati dai genitori per fame o per cattiveria, mai per distrazione: da Hänsel e Gretel a Pollicino, a Biancaneve. Ma si sa che la realtà è più crudele delle favole, dove a tutto c’è rimedio. In un famoso verso, Fabrizio De André metteva in musica un dialogo allucinato in cui a una madre che piangeva: «Lo sa che io ho perduto due figli?», un interlocutore cinico rispondeva: «Signora, lei è una donna piuttosto distratta». La canzone si intitolava Amico fragile. L’amico più fragile è adesso il padre di Elena, certamente travolto dal senso di colpa. A qualcuno toccherà consolarlo, se possibile: «Non è colpa sua», ha trovato la forza di dire sua moglie. Forse lei riuscirà ad accompagnarlo nel dolore procurato da un mistero a cui la neuropsichiatria troverà spiegazioni superficiali. Più che a Freud e agli scienziati, ora è tempo di ricorrere a Michelangelo e alla sua Pietà” (sottolineature mie).
Le poche righe sottolineate, le uniche che contano, ripetono (inutilmente e meno “bene”) Covacich e Alberti: spiegare è impossibile (“a che serve stare a chiedersi perché e come?”, è “un mistero” a cui perfino “la neuropsichiatria” non troverà che “spiegazioni superficiali”), tutti in ginocchio e sùbito (“è tempo di ricorrere a Michelangelo e alla sua Pietà”), niente processi né cure (il padre è già “travolto dal senso di colpa”), la donna-Società (noi tutti) deve solo tacere, rassegnarsi e sacrificarsi. Il resto (l’85% dell’articolo) è un abbagliante ma frivolo florilegio di citazioni “erudite” e divagazioni “colte” che non si fanno scrupolo ad alludere, con impressionante fatuità, a un possibile effetto comico. Cioè... a buttar la tragedia in barzelletta per meglio sprofondarci nel vuoto mentale che ci si vuol far credere ineluttabile?
Il giorno dopo, 23 maggio, scrivono al Corriere lo psichiatra Giovanni Del Missier e la psicologa clinica Maria Pia Albrizio:
“Come psicoterapeuti non crediamo a Covacich che, ricorrendo all’immagine del monolite di 2001 Odissea nello spazio, afferma: «È un evento impenetrabile, conviene averne rispetto, osservarlo da ragguardevole distanza e rinunciare alle spiegazioni» e pensiamo al contrario che la ricerca scientifica debba approfondire la questione. Al riguardo segnaliamo che la comprensione della pulsione di annullamento, proposta nel 1972 dallo psichiatra Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza, potrebbe contribuire a rendere praticabile una ricerca sulla patologia mentale, affettiva e cognitiva, alla base del fenomeno umano (e non sacro) dell’assenza e delle sue tragiche conseguenze”.
Pulsione di annullamento. Patologia mentale affettiva e cognitiva. Assenza. E se fossero le parole vere ed esatte che cerchiamo? Perché il Corriere, non pubblicandole, decide per noi che dobbiamo seguitare a ignorarle? Certo, un giornale ― lo ribadiamo ― ha il diritto di pubblicare quel che vuole, ma poiché in questo caso la non pubblicazione è un’implicita contestazione d’inaffidabilità alla corrente psichiatrica a cui i mittenti della lettera aderiscono, il quotidiano milanese aveva il dovere, verso di loro e verso i lettori, di spiegarla e motivarla. Non farlo si chiama censurare, ed è segno di arroganza e prepotenza.
Quello stesso 23 maggio, mentre la lettera dello psichiatra Del Missier e della psicologa clinica Albrizio riferentesi alle scoperte e agli scritti dello psichiatra Fagioli viene censurata dal Corriere, le riflessioni dello psichiatra Cancrini trovano invece il consueto asilo de L’Unità:
“Psicopatologia della vita quotidiana, una delle opere più famose di Sigmund Freud, fu pubblicata nel 1901. Parlando di lapsus e di amnesie, di sogni e di atti mancati, il padre della psicoanalisi e della moderna psicoterapia metteva in evidenza il modo in cui l’inconscio e le sue follie irrompono normalmente nella vita della persona normale. Condizionandoci e riportandoci di continuo all’imperfezione del nostro funzionamento mentale, al dubbio di cui non dovremmo mai liberarci sulla nostra capacità di essere davvero padroni, in ogni momento, del nostro pensiero e delle nostre azioni. La consapevolezza di questa imperfezione dovrebbe essere (e spesso è) un segno importante del nostro livello di maturità personale. Lo dimostra, meglio di ogni altro esempio, il modo appassionato, fermo, pieno di dolore e pietà in cui la madre della bambina morta tragicamente a Teramo difende oggi il suo compagno. Parlandone come di un padre straordinario. Riuscendo a restargli vicina anche dall’interno di uno strazio come quello da cui è palesemente travolta. Usando la dolcezza della comprensione invece della lama fredda del giudizio nel momento in cui quelli che vengono colpiti così duramente sono i suoi affetti più cari. La sua vita. Vale la pena di riflettere davvero molto seriamente su questa straordinaria lezione di stile. “Perdona il peccato, non il peccatore” è sicuramente il più bello e il più importante degli insegnamenti di Gesù nel momento in cui il Vangelo propone di sostituire il perdono alla vendetta “giusta” del Dio insegnata dal Vecchio Testamento. Accettare e praticare questo insegnamento chiede, tuttavia, una capacità appunto straordinaria di vedere il fatto per cui l’uomo che sbaglia è sempre e solo un uomo che fa del male a sé stesso oltre che all’altro e che non trae mai nessun vantaggio sostanziale dal suo errore. Un essere umano come noi da aiutare con la vicinanza. Da non distanziare con la durezza del giudizio di quelli che hanno bisogno di sottolineare gli errori degli altri solo per dimostrare, a sé stessi prima che agli altri, di essere migliori di loro. Viviamo un tempo assai difficile proprio da questo punto di vista. Dai giochi della Playstation alla vita reale, dal mondo dello sport a quello del lavoro, viviamo immersi in una competizione senza sosta che non concede alcun perdono. Dove in ogni momento c’è chi sbaglia e viene eliminato e dove tutto si muove sempre più in fretta nella grande corsa a ostacoli in cui si è trasformata la nostra vita. Un mondo in cui lo spazio per chi è più debole si riduce ogni giorno e in cui la paura di perdere rende sempre più feroce la gara in cui si è ingaggiati anche senza volerlo. È proprio di questo, mi pare, che parla a noi tutti la madre della bambina che non c’è più. Duramente rappresentandosi l’assurdità della condizione in cui siamo costretti e abbiamo accettato di vivere. Correndo da un impegno all’altro senza riuscire più, spesso, a sistemarli all’interno di una gerarchia dotata di senso e senza più trovare a volte il tempo necessario per noi e per le cose più importanti. Per la salute e l’amore di ciò che vi è di più caro. Fino al momento in cui qualcosa dentro si rompe e non funzioniamo più come vorremmo e dovremmo. Travolti dalle isole di follia che sono sempre in agguato. Dentro tutti noi e dentro ognuno di noi” (sottolineature mie).
Il Cancrini, dunque, è d’accordo con Covacich, Alberti e Di Stefano sull’impossibilità di giudicare il padre che ha ucciso e, per implicita conseguenza, sull’invito ai giudici ad astenersi anch’essi dal farlo (“un essere umano come noi, da aiutare con la vicinanza, da non distanziare con la durezza del giudizio”). E, quanto agli appelli di Alberti e Di Stefano a prendere esempio dalla “moglie che si sacrifica”, ne trae addirittura un inno a questa immagine di donna-Società “appassionata, ferma, piena di dolore, pietosa, dolce, comprensiva, straordinaria”: che tutto fa, insomma, meno cercar di spiegare2 e curare e tentar di difendere sé stessa, gli altri e soprattutto i bambini. Ma si distingue da loro tentando di proporre per la morte della piccola Elena una spiegazione “scientifica”, “laica” e “di sinistra” basata su due “pilastri”: 1. La Società “in cui siamo costretti e abbiamo accettato di vivere”, tanto più spietata quanto più ferocemente competitiva, ineluttabilmente finisce col “rompere qualcosa dentro” i più deboli, che a un certo punto “non funzionano più come vorrebbero e dovrebbero”; e 2. Ciò che è accaduto al padre di Elena può accadere a chiunque poiché deboli siamo tutti, poiché l’essere umano è per natura folle (“isole di follia sono sempre in agguato dentro tutti noi e dentro ognuno di noi”). Poiché noi, esseri umani, siamo tutti per natura “imperfetti”, e la nostra imperfezione, naturale e perciò comune, consiste nell’impossibilità di esser “sempre e davvero padroni del nostro pensiero e delle nostre azioni”.
Il padre di Elena, dunque, secondo il Cancrini, si sarebbe “rotto dentro”, non avrebbe “funzionato più come voleva e doveva”, per colpa di questa Società che gli ha tolto “la padronanza dei pensieri e delle azioni”. I quali (quando lui, “rotto dentro dalla Società”, non ne è stato più “padrone”) sono stati “travolti” dalla “follia che è sempre in agguato dentro ognuno di noi”. Rendersi conto che ciò può accadere a tutti, dice il Cancrini, è segno di una raggiunta “maturità personale”. Fine del discorso.
Fine del discorso? Assolutamente no. Cerchiamo, invece, di capire meglio.
Esser “maturi”, cioè adulti, per il Cancrini, consisterebbe dunque nel tentare di essere “padroni” di sé, e nel sapere, però, di non poter esserlo che precariamente, e solo se la Società non infierisce troppo su di noi. Ed essere “immaturi”, cioè bambini? Ovviamente, per lui consisterà nell’opposto dell’essere “maturi”: nel tentar poco o niente di “padroneggiarsi” e nell’essere poco o niente consapevoli della propria naturale follia sempre in agguato “dentro”. Per il Cancrini, insomma, la “follia” della “immaturità”, cioè della nascita e dell’infanzia, sarebbe la condizione naturale di ognuno, mentre la “maturità” consisterebbe nel riuscire, da adulti, a “padroneggiare” tale follia (tenendola più o meno sotto controllo con una sorta di perenne camicia di forza mentale) e nel rendersi conto, però, che la camicia di forza funzionerà solo se e finché, per nostra “fortuna” o “abilità”, riusciremo a evitare che la Società ci strapazzi troppo.
Ma è del Cancrini questo “brillante” teorizzare la natura umana ― quale la si osserva nel bambino, cioè allo stato, appunto, di natura ― come immaturità umana? No. Risale, almeno, a Platone e ad Aristotele: “È Aristotele che teorizza lo statuto fisiologico ed etico dell’infanzia, età incompiuta [...] che deve realizzarsi in quella adulta. Nelle pagine aristoteliche, lo studio del bambino fa parte di una psicologia comparata dove il piccolo dell’uomo, imperfetto e non pienamente realizzato, viene assimilato all’animale e alla donna (Ricerche sugli animali, VIII, 588 a 32 sgg.) e [...] definito come incapace di scegliere deliberatamente (Etica nicomachea, III, 1111 a) e come analogo allo schiavo (Politica, I, 1260 a)”3. Il concetto viene poi fatto proprio dai Romani: “Gli infantes sono come gli animali, cui infantes è spesso riferito come attributo naturale. [...] Isidoro di Siviglia (Etymologiae, X, 103) afferma che gli infantes sono come i pazzi (fatui), che non comprendono né ciò che dicono né ciò che sentono dagli altri”. [...] Sulle orme dei Greci, i Romani hanno collocato lo studio del bambino nel quadro più generale di una riflessione che assume spesso l’aspetto di una vera e propria antropologia. Il pessimismo di Platone, che vedeva nel bambino un essere senza ragione e abbastanza vicino all’animale, e quello, di poco meno radicale, di Aristotele, che lo considerava il livello zero di un processo evolutivo, sono presenti anche nei testi latini, i quali osservano sempre che il bambino è caratterizzato dalla fragilità, infirmitas, sia fisica che mentale (tra gli altri, Cicerone, Cato Maior de senectute, X, 33; Seneca, De ira, II, 10, 2; Id., Epistulae ad Lucilium, 33, 7), che lo apparenta a tutti gli esclusi dalla vita politica completa: le donne, i vecchi e i pazzi”4. E non finisce mica nel 476 dopo Cristo: di questa “antropologia pessimista” ― natura umana infirma che sarebbe del tutto evidente nel bambino e nella donna e nello schiavo né più né meno che nel pazzo ― potremmo continuare ad allineare esempi (dovesse il Cancrini sentirsi solo con Platone e Aristotele) da Aostino a Innocenzo III, da Montaigne a Hobbes, da Rousseau a Hegel, da Freud a Heidegger...
“Scientifico”, dunque? È scientifico continuare a ripetere a mo’ di litanie affermazioni sull’essere umano vecchie di duemila anni, mai dimostrate e, per di più, opposte all’evidenza che non in tutti vi sono “isole di follia”? O scientifico, invece, è domandarsi e indagare se i progressi delle nostre conoscenze e ipotesi e delle tecnologie non ci permettano e impongano piuttosto di aggiornare, una buona volta, un cosiddetto “pensiero” sulla mente umana che non ha fatto un passo avanti dai tempi in cui si credeva che i terremoti (è sempre Aristotele che parla) siano causati dall’improvviso sfogarsi all’esterno, attraverso pertugi naturali, dei forti venti che soffiano nelle profonde caverne del sottosuolo?
E se scientifico non è, il “pensiero” sulla mente umana di cui il Cancrini è sì tardo epigono, perché continuare ad accreditarlo come laico? Se nessuna delle antiche, fantasiose speculazioni sulla Natura è sopravvissuta fino a oggi, allora una “teoria” ripetuta parola per parola da venti secoli, e che da venti secoli viene “difesa” solo con il ripeterla da ogni tentativo di verificarla, non assomiglia più a una religione che a un pensiero laico? E se è così, se non è scientifico né laico un “pensiero” sulla mente instancabilmente recitato e lamentosamente ripetuto come un rosario, perché accreditarlo come di sinistra? Di sinistra un “pensiero” così pessimista sulla natura umana che, se fosse vero, sancirebbe l’assoluta non trasformabilità della Società e di ogni nostro rapporto?
Ricapitolando: per convincerci che “dimenticare” a morte un bambino non solo è possibile ma può accadere a chiunque in ogni momento, quella che abbiamo chiamato la struttura Omega, nella persona dello psichiatra Cancrini, compie ― rispetto al Covacich e al Di Stefano ― il passo “avanti” “scientifico”, “laico” e “di sinistra” di riaffermare le “scoperte” “scientifiche” di duemila e più anni fa sulla “naturale” pazzia di tutti gli esseri umani. Non esisterebbe, dunque (secondo la struttura Omega) la parola vera, esatta, diversa da “dimenticare”, che andavamo cercando. E il nostro immaginare che invece ci sia, che debba esserci, poiché noi sentiamo che non si può dimenticare un bambino come se fosse un telefonino o le chiavi di casa, e che non tutti possono dar la morte a un bambino? Sciocchezze, ribatte la struttura Omega: un bambino, per l’inconscio pieno di “isole di follia”, non è diverso da un telefonino o dalle chiavi di casa: siamo fatti così, il diavolo è in noi (e che il diavolo sia in noi dovremmo crederlo però “scientificamente”, “laicamente”, “da sinistra”) e in qualsiasi momento, sfiancati da questa Società (che, intendiamoci, è l’unica possibile, poiché siamo pazzi per natura e perciò homines hominibus lupi, ma che dovrebbe essere un po’ più mite per aiutarci a padroneggiare noi stessi), in qualsiasi momento, ecco qua, come se niente fosse possiamo portare il telefonino all’asilo e mettere nel forno crematorio il bambino: certo che sì, tutti possiamo! E dunque pietà, abbiamo e abbiate pietà, che altro si può fare signora mia?
Il giorno dopo, 24 maggio, su La Repubblica, ecco la conferma di Francesco Merlo:
“Mi par giusto segnalare che solo l’universo femminile riserva ancora sentimenti così sorprendenti come quelli della signora di Teramo, vita inesplorata fuori dai luoghi comuni, con una chiarezza e una forza che nessun esame del Dna e nessuna autopsia avranno mai, con una potenza che nessuna indagine di giornalista e di magistrato, francesi o americani o abruzzesi che siano, potrà mai eguagliare” (corsivo mio).
Col Merlo, l’anatema contro gli scienziati (di Covacich e Di Stefano) e i magistrati (di Di Stefano e Cancrini) prende definitivamente l’aspetto di un ritorno al Medio Evo dell’ordalia, della corsa sui carboni ardenti ― insomma: dell’invocazione del giudizio di Dio sotto la non inedita forma di invocazione del giudizio della donna-Società magnificata e auspicata dal Cancrini, appassionata, ferma, piena di dolore, pietosa, dolce, comprensiva, straordinaria, la cui sentenza assolutoria metta a tacere scienziati e criminologi (i poveri sciocchi che continuano a trastullarsi con esami del Dna e autopsie) nonché giornalisti e magistrati: con sicuro beneficio delle casse dello Stato, supponiamo, che potrà disfarsi dell’apparato giudiziario e sanitario e rivolgersi direttamente a noi, ai nostri pollici più o meno versi e ai nostri appassionati, fermi, pieni di dolore, pietosi, dolci, comprensivi, straordinari sacrifici domestici.
E martedì 24 maggio è anche il giorno in cui su L’Unità potrebbe apparire (ma non appare, poiché non viene pubblicata) la lettera che al Cancrini scrive la psichiatra e sua allieva Irene Calesini:
“Caro dott. Cancrini, no, non sono d’accordo: non ci sono isole di follia in agguato dentro ciascuno di noi, pronte a riemergere e a travolgere appena si lascia andare il controllo. Non è «normale» perdere completamente il rapporto con un essere umano, sino a renderlo non esistente, e quindi «dimenticarlo» come se fosse un oggetto. Stimato professore, come psichiatra del 21° secolo non può non sapere che si chiama pulsione di annullamento ed è malattia della mente5. Non può non conoscere la teoria della nascita umana, del prof. Massimo Fagioli, che non angoscia gli esseri umani con idee religiose di ineluttabilità della distruttività, mostruosità, malignità della realtà umana, ma fonda la reale possibilità di cura della più tremenda dimensione umana di malattia: l’anaffettività. Cura, non giudizio. Perché allora spaventare la gente con il mostro in agguato, che mai si può combattere e che si può solo temere per tutta la vita? Caro collega, i bambini ci osservano e ci ascoltano: mio figlio, di undici anni, davanti alla tv mi ha chiesto: «Mamma, è vero quello che dicono, che è normale quello che è successo?». No, non è normale. È tempo di dare altre risposte e gli psichiatri hanno grandi responsabilità in questo. Con affetto, una sua ex allieva: Irene Calesini, psichiatra, psicologa clinica”.
Ma l’affetto “rimbalza” su chi contro gli umani affetti si è da duemila e più anni barricato e corazzato nella ripetizione della giaculatoria che li lamenta naturalmente pazzi: la lettera di Calesini non solo non viene pubblicata (non pubblicazione che è censura, come quella del Corriere contro gli psichiatri Del Missier e Albrizio, poiché come quella tenta di “silenziare” un pensiero, che non condivide, senza però darne notizia ai lettori e senza motivare la non condivisione) ma addirittura viene “sostituita”, un po’ come al gioco delle tre carte, con un’altra lettera: anch’essa dissenziente dalle posizioni espresse dal Cancrini il 23, ma dissenziente in maniera ― come dire? ― così poco decisa (o così poco affettiva) che il Cancrini può controbatterla più comodamente. È la lettera che segue, pubblicata mercoledì 25:
“Luca Telese e Luigi Cancrini hanno elogiato la madre che ha elogiato il padre distratto. Sono persuaso che se ci si dimentica per cinque ore di una bambina, ci sono due possibilità: o si è un cattivo padre, o non si sta bene. In quest’ultimo caso è giusto capire, perdonare, giustificare, ma non elogiare. Però, potete darmi una mano a capire meglio”.
Non è difficile capire perché la struttura Omega, nella persona dello psichiatra Cancrini, abbia preferito questo “dissenso” a quello della psichiatra Calesini: in primo luogo perché non contiene alcun riferimento all’esistenza di una teoria (la teoria della nascita umana di Fagioli) alternativa al “mantra” bimillenario degli adepti alla struttura Omega né, tanto meno, all’esistenza di termini, come pulsione di annullamento, alternativi alle molteplici variazioni sul tema del “dimenticare”; poi perché parla di “capire, perdonare, giustificare, non elogiare”, cioè di tutto meno che di “curare”; e infine perché la chiusa “fantozziana” (o da Invasione degli Ultracorpi?) della lettera pubblicata ― quel “datemi una mano a capire meglio” ― è il segno che, come al gioco delle tre carte, chi scrive è l’inconsapevole “compare” di chi pubblica: e quindi gli si può permettere di “giocare” (di esprimere “dissenso”) poiché, tanto, la “vincita” rimarrà nelle tasche della “ditta” (la struttura Omega).
E il Cancrini risponde:
“Dicendo che poteva scagliare la prima pietra solo chi non aveva peccato, Gesù non elogiò la donna che aveva commesso adulterio. Insegnò a quelli che gridavano contro di lei che l’atteggiamento corretto da tenere nei confronti dell’altro che sbaglia non è quello di chi lo giudica (lapida) come persona perché, quale ne sia la gravità o l’assurdità, il peccato (l’errore) va tenuto distinto dal peccatore. Quella competente a occuparsi dell’errore del padre di Elena, infatti, è la magistratura, che lo giudicherà in un processo; mentre chi ha rispetto di lui come persona parte dall’idea per cui lui, da padre, pagherà per tutta la vita il prezzo della cosa, tremendamente umana, che gli è accaduto di fare. Da qui parte, credo, la moglie che lo comprende e lo perdona dall’interno di un dolore indicibile, e a me è sembrato corretto essere con lei ed «elogiarla», questo sì, sul nostro giornale, perché quella in cui tutti crediamo, qui, è la necessità di manifestare una solidarietà attiva nei confronti di chi sta male e soffre e rischia di cadere nell’abisso della disperazione. Come la madre e il padre di Elena” (corsivi miei).
La solidarietà “attiva” nei confronti del padre di Elena consiste nel proclamarlo incurabile (quel che ha fatto può capitare a chiunque per il solo fatto di essere umano, e non esiste cura per l’appartenenza al genere umano6) e abbandonarlo al suo destino? E la “competenza della magistratura”, che il Cancrini crede (finge?) di riaffermare solennemente, consiste nel sentenziare “tremendamente umana” l’uccisione di una bambina di diciotto mesi e, di nuovo, abbandonare il padre al proprio destino e all’“appassionato, fermo, pieno di dolore, pietoso, dolce, comprensivo, straordinario” sacrificio della moglie?
Si dirà, forse, che di demolire “teorizzazioni” così bizzarre non vale né la pena né l’inchiostro. Ma non è così: fin dai primi giorni, infatti, la cronaca registra segnali inequivoci dell’attitudine di una parte dell’opinione pubblica a lasciarsi confondere (o, per una sorta di “complicità”, coinvolgere) dalla trita retorica con cui la struttura Omega si sforza di “arginare” la ricerca di risposte non banali, di parole vere, esatte, che ― attraverso i blog, i social network, le mail ai quotidiani ― muove dalla Società civile.
Impressionante, in questo senso ― poiché mostra quanto rapidamente si diffonda quella retorica ― è la descrizione, sul Corriere on line di giovedì 26 maggio, delle esequie della bimba uccisa:
“Erano in tanti, tantissimi a Campli, al funerale di Elena, la bimba di 22 mesi che ha commosso tutta Italia, morta dopo tre giorni di coma per un edema cerebrale dopo essere stata incredibilmente dimenticata dal padre che, invece di portarla all’asilo, l’ha lasciata cinque ore sull’auto nel parcheggio dell’Università. C’era anche lui in chiesa, l’amato papà, aggrappato alla piccola bara bianca, sorretto da don Mazzitti che non lo ha lasciato un attimo, quasi a volerlo difendere dagli sguardi cattivi di chi pensa: «Ma come ha potuto...». Ma il papà ha già sofferto tanto, è già stato punito nel modo più atroce perdendo così la sua piccolina e tutti lo sanno che il senso di colpa che lo sta affliggendo potrà forse mitigarsi con il tempo, ma non potrà mai essere cancellato. Tutti hanno capito. Dopo la moglie, incinta all’ottavo mese, che per prima lo ha assolto: «Mio marito non ha colpe», anche le maestre dell’asilo, i colleghi di lavoro, gli abitanti di Campli hanno compreso il dolore di un uomo che chissà quante volte si chiederà: «Elena ha pianto? Mi chiedeva aiuto e io non c’ero... perché non c’ero?...». Per il papà non ci sono state accuse. Solo parole di consolazione e incoraggiamento: «Siete genitori meravigliosi, poteva capitare a tutti». «A tutti noi poteva succedere quello che è successo» scrivono i genitori dei bimbi dell’asilo nido frequentato da Elena, in una lettera letta da una delle maestre. «Caro L., non attribuirti colpe che non hai. Troverete la forza di ricominciare, illuminati dalla luce di una nuova vita». Il preside della facoltà di Veterinaria dove L. lavora come docente e C., sua moglie, come ricercatrice, al termine della cerimonia ha sottolineato che nei giorni scorsi «oltre 200 studenti si sono raccolti per un minuto di silenzio in segno di solidarietà. Tornate presto tra noi» ha detto, «la vita ci dà tanto e può toglierci tutto». «È una tragedia che ha coinvolto tutta la comunità camplese, una fatalità che può succedere a tutti» ha commentato il sindaco di Campli, Gabriele Giovannini: «Ho ricevuto tantissime telefonate in questi giorni su casi simili, genitori che dimenticano i figli a scuola» ha detto il sindaco, «c’è un qualcosa che ci porta a correre continuamente e crea un blackout nella memoria. È un problema dei tempi odierni, correre sempre, lo stress: leggevo su una rivista scientifica online che in caso di stress ci possono essere momenti di blackout». «Dio ha preso in braccio Elena, questa piccola creatura. Chissà che grande luce splenderà nel cuore di L. e C.,» ha detto il parroco della chiesa Santa Maria in Platea, don Antonio Mazzitti nella sua omelia. «L’incidente è un fatto umano, non battete le mani per dare un sollievo a papà e mamma?» ha detto il sacerdote invitando i genitori di Elena a salire sull’altare per accendere una candela e deporre un vestitino bianco sulla bara della figlia. E davanti alla chiesa, quando la bara ha varcato la soglia, sono stati liberati in aria tantissimi palloncini bianchi e gialli. Un lungo applauso e le campane a festa hanno poi accompagnato i genitori di Elena. Forse tanta solidarietà li aiuterà a sopravvivere a un dolore così profondo e a ricominciare con energia e amore a essere genitori” (corsivi miei).
Chi pensa “ma come ha potuto?” (cioè quasi tutti noi) ha uno sguardo cattivo, quindi è cattivo. Cattivo, è ovvio, poiché non beve la storiella del “dimenticare”, non si rassegna al l’uomo è una bestia, signora mia, cosa ci vuol fare, si ostina a cercare parole vere, esatte: è il desiderio, si sa, è il voler capire che rende cattivo (umano) lo sguardo di chi i cosiddetti pastori vogliono pecora. “Siete genitori meravigliosi, poteva capitare a tutti”. Addirittura “meravigliosi”? Nella gara a chi sceglie il termine più insensato e di esso si bea (una tecnica proterva di abituazione al mostruoso e una fretta violenta di mettere una pietra sull’umano, che al mostruoso si oppone) si sente il voler eccedere, il bisogno di esagerare, di andare oltre la giustificazione, di arrivare sùbito alla santificazione di chi ha ucciso e, con lui, di tutti quelli che si son lasciati persuadere di poter uccidere anch’essi, in qualsiasi momento. “A tutti noi poteva succedere quello che è successo, scrivono i genitori dei bimbi dell’asilo”. Davvero lo pensate? E se davvero lo pensate, come vivrete d’ora in poi? Riempirete le auto di suonerie e fazzoletti annodati? Con che occhi spaventosi guarderete i vostri figli pensando che da un momento all’altro potreste ucciderli? “Non attribuirti colpe che non hai,” dicono altri genitori e le maestre. “È una fatalità che può succedere a tutti,” dice il sindaco, “ho ricevuto tantissime telefonate in questi giorni su casi simili, genitori che dimenticano i figli a scuola”. Casi simili? Davvero “dimenticare” i figli a scuola (cioè, tradotto, tardare a riprenderli all’uscita) è simile a metterli in un forno? Come in una tragedia greca, le sollecitazioni mediatiche della struttura Omega evocano di tra le quinte della Società dello spettacolo il coro dei consenzienti, coatti o complici che siano; e il coro, a tratti perfino giulivo, ripete instancabile, come un disco rotto, le “parole d’ordine” con cui gli “esperti” l’hanno imbeccato. “Chissà che grande luce splenderà nel cuore di L. e C.!” esclama il parroco. Addirittura? Saranno dunque (anzi: devono essere) addirittura felici? E ancora: “Non battete le mani per dare un sollievo a papà e mamma?” Battere le mani? Come in tv? Ma sì, infatti è spettacolo: “Sono liberati in aria tantissimi palloncini bianchi e gialli, un lungo applauso, campane a festa...” Che bello! Battete le mani, gente! Ah, se accadesse più spesso! Non sarebbe un sollievo poter tutti “dimenticare” così i bambini?
Finalmente, venerdì 27 maggio, per la prima volta una voce esce dal coro. Quella, su Left, di un articolo della psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg intitolato “Dimenticare” un bambino – Tutti possono svegliarsi un brutto mattino e... scordarsi dei figli? L’esperta dice: No, non è dimenticanza ma annullamento. Precisa dinamica patologica:
Può accadere che un bambino venga annullato, venga fatto sparire internamente come se non fosse mai esistito. A differenza della dimenticanza, l’annullamento non è una cosa senza pertinenza psichiatrica che capita “a tutti”, bensì una dinamica estremamente patologica che riguarda un numero ristretto di persone... Le parole vere, esatte, che cercavamo ― che invano avevano chiesto udienza e magari un’argomentata confutazione sulla “grande” stampa nazionale ― finalmente vengono dette e scritte. Ma è il 27 maggio, il terribile giorno in cui anche Jacopo, di undici mesi, muore in auto abbandonato dal padre, e sùbito la struttura Omega torna a scatenarsi per coprire quelle parole di terra e polvere, per seppellirle, per cancellarle “come se non fossero mai esistite”... Per “dimenticarle” e farle “dimenticare”? O piuttosto per annullarle e farle annullare?
Sul Corriere della sera di sabato 28, Margherita De Bac intervista Giovanni Battista Cassano. Titolo, tanto per cambiare: Un blackout del cervello che può colpire tutti. Testo:
“«Non c’è da scandalizzarsi. Può succedere a chiunque. Il nostro cervello attraversa fasi di amnesie che possono coinvolgere persone e oggetti importantissimi. Il portafoglio, i gioielli, lo stipendio. Dunque anche un figlio che dorme sul seggiolino». Giovanni Battista Cassano, professore emerito di psichiatria all’Università di Pisa, non colpevolizza i genitori vittime di sbadataggine dagli esiti drammatici. Il nostro cervello è una macchina imperfetta? «Proprio così. Abbiamo sopravvalutato la capacità umana di operare scelte razionali in ogni momento. In realtà non succede e lo vediamo in ogni campo. La nostra memoria ha limiti enormi e funziona a fasi alterne. Per lunghi periodi siamo perfettamente consapevoli di ogni azione compiuta, in altri cancelliamo i ricordi, qualsiasi peso essi abbiano». Quindi potrebbe capitare a ognuno di noi di lasciare il bambino chiuso in auto al parcheggio? «La mente deficitaria può arrivare a tutto, specie quando siamo assorbiti da pensieri, emozioni e preoccupazioni assillanti che distolgono la nostra attenzione e scalzano altri eventi. Il cervello ha migliaia di funzioni che in certi momenti possono essere sottotono o bloccarsi del tutto. È un organo conformato così proprio per adattarsi alle esigenze dell’uomo»“ (corsivi miei).
Giovanni Battista Cassano, professore di psichiatria, dichiara entrambi importantissimi, alla pari, il portafoglio e il figlio. Significa “dimenticare” che un oggetto inanimato e un essere umano sono infinitamente diversi? O significa piuttosto annullarlo? E che dire di quell’impagabile “cervello, macchina imperfetta”? L’illustre scienziato non sa ― o forse “dimentica”, o piuttosto annulla ― che una “imperfezione” o “sbadataggine” siffatta, che induca all’eliminazione della prole i genitori in situazioni di forte stress, avrebbe estinto qualsiasi mammifero nelle ardue condizioni ambientali in cui visse l’homo sapiens nella preistoria, ma in particolar modo un mammifero la cui prole sia per anni inetta a sopravvivere autonomamente? Niente di nuovo: lo schema è lo stesso del Cancrini com’è lo stesso da duemila anni di “pensiero” religioso, “filosofico” e ideologico sulla “naturale” pazzia umana: bisogna teorizzare la nullità dell’essere umano affinché l’essere umano venga annullato, e bisogna annullare l’essere umano affinché l’annullamento che certi esseri umani fanno contro altri esseri umani sia, anch’esso, annullato.
Su La Stampa del 28, Un altro bimbo muore dimenticato in auto, di Elena Loewenthal, dalla prima all’ultima riga è una sorta di gioco di prestigio linguistico con cui il termine “dimenticare”, prima definito inappropriato, è ribadito a forza di reiterazioni come il solo termine possibile:
“Quando si hanno dei figli, può capitare di tutto. Di amarli e patirli, di condividere e sentirsi distanti. Perdonare e incattivirsi. Ma dimenticarli, quello proprio non si può: quando si è genitori, l’oblio non è ammesso. I figli ti riempiono la vita con una prepotenza che non ha pari. Eppure, è capitato, e due volte nel giro di pochi giorni. Lo scenario è una tragica copia conforme. Due bambini piccoli, ancora dentro quell’età in cui comunicare è una conquista giorno per giorno. Due automobili e una stessa calura, dentro l’abitacolo. Due padri innocenti, eppure colpevoli. Di averli dimenticati lì, complice quel silenzio che quando si hanno figli piccoli è una rara benedizione e che invece è costato a loro due la morte. Perché sarebbe bastato un verso, un inizio di capriccio, uno starnuto o un colpo di tosse, per salvarli. Per far sì che i due padri, innocenti eppure colpevoli, si ricordassero di loro, allacciati sul seggiolino, lì dietro, disgraziatamente fuori portata dello specchietto retrovisore. Complice di queste due tragedie così terribilmente simili fra loro, in questo precoce principio d’estate, anche lo stress. La fatica di tirare avanti e mantenere una famiglia e non aver più tempo di pensare, ragionare. E così, dimenticare anche una cosa tanto ovvia e banale come quella di avere un bambino in macchina, seduto alle tue spalle. La mamma della piccola Elena ha prontamente scagionato il marito, anzi ha fatto di più: in morte della figlia l’ha elogiato. Quella di Jacopo appare incredula, le mani quasi rivolte al cielo e una smorfia di dolore, mentre qualcuno tiene in braccio suo figlio morto, dentro un lenzuolo bianco. I due padri sono assenti, e chissà cos’hanno disegnato in volto, in questi momenti. Una colpa che grida sé stessa anche se tutto il mondo proclamasse la loro innocenza, anzi di più, la loro infinita bontà di padri modello. Una colpa dalla quale sarà impossibile trovare anche solo uno straccio di redenzione, per il resto della vita. Perché dev’essere terribile, dimenticarsi un figlio e ritrovarlo morto. Anche se tua moglie spiega davanti alla telecamera che sei il migliore dei mariti. Anche se non è colpa tua e amavi quel bambino più di ogni altra cosa al mondo. Perché dimenticare un figlio non si può. Come si fa? È perfino più inammissibile di ucciderlo. Un figlio ce l’hai davanti agli occhi e dentro la testa sin da quando ti viene al mondo, e anche prima. Sta lì, occupa tutto lo spazio che hai, dentro e fuori. Come fai a dimenticarlo? A ignorare la sua esistenza, anche solo per un pugno di ore ma sufficienti per farlo morire? Non hanno colpa, questi due padri. Però si sono scordati dei bambini in macchina e li hanno lasciati lì. Chissà come guarderanno, d’ora in poi, quel sedile dietro dell’automobile, vuoto per sempre” (corsivi miei).
Davvero “sarebbe bastato un verso, un inizio di capriccio, uno starnuto o un colpo di tosse, per salvarli”? Non si accorge, la Loewenthal, di affermare l’opposto di quanto detto dal padre di Elena, che, come ricorda la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg su Left, “tornò alla macchina e sentendo dei rumori ― gemiti ― controllò se ci fosse un ipotetico cane ma non vide la bambina nel suo seggiolino”?
Sempre su La Stampa del 28, dopo il “pezzo di colore” della Loewenthal, ecco l’intervista di prammatica allo psichiatra (a qualunque psichiatra, purché non parli di pulsione di annullamento): Il degrado familiare non c’entra: siamo tutti a rischio. Quattro domande a Claudio Risè, psicoterapeuta:
“«Nella mia esperienza di analista ho conosciuto una decina di persone abbandonate in auto, in autogrill, in spiaggia, anche decenni fa. È più diffuso di quanto percepiamo perché arrivano alle cronache solo i casi in cui i bimbi rischiano la vita» valuta Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, esperto di psicologia educativa. Quindi ha ragione la mamma di Elena, morta a Teramo pochi giorni fa: dimenticare un figlio in auto può capitare a chiunque? «Ha assolutamente ragione. Il margine tra abisso e sentiero è molto stretto per tutti, e decisiva è la consapevolezza delle proprie ambiguità e delle proprie debolezze». Ieri un nuovo caso: non sembra però ancora più strabiliante, visto il clamore suscitato dalla tragedia di Teramo? «Bisognerebbe vedere quanto questi genitori erano stati toccati da questo clamore. Molti vivono al di fuori dei circuiti dell’informazione o scelgono solo quello che li interessa, facendo una selezione automatica e inconscia delle notizie». Colpisce che questi casi si siano verificati in contesti familiari sereni. «Ma non ha nulla a che vedere col degrado. Quando ci sono molti interessi, investimenti anche di tipo intellettuale, è più facile dimenticare fatti elementari». Come potranno superare i genitori il dolore e un senso di colpa così grave? «Decisivo sarà rendersi conto che siamo tutti colpevoli prima di accorgercene»“ (corsivi miei).
“Vivere al di fuori dei circuiti dell’informazione”, “scegliere solo quello che interessa, facendo una selezione automatica e inconscia delle notizie”: ventidue parole per evitarne una, annullamento, che quando si arriva a ignorare notizie di tale portata è evidentemente in atto. Un modo del Risé, per alludere, almeno, al termine che la struttura Omega, implicitamente, proclama impronunciabile? No: se il Risé con quelle perifrasi avesse voluto, eludendo la “censura”, informare i lettori dell’esistenza della pulsione di annullamento e del suo aver qualcosa a che vedere con le morti di Elena e di Jacopo, non se ne sarebbe uscito, due righe dopo, a incoraggiare l’annullamento ammonendo che meno “investimenti di tipo intellettuale” si fanno, più difficile sarebbe “dimenticare il fatto elementare” che si sta uccidendo un bambino.
Su La Repubblica, ancora il 28, Maria Novella De Luca intervista invece Massimo Ammaniti, docente di Psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza. Che, tra l’altro, afferma:
“Non credo che sarebbe potuto capitare a una madre. Le madri sempre, ma soprattutto nei primi anni di vita, hanno una sorta di sensore biologico, genetico, che le porta a ricordarsi dei figli in ogni caso. Anche in situazioni di forte stress e giornate convulse. Basti pensare al classico esempio: se il neonato piange, la madre si sveglia mentre il padre continua a dormire. La madre, dovunque sia, ha il pensiero alla vita dei figli. [...] Sembra pazzesco, ma è possibile: questi padri, concentrati verso il loro obiettivo, in entrambi i casi il lavoro, hanno del tutto rimosso la presenza dei bambini a bordo. Hanno cioè operato una scissione tra sé stessi e i loro impegni familiari. Un meccanismo comune, ma in questo caso letale. [...] I ritmi folli a cui sono sottoposte oggi le famiglie, bla, bla, bla... [...] Sì, può capitare anche a una persona normale: non sono meccanismi patologici ma situazioni eccezionali, che avvengono e sconvolgono vite assolutamente normali. [...] Ci sono abbandoni evidenti e abbandoni più nascosti, come non ascoltare i bisogni del figlio, arrivare a prenderlo a scuola quando ormai se ne sono andati tutti. Ma questa è una tragedia. E non è figlia né della droga né del degrado, ma della drammatica imprevedibilità della mente” (corsivi miei).
Le solite parole d’ordine della struttura Omega, verrebbe da dire. Se non fosse per quel “non credo che sarebbe potuto capitare a una madre”. Che per un verso fa ridere (parla di natura umana deficitaria, di “drammatica imprevedibilità della mente” umana, ed esclude le donne? Non sono umane anch’esse? Sono animali? Sono aliene?), per un altro gridare alla disinformazione (o, direbbe il Risé, alla “selezione automatica e inconscia delle notizie”, poiché le cronache degli ultimi vent’anni sono piene di madri che, come i padri, annullano i figli a morte in automobili arroventate), ma al contempo intriga, perché (con molta buona volontà) potrebbe esser preso come una velatissima dissociazione dalla struttura Omega nel suo essere, appunto, Ammaniti compreso, composta solo da maschi...
Ma ecco di nuovo Francesco Merlo, sempre su La Repubblica del 28 maggio. Titolo: Perché mi sento vicino a quel papà. Testo, omesse le chiacchiere:
“Sono padre e dunque come madre sono goffo sino alla sbadataggine, sino alla distrazione. [...] Certo, per istinto di autodifesa il mio primo pensiero è stato a me non sarebbe successo. Ma non è vero. [...] Può infatti accadere a tutti i papà7, e soprattutto ai papà più amorevoli del mondo perché sono quelli che hanno il complesso dell’ippocampo, l’unico animale maschio che prende su di sé la gestazione e si occupa lui delle uova. Ma è appunto lì che sta in agguato la disgrazia, nell’avere un cuore troppo grande e due occhi soltanto, nel volere fare quelle mille cose che mia zia “la signorina” avrebbe commentato così: ‘mbriachi e picciriddi, centu occhi li devono guardare. [...] Questo papà è un vivo con la morte addosso. Gli si deve dare amore. Anche se è inutile, anche se non spegnerà il senso di colpa. [...] A un mio amico è accaduto di chiacchierare al telefonino mentre suo figlio di tre anni in piscina perdeva il controllo e veniva salvato da un altro bimbo un po’ più grande. E c’è anche il caso del ci vai tu o ci vado io? che è il primo anello di una catena di sbadataggini che arrivano a valanga, una dietro l’altra, compresa quella di pagare al supermercato mentre il bimbo si allontana e prima si perde tra la folla e dopo raggiunge l’uscita e finisce in strada dove sfrecciano le macchine e dove si salva solo quando, preso dalla paura, comincia a piangere. E dunque bisogna accostarsi e sùbito ritrarsi rispettosamente dinanzi a queste tragedie della distrazione, lasciare al giudice l’impaccio di gestire l’omicidio come un paradosso dell’amore paterno. A noi spetta di dire chiaro e forte che non c’è dolo e che nessuno psicanalista deve permettersi di immaginare padri che inconsapevolmente vogliono liberarsi della paternità e dunque ricorrono alla sbadataggine come a un trucco della coscienza. Abbiamo già letto le loro dichiarazioni, ci auguriamo di non sentirli e soprattutto di non vederli incattedrati a Porta a porta. È la solita intelligenza dei cretini che non è verificabile e dunque non è neppure contestabile. C’è una sola certezza in questa tragedia: è morto il figlio di un padre affettuoso, vittima dell’amore di suo padre. Sul lago Trasimeno le luci dell’amore sono diventate così abbaglianti da oscurare la vista” (corsivi miei).
Quanto è “verificabile” l’intelligenza di un giornalista che dall’alto dei suoi profondi studi psichiatrici (“fonti”: la zia “signorina” che paragona i bambini agli ubriachi e l’amico chiacchierone al telefonino) dà dei “cretini” a “gli” “psicoanalisti”? E poi, a quali “psicoanalisti” dà dei cretini il Merlo, se tutti (tranne Homberg su Left e gli psichiatri che Corriere, Repubblica e Unità hanno censurato) ripetono come cloni le stesse ideuzze stantie che anche lui rimastica? In realtà sono parole di rara brutalità, le sue, perfino minacciose: “nessuno si deve permettere” è un’intimazione da ducetto frustrato che fu messa in voga dal fascismo, “non vogliamo vederli incattedrati a Porta a porta” ricorda l’editto bulgaro berluscìsta contro la libertà di espressione; e quell’”abbiamo già letto” ― quando a nessuno “è stato permesso” (appunto) di manifestare opinioni divergenti da quelle della struttura Omega ― lascia anche troppo capire (lascia con sfrontatezza, con tono di sfida capire) che l’intolleranza, la prepotenza di queste righe è proprio una reazione diretta alle parole di due donne, Annelore Homberg e Ilaria Bonaccorsi, su Left del giorno prima, un ceffone sulle labbra a quelle due “sfrontate”, da “patrigno” fondamentalista, e un’affermazione (altra ideuzza vecchia di secoli, non certo farina del sacco del Merlo, ma che ancora non era stata tirata in ballo) che intensifica la violenza complessiva del “discorso” della struttura Omega: per cui il pericolo sarebbe nell’amore, cioè negli affetti, sarebbero le “luci dell’amore diventate troppo abbaglianti a oscurare la vista”, e i bambini bisognerebbe amarli meno, sarebbe chi li ama che rischia di ucciderli. Così, ed è tipico, nel “discorso” del Merlo la mistificazione della realtà a opera della struttura Omega arriva all’estremo di capovolgerla: non per essere stati annullati Elena e Jacopo sono morti, ma perché i padri, non avendo abbastanza annullato l’affetto per loro, ne sono stati “abbagliati”.
E l’obiettivo della struttura Omega ― riportare, come sempre, gli esseri umani ad annullare sé stessi, ma questa volta fino al punto di credersi potenziali assassini dei propri figli ― sembra perfettamente (e tragicamente) raggiunto nei confronti della signora Tina Lepri, autrice della lettera che segue, trionfalmente esibita come una medaglia al valore da La Repubblica di domenica 29 maggio:
“Credo sia utile, depositando i piccoli a bordo, mettere sùbito un segnale: la sveglia al cellulare o altre possibilità sonore come i contatempo (timer sonori) usati in cucina per non bruciare i cibi. Utile anche un fazzoletto al polso o sul retrovisore: ogni segnale che ci scuota dal torpore assassino che può cogliere ognuno di noi” (corsivo mio).
Passa una settimana e, guarda caso, martedì 7 giugno La Repubblica dedica un triplo paginone... ai bulli. Il senso del quale ― a dispetto dell’apparente non rapporto con la tragedia dei bambini annullati a morte ― è sempre il medesimo, l’obiettivo primo della struttura Omega: la denigrazione estrema dell’essere umano per impedire che l’annullamento sia riconosciuto come la patologia mentale di alcuni esseri umani. Non, cioè, giustificare e proteggere (anziché curare) i padri e le madri assassini, non questo è lo scopo primario, ma giustificare e proteggere (anziché curare) l’annullamento in quanto tale, anche a costo di provocare indirettamente nuove tragedie allontanando il momento in cui la scoperta, la comprensione e la cura della pulsione di annullamento saranno definitivamente riconosciute. Spiccano tra le altre, in quel paginone, le seguenti righe di Michela Marzano, donna che smentisce la speranza nostra (e forse dell’Ammaniti e del Merlo8) che dalla struttura Omega le donne rimangano fuori come per voler conservare all’immagine dell’umano una qualche verità e bellezza:
“Molti adulti continuano a pensare che l’universo dell’infanzia è [sic] un mondo fatto d’innocenza e di gioco. Che la compassione di fronte alle sofferenze è [sic] un sentimento naturale. [...] Peccato che, come ci spiega Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale, da bambini non si ha ancora la capacità di immedesimarsi negli altri e di compatire le loro sofferenze. Le famose “dighe psichiche”, le tre barriere essenziali che strutturano ognuno di noi permettendoci di trovare un equilibrio di fronte alla violenza dei nostri istinti, non ci sono ancora. E spetta agli adulti insegnare ai più piccoli il significato del pudore, del disgusto, della compassione. [...] La barbarie, diceva Freud, è un «tratto indistruttibile» della natura umana, una tentazione sempre presente in ognuno di noi. Compassione ed empatia non sono innate” (corsivi miei).
Michela Marzano, forse (insieme a tutta la struttura Omega) non legge Le Scienze. O almeno non il numero di mercoledì 1° giugno 2011. Dove, in un articolo sull’uso processuale delle immagini cerebrali e di altre prove neurologiche, un’autorità mondiale nel campo delle neuroscienze ― Michael S. Gazzaniga, direttore del SAGE Center per lo studio della mente all’Università della California a Santa Barbara, e già direttore del Law and Neuroscience Project della Fondazione John D. e Catherine T. MacArthur ― racconta una storia vera molto interessante, che merita di essere citata per esteso:
1. “Pur con le molte conoscenze che scaturiscono dalle neuroscienze, i dati recenti delle ricerche sulla mente dei minorenni invitano alla prudenza quando includiamo questa scienza nel diritto. Nel 2005, nel caso Roper vs. Simmons, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha sostenuto che la condanna a morte di un imputato che abbia commesso un omicidio a 17 anni o a un’età inferiore è una punizione crudele e fuori del comune. Basava la sua opinione su tre differenze fra i minorenni e gli adulti: i minorenni soffrono di un’impetuosa mancanza di maturità e responsabilità; sono più suscettibili a influenze negative e sono privi dell’indipendenza per sottrarsi a situazioni negative; inoltre, il carattere di un minorenne è meno formato di quello di un adulto. Nonostante fosse consapevole di tracciare un confine arbitrario, la Corte ha dunque stabilito che nessuna persona di età inferiore ai 18 anni al momento del crimine può essere condannata a morte. Nel maggio 2010 la Corte ha ampliato quella restrizione. Nel caso Graham vs. Florida, ha sostenuto che, nei crimini diversi dall’omicidio, anche il carcere a vita senza possibilità d’uscita per una persona con meno di 18 anni viola la proibizione costituzionale di punizioni crudeli e fuori del comune. Citando informazioni fornite dall’American Medical Association, la Corte ha stabilito che «la psicologia e le neuroscienze continuano a dimostrare differenze fondamentali tra la mente di un minorenne e quella di un adulto»“.
Caso forse unico, la vetusta idea (tanto cara alla struttura Omega) che gli Umani nascano pazzi ― cioè siano pazzi per natura ― e pertanto debbano essere “addestrati” alla “padronanza” di sé (come direbbe il Cancrini), per una volta viene riproposta a vantaggio dei minori: non li si può condannare a morte o all’ergastolo perché, nascendo pazzi e avendo bisogno di tempo per imparare a dominarsi, fino ai 18 anni non li si può considerare “maturi” (direbbe il Cancrini) come gli assassini adulti. E sono “la psicologia e le neuroscienze” ad affermarlo, scrive solennemente la Corte Suprema. Continua Gazzaniga:
2. “Ma con quanta consistenza le neuroscienze e la psicologia danno sostegno a questa teoria? Uno studio di Gregory Berns, Sara Moore e Monica Capra, della Emory University, ha indagato se l’innegabile tendenza dei minorenni ad adottare comportamenti a rischio derivi dall’immaturità dei loro sistemi cognitivi che regolano le risposte emotive. Il gruppo di ricerca ha verificato la teoria usando una tecnologia, l’imaging del tensore di diffusione (DTI), o trattografia, per indagare i tratti di materia bianca che collegano differenti regioni di controllo della corteccia di 91 adoloscenti. Con sorpresa, i tratti dei minorenni che adottavano comportamenti rischiosi avevano un aspetto più adulto di quelli dei coetanei più avversi al rischio. Le neuroimmagini han dunque presentato un risultato esattamente contrario rispetto alle tradizionali prospettive scientifiche e giuridiche sulle capacità dei minorenni” (corsivi miei).
“Con sorpresa”, è proprio il caso di dirlo (ma più della struttura Omega che nostra) si scopre dunque che ciò che induce alcuni minorenni ad “adottare comportamenti rischiosi” non è la cosiddetta “immaturità” di cui parla il Cancrini, non è cioè il fatto che, per i loro pochi anni, essi sarebbero ancora vicini alla “naturale pazzia umana” con la quale, “come accadrebbe a tutti”, sarebbero venuti al mondo: no, è vero l’opposto, è proprio una certa “maturità” (la “maturità” precoce e violenta dei bambini odiati e disprezzati da adulti convinti che il bambino vada annullato e “superato” dall’adulto “padrone di sé”) il maggior fattore di predisposizione ad adottare comportamenti autodistruttivi e distruttivi9.
Arriviamo, così, a Internazionale del 17 giugno. Che ripubblica, col titolo Bambini dimenticati, un articolo di Gene Weingarten, Fatal distraction: forgetting a child in the backseat of a car is a horrifying mistake. Is it a crime?, uscito sul Washington Post più di due anni prima; dal quale, come dicevamo all’inizio, abbiamo appreso che negli Stati Uniti l’assassinio dei bambini in auto, vent’anni fa poco frequente, oggi si verifica tra le 15 e le 25 volte all’anno, tra la primavera, l’estate e l’inizio dell’autunno.
Tale articolo, importante poiché ci segnala la gravità che l’annullamento a morte dei bambini ha raggiunto nel Paese che il nostro è solito seguire a ruota, lo è forse ancora di più nel rivelarci che le campagne mediatiche contro la scoperta della pulsione di annullamento, e quindi a favore dell’annullamento, non sono un’esclusività nostrana, e che la struttura Omega (cioè, fuor di metafora, la schiera di intellettuali, psichiatri e giornalisti impegnati non a confutare ma a nascondere tale scoperta) non opera solo in Italia e in Europa, ma in tutto l’Occidente. Ecco, per esempio, argomentazioni analoghe a quelle, analizzate nelle pagine precedenti, con cui anche da noi si cerca di suffragare, riverniciando vetuste teorie sulla “naturale” follia umana, l’idea che far morire un bambino sia cosa che “può accadere a chiunque”:
“David Diamond prova a spiegare: «La memoria è una macchina, e non è infallibile. La nostra mente cosciente ordina le cose a seconda della loro importanza, ma a livello cellulare la memoria non procede così. Chi dimentica un telefonino può dimenticare anche un figlio». Diamond è docente di fisiologia molecolare alla University of South Florida di Tampa e consulente presso il James A. Haley veteran hospital della stessa città. È a Washington per un convegno in cui presenterà la sua ricerca sugli incroci tra emozioni, stress e memoria. Diamond ha scoperto che, in certe circostanze, la parte più raffinata del nostro centro di elaborazione del pensiero può essere presa in ostaggio da un sistema di memoria concorrente, un’area primitiva del cervello, antica quanto i dinosauri, che è per definizione disattenta, cocciuta, non analitica e stupida. Il cervello umano, spiega Diamond, è una macchina meravigliosa ma di fortuna, in cui le strutture più recenti e raffinate stanno sopra un mucchio di prototipi di cervelli ancora usati da specie inferiori10. Nella macchina troviamo per prime le parti più sveglie e intelligenti: la corteccia prefrontale, che pensa e analizza, e l’ippocampo, che crea e custodisce i ricordi a breve termine. Sotto ci sono i gangli di base, molto simili al cervello delle lucertole, che controllano le azioni volontarie ma quasi inconsce. Secondo Diamond, quando una situazione richiede gesti automatici e di routine, l’animale umano fa entrare in gioco i gangli di base nel ruolo di pilota ausiliare automatico. Mentre la corteccia prefrontale e l’ippocampo sono impegnati a programmare la nostra giornata, i gangli di base, ignoranti ma efficienti, guidano la macchina. Ecco perché càpita di andare da un punto A a un punto B senza ricordare bene che strada abbiamo fatto, dove abbiamo svoltato e cosa abbiamo visto durante il tragitto. Normalmente, osserva Diamond, questa delega dei compiti «funziona a meraviglia, come una sinfonia. A volte, però, si trasforma nell’Ouverture 181211. I cannoni prendono il sopravvento e coprono il resto». In un esperimento Diamond ha messo alcuni ratti a contatto con dei gatti e ha registrato le variazioni elettrochimiche nei cervelli dei roditori. Ha scoperto che lo stress, improvviso o cronico, può indebolire i centri alti del cervello, rendendoli più vulnerabili alle aggressioni da parte dei gangli di base. E ha notato lo stesso tipo di meccanismo nei casi di bambini dimenticati in macchina. «Il livello di premura del genitore non sembra avere alcun peso,» osserva. «Quello che gioca, ogni volta, è un misto di stress, emozioni, carenza di sonno e cambiamenti nella routine. I gangli di base cercano di svolgere il loro compito, e la mente cosciente è troppo debole per resistere. A quel punto i circuiti della memoria nell’ippocampo indebolito vengono letteralmente sovrascritti, come in un programma informatico. Se il circuito della memoria non viene riavviato ― per esempio dal pianto del bambino o da una battuta della moglie ― può sparire completamente»“ (corsivi miei).
Ovviamente, i cervelli delle lucertole e dei ratti non sono umani: studiarli come se lo siano significa annullare l’oggetto della ricerca prim’ancora di iniziarla: un po’ come cercar di capire l’esperienza artistica osservando il comportamento di un gatto cui siano state intinte le zampe nella vernice, o i ghirigori di una scimmia cui si sia insegnato a servirsi di un pennello. Ma il “discorso” del Diamond appare del tutto fallace anche volendo (per assurdo) immedesimarsi nel delirio di voler esaminare la mente umana nel cervello del ratto. Diamond, infatti, prima dice che “l’animale umano, quando una situazione richiede gesti automatici e di routine, fa entrare in gioco i gangli di base nel ruolo di pilota ausiliare automatico” e poi, tranquillamente, “dimentica” che la vita o la morte di un figlio non sono routine (e dunque non si capisce perché i “centri alti” del cervello dovrebbero affidarle ai “gangli di base” insieme al volante e al cambio) e, per “dimenticare” di averlo “dimenticato”, capovolge ciò che ha detto e afferma che non sono i “centri alti” ad “affidare” compiti ai “gangli di base”, ma i “gangli” ad “aggredire” i “centri alti” e a prendersi i compiti che vogliono. E il “bello” è che entrambe le versioni non hanno senso: o i “gangli di base” si attivano da sé e fanno quello che gli pare ― ma in tal caso anche i compiti che possono assumersi sarebbero predeterminati, e le questioni di vita o di morte non sarebbero tra di essi poiché richiedono la massima elasticità e adattabilità di cui l’organismo dispone ― oppure sono i “centri alti” ad “affidare” i compiti “di routine” ai “gangli di base”, e in tal caso mai e poi mai affiderebbero loro la vita e la morte di un figlio.
Ma ciò che più colpisce, nel Weingarten, più che il ricorso, come nella nostra struttura Omega, alle solite bimillenarie “teorie della mente umana” ridotte ormai a litanie, è la sottile ambiguità con cui, quasi a ogni riga, il vincitore del Pulitzer 2010 prende le difese letterariamente (cioè non esplicitamente, tentando di convincere a viso aperto il lettore, ma servendosi di espedienti formali, lessicali, stilistici, come un pubblicitario che vuol persuadere “subliminalmente”) dei tredici genitori assassini da lui intervistati per l’articolo. L’esempio che segue non è sufficiente, da solo, a illustrare a fondo questo punto ― soltanto la lettura dell’intero articolo può comunicare la volontà che lo permea, più che assolutoria, soprattutto tranquillizzante e, per così dire, anestetizzante ― ma basterà a darne un’idea:
“Molte persone sono andate a prendere il figlio all’asilo nido convinte di averlo lasciato lì la mattina, senza notare il corpicino sul sedile posteriore. Un padre dovrà convivere con questo ricordo: il sensore di movimento della sua auto scatta tre volte. Lui guarda fuori, dove brilla un sole cocente, ma non vede nessuno trafficare con la sua macchina. Così disattiva l’allarme e se ne torna in ufficio” (corsivi miei).
Cosa c’entra qui il “dimenticare”? Chi ritrova “il portafoglio” dimenticato (per citare un oggetto che il Cassano definisce “importantissimo”) lo butta forse via e se ne va? Ma ciò che più conta, in questo brano (ed esemplifica, appunto, la sottile ambiguità dell’intero articolo) è quel “guardar fuori” del padre che, lasciando pensare al lettore che l’intera scena si svolga lontano dalla macchina, attenua l’impressionante portata della riga successiva, dalla quale al contrario si evince che l’uomo si è avvicinato, per disattivare l’allarme, all’auto in cui il bimbo era ancora così vivo da scuoterla con i propri movimenti.
Ma l’intento delle campagne mediatiche, di qua e di là dell’Atlantico, non è (lo ripetiamo) difendere i genitori assassini. Questo è, naturalmente, il legittimo intento dei genitori stessi e dei loro avvocati (scelti, e non mi pare un dettaglio da poco, sempre fra i più famosi e costosi12). L’intento della struttura Omega invece è: in prima istanza, far sì che della scoperta della pulsione di annullamento, nonché della patologia mentale a cui tale pulsione dà luogo, venga a conoscenza il minor numero di persone possibile. In seconda istanza, far sì che la scoperta medesima (agli occhi di chi, per sua capacità di ricerca o per fortuna, riesce ugualmente a venire a sapere di essa) sia il più possibile screditata: non però confutandola scientificamente, ma spacciandola per irrilevante col fingere (delinquenza) o con la “sincera” convinzione (annullamento, pazzia) che essa non sia mai avvenuta. In terza istanza (ed è qui, quando precipita nel grottesco, che l’intento della struttura Omega può essere smascherato) classificando come “dimenticanza” ogni annullamento, perfino l’annullamento a morte di un bambino, e aggrappandosi (pur di non ammettere che si tratta di una grave patologia mentale che però, se contrastata in tempo, è curabile) alle vetuste idee deliranti, più volte analizzate nelle pagine precedenti, del “diavolo dentro”, della “naturale follia umana” o della “imperfezione del cervello”, brandite come insormontabili tabù.
L’intento, insomma, è quello di “dimenticare” e far “dimenticare” che esiste ed è stata scoperta la pulsione di annullamento. L’intento, cioè ― finendola, una buona volta, di stravolgere il termine dimenticare ― è quello di annullare la scoperta stessa. Senza curarsi di contribuire, così, alle morti che ogni ritardo nel riconoscimento di essa potrà causare. E la domanda, a questo punto, è: a che scopo? Perché una così gran parte dell’intellettualità, della cultura e dei media si schiera dalla parte dell’annullamento? Di più: perché è così tanto per l’annullamento da diffondere attivamente teorie e argomentazioni, per effetto delle quali si tarderà ad agire per impedire che altri bambini muoiano?
Il fatto è che la scoperta dell’annullamento come patologia mentale (curabile, se contrastata in tempo) è anche la scoperta che non vi è alcuna congenita “imperfezione” (né tanto meno diavoli) negli esseri umani. Scoprire che gli esseri umani possono ammalarsi nel corso dell’esistenza, infatti, è scoprire che gli esseri umani non sono malati fin dalla nascita: che non si nasce malati di mente, cioè, ma si può diventarlo se si verificano determinate condizioni; e che, perciò, non tutti sono malati di mente, ma solo chi, da un certo momento in poi e più o meno gravemente, si è ammalato. Ed è qui che incontriamo la risposta ai nostri perché, e comprendiamo che non è tanto la pulsione di annullamento che gli esponenti della struttura Omega difendono ― sebbene ovviamente anch’essa, non volendo saperne di scoprire fino a che punto la agiscano essi stessi ― ma soprattutto l’immagine negativa degli esseri umani (come esseri naturalmente capaci di tutto) che la mancata scoperta della pulsione di annullamento continuerebbe a rendere “credibile”. È l’immagine negativa degli esseri umani il totem supremo, il Dio onnipotente difeso con le unghie e coi denti da tutte le religioni, da quasi tutte le filosofie e le ideologie nonché dai mucchietti di ideuzze che l’annullamento secerne nelle menti che si ammalano. Poiché l’immagine negativa degli esseri umani è l’unico fondamento del potere sugli esseri umani, e poiché rinunciare a essa sarebbe la fine di ogni forma di potere sulla faccia della Terra13.
I bambini non vengono “dimenticati” in auto. I bambini sono annullati a morte. Ma la malattia mentale che annulla a morte non viene riconosciuta né curata, e la scoperta della pulsione di annullamento viene occultata, cioè essa stessa annullata, per non riconoscere che si nasce sani di mente, e che sani si può rimanere se non si viene esposti all’annullamento altrui e si viene curati se ci si ammala di annullamento. Per non riconoscere che l’ideologia dell’ineluttabile necessità del potere è la malattia dei malati più lucidi e violenti, che la occultano e la perpetuano a vantaggio del potere più o meno devastante che essa conferisce loro contro gli altri malati e contro la stragrande maggioranza dei sani.
Poiché l’annullamento conferisce sempre un qualche potere sugli altri, e il potere, grande o piccolo che sia, è sempre dall’annullamento. Solo annullando si arriva a ridurre sé stessi e gli altri a mezzi per conseguire utili e ancora una volta potere. Solo annullando si può esercitare violenza o arrecare danno o nocumento anche solo per omissione. Solo annullando si può “padroneggiare” e controllare sé stessi e gli altri come se l’umano, anziché creativo, fosse determinabile; anzi: solo annullando si può anche solo immaginare di imporre un potere violento su esseri naturalmente liberi. Solo annullando si può cancellare la storia altrui e propria che altrimenti racconterebbe a tutti e per sempre come si è ammalato chi si è ammalato e come si è mantenuto sano chi sano è rimasto o è tornato a essere. Solo annullando si può distorcere e impoverire e capovolgere il significato delle parole che altrimenti non potrebbero mentire raccontando la storia umana. Solo annullando si può mentire agli altri e a sé stessi così abilmente da giungere alla totale pazzia d’esser perfettamente sinceri mentendo.
E dunque sì: dal minuscolo cacicco di paese, sù, sù, fino ai grandi apparati ideologico-mediatici, molti tentano (consapevolmente?, inconsapevolmente?: non importa, l’importante è che ne siamo consapevoli noi) di renderci sempre più annullanti, cioè più anaffettivi, immemori, stupidi, contro noi stessi e contro gli altri, per imporre e consolidare, su di noi e contro di noi ― resi schiavi, prim’ancora che fisicamente, mentalmente, dalle camicie di forza mentali cui di nostra volontà e perfino con sollievo ci sottomettiamo ― il potere minuscolo o grande che faccia sentire loro superiori e noi inferiori. In “cambio” elargendoci briciole di quello stesso potere da far valere, a nostra volta, su e contro chi è più “debole” e “fragile” di noi poiché non ha tramutato in insensibilità gli affetti e in un biascicar litanie l’intelligenza: le donne, i bambini, gli amici che ci vogliono bene più di quanto noi ne vogliamo loro.
P.s.: è probabile, naturalmente, che la struttura Omega non esista, e che non occorra ipotizzare “complotti” per spiegare la sempre ricorrente, impressionante uniformità delle campagne mediatiche per l’annullamento degli esseri umani. Il “prodotto” dell’annullamento è infatti il nulla, e il nulla non può che essere identico sotto ogni cielo e in ogni suo adepto. Ma con le mille differenze tra individuo e individuo che permangono negli annullanti nella misura in cui essi, quasi mai essendolo del tutto, conservano i più o meno vivaci e personali colori di quel che in loro è sano.
Left, venerdì 17 giugno, scrive Massimo Fagioli:
“Sono accadute, settimane fa, due tragedie, ovvero che due padri hanno lasciato nell’automobile i figli di due e un anno circa. Si è acceso un dibattito in cui alcuni hanno sostenuto che la realtà umana è quella che la Bibbia, il Logos greco, l’illuminismo ed il cristianesimo hanno, sempre d’accordo, detto essere. La pazzia è dentro l’uomo, il vuoto e la follia è nella normalità. “Può accadere a chiunque”. Le parole distrazione, dimenticanza, regnarono sovrane e apparve chiaramente che veniva manifestato un pensiero orrendo che “vedeva” una uguaglianza tra dimenticare le chiavi di casa, o gli occhiali per leggere, e “dimenticare” un bambino. Ma vidi Left in cui una pagina, divisa verticalmente a metà come fossero due donne alte, diceva No scuotendo la testa come fosse la ricreazione del movimento del bambino che rifiuta il latte velenoso. Pensai, oltre l’immagine inconscia non onirica, alla fantasia di sparizione contro il mondo non umano. Pensai che, ora, le donne possono ribellarsi alla sapienza dell’uomo che è soltanto potere e dominio. Sanno distinguere gli occhiali da un bambino, perché conoscono la pulsione di annullamento che è anaffettività nel rapporto con la realtà umana. Dissero che non ricordare il bambino fu distrazione, dimenticare. L’avevano detta “scientificamente” rimozione. Hanno deformato il significato della parola che parla dello spostamento di un oggetto nello spazio. Nella mente fu tolto il senso alla parola sparizione che farebbe una non esistenza. Ero perplesso quando le donne, cadute nella depressione, mi dicevano “ho perso la vitalità”. Nella tristezza della sofferenza vedevo un parlare poetico che mi affascinava come se la donna avesse sempre saputo... sentito un qualcosa dell’essere umano che la ragione dell’uomo non aveva mai voluto sapere. [...] Vedevo spesso che splendidi corpi di ragazze adolescenti nascondevano in loro la stanchezza di una vecchiaia precoce. Poi nel tempo, come gocce che, cadendo su una roccia con un ritmo costante, fanno una piccola cuna per il polpastrello dell’indice che scrive unito al pollice, vennero i pensieri verbali che dissero: fantasia di sparizione. E volevo correre indietro nel tempo per baciare la mano della donna che non aveva scritto la poesia “Non sono nata così, mi sono ammalata, non posso amarti, fallo tu che puoi”. Avevano detto soltanto “ho perduto la vitalità”. Ora ho letto che le donne sanno che l’anaffettività e quindi la pulsione di annullamento si ha quando si perde la cosa invisibile che dà la possibilità di vita. Ed essa torna con la luce che fa fare il rifiuto del pensiero violento”.
(Anticoli Corrado, 8 giugno – 28 luglio 2011) [1] Ma se quel che ci rende umani è un miraggio, allora nessuno, neanche un bambino, ha un qualche valore da opporre al disegno divino, che solo conta...
[2] Come reagiremmo se, dinanzi a un nuovo morbo contagioso e mortale, gli scienziati e i medici, anziché cercare di individuare l’agente patogeno e mettere a punto una terapia, ci invitassero a essere appassionati, fermi, pieni di dolore, pietosi, dolci, comprensivi e straordinari? Non ci sembrerebbe di essere sprofondati in un incubo?
[3] Egle Becchi, L’Antichità, in AA VV, Storia dell’infanzia, volume I, Dall’Antichità al Seicento, a c. di E. Becchi e Dominique Julia, Laterza, Bari, 1996, p. 27.
[4] Jean-Pierre Néraudau, Il bambino nella cultura romana, in Storia dell’infanzia, vol. I, cit., pp 32-33 e 47-48.
[5] Il Cancrini conosce la pulsione di annullamento, poiché nell’autunno del 1975, per alcune settimane, frequentò l’Analisi collettiva di Massimo Fagioli. La conosce ma... vuol far finta di non conoscerla? Non vuole che la conoscano i lettori de L’Unità? L’ha “dimenticata”? L’ha annullata?... E però non riesce a “dimenticarla” del tutto (riceve tante lettere, perfino tra i suoi ex allievi c’è chi gliela ricorda, la “macchina” in cui l’ha lasciata si muove in continuazione, l’allarme non fa che suonare) e lui, costretto a rammentarla e magari perfino a pensarci sù... si riempie di rabbia? Così sembra, dai toni sempre più furibondi con cui ripropone il “suo” millenario disprezzo per l’Umanità: “presuntuosamente abbiamo definito come sapiens la razza di scimmie cui ci è capitato appartenere” scrive, su L’Unità di martedì 26 luglio, commentando la strage compiuta da Anders Behring Breivik in Norvegia.
[6] Salvo la “cura”, detta anche soluzione finale, rappresentata dallo sterminio. Che sia proprio qui che si vuol andare a parare?
[7] Anche il Merlo, come l’Ammaniti ― sia pure nel contesto di un “discorso” molto più violento di quello dell’Ammaniti ― allude dunque alla possibilità che alle donne non possa accadere. E di nuovo vien fatto di domandarsi se questa affermazione, apparentemente assurda, non possa invece esser vista (ripetiamo, con molta buona volontà) come una minuscola, inconsapevole, proposta di apertura di dialogo con gli “intelligenti cretini” (come li definisce il Merlo) che rifiutano l’idea della naturale follia degli esseri umani. Una proposta del tipo: “Se noi accettiamo che nascano sane le donne, voi ci lasciate seguitare a credere che nascano malati i maschi?”
[8] Cfr. nota 7.
[9] Conclude, imperturbabile, Michael Gazzaniga: “3. Se ulteriori ricerche alimenteranno queste conclusioni, il diritto potrebbe considerare i delinquenti minorenni secondo gli stessi criteri di punibilità degli adulti. In alternativa, il giudice potrebbe richiedere che i minorenni condannati per un reato siano sottoposti alla DTI o a una nuova tecnologia futura che stabilisca se la struttura della loro materia bianca è simile a quella degli adulti. E i risultati di un test di questo tipo potrebbero indirizzare la corte nel formulare la sentenza”.
[10] Qualcuno ha visto una “specie inferiore” “dimenticare” la prole? Divorarla magari sì, ma “dimenticarla”? (Nota mia).
[11] L’Ouverture 1812 è una composizione per orchestra di P. I. Čajkovskij che “narra” l’invasione francese della Russia e la conseguente devastante ritirata dell’armata di Napoleone, un evento che fece del 1812 l’anno di svolta delle guerre napoleoniche. L’opera è conosciuta per la sequenza di colpi di cannone, realizzata solo in alcune occasioni (specialmente durante festival all’aperto) usando cannoni veri. Benché la composizione non abbia collegamenti storici con la guerra del 1812 fra Stati Uniti d’America e Gran Bretagna, è spesso suonata negli USA assieme ad altre musiche patriottiche. (Da Wikipedia).
[12] Un padre, le cui prime parole dinanzi al giudice sono che “non vuole sedativi, non merita alcun sollievo dal dolore, vuole sentire tutto e poi morire”, ha nondimeno “ingaggiato un avvocato molto costoso” (ma le due frasi tra virgolette, nell’articolo del Weingarten, sono separate da tre colonne di piombo in cui si parla di altre persone e si svolgono varie considerazioni di carattere generale). Mentre una madre, che adesso gira gli Stati Uniti per incoraggiare “con aria di sfida” altri genitori assassini e per offrire il proprio utero ai più anziani tra loro, privati del diritto di adottare bambini, “aveva assunto un famoso avvocato penale” per sfuggire all’imputazione di omicidio di secondo grado: tanto famoso che, per pagarne la parcella, “il marito è dovuto partire per l’Iraq per guadagnare di più”.
[13] Compreso l’infinitesimale potere che rende così facile, così anaffettivo, ai vari Cancrini decidere senza rovelli interiori ― onde mantenere, perpetuare e accrescere il potere medesimo ― quali lettere pubblicare e quali no. |
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