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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Capi, capetti, caporali

 

di Luigi Scialanca

 

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Cosa c’è che non va? I capi.

 

In ogni impresa, in ogni attività, in ogni luogo, ovunque cerchiamo di realizzare qualcosa insieme, ecco che arrivano i capi.

 

Chi sono? Sono quelli che nella vita non sono riusciti né a stare insieme né a far da soli. Perciò vengono a infastidire noi, a ostacolarci, ad addolorarci, a farci fallire.

 

A far di tutto per sfasciare tutto.

 

Non capi, no: “caporali”, nell’accezione che diede al termine il grande Totò.

 

Un capo vero andrebbe scritto con la C maiuscola, poiché è l’opposto del “caporale”.

 

Il potere di un capo vero è il valido potere che può emergere in ognuno, anche in una vecchia cadente, anche in un bambino, in ogni momento: nel pericolo o nel lavoro o nel gioco, insorge spontaneo, inatteso anche dall’uomo o dalla donna che all’improvviso si trova a detenerlo in virtù del fatto che proprio allora, in quella particolare situazione, ella o egli danno prova di essere i più bravi a guidare tutti.

 

Capo vero, cioè, è chiunque riesce a motivarci, organizzarci e guidarci per il meglio in una determinata situazione. Egli (o ella) non sa di essere un capo finché quella situazione non si presenta. Ma a quel punto scopre di esserlo poiché noi spontaneamente cominciamo a seguirlo, e poiché lui (o lei) non è capace di tirarsi indietro. Un capo vero, infatti, non ha subordinati, né fedeli, ma donne e uomini liberi che lo riconoscono capo soltanto finché lo è. Rimane capo finché ci sentiamo portati a seguirlo, insomma (per un istante, o per mesi, o per anni) e smette di esserlo non appena non lo seguiamo più. Un capo vero, anzi, talvolta non scopre mai di essere il nostro capo, poiché noi, per dispetto o per prudenza, ci guardiamo bene dall’informarlo.

 

A un capo vero, infine, per tutto il tempo in cui rimane capo, tocca spesso sopportare, come a noi e anche più, le meschine vessazioni dei “caporali” che naturalmente non lo riconoscono capo, o non sarebbero “caporali”. E che, spalleggiati da “caporali” di grado più alto (i “caporali” si ammucchiano in gerarchie senza fine né senso, tanto più distinti l’uno dall’altro da stipendi, mostrine, privilegi, salamelecchi et similia quanto più sono invece identici in viltà, malvagità e stupidità) credono di poter dare ordini a tutti gli altri. Cioè a chi vale più di loro. Cioè a noi.

 

Mi scuseranno, spero, i caporali di mestiere. Non ce l’ho con loro: fui anch’io caporale e perfino caporalmaggiore, da militare di leva (l’Esercito mi fece caporale nel tentativo di farmi impazzire, indispettito dal fatto che, per non trovarmi a dare ordini, avevo chiesto di rimanere soldato semplice) e ricordo quanto faticavo, ogni giorno, per convincere i “sottoposti” che “caporale” non ero.

 

Prima di andare avanti, però, cara lettrice o lettore, ti chiedo di non dimenticare che anche il “tuo” (o “tua”) “caporale” è umano, per quanto la caporalaggine l’abbia guastato (o guastata) sia dentro che fuori. Ha diritto anche lui, dunque (o anche lei) al rispetto (il vero rispetto, che i “caporali” non sanno cosa sia) che a ogni essere umano è dovuto, anche a chi non è riuscito a rimanere ad altezza umana. Non puoi e non potrai, cara lettrice o lettore, trattare il “tuo” (o “tua”) “caporale” come una bestia, neanche se un bel giorno i rapporti di “forza” si invertiranno: altrimenti diventeresti “caporale” al posto suo, e per la tua salute mentale sarebbe molto peggio che trovarti “sotto” di lui (o di lei). No: in quanto umano rispetta il “tuo” (o “tua”) “caporale” sempre, anche mentre, per il bene di entrambi, gli (o le) toglierai il miserabile rispetto da “subordinato” che credevi di dovergli (o di doverle). Non dimenticare che il “tuo” (o “tua”) “caporale” soffre di una malattia mentale penosa, benché non lo sappia, e che i malati di mente sono umani anch’essi. Perfino se fanno di tutto per sembrare e diventare mostri.

 

Che tipo di malattia? È presto detto: il “caporale”, reagendo in modo autodistruttivo alle disumane vicende della propria vita, si è reso incapace di autentici rapporti umani. Terrorizzato dal rapporto, è arrivato a odiarlo. A vedere gli altri ― cioè noi ― come nemici da sottomettere, controllare, manipolare più o meno astutamente. Non capisce ― e, se non si cura, non capirà mai ― che sottomettere, controllare, manipolare gli altri significa tentare di farli fallire e, al limite, impazzire. Anche quando crede, “in buona fede”, di agire con le migliori intenzioni, il “caporale” avvelena, rovina e distrugge. Anche quando, nascondendo le zanne e gli artigli fino a non saper più di averli, incanta sé e noi con parolette melliflue imparate a memoria e con ideuzze “condivisibili” ripetute alla carlona.

 

E tuttavia Vittorini sbagliò, domandandosi: “Uomini o no?” Gli uomini, ripeto, sono uomini tutti. Perfino i “caporali”. No, il (o la) “caporale” non è una bestia: è ciò che resta di un uomo (o di una donna) che si è reso mostruoso. Ma questo non lo giustifica, se si comporta peggio di una bestia: gli animali non sono colpevoli di non essere umani, ma gli uomini (e le donne) lo sono moltissimo se si rendono disumani.

 

La prima cosa che devi sapere, per difenderti dai “caporali” perdendo loro ogni “gerarchico” rispetto, è che i “caporali” non sono forti. Al contrario: sono così deboli, che in ogni frangente in cui dovrebbero essere all’altezza del ruolo si rivelano privi di spina dorsale. Ma possono sembrare molto “in gamba” quando fanno i prepotenti (o gli scaltri dissimulatori) coi sottoposti, poiché allora una fantomatica “forza” viene loro dall’esterno e li “carica”, come accadeva alle morte ranocchie di Luigi Galvani quando le attraversava la corrente elettrica: quella “forza” è il sostegno degli altri “caporali”, da un lato, e dall’altro il servilismo di chi, poveretto, crede al delirio dei “caporali” che tutti si debbano sottomettere a loro e servirli e riverirli perché... loro vogliono così.

 

Intendo dire che è la tua ubbidienza che rende “forte” il “tuo” (o la “tua”) “caporale”. Se smetti di ubbidire, lui (o lei) non sta più dritto neanche su una sedia: lo (o la) vedresti afflosciarsi come un pupazzo di stracci. Come se tu, con un sol colpo, l’avessi magistralmente disossato.

 

Smettere di ubbidire? Ma come si può, come si fa? Si può e si fa, cara lettrice o lettore: smetti di ubbidire dentro di te ― smetti, cioè, di rispettare il “tuo” (o la “tua”) “caporale” non come essere umano, ma come se davvero ti fosse “superiore” ― e l’ubbidienza sparirà come per incanto.

 

Non potrai e non lo farai, però, finché non sarai calmo. E non sarai calmo finché non ti libererai del (o della) “caporale” che è in te: della caporalaggine che fa credere anche a te (benché molto meno che ai “caporali”, o saresti “caporale” anche tu) che “le cose”, tra gli esseri umani, si ottengano con la forza. O con quella forma apparentemente attenuata di forza che sono gli ordini. O con quella forma apparentemente attenuata di ordini che sono le leggi e i regolamenti. O con quella forma apparentemente attenuata di legge che è la fede in una fantomatica entità “superiore”.

 

Non è così. “Le cose”, fra noi esseri umani, non si ottengono sottomettendo. Con la forza, con gli ordini, con le leggi e con le fedi si ottiene (tutt’al più) un’orrenda, grottesca parodia di realizzazioni. Per il semplice motivo che “le cose” non sono cose: sono rapporti interumani.

 

La sottomissione, ripeto, danneggia gravemente i rapporti umani. Li fa soffrire, li fa impazzire, li fa fallire: anche in minime dosi.

 

I rapporti umani sono creazioni dell’immaginazione reciproca, incontri e scontri, affetti in conflitto, armonie e disarmonie. Riescono, “funzionano”, solo se nessuna costrizione viene esercitata.

 

Tutto può essere superiore, anche se non per sempre, nell’uno o nell’altro soggetto del rapporto (uno può essere più bello, più dotto, più intelligente, più creativo) ma non il “diritto” al potere, al comando, a imporre la propria volontà: quella “superiorità” è sempre falsa.

 

Sotto il potere, la forza, l’ordine, la legge, la fede, non c’è impresa, non c’è opera, non c’è realizzazione umana che possa più farsi o, se già è stata fatta, restare in piedi. Il potere, infatti, viene creato ed esercitato dai “caporali” non affinché “le cose” siano realizzate, ma perché falliscano e crollino. “Caporali” e capetti sono gli agenti, consapevoli o inconsapevoli, dell’odio, dell’invidia, della maligna volontà dell’altrui insuccesso. Anzi, dell’insuccesso dell’intera Umanità sulla Terra.

 

Per questo e non per altro, ovunque tu sia, hai un (o una) “caporale” “sopra” di te: perché tu, e tutti, falliate e andiate in rovina. E tu e i tuoi compagni per questo gli (o le) resistete: poiché (e nella misura in cui) i veri capi (quelli con la C maiuscola) siete voi.

 

Il capo vero, infatti, si riconosce anche da ciò: resiste ai “caporali”, ed essi lo odiano. Osserva i tuoi colleghi, cara lettrice o lettore, scopri chi è più antipatico ai “caporali” e ricordati di lui (o di lei): in caso di emergenza diverrà (finché l’emergenza dura) il miglior capo che tu possa augurarti.

 

Se vuoi smettere di ubbidire come uno stupido (o una stupida) al “tuo” (o alla “tua”) “caporale”, dunque, devi perdere il rispetto non umano, lo stupido e umiliante “rispetto” da subordinato a superiore, che fin da bambino ti fu inculcato da chi istillava in te la stupida e umiliante menzogna che vi sia “Qualcuno”, nell’Universo, al di sopra dell’essere umano.

 

Ma non vi è che un modo di perdere, con calma, il rispetto ai “caporali”: accrescendo il rispetto per te stesso (o per te stessa) fino a ridurre a zero il tuo “rispetto” malsano per loro. È lo scopo di questo scritto: aiutarti a capire che il “tuo” (o “tua”) “caporale” non è “caporale”, come ti hanno fatto credere, perché è più in gamba di te. Al contrario: è “caporale” perché è meno in gamba di te. Meno umano.

 

Il vero capo del “tuo” (o della “tua”) “caporale”, cara lettrice o lettore, se la Società fosse organizzata umanamente, saresti tu.

 

Nell’antichità, forse, quando i capi venivano da famiglie privilegiate e pertanto erano gli unici a essere trattati (più o meno) come esseri umani (anche se ho forti dubbi su individui come Achille o Agamennone), allora forse erano davvero “i Migliori” (come dicevano loro) e i sottoposti che non li rispettavano erano forse davvero dei Tersite. Ma oggi non più. Oggi i “caporali” sono capi soltanto perché valgono meno di te. E tu non lo sei soltanto perché vali più di loro.

 

Una volta che avrai capito e sarai certo (o certa) che il “tuo” (o “tua”) “caporale” non merita di esserlo, cara lettrice o lettore, e occupa la posizione che occupa solo perché è il servo (o la serva) di altri “caporali”, diffondi questa certezza fra i tuoi colleghi. Con la parola e soprattutto con l’esempio. Non chiedere mai un favore al “tuo” (o alla “tua”) “caporale”, neanche per salvarti la vita. Non offrirti mai volontario (ma aiuta i tuoi colleghi ogni volta che puoi). Non aiutare il “tuo” (o la “tua”) “caporale” in alcuna cosa, mai, poiché, qualunque cosa ti chieda, puoi star certo (anche se il/la “caporale” non sempre se ne rende conto) che te la chiede per la rovina di tutto ciò che tu e i tuoi colleghi state cercando di realizzare. Infine, rispetta le norme che non entrano in conflitto con i tuoi sentimenti. Lo so, ogni norma, da chiunque emanata, è una forma di caporalato. Ma a quelle che corrispondono alla tua umanità e ai tuoi affetti non contravvenire soltanto perché sono norme: danneggeresti non le norme, ma la tua umanità e i tuoi affetti! (E infischiatene se gli stupidi crederanno che le rispetti per loro stesse). Anche, del resto, per non fornire ai “caporali” qualche sciocco e gratuito pretesto per colpirti.

 

“E se ai miei affetti vien voglia di danneggiare e far soffrire qualcuno?” potresti obiettare. Be’, ciò vorrebbe dire che sei un (o una) “caporale” dentro, anche se lo ignori. E in tal caso non avresti affetti, dovresti curarti e, finché non sarai guarito dalla caporalaggine, rispettare tutte le norme.

 

Quando (e se) la maggioranza dei tuoi colleghi avrà aperto gli occhi, cara lettrice o lettore, l’unica vostra reazione a qualsiasi atto o parola del (o della) “caporale” sarà una sonora risata. A meno che il (o la) “caporale” non scoppi un bel giorno a piangere sinceramente ― segno di pentimento ― la sola reazione che egli (o ella) può suscitare in una collettività sana è il riso. Non si può che ridere, cara lettrice o lettore, di un buffone pazzo (o di una buffona pazza) che crede di poter dare ordini (anziché chiedere cortesie) solo perché altri buffoni pazzi dicono che è così che deve essere.

 

Immagino la tua obiezione: il (o la) “caporale” reagirà violentemente, e per me saranno guai.

 

Parliamone.

 

Il (o la) “caporale” può reagire solo in due modi all’evidenza della tua insubordinazione interiore, all’evidenza, cioè, che tu, dentro, sai benissimo che egli (o ella) non merita di essere un capo perché non è un capo vero: umanamente, o disumanamente.

 

Reagirà umanamente se accetterà il rapporto con te da pari a pari, mettendosi sinceramente in discussione. In tal caso, non è del tutto un (o una) “caporale”: parlate, confrontatevi, e starete meglio.

 

[Ma questo, purtroppo, accade di rado: il (o la) “caporale”, infatti, come ti ho detto, lo è diventato proprio perché odia il rapporto interumano, e ha capito (o almeno intuìto) che il comando protegge dal rapporto come una corazza].

 

Reagirà, invece, disumanamente se userà contro di te la sua “forza”, cioè il sostegno (ma sarebbe più corretto dire l’omertosa complicità) dei “caporali” suoi superiori e delle loro leggi e regolamenti.

 

Che fare, in tal caso?

 

Hai due possibilità, cara lettrice o lettore:

 

1. Realizzare la massima unità possibile coi colleghi. Con i compagni.

 

2. Se la 1 si rivela impraticabile, andartene. Anche a costo di rischiare la morte per fame. Meglio morire, infatti, che aggredire la propria umanità asservendosi ai “caporali”.

 

Ma prima tenta, ripeto, di trovare nei colleghi i tuoi compagni. Ricorda questo: perfino il peggior compagno, se non è dalla parte dei “caporali”, è di gran lunga più umano del miglior “caporale”. Non conta la diversità delle idee, la religione, il denaro, l’età, il sesso... niente: i soldati semplici come te, cara lettrice o lettore, nella lotta contro i “caporali” devi considerarli esseri umani perfetti, meravigliosi. Amali, dunque, e molto probabilmente anche loro ti ameranno. E insieme sarete imbattibili.

 

 

(Anticoli Corrado, lunedì 3 settembre 2012 – lunedì 1° settembre 2014. Riveduto e corretto nel 2017)

 

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