Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado
diario del Prof (scolastico e oltre)
11 settembre 2006
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La Maestra che il Sindaco ammazzò
Su La Repubblica di sabato 9 settembre, in un reportage di Guido Rampoldi dall’Afghanistan, leggo che sempre più spesso, in quello sventurato paese, i fondamentalisti religiosi danno fuoco alle scuole (già un centinaio, dice il giornalista, ma non precisa in quanto tempo) e uccidono gli insegnanti.
Lo fanno, proclamano, per impedire che le bambine ricevano un’istruzione. Queste terribili notizie mi ricordano ciò che accadde in Italia dopo il 15 luglio 1877 ― centoventinove anni fa, non millenni ― quando la Sinistra, da poco al potere con il primo governo di Agostino Depretis, su proposta del ministro Michele Coppino varò l’istruzione elementare obbligatoria.
Sedici
anni prima, nel 1861, all’alba dello Stato unitario, gli analfabeti
erano il 78% della popolazione, e i semianalfabeti quasi la metà del
restante 22%. La legge Casati del 13 novembre 1859 ― voluta da Gabrio Casati,
ministro del Regno di Sardegna, ed estesa a tutta l’Italia dopo il
1861 ― aveva stabilito la gratuità dell’istruzione primaria,
l’obbligo per i comuni di provvedere a loro spese al primo biennio
della scuola elementare e l’obbligo dei padri di fornire ai loro
figli dei due sessi l’istruzione che vien data nelle pubbliche scuole,
avvisandoli che altrimenti sarebbero stati puniti a norma delle leggi
penali dello Stato. Ma ai comuni aveva anche concesso di finanziare
le scuole in proporzione alle loro facoltà, e per i padri
inadempienti non si era accorta (o non si era voluta accorgere) che nei
loro confronti le leggi penali dello Stato non contenevano in
realtà la benché minima punizione[1]…
Dal 1861 al 1871, tuttavia, grazie alla legge Casati, gli iscritti alle scuole elementari pubbliche e private erano passati dal 54 al 67% dei bambini tra i 6 e gli 11 anni. Ma il numero degli alunni effettivamente frequentanti era assai minore di quello degli iscritti, poiché i genitori, soprattutto nelle campagne, per sopravvivere avevano bisogno del lavoro dei figli fin dalla più tenera età. E per questo (e per la scarsa efficacia della scuola elementare, soprattutto nei luoghi dove durava solo due anni) la diminuzione dell’analfabetismo stava invece procedendo molto più lentamente.
Dopo il 1870 si diffuse dunque l’idea che fosse opportuno imporre l’obbligo scolastico alle famiglie mediante sanzioni fissate in modo preciso. E si giunse, così, alla legge Coppino del 1877, che stabilì l’obbligo della frequenza del primo biennio della scuola elementare per i bambini d’ambo i sessi dai 6 ai 9 anni e fissò le ammende per i genitori inadempienti ribadendo i doveri delle amministrazioni comunali.
Contro l’obbligo scolastico si erano battuti i cattolici intransigenti, preoccupati per lo sviluppo della scuola pubblica. Bisogna sapere, infatti, che fino al 1864 ― come mostrò l’inchiesta voluta da Carlo Matteucci, ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Rattazzi ― ben i due terzi dei maestri elementari pubblici erano preti. Ma poi, grazie all’incremento delle scuole magistrali, i maestri laici erano diventati la maggioranza; e i cattolici, temendo che la scuola pubblica divenisse sempre più laica, sostenevano che l’obbligatorietà avrebbe costretto i genitori ad affidare i figli a una scuola che sempre più si sarebbe ispirata a principi contrari a quelli della Chiesa. Al punto che nel 1874, a Venezia, il primo congresso cattolico italiano aveva approvato, contro l’insegnamento elementare obbligatorio, una mozione che lo dichiarava contrario ai sacri doveri e diritti della patria potestà!
Come si vede ― quasi non fossero intanto trascorsi centoventinove anni ― le “idee” dei fondamentalisti nostrani di allora erano identiche a quelle dei fanatici con cui abbiamo a che fare oggi. Due, pertanto, erano i nemici dell’istruzione dei bambini e delle bambine italiani: da un lato la miseria, per la quale le famiglie contadine ― cioè la maggioranza della popolazione ― erano costrette a far lavorare i figli nei campi o a mandarli nelle fabbriche lontano da casa; e dall’altro l’estremismo religioso, che faceva leva sull’ignoranza e la superstizione (che la miseria alimentava, e che a loro volta alimentavano la miseria) per far sì che neanche le nuove generazioni crescessero libere dall’una e dalle altre.
Un bel libro edito da Rizzoli nel 2003, Prima della quiete, di Elena Gianini Belotti ― autrice che molti conoscono per un famoso saggio del 1973, Dalla parte delle bambine ― racconta a questo proposito la tragica storia di una giovanissima maestra, Italia Donati, che il primo giugno del 1886, a ventitré anni, si suicidò gettandosi in un torrente nei pressi del paesino di Porciano, in provincia di Pistoia, dove insegnava dal settembre del 1883.
Erano
anni, quelli ― narra la scrittrice ― in cui l’istruzione
appariva ancora un lusso inconcepibile, una pretesa scandalosa,
un’ambizione colpevole che suscitava solo biasimo e invidia.
Anni in cui le figlie dei contadini, come Italia, già a nove anni
potevano essere mandate a lavorare nelle filature di seta, dove le
preferivano per le loro dita minuscole, abili a tirare il capo del filo
di seta dei bozzoli, ma le pagavano meno di un terzo delle adulte.
Dove lavoravano dodici ore al giorno, sabato compreso, in piedi su un
panchetto, in modo che arrivassero alle vasche d’acqua bollente in cui
i bozzoli erano immersi, mentre le mani ustionate si coprivano di piaghe
sanguinanti che non guarivano mai… Creaturine ― vi rendete
conto? ― come quelle che oggi frequentano le nostre terze e quarte
elementari! E che ancora oggi, se si fosse fatto come pretendeva il
primo congresso cattolico di Venezia del 1874, non avrebbero diritto
all’istruzione e continuerebbero a essere massacrate nelle fabbriche
per pochi centesimi. Come accade, in effetti, in molte parti del mondo globalizzato…
Ma la legge Coppini del 1877, affidando l’istruzione elementare ai comuni, aveva lasciato le maestre in balìa dei sindaci e dei consiglieri comunali, che molto spesso, nei piccoli paesi, altro non erano che tirannelli senz’arte né parte, tanto rozzi e meschini quanto maligni e prepotenti. Solo nel 1911 le scuole elementari passarono allo Stato. Ma le cose non migliorarono granché, e soprattutto le maestre, in quanto donne, continuarono per molto tempo a subire ― oltre la miseria e il fanatismo religioso dei contadini, che spesso li inducevano a tenere i bambini a casa per settimane e per mesi, a disprezzare l’istruzione e talvolta a incendiare le miserabili capanne che fungevano da scuole e a scacciare gli insegnanti dai paesi ― anche le calunnie, le offese e le violenze dei loro datori di lavoro. Come scrisse Matilde Serao sul Corriere di Roma del 25 giugno 1886, poche settimane dopo la morte di Italia Donati, in un articolo intitolato Come muoiono le maestre ― è sempre la Gianini Belotti che ce lo racconta ― al nord come al sud l’elenco delle vittime non finisce mai: dalla giovane insegnante che per disperazione si butta dal campanile della chiesa a quella che si avvelena con i vescicanti[2]; da quella che muore di fatica e di fame per tornare a piedi dalla famiglia, camminando digiuna per decine di chilometri, dopo che la scuola il comune l’ha chiusa per mancanza di soldi, a quella uccisa dal tifo perché abbandonata da tutti e ritrovata morta dopo una settimana, a quella che si ammala e muore di tisi dopo lunga agonia a causa dell’accanimento di anni dell’intero paese contro di lei…
La maestra Italia Donati, entrata in servizio a Porciano, all’età di vent’anni, nel settembre del 1883 ― solo centoventitré anni fa, quand’erano bambini i nonni di chi è nonno oggi ― sotto minaccia di licenziamento fu costretta dal sindaco Raffaello Torrigiani ad accettare di risiedere, anziché in paese, nella sua abitazione, dove già abitavano la moglie e l’amante di lui. E i paesani e perfino i suoi scolari, imbeccati dai genitori, per tre anni la sottoposero per questo a maldicenze e a dispetti continui ― anche dopo che ella ebbe trovato la forza di sottrarsi al ricatto ― che a poco a poco vinsero la sua resistenza e la spinsero al suicidio. Era ancora quasi una bambina anche lei, per la prima volta lontana dalla famiglia in un Italia in cui una donna che osava tentare di realizzarsi e di provvedere a sé stessa era considerata alla stregua di una prostituta; e per quanto fosse forte, intelligente e determinata ― non avrebbe resistito così a lungo, se non lo fosse stata ― l’odio con cui un’intera comunità la ripagò dei suoi sforzi per dare un futuro migliore ai loro figli ebbe ragione di lei e la schiacciò. Potete leggere tutta la storia in questo bel libro, Prima della quiete, di Elena Gianini Belotti, del quale è uscita di recente, sempre da Rizzoli, l’edizione economica. E vi consiglio di farlo.
Ma intanto vorrei che tornaste per un momento con me alla notizia con cui ho iniziato questo articolo. A quelle scuole bruciate in Afghanistan per impedire che i bambini, e soprattutto le bambine, ricevano un’istruzione che li sottragga al fanatismo religioso, e alla miseria che in ogni epoca ne è il frutto inevitabile; agli insegnanti sgozzati perché difendono i diritti di quelle bambine e di quei bambini. E di qui alle notizie di casa nostra: al cosiddetto meeting di Rimini, per esempio, dove gli adepti di Comunione e liberazione hanno gridato che lo Stato deve disfarsi delle nostre scuole, che secondo loro sarebbero luoghi di asservimento delle coscienze… E in piccolo, fatte le debite proporzioni, alle mille difficoltà che ogni insegnante degno di questo nome ― degli indegni non parlo ― deve affrontare giorno per giorno per lavorare come si deve, e che resisto alla tentazione di elencare (da certi politici a certi presidi, da certi parroci a certi genitori) perché le conoscono bene tutti quelli che hanno il coraggio di vedere e di pensare.
L’Afghanistan non è poi così lontano ― e centoventitré anni non sono poi così tanti ― che certe barbarie non possano ripetersi anche qui da noi, se non stiamo attenti. E stare attenti significa badare a tutto, alle grandi come alle piccole cose, e tentare di non lasciarne passare nemmeno una, che metta a rischio o anche solo in discussione le grandi conquiste psicologiche, culturali e sociali dell’ultimo secolo.
Oggi, per esempio ― lunedì 11 settembre, primo giorno di scuola del 2006-2007 ― leggo che Benedetto XVI, a Monaco di Baviera, celebrando la messa domenicale al cospetto di trecentomila persone, ha affermato che le popolazioni d’Africa e d’Asia ammirano le nostre prestazioni tecniche e la scienza dell’Occidente, ma si spaventano di fronte a una ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo. Poiché la vera minaccia per la loro identità, i popoli d’Africa e d’Asia non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà e che eleva l’utilità a supremo criterio morale.
Per
il papa, dunque, l’Occidente ha compiuto immensi progressi, per i
quali tutto il mondo l’ammira, ma sta escludendo Dio dalla visione
dell’uomo e al suo posto sta innalzando a valore supremo l’utilità.
E se gli altri ― i popoli dell’Africa e dell’Asia
― ci giudicano male per questo e si sentono minacciati nella loro
identità, qualche ragione ce l’hanno. E noi dobbiamo imparare da loro
a non disprezzare Dio e a non prendere in giro le cose sacre.
Non
c’è dubbio che Ratzinger dica il vero, quando sostiene che l’Occidente
sta rischiando di elevare l’utile ― che lo si chiami
profitto, crescita del PIL o quant’altro ― al di sopra di Dio e
dell’uomo. Lo dice perché sa che tutte le persone per bene del pianeta stanno soffrendo per questo: perché il valore degli esseri umani sempre più spesso viene misurato in denaro, e perché al denaro sempre più spesso viene data più importanza che agli esseri umani. Se dicesse che non è vero, o che questo non è un male, mentirebbe in maniera così grossolana, che nessuno gli darebbe retta.
Ma ha ragione anche quando dice che questa minaccia all’identità umana, questo disprezzo nei confronti degli esseri umani, è dovuto alla perdita della fede in Dio? Sarà proprio vero che gli esseri umani perdano valore, se non si crede che siano le creature predilette di Dio? Che siano considerati animali come gli altri, se si dimentica che sono stati fatti “a Sua immagine e somiglianza”?
Si può pensarlo e crederlo, certo. E si può anche sostenere che pensarlo e crederlo sia molto meglio che non credere a nulla. Ma è doveroso ricordare che si può anche pensare e credere a qualcosa di molto diverso. Che si può anche pensare e credere, cioè, che gli esseri umani siano diversi da tutti gli altri animali ― e perciò unici e preziosissimi ― non perché siano stati fatti da Dio, ma perché l’evoluzione naturale li ha dotati di una mente straordinaria, che nessun altro animale possiede. E che attribuire la “specialità” umana all’intervento divino comporti il rischio di non scoprire e non poter mai studiare e comprendere in che cosa essa consista davvero. Un po’ come accadeva agli antichi, che non si domandavano quale fosse la causa dei fulmini e non facevano alcuna ricerca sull’elettricità perché erano certi che glieli scagliasse Zeus quando non si comportavano come lui voleva.
Come mai, per gli antichi, l’elettricità non aveva alcun valore e non rivestiva alcun interesse? Forse perché non credevano abbastanza negli dei? Niente affatto! All’opposto, l’elettricità non era per loro né interessante né preziosa proprio perché erano convinti che fosse una manifestazione divina. E perciò non cercavano di comprendere quale fosse la sua vera natura, e dunque non scoprivano mai quanto potesse essere speciale e preziosa.
Naturalmente, anche ciò che ho appena scritto è opinabile. Ma una cosa è certa: pensarlo non significa essere indifferenti o cinici, non vuol dire fare dell’utile il supremo criterio morale e non comporta alcun disprezzo per gli esseri umani e alcuna minaccia per la loro identità. All’opposto, significa volere e cercare il bene dei propri simili: con tutta la sofferenza e i rischi che ogni ricerca porta con sé, ma anche con tutto l’amore per l’Umanità che a questa ricerca induce a dedicarsi.
Le maestre come Italia Donati, o come quelle di oggi in Afghanistan ― che cercavano e cercano di portare l’istruzione ai bambini e alle bambine che altri condannavano e condannano all’ignoranza e alla superstizione ― non avevano e non hanno dubbi sull’immenso valore di ogni essere umano. Ma il sindaco di Porciano, che approfittando del proprio potere tentò di violentare una ragazza di vent’anni, che valore dava agli esseri umani? E quale valore hanno gli esseri umani per i talebani che incendiano le scuole e ammazzano gli insegnanti in nome di Dio? La risposta è semplice: nessun valore, né per l’uno né per gli altri. Perché ciò che permette di intuire quanto siano preziosi gli esseri umani non è la fede in Dio né la mancanza di essa, ma il credere, l’amare e il pensare soltanto a essi.
(Complimenti! Se siete arrivati fin qui, avete letto il Diario del Prof di lunedì 11 settembre! Spero che stiate ancora bene...)
[1] Traggo questi dati, e i testi in corsivo che li contengono, dalla Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, pubblicata a Milano nel 1978 dall’editore Feltrinelli. Questi brani, in particolare, vengono dal terzo capitolo del sesto volume, dedicato agli anni dal 1871 al 1896. [2] Medicinali per uso esterno che producono un forte afflusso di sangue e la vescicazione della parte della cute sulla quale sono applicati, favorendo in tal modo la decongestione di organi profondi. |
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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