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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Luce e vita

di Niels Bohr

 

(1932)

 

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 2015 Anno internazionale della Luce.

L’inaugurazione ufficiale dell’iniziativa è in programma il 19 gennaio a Parigi presso la sede dell’Unesco.

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Niels Bohr (1885-1962),  fisico, matematico, filosofo della scienza, teorico della fisica e accademico danese, diede contributi fondamentali nella comprensione della struttura dell’atomo e nella fisica quantistica, per i quali ricevette il Nobel per la Fisica nel 1922. Ebreo, antinazista, fervente sostenitore dei diritti umani, interruppe ogni rapporto con l’allievo Werner Heisenberg quando costui aderì al programma atomico nazista. Nel 1943, durante l’occupazione nazista della Danimarca, Bohr evitò l’arresto fuggendo in Svezia e da lì a Londra. Nello stesso anno si trasferì negli Stati Uniti, a New York e poi a Los Alamos, e collaborò al progetto Manhattan, per il quale, oltre che per la sua competenza, fu determinante nell’informare gli altri scienziati sui progetti nucleari nazisti. Dopo la guerra tornò a Copenaghen, dove sostenne l’uso pacifico dell’energia nucleare.

Luce e vita è il discorso di Niels Bohr alla riunione d’apertura del Congresso internazionale di terapia della luce che si svolse a Copenhagen nell’agosto del 1932. Pubblicato in Nature 131, 421 (1933) e nel volume: N. Bohr, Atomic Physics and Human Knowledge, Wiley, New York, 1958, venne tradotto in italiano da Paolo Gulmanelli per il volume: Niels Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, 1961, Torino, Paolo Boringhieri, pp 376-386.

 

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In quanto fisico, dedito a studi circoscritti alle proprietà dei corpi inanimati, non è senza esitazione che ho accettato l’invito a parlare in questo convegno di scienziati, qui riuniti per approfondire le nostre conoscenze sugli effetti benefici che la luce ha nella cura delle malattie. Non essendo in grado di dare un contributo personale a questo magnifico ramo della scienza, tanto importante per il benessere dell’umanità, potrei tutt’al più soffermarmi a ragionare su quei fenomeni puramente inorganici nei quali interviene la luce e che nel corso dei secoli hanno esercitato una speciale attrazione sui fisici, non fosse altro che per il fatto ch’essa costituisce il nostro principale mezzo di osservazione.

 

Ho tuttavia ritenuto che in questa sede potrebbe presentare maggiore interesse il problema dell’influenza che i risultati acquisiti nel limitato dominio della fisica possono esercitare sul nostro punto di vista circa la posizione occupata dagli organismi viventi nell’edificio generale delle scienze naturali. Nonostante il carattere sottile dei misteriosi aspetti della vita, questo problema si è presentato a ogni stadio della scienza, poiché l’essenza di ogni interpretazione scientifica sta nella scomposizione analitica dei fenomeni più complessi in altri più semplici. Attualmente, la limitatezza essenziale della descrizione meccanica dei fenomeni naturali rivelata dal recente sviluppo della teoria atomica ha conferito nuovo interesse al vecchio problema. Origine di questo sviluppo è stato lo studio approfondito dell’interazione della luce coi corpi materiali, nella quale si manifestano caratteristiche che non rispondono a certi requisiti fin qui ritenuti indispensabili in ogni interpretazione fisica. Come cercherò di mostrare, gli sforzi dei fisici per dominare questa situazione ricordano in certo modo l’atteggiamento che i biologi assumono, più o meno consapevolmente, nei confronti degli aspetti della vita. Desidero però sottolineare subito che è solo sotto questo aspetto formale che la luce, forse il meno complesso tra i fenomeni fisici, mostra un’analogia con la vita, la cui varietà di manifestazioni sfugge ancora al dominio dell’analisi scientifica.

 

Da un punto di vista fisico, la luce può venir definita come trasmissione di energia a distanza tra corpi materiali. Com’è ben noto, questi effetti trovano una semplice spiegazione nella teoria elettromagnetica, che può venire riguardata come una razionale estensione della meccanica classica, atta a ridurre il contrasto tra azione a distanza e di contatto. Secondo questa teoria, la luce è descritta come un insieme di oscillazioni elettriche e magnetiche accoppiate, che differiscono dalle ordinarie onde radio solo per la maggior frequenza di vibrazione e la più breve lunghezza d’onda. La propagazione praticamente rettilinea della luce, su cui si basa la localizzazione dei corpi tramite la visione diretta o per mezzo di opportuni strumenti ottici, dipende unicamente dalla brevità della lunghezza d’onda rispetto alle dimensioni dei corpi e degli strumenti in gioco. Il carattere ondulatorio della propagazione della luce non solo sta alla base della nostra interpretazione dei colori, da cui con la spettroscopia tante informazioni sulla costituzione dei corpi materiali sono state ricavate, ma è altresì essenziale per qualunque analisi accurata dei fenomeni ottici. Come esempio tipico citerò solo le figure d’interferenza, che appaiono quando la luce proveniente da una sorgente perviene a uno schermo per due cammini diversi. In questo caso si trova che nei punti dello schermo in cui le fasi dei due treni d’onda sono eguali, cioè dove le oscillazioni elettriche e magnetiche dei due raggi coincidono, l’illuminazione risulta maggiore di quella che sarebbe prodotta dai due raggi separatamente, mentre nei punti in cui le predette oscillazioni avvengono lungo direzioni opposte e dove i treni d’onda sono, si suol dire, sfasati l’uno rispetto all’altro, l’illuminazione risulta ridotta e può anche scomparire del tutto. Queste figure d’interferenza forniscono una verifica così perfetta dell’interpretazione ondulatoria della propagazione della luce, da permettere di considerare questa non come un’ipotesi nell’usuale senso del termine, ma piuttosto come la descrizione corretta dei fenomeni osservati.

 

Tuttavia, come sapete, il problema della natura della luce è stato ripreso in anni recenti, in seguito alla scoperta di un’atomicità intrinseca del meccanismo di trasmissione dell’energia, aspetto, questo, affatto inintelligibile dal punto di vista della teoria elettromagnetica. In effetti, qualunque trasferimento di energia luminosa può venire ricondotto a processi elementari, in ognuno dei quali si verifica lo scambio di un cosiddetto quanto di luce, la cui energia è uguale al prodotto della frequenza delle oscillazioni elettromagnetiche per il quanto universale d’azione o costante di Planck. L’evidente contrasto fra questa atomicità degli effetti della luce e la continuità del trasporto dell’energia nella teoria elettromagnetica ci pone di fronte a un dilemma avente un carattere fin qui sconosciuto alla fisica. Nonostante la sua evidente insufficienza, non si può pensare di sostituire la descrizione ondulatoria della propagazione della luce con un’altra basata sulle idee dell’ordinaria meccanica. In particolare, va sottolineato il fatto che i quanti di luce non possono venir considerati alla stregua di particelle a cui è possibile associare una ben definita traiettoria nel senso proprio di quella meccanica. Come una figura d’interferenza scompare del tutto se mediante un corpo non trasparente intercettiamo uno dei fasci per far sì che l’energia luminosa fluisca lungo un solo dei due cammini tra la sorgente e lo schermo, così è impossibile, in ogni fenomeno per il quale la natura ondulatoria della luce intervenga in maniera essenziale, riconoscere e seguire la traiettoria dei singoli quanti, senza con questo alterare radicalmente il fenomeno di studio. Invero, la continuità spaziale della propagazione della luce e l’atomicità degli effetti di questa sono aspetti complementari, nel senso che spiegano caratteristiche dei fenomeni luminosi egualmente importanti e che non possono mai essere colte in contraddizione reciproca, poiché una loro più minuta analisi in termini di meccanica richiederebbe dispositivi sperimentali mutuamente escludentisi. Nello stesso tempo, questo stato di cose ci costringe a rinunciare a una descrizione causale completa dei fenomeni luminosi e a cercare leggi probabilistiche in base alle quali la descrizione elettromagnetica del trasporto dell’energia rimanga valida solo in senso statistico. Tutto ciò costituisce un’applicazione tipica del cosiddetto principio di corrispondenza, che esprime il tentativo di utilizzare nella più ampia estensione possibile i concetti delle teorie classiche della meccanica e dell’elettrodinamica, a dispetto del contrasto esistente fra queste teorie e il quanto d’azione.

 

A prima vista questa situazione può apparire molto sconfortante; ma, come si è verificato spesso nella storia del pensiero scientifico quando nuove scoperte hanno portato a riconoscere qualche limitazione essenziale dei concetti ritenuti fino a quel momento indispensabili, siamo ricompensati dalla conquista di un più ampio orizzonte e di un’accresciuta capacità di mettere in correlazione fenomeni che in precedenza avrebbero potuto apparire anche contraddittori. Infatti, la limitazione della meccanica classica simbolizzata dal quanto d’azione ci ha offerto una guida per la comprensione dell’intrinseca stabilità degli atomi, sulla quale riposa la descrizione meccanica dei fenomeni naturali. Naturalmente è stato sempre un aspetto fondamentale della teoria atomica la rinuncia a interpretare in termini meccanici l’indivisibilità degli atomi, e questa situazione è rimasta praticamente immutata anche dopo che all’indivisibilità degli atomi si è sostituita quella delle particelle elementari, di cui gli atomi e le molecole sono costituiti. Non mi riferisco qui al problema della stabilità intrinseca delle particelle elementari, ma a quello della stabilità delle strutture atomiche formate da queste. Se si affronta questo problema dal punto di vista della meccanica o della teoria elettromagnetica, non si riesce a spiegare le proprietà specifiche degli elementi e neppure l’esistenza dei corpi rigidi, sulla quale in definitiva riposano tutte le misure che si eseguono per ordinare i fenomeni nello spazio e nel tempo. Ora queste difficoltà sono state superate con la scoperta che ogni ben definita modificazione di un atomo è un processo individuale consistente in una transizione completa dell’atomo da uno dei suoi cosiddetti stati stazionari a un altro. Inoltre, poiché in un processo di transizione, nel corso del quale un atomo emette o assorbe luce, viene scambiato un solo quanto, è possibile misurare direttamente, per mezzo di osservazioni spettroscopiche, l’energia di ciascuno di questi stati stazionari. L’informazione ottenuta per questa via è risultata poi corroborata dagli studi degli scambi di energia che si verificano negli urti fra atomi e nelle reazioni chimiche.

 

In questi ultimi anni il considerevole sviluppo della meccanica atomica, verificatosi lungo le linee del principio di corrispondenza, ci ha fornito metodi per il calcolo dell’energia degli stati stazionari degli atomi e delle probabilità dei processi di transizione, rendendo con questo la nostra descrizione delle proprietà degli atomi non meno ampia della coordinazione dei dati astronomici operata dalla meccanica newtoniana. Nonostante la maggior complessità dei problemi generali della meccanica atomica, l’analisi degli effetti fisici più semplici dovuti all’azione della luce si è dimostrata della più grande importanza per questo sviluppo. Per esempio l’uso non ambiguo del concetto di stato stazionario sta con l’analisi meccanica dei moti interni degli atomi in un rapporto di complementarità del tutto simile a quello che intercorre tra i quanti di luce e la teoria elettromagnetica della radiazione. Infatti, qualunque tentativo mirante a seguire le fasi successive di un processo di transizione implica uno scambio non controllabile di energia tra l’atomo e gli strumenti di misurazione, che rende impossibile quel controllo del bilancio d’energia per cui ci si è mossi. La coordinazione causale meccanicistica degli eventi può venir effettuata soltanto nei casi in cui l’azione implicata è grande rispetto al quanto, e quindi risulta possibile una suddivisione del fenomeno. Se questa condizione non è verificata, l’azione degli strumenti di misura sull’oggetto in studio non può venire trascurata e per parte sua determina un’esclusione mutua fra i vari tipi d’informazione necessari per una descrizione meccanica completa di tipo consueto. L’incompletezza dell’analisi meccanica dei fenomeni atomici proviene in ultima analisi dall’ignoranza della reazione dell’oggetto sugli strumenti, presente in ogni procedimento di misurazione. Come il concetto generale di relatività esprime la dipendenza essenziale di ogni fenomeno dal sistema di riferimento spazio-temporale adottato, così la nozione di complementarità simbolizza una limitazione fondamentale, rivelata dalla fisica atomica, dell’esistenza oggettiva, e indipendente dagli strumenti impiegati per la loro osservazione, dei fenomeni fisici.

 

Questa revisione dei fondamenti della meccanica, che non risparmia neppure il concetto d’interpretazione fisica, non soltanto è essenziale per una corretta valutazione della situazione determinatasi nella teoria dell’atomo, ma fornisce una nuova base per la discussione dei problemi della biologia in rapporto alla fisica. Questo non significa che nei fenomeni atomici si manifestino proprietà più simili a quelle degli organismi viventi di quanto accada nei processi fisici ordinari. A prima vista, il carattere essenzialmente statistico della meccanica atomica potrebbe anzi apparire in contrasto con la struttura altamente organizzata degli esseri viventi. Dobbiamo tuttavia osservare che proprio la descrizione di tipo complementare lascia adito nei processi atomici a certe regolarità che sono estranee alla meccanica, ma che risultano essenziali sia per la spiegazione del comportamento degli organismi viventi, sia per l’interpretazione delle proprietà specifiche della materia inorganica. Così, nell’assimilazione del carbonio operata dalle piante, da cui dipende in così larga misura anche il nutrimento degli animali, abbiamo a che fare con un fenomeno per la comprensione del quale l’individualità dei processi foto-chimici è chiaramente essenziale. Similmente, la stabilità di tipo non meccanico delle strutture atomiche si manifesta in modo netto nelle proprietà caratteristiche di certe combinazioni chimiche notevolmente complesse, come la clorofilla e l’emoglobina, che intervengono in modo determinante nel meccanismo di assimilazione delle piante e di respirazione degli animali. Naturalmente, analogie tratte dall’ordinaria esperienza chimica, come l’antico confronto della vita col fuoco, non potranno fornire in alcun modo una spiegazione degli organismi viventi più soddisfacente di quella che potrebbe scaturire dalla somiglianza di questi con certe strutture puramente meccaniche, come per esempio un congegno a orologeria. In realtà, le caratteristiche essenziali degli esseri viventi vanno ricercate in una specialissima organizzazione nella quale aspetti analizzabili in termini di meccanica ordinaria si trovano intimamente connessi, in misura sconosciuta alla materia inanimata, con altri di natura tipicamente atomistica.

 

Un’istruttiva illustrazione del grado di sviluppo di questa organizzazione si trova nella costituzione e nella funzione dell’occhio, per lo studio del quale la semplicità dei fenomeni luminosi si è dimostrata ancora una volta utilissima. Senza entrare nei particolari, ricorderò soltanto come l’oftalmologia ha potuto mettere in evidenza le proprietà ideali dell’occhio umano in quanto strumento ottico. Invero, il limite imposto alla formazione dell’immagine dagli inevitabili effetti interferenziali coincide praticamente con le dimensioni di quelle porzioni della retina che hanno separate connessioni nervose col cervello. Inoltre, poiché l’assorbimento di un singolo quanto di luce da parte di ognuno di questi elementi retinei è sufficiente a determinare un’impressione visiva, si può dire che la sensibilità dell’occhio raggiunge il limite posto dal carattere atomico dei processi luminosi. L’efficienza dell’occhio sotto entrambi questi aspetti è in realtà uguale a quella di un buon telescopio o microscopio, connesso con un opportuno amplificatore atto a rendere osservabili i processi elementari. È vero che con questi strumenti è possibile aumentare in modo sostanziale i nostri poteri di osservazione, ma, avendo presenti i limiti posti dalle proprietà fondamentali dei fenomeni luminosi, non è possibile pensare a uno strumento più efficiente al proprio scopo dell’occhio umano. Ora, questa ideale perfezione dell’occhio, riconosciuta attraverso i recenti progressi della fisica, induce a pensare che anche altri organi, sia che essi servano alla ricezione d’informazione dall’ambiente oppure alla reazione a impressioni sensoriali, debbano possedere un adattamento al proprio scopo del tutto analogo, e che il carattere di elementarità simbolizzato dal quanto d’azione debba manifestarsi in modo decisivo anche qui in connessione con qualche meccanismo di amplificazione. Se, fino a ora, è stato possibile riconoscere l’esistenza di questo limite soltanto per l’occhio, ciò non è dovuto che all’estrema semplicità dei fenomeni luminosi cui abbiamo accennato più volte.

 

Il riconoscimento dell’importanza essenziale degli aspetti atomistici nel meccanismo degli organismi viventi non è tuttavia sufficiente per una spiegazione realmente comprensiva dei fenomeni biologici. Si tratta perciò di stabilire se all’analisi dei fenomeni naturali non manchi ancora qualche elemento fondamentale per la comprensione della vita sulla base delle esperienze fisiche. Anche prescindendo dalla varietà praticamente inesauribile dei fenomeni biologici, una risposta a questo quesito può venire difficilmente trovata senza un esame del significato da attribuire al concetto d’interpretazione fisica ancora più approfondito di quello cui ci ha già spinto la scoperta del quanto d’azione. Da un lato le magnifiche manifestazioni ognora rivelate dall’indagine fisiologica, così diverse da quelle della materia inorganica, hanno indotto i biologi a non credere possibile un’effettiva comprensione degli aspetti essenziali della vita in termini puramente fisici. D’altro canto il punto di vista noto come vitalismo si esprime in modo piuttosto ambiguo nell’ipotesi che una speciale forza vitale, sconosciuta alla fisica, governi tutta la vita organica. Io credo che, in effetti, tutti noi concordiamo con Newton nel ritenere che cardine fondamentale della scienza è il convincimento che la natura presenta sempre, sotto identiche condizioni, gli stessi effetti. Se perciò riuscissimo a spingere l’analisi del meccanismo degli organismi viventi fino alla sfera dei fenomeni atomici, non ci dovremmo attendere di trovare manifestazioni estranee alla materia inorganica. Di fronte a questo dilemma non va però dimenticato che le condizioni della ricerca biologica e fisica non sono confrontabili direttamente, poiché la necessità di tenere in vita l’oggetto impone nel primo caso restrizioni che non hanno controparte nel secondo. Così, dovremmo certamente uccidere un animale, se volessimo spingere lo studio dei suoi organi a un punto tale da arrivare a riconoscere la parte rappresentata dai singoli atomi nelle funzioni vitali. In ogni esperimento eseguito su organismi viventi va lasciata una certa indeterminatezza alle condizioni fisiche cui quegli organi sono sottoposti, e tutto induce a ritenere che la libertà minima che si è così venuti a concedere all’organismo sia in ogni caso sufficiente a permettergli di nasconderci, per così dire, il suo segreto. Da questo punto di vista la mera esistenza della vita andrebbe considerata in biologia come un fatto elementare, allo stesso modo come in fisica atomica l’esistenza del quanto d’azione va accettata come un dato basilare, non derivabile dalla meccanica ordinaria. In effetti, l’essenziale impossibilità di un’analisi di tipo meccanico della stabilità atomica presenta una stretta analogia con l’impossibilità di un’interpretazione fisica o chimica delle peculiari funzioni che caratterizzano la vita.

 

Considerando questa analogia, dobbiamo tuttavia ricordare che i problemi si presentano in fisica atomica e in biologia secondo aspetti sostanzialmente diversi. Mentre nel primo caso l’interesse principale è per il comportamento della materia nelle sue forme più semplici, la complessità dei sistemi considerati dalla biologia è di natura fondamentale, poiché anche gli organismi più primitivi contengono un numero enorme di atomi. È vero che l’ampiezza del campo di applicabilità della meccanica ordinaria, comprendente anche la descrizione degli strumenti di misura impiegati nella fisica atomica, si basa sulla possibilità di trascurare la complementarità della descrizione introdotta dal quanto d’azione in quei casi in cui intervengono corpi contenenti un grande numero di atomi. È tuttavia tipico della ricerca biologica che, a dispetto dell’importanza essenziale rivestita dai fenomeni atomici, non è mai possibile controllare le condizioni esterne cui un singolo atomo è soggetto, nella misura in cui questo risulta possibile nelle esperienze fondamentali della fisica atomica. In particolare non siamo neppure in grado di precisare quali atomi appartengano effettivamente a un organismo vivente, poiché a ogni funzione vitale è associato uno scambio di materia per il quale atomi sono continuamente assorbiti o ceduti dalla struttura che costituisce l’essere vivente. Questo scambio si estende anzi a tutte le parti dell’organismo a un grado tale da rendere impossibile una distinzione netta, sul piano delle dimensioni atomiche, tra quegli aspetti che possono venire interpretati senza ambiguità sulla base della meccanica ordinaria e quelli che richiedono la considerazione del quanto d’azione. Questa fondamentale differenza tra ricerca fisica e ricerca biologica comporta l’impossibilità di tracciare un ben definito limite per l’applicabilità dei concetti fisici ai problemi della vita, che corrisponda alla distinzione che si fa nella meccanica atomica tra il campo della descrizione causale meccanica e quello dei fenomeni propriamente quantici. Questa limitazione dell’analogia trae la sua origine dalle mere definizioni date alle parole vita e meccanica, e cioè in definitiva da una questione di convenzioni. Da un lato, il problema di una limitazione della fisica nel dominio della biologia perderebbe sùbito ogni senso se, invece di distinguere gli organismi viventi dai corpi inanimati, estendessimo l’idea della vita a tutti i fenomeni naturali. D’altra parte, se in accordo col linguaggio comune vogliamo riservare la parola meccanica alla non ambigua descrizione causale dei fenomeni naturali, locuzioni come meccanica atomica perderebbero ogni senso. Non mi soffermerò oltre su questioni di pura terminologia e aggiungerò solo che l’essenza dell’analogia in discussione è l’evidente mutua esclusione tra aspetti tipici della vita come la conservazione e la generazione, da una parte, e la suddivisione necessaria per una qualunque analisi fisica, dall’altra. Proprio per questo essenziale aspetto di complementarità il concetto di fine, estraneo all’analisi meccanica, trova un certo campo d’applicazione in biologia. In questo senso argomentazioni teleologiche possono infatti trovare legittimamente posto in una descrizione fisiologica, che prenda gli aspetti caratteristici della vita nel dovuto conto, in modo simile a quello con cui in fisica atomica il principio di corrispondenza tiene conto del quanto d’azione.

 

Discutendo l’applicabilità di concetti puramente fisici agli organismi viventi, abbiamo ovviamente trattato la vita come ogni altro fenomeno dell’universo materiale. Non è tuttavia nemmeno il caso di sottolineare che questo atteggiamento, tipico della ricerca biologica, non trascura gli aspetti psicologici della vita. Al contrario, il riconoscimento della limitatezza dei concetti meccanici in fisica atomica sembra atto a conciliare i contrastanti punti di vista della fisiologia e della psicologia. Infatti, la necessità di considerare l’interazione fra strumento di misura e oggetto in esame mostra una stretta analogia con le difficoltà peculiari dell’analisi psicologica, provenienti dal fatto che il contenuto mentale risulta modificato ogni volta che l’attenzione è concentrata su un qualunque particolare aspetto di esso. Insistere su questa analogia, che porta un chiarimento essenziale al parallelismo psico-fisico, ci condurrebbe troppo lontano. Desidero però sottolineare che considerazioni di questo tipo sono diametralmente opposte a ogni tentativo di scoprire nella descrizione statistica dei fenomeni atomici nuove possibilità per un’influenza spirituale sul comportamento della materia. Per esempio è impossibile, dal nostro punto di vista, attribuire un significato non ambiguo all’opinione talora espressa che la probabilità del verificarsi di certi processi atomici nel corpo possa essere sotto la diretta influenza della volontà. In effetti, secondo l’interpretazione generalmente offerta del parallelismo psico-fisico, la libertà della volontà va considerata come un carattere della vita cosciente, che corrisponde a funzioni dell’organismo le quali non solo non ammettono una descrizione meccanica causale, ma si sottraggono anche a ogni analisi fisica spinta ai limiti richiesti da un’applicazione non ambigua delle leggi statistiche della meccanica atomica. Senza dilungarmi in argomentazioni di carattere metafisico, aggiungerò solo che un’analisi del concetto di spiegazione comincerebbe e finirebbe, naturalmente, con la rinuncia a spiegare la nostra stessa attività cosciente.

 

Per concludere, non è necessario che sottolinei il fatto che con nessuna delle mie osservazioni ho inteso esprimere alcuno scetticismo circa il futuro sviluppo delle scienze fisiche e biologiche. Un tale scetticismo è in realtà lontano dalla mente dei fisici in un tempo come il presente, in cui il riconoscimento dei limiti dei nostri concetti fondamentali si è tradotto in un così notevole sviluppo della nostra scienza. Né la rinuncia a una spiegazione della vita ha impedito il magnifico progresso cui abbiamo assistito in ogni ramo della biologia, compresi quelli che si sono dimostrati così utili alla medicina. Anche se non risulta possibile tracciare una netta separazione fisica tra salute e malattia, non c’è assolutamente posto per alcuno scetticismo nel particolare campo di studi di cui questo congresso si occupa, fintanto che non si perda di vista la strada che è stata fin qui seguita con tanto successo dal tempo di Finsen1, e il cui segno distintivo rimane la combinazione più intima dello studio degli effetti medici della fototerapia con quello dei suoi aspetti fisici.

 

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Niels Bohr

Niels Bohr e Albert Einstein nel 1925


 

[1] Niels Finsen (1860-1904), medico faroese, si dedicò allo studio della fototerapia, ossia degli effetti terapeutici della luce. Nel 1896 fondò a Copenaghen l’Istituto di Fotomedicina (oggi Istituto Finsen). Per i suoi rivoluzionari contributi al campo nascente della fototerapia, ricevette nel 1903 il Premio Nobel per la medicina.

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