Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado
diario del Prof (scolastico e oltre)
maggio - luglio 2007
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La Gioia, la Fiducia e la Sfida tra l'adulto e il Bambino
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I
meno intelligenti lo sono dalla nascita? O lo sono diventati?
Una
cosa è certa: venire al mondo con una
deficienza
mentale congenita
– tra gli umani come tra i non umani –
non
è mai stato impossibile. Ma
un
animale nato stupido muore, quasi sempre, assai prima di raggiungere
l’età della
riproduzione, e quindi non può trasmettere alla prole le anomalie
genetiche che l’hanno reso tale, che perciò si estinguono con lui.
Mentre l’intelligenza, che suggerisce valide strategie per eludere o
sconfiggere le insidie ambientali, è invece sempre premiata
dall’evoluzione.
Nella
storia evolutiva di tutte le specie viventi, dunque, la stupidità
congenita tende a scomparire in breve tempo, ogni volta che una nascita
sfortunata la rimette in gioco. Mentre l’intelligenza tende a
sopravvivere, a riprodursi, a incrementarsi.
Gli
esseri umani, però, grazie alla creatività che li rende unici, sono
arrivati a difendersi così bene dai pericoli, che al giorno d’oggi
anche i più inetti hanno ottime possibilità di arrivare a riprodursi e
perfino di farsi vecchi senza troppi problemi. Ma si tratta di un fenomeno
così recente (non più di tre o quattro generazioni, e non in ogni parte
del mondo) che sembra molto improbabile che gli imbecilli di natura
abbiano già avuto il tempo di prolificare e diffondersi fino ad
accrescere in modo significativo il contributo della stupidità innata al
tasso complessivo di idiozia delle società umane.
Anche
perché
– sebbene la
chimica del cervello sia molto complessa, e sia del tutto verosimile,
pertanto, che minuscole mutazioni genetiche in grado di alterarla siano
relativamente frequenti
–
esso
è però d’altro canto anche così “plastico” e “flessibile” che
compensare tali piccole disfunzioni dev’essergli, nella maggior parte
dei casi, abbastanza facile.
Benché
non si possa escludere, dunque, che almeno una piccola parte degli stupidi
nei quali ogni giorno ci imbattiamo
– o delle cui “prodezze” siamo informati dai mass media – siano
stati tali fin dal giorno del concepimento, e dunque senza “colpa”
loro né di alcun altro, si può affermare con assoluta certezza che per
il momento la stragrande maggioranza di essi non sono nati ma bensì sono
diventati ciò che sono, e che questo spaventoso fenomeno si è verificato
nel corso della loro infanzia e della giovinezza.
Scoprire
come ciò accada e, se possibile, far sì che smetta di accadere, sarebbe
– è evidente – della massima importanza. Soprattutto in tempi come i
nostri, in cui l’Umanità è minacciata da pericoli globali immani
(dalla rovina dell’ambiente al proliferare delle armi di distruzione di
massa) e ha dunque bisogno di tutte le sue risorse per affrontarli, mentre
d’altro canto il numero e la nocività degli imbecilli – dei pochi
congeniti e dei molti che lo diventano – tendono invece ad aumentare per
la scomparsa, quanto meno nei paesi più sviluppati, della maggior parte
delle situazioni di rischio individuali che per migliaia di anni hanno
fatto strage di coloro che non erano abbastanza “svegli” da evitarle o
superarle.
Ma
che cos’è, esattamente, uno stupido?
Definire
la stupidità è difficile quanto definire l’intelligenza.
Semplificando, potremmo dire che un essere vivente ― umano o non
umano che sia ― è tanto più stupido quanto meno è in grado di
agire e interagire validamente nell’ambiente da cui dipende e con gli
esseri con i quali lo condivide.
Ne
consegue che uno stupido ― umano o non umano che sia ― non lo
si riconosce dall’aspetto, ma solo da quel che fa. E, se è umano, anche
da ciò che dice.
Intendiamoci:
trapiantato in una situazione nuova e sconosciuta, chiunque può far la
figura del pesce fuor d’acqua. Non perché davvero sia un imbecille, ma
perché ancora non ha avuto il tempo di guardarsi attorno e di
ambientarsi. Un bambino piccolo, per esempio, può talvolta comportarsi in
modo apparentemente sciocco. Non per difetto d’intelligenza, ma per
mancanza di esperienza. Perché non conosce ancora bene il mondo in cui è
stato messo. Ma noi non lo giudichiamo stupido, per questo. Anzi: ne siamo
inteneriti. Poiché ― non essendo stupidi ― non scambiamo la
sua ingenuità per impotenza, ma intravediamo in essa la commovente
bellezza di infinite possibilità ancora intatte.
Un
vero idiota può invece apparire l’adulto ― magari esperto in
tante cose ― che come un bambino non vede però la cattiveria di
certi suoi simili neanche se li ha davanti agli occhi. E tuttavia nei suoi
confronti siamo portati all’indulgenza, poiché comprendiamo che la sua
cecità è di natura difensiva, non aggressiva: serve a proteggerlo
(illusoriamente) dall’odiosa esperienza delle brutture del mondo, non a
permettergli di perpetrarne delle altre; e benché lo escluda dal novero
dei possibili alleati dei buoni ― e anzi faccia di lui,
obiettivamente, un facilitatore dei cattivi ― è abbastanza
improbabile che lo induca a far del male a qualcuno in prima persona.
Uno
stupido vero, invece, non si limita a non combattere i malvagi non
riconoscendoli come tali. Uno stupido vero è uno che attivamente
danneggia gli altri ― e, alla fin fine, anche sé stesso ―
perché attivamente non comprende, non riconosce e non vede, momento per
momento, quali azioni sue o altrui produrranno effetti positivi, e quali,
invece, effetti negativi. Uno che non sa mai cosa sia davvero meglio fare
perché non capisce un tubo, e quindi agisce sempre a casaccio, con la
tipica, insensata scaltrezza dell’imbecille. Uno che, anche se fa
qualcosa di buono ― fenomeno raro, poiché è difficile che agendo
da idioti ci si azzecchi ― lo fa per caso, non lo riconosce come
tale e ben presto lo tradisce e lo guasta.
Uno
stupido vero, insomma, è sempre un malvagio egli stesso. Così come un
malvagio vero è sempre anche uno stupido.
Ma
se stupidi e cattivi nella stragrande maggioranza dei casi non si nasce,
si diventa, la domanda delle domande è: come lo si diventa?
La
mente, come quasi tutti sanno, è un prodotto del cervello e del sistema
nervoso. Non perché il resto del corpo ne sia privo, tutt’altro!, ma
perché è il cervello che regola e coordina il funzionamento degli altri
organi; che riceve le informazioni che gli trasmettono i sensi; che le
interpreta mettendole in relazione con quelle di cui è già in possesso;
che separa le nozioni che possono essere eliminate da quelle che mai
dovranno andare perdute; che prova i sentimenti, consapevoli o
inconsapevoli, che le esperienze suscitano; che produce pensieri coscienti
o inconsci che a loro volta generano nuovi sentimenti; che serba
memoria degli eventi esterni ed interni. E che reagisce a
quel che accade adottando comportamenti più o meno appropriati, più o
meno efficaci, più o meno validi. Più o meno intelligenti.
È
dal comportamento, abbiamo detto
― cioè da quel che fanno e dicono ― che intuiamo (a meno che,
a nostra volta, non siamo troppo sciocchi per accorgercene!) se e quanto i
nostri simili siano stupidi o intelligenti. Ma a monte del comportamento
che cosa c’è, se non il lavoro del cervello? E a monte del lavoro del
cervello che cosa c’è, se non il tempo del suo sviluppo?
Essendo
un prodotto dell’evoluzione, il cervello è pronto a funzionare al
meglio già qualche tempo prima della nascita. Ma poi deve creare la
propria mente, e per farlo gli occorrono esperienze.
Il
“grosso” del lavoro dura circa vent’anni ― nel corso dei quali
il cervello costruisce e perfeziona i collegamenti fra i miliardi di
neuroni che lo costituiscono e si libera delle connessioni in eccesso
― ma anche dopo, per buona sorte, se opportunamente esercitato, esso
può conservare la sua originaria plasticità e per tutta la vita rimanere
in grado di modificarsi e di modificare la mente che produce.
Ciò
non significa che il cervello di un neonato sia meno potente di quello di
un adulto ― è vero il contrario, come dimostra l’immensa mole di
lavoro a cui si sobbarca per imparare a conoscere il mondo e apprendere
tutto ciò che gli occorre per viverci! ― ma solo che, per produrre
la mente, il cervello di ogni nuovo essere umano deve confrontarsi con
l’esperienza, con la vita vissuta. Ed è logico che sia così: se
venisse al mondo con una mente già fatta, completa e immodificabile, il
cervello non avrebbe molte possibilità di rapporto con la realtà in cui
viene immesso, storicamente mutevolissima. Mentre, se invece non fosse fin
dal primo momento in grado di costruirsi una mente, della realtà nella
quale si ritrova non saprebbe che farsene!
Le
esperienze con le quali in vent’anni costruiamo le nostre menti sono
tante e le più varie, ma la quantità e la qualità di esse dipendono
quasi solo da due gruppi di esseri umani: la famiglia e l’insieme di
persone di età diverse dalle quali è costituita la scuola.
E
i mass media?
I
media, a chi non è direttamente impegnato nella loro produzione, non
forniscono esperienze vere, ma spettacoli e simulazioni. Che sono
anch’essi delle esperienze, certo, ma meno potenti di quelle che viviamo
realmente. Meno potenti, soprattutto, di quelle che viviamo nei nostri
rapporti con altri umani.
La
domanda, dunque, è: come fanno la famiglia e la scuola (le volte in cui
lo fanno) a rimbecillire in pochi anni una creatura che l’evoluzione ha
dotato di capacità mentali che nessun altro animale possiede?
La
risposta potrebbe anche essere molto
semplice: la “creatura” si rimbecillisce da sé. Niente e nessuno,
infatti, può penetrare in un cervello e realizzarvi, al posto del
legittimo “titolare”, il lavoro creativo (o distruttivo) che produce
la mente e tutti i suoi contenuti inconsci e coscienti. Tant’è vero che
persone diverse ricavano dalla medesima situazione immagini e idee
diverse. Neanche le menti dei gemelli omozigoti escono identiche da
vent’anni di vita familiare in comune! Poiché il cervello, come
dicevamo, crea la mente; ed essa, pertanto, non è e non può essere il
“calco” dell’ambiente in cui si è formata e delle esperienze che in
esso ha vissuto.
Chi
ha la sfortuna di ritrovarsi in una famiglia e in una scuola indifferenti,
stupide e malvagie, rimbecillenti e incattiventi ― o di essere stato
completamente privato dell’una e dell’altra ― potrebbe dunque
salvarsi dall’andare incontro al medesimo destino rifiutandosi di
credere che il mondo umano sia davvero quale esse glielo rappresentano, e
cercando altrove le immagini e le idee, la bellezza, la bontà e
l’intelligenza che lì non trova.
Solo
che nella realtà, purtroppo, le cose non vanno quasi mai così, e la
famiglia e la scuola si rivelano, spesso, quasi onnipotenti. Poiché il
principale fattore di sviluppo dell’intelligenza (o di “inviluppo”
nella stupidità) non è dato dalla qualità e dalla quantità dei saperi
e delle tecniche che il bambino apprende, ma dalla qualità del rapporto
che gli esseri umani fra cui cresce gli propongono.
Tutti
i ricercatori sanno quanto sono importanti, per lo sviluppo del cervello,
gli stimoli che l’ambiente gli offre. Un topolino, per esempio, allevato
in una stanza piena di oggetti d’ogni sorta e di labirinti, sarà in
media molto più “intelligente” ― più capace di orientarsi in
situazioni nuove, più efficiente nella ricerca del cibo, più scaltro
dinanzi agli ostacoli e ai pericoli ― di un topolino allevato in una
gabbietta. Ma questo ― attenzione! ― sarà vero solo se il
topolino “ricco” avrà potuto trascorrere accanto alla mamma le prime
settimane di vita. Altrimenti, il topolino “povero” sarà comunque più
intelligente di lui.
Un
piccolo di scimpanzè, addirittura, se viene separato dalla madre e non
trova altre femmine che si prendano cura di lui, rinuncia a cercare il
cibo e si lascia morire.
Essere
dei mammiferi, infatti, non significa solo dover trascorrere un certo
lasso di tempo in
un
utero
prima di venire al mondo e dover poi cibarsi di latte fino a quando non si
è in grado di apprezzare una dieta più variata. Ma anche aver bisogno,
finché non si diventa adulti, degli stimoli relazionali e comportamentali
forniti dalla presenza e dalle azioni di qualcuno che adulto lo è già.
Proviamo
a immaginare due piccoli umani in una situazione analoga a quella dei due
topolini di cui sopra: un bambino “ricco” in una casa piena di
giocattoli e di gadget, immersa in un panorama da sogno, e un bambino
“povero” in uno spoglio monolocale di periferia. Ma supponiamo che
quest’ultimo, nel suo tugurio, abbia però qualcuno con sé, mentre
l’altro abbia solo una voce computerizzata che di notte gli sussurra da
sotto il cuscino come si adoperano le meraviglie di cui dispone... Nessun
dubbio è possibile, ci pare evidente, su quale dei due sia da considerare
il più fortunato!
Tutto
bene, dunque? La presenza dei genitori (e poi degli insegnanti) è di per
sé sufficiente a compensare qualsiasi restrizione materiale e addirittura
a superare ― nell’offrire adeguati stimoli a una mente in crescita
― tutti i vantaggi e le opportunità assicurati dalla ricchezza?
Ovviamente
non è così. Poiché la presenza e le azioni di una madre e di un padre
― e, più in là, di un insegnante ― possono essere più o
meno stimolanti, per un bambino, ed esserlo in molti modi. Se lo sono
poco, o per niente, non solo non compensano le carenze di un ambiente
squallido e smorto, ma riescono solo ad aggravarle. Anzi: riducono a ben
poca cosa perfino i vantaggi offerti da un ambiente ottimo! Mentre, se lo
sono male ― se gli stimoli che offrono, cioè, sono magari intensi e
multiformi, ma folli e distruttivi ― la presenza e le azioni degli
adulti costringono il bambino a una resistenza così assidua e penosa da
rendergli molto difficile, se non impossibile, ogni altra realizzazione.
Ma
qual è il segreto? Come si fa, in che modo si può esser certi di offrire
ai bambini gli stimoli
più validi, per quantità e soprattutto per qualità?
Esiste un metodo? C’è una ricetta?
Ebbene,
tranquilli: l’esatta misura e la perfetta qualità della
presenza e delle azioni degli adulti nei confronti dei bambini non
scaturiscono da calcoli complicati, da astrusi ragionamenti, da raffinate
conoscenze pedagogiche e sofisticati metodi educativi, ma solo da quanto e
come (anche senza accorgersene) i genitori amano i figli (e sé
stessi) e da quanto e come gli insegnanti, nel loro piccolo, vogliono
bene agli alunni (e a sé stessi). È
l’amore
che fa la differenza
(e aiuta i nuovi esseri umani a non rimbecillirsi) ed è l’odio che
li spinge verso la stupidità.
E
non un amore o un odio qualsiasi, ma precisamente il come e il quanto
l’amore sia scevro d’odio o il come e il quanto l’odio abbia fatto
strame dell’amore.
L’amore,
come tutti sanno, è un sentimento. Un sentimento, a sua volta, è il modo
in cui una mente (umana) partecipa a un’emozione dell’organismo.
L’emozione, poi (col sentimento che di essa è la componente mentale tra
gli umani) è l’effetto sull’organismo di una percezione. E le
percezioni, infine, scaturiscono dai contatti dei nostri organi di senso
(gli occhi, le orecchie, la pelle, il naso, la lingua e il palato) con il
mondo esterno.
Facciamo
un esempio. Che cosa accadde quando per la prima volta, badando a non
pungerci, ci accostammo a una rosa? Gli occhi si riempirono di rosso e di
verde e dello splendore del giorno, i polpastrelli sentirono ruvide le
foglie ― per evitare le spine, infatti, ci guardammo bene dal
toccare il gambo ― e l’olfatto avvertì il particolare, inebriante
(e d’allora in poi inconfondibile) profumo che la dolce voce della mamma
ci decantava un attimo prima. Ebbene: queste erano tutte percezioni. Gli
organi di senso le trasmisero al cervello e, per suo tramite, a tutto il
corpo. Il loro effetto complessivo sull’organismo fu un’emozione. E
l’emozione fu per la mente il sentimento, in quel caso piacevole e
cosciente, che da quel giorno abbiamo provato ogni volta che abbiamo visto
o anche solo pensato a una rosa, e che con l’andar del tempo si è
arricchito di nuove e variegate sfumature a mano a mano che delle rose è
cresciuta ed è diventata via via più complessa la nostra esperienza
fisica e mentale. Finché, un bel giorno, se mai decideremo di diventare
coltivatori di rose per diletto o per mestiere, il successo
dell’impresa, ancor più che dalle conoscenze e dalle tecniche che
riguardo alle rose avremo appreso, dipenderà dalla qualità del nostro
sentimento verso di esse. Poiché sarà quest’ultimo che deciderà del
buon esito di tutto ciò che con le rose tenteremo di fare, ivi compreso
l’apprendimento dei saperi e dei metodi che ingenuamente potrà
sembrarci l’unica cosa davvero necessaria.
Un
sentimento, dunque ― qualsiasi sentimento! ― non è un
fenomeno indifferenziato, uguale per tutti ― un po’ come
l’acceso/spento delle apparecchiature elettriche ― che in ognuno
di noi non ammetta che due modalità: esserci o non esserci. Se perfino un
raffreddore ― che è solo l’effetto dell’azione di un virus
sulle cellule ― è in parte diverso, anche in un animale non umano,
da individuo a individuo e da un’epoca all’altra della sua vita, come
potrà non variare da un essere umano all’altro un fenomeno mentale
complesso come un sentimento, che la storia di chi lo prova ha
diversificato in modo irripetibile? Tanto più se non è il sentimento
suscitato da un oggetto in fondo umile, come una rosa, ma quello che
scaturisce dal pensiero, dall’immagine, dalla vista e soprattutto dal
rapporto con un altro essere umano?
Quando
diciamo, dunque, che il tale padre, o la tale madre, ama suo figlio, in
realtà diciamo pochissimo, se non sappiamo come lo amino. Cioè come sia
fatto, in loro, il sentimento che essi soli provano quando pensano,
immaginano, vedono e soprattutto si mettono in rapporto con il figlio.
La
qualità della presenza e delle azioni dell’adulto nei confronti del
bambino ― la qualità degli stimoli che esse gli offrono ― è
tutta in quel come. Che, a sua volta, è la risultante dell’insieme di
emozioni, immagini e idee inconsce e coscienti che l’adulto, nel corso
dell’intera esistenza, ha sperimentato, creato ed elaborato nei
confronti degli altri esseri umani in genere, dei bambini in particolare,
e ― non da ultimo ― di sé stesso.
La
mente del bambino ― anche se coscientemente egli appare ed è certo
di essere amato dalla madre e dal padre ― “sente” benissimo la
qualità vera del rapporto, cioè del sentimento, di cui è oggetto. Non
può non sentirla, poiché il rapporto con gli adulti che di lui si
prendono cura, nei primi anni, è tutto l’ambiente e fornisce tutti gli
stimoli, confrontandosi coi quali la sua mente si sviluppa.
L’equivalente della stanza piena di oggetti del topolino “ricco” o
della gabbietta spoglia del topolino “povero”, per il piccolo umano,
è il rapporto in cui la madre e il padre (e poi, buon ultimo,
l’insegnante) lo impegnano e lo cimentano. Non gli oggetti di cui
dispone, non la Natura, non il mondo organico e inorganico che lo
circonda! Poiché queste cose stimolano in lui soltanto l’intelligenza
adattiva che condividiamo con gli altri animali, la razionalità, la
confidenza e la sicurezza del rapporto con la realtà materiale.
Acquisizioni importantissime, è innegabile. Ma l’intelligenza umana
― senza la quale, per quanto esperti e astuti, non si è in grado di
trattare, di comprendere, di riconoscere e neppure di vedere il mondo come
umano ― quella non la stimolano (o la frustrano) nei bambini gli
oggetti, ma solo gli altri esseri umani. E non gli esseri umani in quanto
“datori” di cose ― per quanto belle ed elevate, neanche i libri
e i film più geniali, neanche i concerti di Mozart o le sinfonie di
Beethoven ― ma gli esseri umani in quanto soggetti e oggetti di
relazioni. In quanto costruttori di relazioni interumane. In quanto
creatori di sentimenti che come e più delle impronte digitali non sono
mai identici, nell’uno o nell’altro, e non hanno mai il medesimo
effetto, nel rapporto con l’uno o nel rapporto con l’altro.
Oltre
le cure materiali, indispensabili ma non sufficienti ― il cibo, il
calore, il riparo, la sicurezza, il benessere, la ricchezza di risorse,
che anche gli animali non umani forniscono ai piccoli ― tre sono gli
elementi fondamentali che conferiscono al sentimento e quindi al rapporto
umano dell’adulto nei confronti del bambino la qualità che lo rende più
o meno valido: la gioia, la fiducia e la sfida.
L’adulto
che sia sano di mente, dinanzi al bambino, prova gioia per la sua bellezza. Non tanto per la bellezza fisica, è ovvio ― come gli
dimostra il fatto inizialmente inesplicabile che gli appaiono belli tutti
i bambini, anche quelli che un (impossibile) giudizio spassionato non
definirebbe tali ― quanto soprattutto per la perfetta forma umana
che nel bambino è ancora intatta. Poiché l’essere umano così come
l’evoluzione l’ha fatto splende in lui senza artifizi né
deturpazioni, così com’è per natura, e l’adulto che sia sano di
mente non può guardarlo senza esclamare, come Long John Silver a Jim
Hawkins: Mi piaci, giovanotto, perché sei come me quand’ero giovane e
bello! Un’emozione che ogni “grande” può provare e ha provato,
indipendentemente dalla cultura di cui dispone e dalle condizioni sociali
― John Silver non era che un pirata! ― ma solo se col tempo
non si è venata di apprensione, consumata e deteriorata, in lui, la gioia
che da “piccolo” anch’egli provava all’apparire di un essere umano.
La
fiducia, secondo elemento del rapporto, è la certezza ― cosa
diversa dalla fede, perché fondata sull’esperienza ― che il
bambino è un essere umano. Il sapere, cioè ― non teorico, non
“culturale”,
ma basato, appunto, sull’istintivo
e spesso inconscio rapporto con la realtà umana da cui tale esperienza
scaturisce
― che il neonato e il bambino in primo luogo non sono immagini della
divinità, creta in cui sono calate dal cielo anime immortali, angioletti
o quant’altro; che il neonato e il bambino non sono, in secondo luogo,
neanche bestioline, ranocchietti, scimmiette, micetti, animaletti, piccoli
bruti soggetti solo ai bisogni più elementari ― il cibo, il calore,
le cure igieniche ― che i genitori e la Società dovranno a poco a
poco umanizzare e civilizzare; che il neonato e il bambino non sono, in
terzo luogo, neppure dei piccoli alieni, dei mostriciattoli, dei nanetti,
dei perversi polimorfi di stampo freudiano e via delirando; che il neonato
e il bambino non sono, infine, nemmeno delle tabulae rasae in passiva e
quasi inorganica attesa che gli adulti disegnino o scrivano su di esse
tutto ciò che parrà e piacerà alle loro fantasie e fantasticherie... Il
non poter accettare, insomma ― questo è la fiducia ― che il
neonato e poi il bambino debbano per forza esser immaginati e pensati e
visti come l’una o l’altra o magari tutte insieme le più o meno
insensate caricature che di essi sono state escogitate nel corso dei
secoli. E il sapere, invece, o anche solo vagamente intuire ― poiché
non è necessario che questa conoscenza sia cosciente e verbalizzata,
anzi: lo è di rado, e quando tenta di esserlo è assediata dai sensi di
colpa per il suo contrapporsi alle acclamate “verità” ufficiali
― che se vi sono, al mondo, degli esseri umani perfetti, questi sono
proprio i neonati e i bambini. Poiché la perfezione, negli esseri viventi
― intendendo come perfezione l’intatta corrispondenza di una
creatura a ciò che la sua storia evolutiva ha fatto di essa ― può
esser data per scontata solo alla nascita (se non si sono verificate delle
anomalie genetiche) perché in seguito gli eventi ― e, nel caso
degli esseri umani, soprattutto il modo in cui agli eventi si reagisce
― possono alterare e deteriorare quel che l’evoluzione ha donato al
nuovo essere fino a renderlo, nei casi peggiori, pressoché
irriconoscibile.
Sapere,
o anche solo vagamente intuire, che il piccolo umano è l’essere umano
così come l’evoluzione l’ha fatto: un’intatta natura umana. Sapere,
o anche solo vagamente intuire, che per natura l’essere umano è
l’unico essere vivente ― per quel che attualmente ne sappiamo
―
che sia dotato di creatività. L’unico, cioè, che può
intervenire creativamente (o, purtroppo, distruttivamente) sulla propria
mente, che negli altri animali è invece solo un inconsapevole prodotto
dell’esperienza. L’unico,
dunque, da cui il nuovo, che rende infinite le possibilità,
può scaturire non solo per caso, ma con intenzione. Ecco: sapere tutto ciò,
o anche solo vagamente intuirlo, genera il sentimento di fiducia
nel neonato, e poi nel bambino ― tanto più intenso quanto più il
sapere è certo ― che è anche l’unica ancora di salvezza
dall’immane sentimento di responsabilità che questo stesso sapere
genera.
La
sfida, infine ― cioè l’elemento che introduce nel rapporto fra
l’adulto e il bambino una tensione tanto più creativa (o tanto meno
distruttiva) quanto più intense e certe sono la gioia e la fiducia che
con essa si fondono ― è quella che al bambino è proposta dalla
realizzazione dell’adulto: da ciò che la madre, il padre (e più in là
l’insegnante, e la Società nel suo insieme) mentalmente sono
riusciti a fare di sé stessi nel tempo delle loro esistenze che ha
preceduto il rapporto stesso.
Realizzarsi
è un’impresa che solo gli animali umani sono in grado di compiere. I
non umani crescono, si sviluppano, accumulano un patrimonio
via via più consistente di esperienze ― tutte cose, beninteso, che
anche noi facciamo ― ma non si realizzano. Realizzarsi,
infatti, significa costruirsi e trasfomarsi interiormente secondo
la propria libera creatività. Far diventare realtà mentale, psichica,
le proprie (inconsce e coscienti) fantasie su sé stessi. Cosa
che agli animali non umani non è possibile, poiché l’evoluzione non li
ha dotati dell’immaginazione con cui noi, quelle fantasie, le
produciamo.
Quanto
più sono valide, tanto più le realizzazioni a cui approdiamo sono
diverse l’una dall’altra. Quanto più sono mediocri o distruttive,
tanto più tendono invece ad assomigliarsi, raggruppandosi nelle poche,
grandi categorie di “caratteri” ricorrenti da cui, nei momenti di
pessimismo, ricaviamo la desolante impressione che le menti degli uomini e
le donne che popolano le nostre esistenze siano tutte state fatte con un
numero molto esiguo di “stampini” che non cambiano mai.
Ma
tutti, naturalmente, in un modo o nell’altro si realizzano. Di nessuno
si può affermare che di sé, in quanto umano, cioè della propria mente,
negli anni che ha non abbia fatto alcunché. Qualcosa dobbiamo aver fatto
di noi, qualcosa senz’altro abbiamo fatto, e ogni nostra azione o parola
― tutto il nostro essere, così come siamo, fra i piedi dei nostri
simili ― ne diffonde intorno a noi gli effetti positivi o negativi.
Fra
i piedi dei nostri simili, proprio così! Poiché tutte le realizzazioni,
più o meno creative o distruttive che siano, inevitabilmente espongono a
tensioni più o meno forti coloro che son costretti o si concedono di
entrare in contatto con esse. Le più valide e belle perché ci obbligano
a trovar la forza di metterci in crisi e di intraprendere una più o meno
ampia (e più o meno ardua) ristrutturazione di quel che abbiamo creato
finora, o altrimenti ― se questa forza non la troviamo ― ci
inducono a negarle invidiosamente danneggiando noi stessi. Le meno valide
perché ci feriscono con la bruttezza e la volgarità di cui sono
intessute, ci infliggono un mondo meno sano e felice di quanto potrebbe
esserlo e ci condannano alla solitudine o a una continua lotta. Le
mediocri perché ci sfiancano con la loro ottusa ripetitività e
ripetendosi ci fanno temere o addirittura sentire mostruosa la nostra per
una diversità che non trova conferme.
E,
soprattutto, fra i piedi dei bambini! Poiché da tutte le realizzazioni
(di chiunque sia al mondo da più tempo di lui) è sottoposto a forti
tensioni specialmente il bambino. Che alla nascita, come essere umano, è
già tutto ciò che un essere umano può essere, lo
“stato dell’arte”
dell’evoluzione della specie, ma che della realizzazione della propria
mente
è ancora agli inizi. Che non può ancora, come certi adulti,
“rifugiarsi” nell’indifferenza che rende infeconde le migliori e
invisibili le peggiori realizzazioni altrui, ma d’altronde non ha
ancora neanche la capacità di riconoscere a pieno sia le une che le
altre, né soprattutto la piena possibilità di mettersi in rapporto solo
con le prime rifiutando le seconde. Che non può scappare, insomma! Che
per inesperienza (non per stupidità!) può essere facilmente
ingannato dall’apparenza della validità! E che da tutte le
realizzazioni, perciò, è incessantemente e impetuosamente interpellato e
sfidato a trovare il coraggio di intuirle, di comprenderle, di riconoscere
i sentimenti che esse suscitano in lui e di distinguervi quel che conferma
ed esalta l’umano da ciò che lo smentisce e l’opprime.
Eppure
è attraverso questa sfida che il bambino e poi l’adolescente creano la
propria realizzazione in un rapporto che nel complesso sembra del tutto
impari (così come sembra impari la sproporzione di forze tra la minuscola
creatura appena nata e l’incommensurabile universo fisico che
l’accoglie e insieme la minaccia) ma che il bambino riesce quasi sempre
a “tenere” per l’immenso desiderio e al contempo l’assoluta
esigenza che ha di esso. Rapporto che talvolta diventa però così
teso, così doloroso ― quando la sfida
che l’adulto
lancia non
è addolcita dalla fiducia che frattanto gli accorda e dalla gioia
che prova ― da non permettere al bambino soddisfazione né ristoro
alcuno, mai, impegnando e immobilizzando tutte le sue risorse affettive,
fantastiche e intellettuali nella pura ma non semplice lotta per la
sopravvivenza: del rapporto, della propria salute psichica e fisica, di sé
stesso.
È doveroso dirlo con chiarezza: l’insegnante che ha cuore e occhi ne incontra spesso, purtroppo, di questi ragazzini in parte o del tutto bloccati in un “compito a casa” che non finisce mai, e la cui soluzione è talora così ardua che le famiglie se lo trasmettono irrisolto di generazione in generazione come fanno i matematici con certi teoremi apparentemente indimostrabili.
Costretto
a tentare comunque la propria realizzazione (poiché un essere umano non
può non costruirsi una mente, a mano a mano che crescendo sperimenta il
mondo e la società) e insieme a entrare in rapporto e a tener a bada le
realizzazioni altrui come un piccolo marinaio in un’immensa tempesta
– a tenere a bada, proprio così, perché quasi tutto, al mondo, tranne
forse i più piccoli e teneri fra gli animali, gli appare più grande e più
forte di lui – il bambino può farcela o istupidirsi. Farcela o
incattivirsi. Farcela, o istupidirsi e incattivirsi. E anche quando ce la
fa non può non pagare un prezzo più o meno esoso, per il tempo e
le risorse dissipati nella resistenza, nella lotta che l’invalidità o
addirittura la mostruosità di molte realizzazioni altrui gli impongono di
sostenere. Non può non risultare più o meno carente, la sua riuscita,
rispetto a quella che sarebbe potuta essere se le circostanze fossero
state migliori.
Come
sarebbe, il mondo, se ogni essere umano che al mondo viene
potesse aver a che fare solo con realizzazioni valide? Con delle menti,
cioè, non meno sane di quella che all’inizio ogni nato da
donna ha ricevuto dall’evoluzione la capacità di produrre?
Eppure,
anche in una società perfetta, la sfida con cui i bambini devono
da sempre cimentarsi, nei loro rapporti con quanti sono al mondo da più
tempo, continuerebbe a riproporsi. Poiché essa non scaturisce
dall’invalidità, ma dalla potenza delle realizzazioni altrui. E
potente, al bambino, appare e apparirà, anche nel migliore dei mondi, chiunque
gli si proponga come più esperto, più sapiente, più capace di lui nel
gestire la rete di relazioni materiali e immateriali col non umano e con
l’umano che fin dal primo istante costituiscono la vita.
Indipendentemente da quanto costui sia creativo o distruttivo.
Ma
in che cosa consiste precisamente la potenza, nel mondo umano?
Ciò
che può indurci in errore e farci cadere in confusione è il voler
credere che la potenza di una realizzazione – e quindi l’entità della
sfida che essa lancia al meno realizzato che entra in rapporto con essa –
si misuri dalla grandezza di ciò che un uomo o una donna (o un’intera
società) hanno materialmente fatto: la ricchezza accumulata, il
potere conseguito, i figli messi al mondo, e così via,
scendendo, fino al numero di maiali nel porcile o di cavalli
(vapore) sotto il cofano del fuoristrada. Oppure, all’opposto,
che davvero realizzato sia solo il povero e onesto, il proletario frugale,
coscienzioso, che giorno per giorno, con semplicità e costanza, manda
avanti l’immenso, invincibile mondo misconosciuto delle piccole cose. O,
ancora, che autentica sia solo la realizzazione intellettuale, scientifica
o artistica: le scoperte, le invenzioni, le opere, o quanto meno – in
mancanza o in attesa di esse – la ricchezza del patrimonio di conoscenze
di cui la mente è padrona...
Non è così. Ciò che sfida e cimenta i piccoli umani non è la potenza intesa come grandezza di ciò che si domina (qualunque cosa sia, e qualunque sia l’utilità che realmente ha o che una qualche ideologia gli attribuisce). Quella può talvolta entusiasmarli, farli sentire forti, protetti, ma non li sfida. Poiché sentono, fin dalla più tenera età e senza esserne consapevoli, che è qualcosa di trasmissibile, di mutuabile, che in qualche modo gli appartiene già o quanto meno gli è garantita, poiché si tratta solo di ereditarla o tutt’al più di accumularla con una certa quantità di tempo e di fatica. Ciò che li pone a cimento, invece, ciò che li sconvolge e li attrae, ciò che con trepidazione intuiscono che potranno riuscire o non riuscire a realizzare anche loro, è la capacità di rendere possenti i rapporti. Il complessivo rapporto con la realtà, certo, ma soprattutto i rapporti con gli altri esseri umani. Questa è la potenza, fra gli umani, e questa è la realizzazione. Non – intendiamoci! – la potenza stimata, quella che si può supporre che un determinato individuo possieda data la posizione che occupa – di questa i bambini per molto tempo non sanno alcunché – ma la potenza che essi realmente constatano, momento per momento, assistendo e partecipando ai rapporti che intorno a loro si svolgono. La potenza, soprattutto, che essi momento per momento sperimentano nei rapporti che i grandi intrattengono proprio con loro. Una potenza che i bambini sentono bene, anche senza rendersene conto, che alcuni ce l’hanno e altri invece meno o per niente, a prescindere da ciò che materialmente o immaterialmente possiedono.
Una realizzazione è tanto più potente, cioè – e tanto maggiore è l’entità della sfida che essa lancia – quanto più è difficile (o, al limite, impossibile) stabilire e intrattenere con essa un rapporto mediocre. Quanto più i suoi rapporti con gli altri tendono a movimentarsi, a diventare importanti, a produrre conseguenze di rilievo, a suscitare sentimenti intensi e duraturi, ad andare incontro a crisi e a grandi trasformazioni. Una realizzazione è tanto più potente, in definitiva – creativa o distruttiva che sia – quanto meno è facile aver a che fare con essa.
Mediocri,
invece, sono i rapporti che permettono e inducono l’indifferenza
reciproca mascherata da pacifica, serena convivenza, da benevola
tolleranza, da astratta razionalità, da educato rispetto delle forme,
delle convenienze. I rapporti da cui non scaturisce alcuna ulteriore
realizzazione, se non, tutt’al più, qualche festivo “regalino” che col tempo
si fa sempre più insincero e vano. I rapporti che non vanno incontro a
conflitti né conoscono crisi – o i cui conflitti son sempre futili,
meschini, avvilenti – perché nessuna vera passione li attraversa e li
percuote mai: né desiderio né insoddisfazione, né speranza né
delusione. Tranne, di quando in quando, l’impellente bisogno di chi è
un po’ meno indifferente (ammesso che questa si possa definire una
passione) di scaricare sull’altro la rabbia che l’inconcludenza
reciproca alimenta nel suo cuore... Mediocri sono i rapporti nei
quali la fantasia, che dagli umani è inestirpabile, mai
movimentata soffre, si
guasta, e in una “pace” che ha del tombale a poco a poco marcisce.
Una realizzazione è tanto meno potente, cioè, quanto più, intorno a essa, è possibile, a tempo indeterminato, quel tranquillo tran tran che le periodiche, misere esplosioni d’insoddisfazione non incrinano mai.
I bambini non fanno rapporti di questo genere. I piccoli umani – se non domati dalla violenza psichica e talvolta anche fisica della cosiddetta “educazione” – fanno rapporti tumultuosi, scatenati, che non permettono l’indifferenza, che minano qualsiasi tran tran dalle fondamenta, che pretendono e impongono un movimento continuo, non solo fisico (come tutti i mammiferi) ma insieme anche psichico (come soltanto noi). I piccoli umani – se non domati con le menzogne, con le paure e oggi con gli psicofarmaci – sono una sfida per ogni adulto fin dall’inizio della vita, fin da quando ancora stan facendo le primissime realizzazioni in proprio; e lo sono per natura, per istinto: in primo luogo perché sono dei piccoli mammiferi, poi perché sono umani e dunque non possono limitarsi a crescere fisicamente, devono cimentarsi con un mondo emotivo, fantastico e intellettuale che li appassioni e li rapisca, che li avvinca e li sfidi.
Per questo si sentono talora i genitori dire che dai figli sono stati cambiati. Perché i bambini – sebbene della propria realizzazione siano solo agli inizi – tuttavia, in quanto umani, vengono al mondo già “predisposti” dall’evoluzione a destabilizzare le realizzazioni di chi al mondo c’è già, se ciò non gli viene impedito. Perché un essere umano è tale in quanto viene al mondo con l’esigenza di cambiarlo, questo mondo, anche se poi deve immaginare come cambiarlo, imparare a farlo e tentare di riuscirci.
E
tuttavia, mentre sfidano e cercano chi sostenga la sfida e a propria volta
li sfidi, al contempo i bambini son sottoposti a una forte o
fortissima tensione,
nei loro rapporti con le realizzazioni di chi è al mondo da più tempo.
Una tensione che desiderano e di cui hanno bisogno, poiché non sono
ancora diventati gli adulti indifferenti che talvolta purtroppo saranno
indotti a diventare, ma che non è per loro affatto facile sostenere,
piccoli e inesperti come sono. Stuzzicano e provocano i grandi,
come tutti i cuccioli, e nello stesso istante in cuor loro tremano,
vacillano, cadono perfino, per l’impressione che la potenza dei più
grandi gli fa, per la
capacità che sentono e constatano nei più grandi di imprimere ai
rapporti spinte poderose e sconvolgenti,
creative o distruttive che siano.
Quanto più alta è la sfida che il grande lancia, tanto più forti sono le tensioni a cui i bambini sono sottoposti. Ma essi sono in grado di resistere, e anzi di trarne stimoli meravigliosi, tanto meglio quanto più la realizzazione a cui si trovano di fronte è creativa. Cioè se la potenza dell’adulto, la capacità dell’adulto di movimentare e rendere intenso il rapporto, non è volta a brutalizzare, a controllare, a contorcere, a deformare, ma alla gioia e all’ulteriore realizzazione di entrambi. Se l’adulto non si propone, più o meno consapevolmente, di servirsi della propria forza relazionale per soffocare e azzerare l’umanità del bambino (vista, delirando, come una non-umanità che dev’essere... umanizzata!) ma all’opposto desidera solo gioire, nel tempo, di tutto il nuovo, bello e rivelatore, che l’umanità del nuovo essere saprà vedere e creare. E che così accada non dipende da calcoli complicati, da astrusi ragionamenti, né tanto meno da raffinate conoscenze pedagogiche e sofisticati metodi educativi, ma da come l’adulto a sua volta si è realizzato. Da quanto ha saputo e potuto portare con sé, attraverso o nonostante le sue relazioni con i più grandi di lui, del perfetto esemplare umano che anch’egli non poté non essere, quando venne al mondo.
Non sempre, infatti – e forse, anzi, neanche nella maggior parte dei casi – una potente realizzazione umana, individuale o collettiva che sia, è di per sé anche una realizzazione valida, creativa. Non sempre sono felici – tra quattro mura o entro i confini di intere nazioni – i rapporti di chi sa renderli tumultuosi come fiumi in piena. Talvolta si sta male, anche tantissimo, fin quasi a morirne e oltre, nel corpo e nella psiche. E chi più soffre è il bambino, che non può né vuole scappare. Che non può andarsene fisicamente, dato che dipende dall’adulto per sopravvivere, e che non può desistere dall’amare. Perché ancora sente e teme, sia pure inconsapevolmente, l’orrore dell’indifferenza, della perdita dell’amore, e perché il rapporto con l’adulto, la sfida che l’adulto gli lancia – anche quando è distruttiva, perfino quando è violenta – tanto più lo coinvolge e lo cattura quanto maggiore è la potenza che l’adulto riversa nel rapporto stesso. Poiché l’adulto che è potente, anche se più stupido e cattivo del peggior bandito, nondimeno è uno stregone che fa del rapporto un mondo, una dimensione totale, grandiosa, tellurica, abbacinante, che invade, riempie, si appropria della mente del bambino. Minacciandolo, certo, colmandolo di terrore e di sconforto, ma proprio per questo non dandogli scampo. Perché non si può rifiutare la sfida del più grande che ci sa fare fino a questo punto: si deve accettarla e resistere, stringendo i denti, finché non si sarà altrettanto forti o di più. A costo della vita. O cercare qualcuno che sia, o appaia, ancora più potente.
Non è detto che sia il genitore. Spesso, anzi – quando intorno al bambino non vi è che mediocrità, e nel bene o nel male non son potenti affatto né la madre né il padre, né l’insegnante né la Società per quant’è larga e lunga – allora è il primo tiranno che passa, il grande seduttore televisivo o il piccolo ragazzaccio di qualche anno più avanti, a impadronirsi della giovane mente che invano ha cercato chi sappia, o sembri sapere, come si riempie e si fa grande la vita. Come nel maggio del 1212, quando Stefano, un pastorello di dodici anni, predicando la crociata dei fanciulli nelle campagne francesi, nel giro di poche settimane trascinò via con sé diecimila poveri figli di contadini ai quali nessuno era mai entrato nella mente come si fa tra umani; che nessuno, mai, aveva impressionato e conquistato con una storia come la sua, che il mare si sarebbe spalancato dinanzi a loro per lasciarsi attraversare fino alla Terrasanta...
Ma ciò significa che all’adulto mediocre – all’adulto che vuol solo stare in pace dopo che si è a poco a poco appiattito nell’immobilità come sotto una pressione colossale – il bambino, quando gli anni iniziano a renderlo più forte, può almeno sfuggire mentalmente di mano cercando altrove chi gli proponga una realizzazione che lo conquisti. Non sempre sarà a un teppista o a un Hitler che si consegnerà! Qualche volta – come François Truffaut, che, abbandonato a sé stesso da una madre insensata e maligna, passava le giornate al cinema con un amico – qualche volta anche i bambini cresciuti nel deserto trovano il modo di realizzarsi al meglio! Ma fuggire, anche solo con la mente, è sempre rischioso. Poiché chi fugge dai genitori, anche se in cerca di un meglio, di rado è in buone condizioni; perché il deserto lo ha immiserito, sfiancato, soprattutto se fin dalla nascita è stato indotto a credere che al mondo non vi sia altro; perché non c’è molto, in giro, di così valido e forte da potervisi aggrappare e salvare quando ormai è di salvarsi che si tratta, e non più solo di far con calma la propria ricerca. E allora, purtroppo, talvolta finisce che sì, è proprio a un teppistello o a un Hitler che il piccolo ribelle, fallito, si consegna; o alle sostanze che mentre lo uccidono l’illudono, per qualche misero istante, di sentirsi finalmente squassare la mente e il cuore, di evadere, finalmente, dall’indifferenza e dalla mediocrità; o anche, ventenne o magari quarantenne, a un ritorno a casa con la coda fra le gambe, da figliol prodigo che viene a fare ammenda riprendendo il suo posto nell’ordinata e rabbiosa società di chi non tenterà mai più, campasse mill’anni, di rendere intensi i rapporti e i sentimenti e i pensieri.
Dall’adulto potente, invece, il bambino quasi mai scappa. Il più grande capace di sconvolgere – creativo o distruttivo che sia – conquista sempre il bambino. Sempre lo cattura. Tanto più quanto più è potente. Quanto più è, o appare, capace di occupare e movimentare le menti. Con la differenza che, se la sfida è creativa – e tanto più lo è quanto più il grande riconosce e ama, nel piccolo, il perfetto essere umano che egli è – allora il bambino può reggere alla tensione senza dover devolvere alla resistenza una quantità di energie mentali superiore a quel che può permettersi; può accettare la propria piccolezza e la disparità, poiché le sente transitorie e soprattutto secondarie rispetto alla considerazione già totale di cui gode; e può, dunque, tenere il rapporto senza esserne invaso e usurpato fino a sparire anche a sé stesso. Mentre, se la sfida è distruttiva – e tanto più lo è quanto più il grande misconosce l’essere umano nel piccolo per averlo disconosciuto in sé stesso – allora il bambino dubita del proprio valore fino a non trovare più, entro di sé, una qualche realtà sentimentale e intellettuale apprezzabile; ne è così avvilito che la sua piccolezza e disparità rispetto all’adulto, insuperabili come una barriera razziale, gli si fanno intollerabili; e la resistenza al rapporto che non può troncare gli diventa così assidua e penosa da rendergli molto difficile, se non impossibile, ogni progresso nella propria realizzazione. Il bambino comincia a “fissarsi”, si immobilizza, smette di crescere “dentro”...
Inizia a istupidirsi.
Ma
la sfida non è mai creativa, per quanto sensibile, fantasioso,
intelligente e interiormente ricco sia l’adulto, se la sua potenza non
è addolcita dalla gioia e dalla fiducia – non razionali,
non culturali, non apprese, ma istintive-irrazionali – che il
bambino suscita nell’adulto per il solo fatto d’essere bambino. Senza
questo, non c’è abbondanza di stimoli che tenga, non c’è cultura,
non c’è bontà né di sentimenti né di idee: il rapporto col bambino
inesorabilmente fallisce, se egli non è riconosciuto come un
perfetto essere umano da un adulto che irrazionalmente ama gli esseri
umani come tali nonostante le bugie tra le quali lo hanno allevato, le
religioni, le filosofie, le ideologie che lo hanno costretto ad
apprendere, nonostante l’evidenza apparentemente contraria dei fatti
mostruosi prodotti da esseri umani distrutti che si comportano come se
umani non fossero, nonostante i sensi di colpa che questo suo sentimento
suscita in lui per il terrore che esso lo renda un traditore del dovere di
“umanizzare” un bambino che altrimenti – dicono – umano non
diverrebbe mai... Il rapporto inesorabilmente fallisce, se il grande
non rifiuta tutto ciò per legarsi come Ulisse all’albero maestro della
gioia e della fiducia irrazionali che il piccolo suscita in
lui. E fallisce tanto più clamorosamente quanto più il grande è
forte, e alta la sua sfida.
La
verità, infatti, è che tutto ciò che l’adulto possiede, fa,
conosce ed è, non ha alcun potere di rendere creativa la sfida che egli
lancia al figlio, se essa è distruttiva, né di renderla distruttiva se
invece è creativa. Ciò che fa la differenza, ciò che rende
il rapporto col grande non solo creativo, ma sopportabile
per il piccolo, è l’intensità della gioia e la certezza
della fiducia che il rapporto stesso suscita istintivamente
nell’adulto. Ciò che fa la differenza è la qualità del sentimento
dell’adulto. Come il coltivatore di rose, abbiamo detto – il cui
successo nella professione (e prim’ancora nell’apprendimento
della professione, e ancor prima nella scelta della professione)
dipende dal sentimento che quei fiori suscitano in lui, sentimento
che iniziò a formarsi nel rapporto con quello della madre, in un giorno
ormai remoto, e che nel tempo si è poi evoluto a seconda di come egli ne
ha avuto cura o meno – così il successo del padre, della madre,
dell’insegnante e dell’intera Società nei confronti dei bambini non
dipende che dal sentimento che per i bambini provano: sentimento che
iniziò a formarsi a contatto con quello che essi a loro volta
percepirono, nei propri confronti, nei genitori, nei maestri e
nella Società con cui ebbero a che fare; e che nel tempo si è poi
evoluto in un sentimento sempre più gioioso e fiducioso –
l’unico che i piccoli umani possano suscitare in un adulto sano di mente
– o, all’opposto, in un sentimento sempre più cupo e dubbioso,
a seconda di ciò che essi ne hanno fatto a mano a mano che costruivano le
proprie menti.
Certo,
i bambini non sono rose, che non possono sfuggire alla cura – o
all’incuria – di cui sono oggetto. Non sono animali non umani,
che possono scappare, sì, ma solo con le zampe. I bambini, in quanto
animali umani, nascono creativi, e una creatività innata
– a differenza di una tecnica appresa, di cui si può liberamente
decidere se e quando servirsi – in che cosa mai può consistere, se non in
una congenita impossibilità di accettare la realtà? Cioè nel non
poter fare a meno di crearsi e creare? O, se la creatività si
deforma, di distruggersi e distruggere?... E i bambini, in effetti,
che lottano con le unghie e coi denti, assai di rado (per non dire mai)
fanno di sé delle copie conformi degli adulti. Ma la lotta, l’abbiamo
detto, è molto rischiosa, perché il rifiuto del modo di essere e
di rapportarsi dei genitori, dei maestri, della Società, comporta il
rischio di desistere dall’amare, di cadere nell’indifferenza
e nell’odio, cioè di far peggio di loro. E i bambini, in effetti,
talvolta si realizzano migliori, tal altra peggiori. Tanto
più facilmente peggiori quanto più la sfida sostenuta è stata
possente, ma priva di gioia e di fiducia; tanto più facilmente migliori
quanto più la sfida – a cui li ha sottoposti l’immenso mondo umano già
realizzato nel quale sono entrati nudi – è stata mitigata dal
sentimento di perfezione che essi in quel mondo irrazionalmente hanno
suscitato malgrado la loro inerme piccolezza, malgrado l’inettitudine,
malgrado l’assenza di linguaggio; e a dispetto di tutte le religioni, le
filosofie e le psicologie deliranti che pretenderebbero che gli umani,
unici fra i viventi, vengano al mondo... non ancora umani, e debbano
essere umanizzati.
Sono le realizzazioni adulte piene di diffidenza nei confronti dei bambini, potenti o mediocri che siano, le realtà che a poco a poco istupidiscono e incattiviscono i bambini, quando essi non riescono a resistergli. E la diffidenza per i bambini, in tutte le sue deliranti varietà incolte o acculturate, a sua volta scaturisce dal disconoscimento degli esseri umani che da millenni viene insinuato nelle menti in una storia apparentemente infinita che è di potenza e di mediocrità insieme: la potenza, da un lato, dell’immane apparato religioso e culturale che lo costruisce e lo difende, lo aggiorna e lo promuove; la mediocrità, dall’altro, di un concetto che non è altro che un balbettio insensato – umani si diventa, per costrizione e autocostrizione, quando è evidente che la natura di ogni specie è un prodotto innato dell’evoluzione – e nonostante ciò continua a essere ripetuto, rimasticato, risputato e ribadito in mille versioni, diverse e “più moderne” solo nelle parole, in un eterno rito di stupidità e cattiveria contro la nostra stessa specie la cui unica spiegazione possibile è il terrore che la propria libera creatività incute in tutti quelli che l’hanno resa distorta e distruttiva lasciandosi misconoscere, maltrattare ed “educare” fin da neonati dalla diffidenza per l’umanità, e in particolare per l’umanità appena nata, di chi al rito crede e si sottomette.
Torneremmo
a parlarne nelle prossime settimane, per mostrare con esempi concreti,
tratti dalle cronache degli ultimi mesi, come la potenza e la mediocrità
dell’establishment intellettuale religioso e di una parte di
quello “laico” continuino a sfidarci tutti. Per mostrare, cioè, che
dinanzi a questa sfida contro l’umanità siamo tutti bambini, per
tutta la vita: ogni volta che da piccoli o da grandi
dobbiamo subire le prediche e le reprimende di chi è o dice di essere più
adulto, più esperto, più saggio, più sano, più realizzato di noi, ogni
volta che apriamo un giornale o un libro, ogni volta che accendiamo il
televisore e ascoltiamo frastornati il sedicente o eterodetto
“esperto” o sacerdote di turno ripetere sempre la stessa cosa: c’è
un mostro, nascosto in ognuno di noi, che dev’essere tenuto a bada;
nasciamo peccatori, per colpa di Adamo ed Eva; ciò che rimane del
cervello rettiliano è sempre in azione nelle nostre teste; la corteccia
cerebrale e l’ippocampo non vanno d’accordo; bisogna imparare e
insegnare a controllarsi; la ragione deve sottomettere l’oscuro fondo
istintivo e passionale dell’animo umano; l’uomo dev’essere
umanizzato, e si deve cominciare a umanizzarlo fin dalla nascita... L’uomo
è una bestia, gli ripetevano le povere balie, e loro, da bravi
bambini ubbidienti, continuano a biascicarlo anche quando le belle chiome
lanuginose dell’infanzia ormai da lunga pezza gli si sono incanutite.
Come delle macchinette caricate a molla? Sì – verrebbe da rispondere
– poiché sono uomini e donne terrorizzati di sé stessi fin da piccoli,
e il terrore paralizza e fa balbettare... Ma questa prima risposta,
ispirata dalla pietà, non soddisfa l’intelligenza che non può non
vedere come i cosiddetti “saggi”, a differenza delle nostre povere
balie, dei genitori e dei nonni, tradiscano invece un’astuta
intenzionalità quando tentano sempre, mentre lasciano intatto il
concetto, di cambiare le parole per farlo sembrare nuovo.
(Anticoli Corrado e Roma, maggio - luglio 2007) |
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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