Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
L’Immaginazione di Tattersall
di Luigi Scialanca
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Sarà una lunga battaglia, dopo che saremo morti e sepolti.
Grande è il potere del fraintendimento.
(lettera di Charles Darwin a Thomas H. Huxley del 30 settembre 1871)
A Ian Tattersall, paleoantropologo, curatore emerito dell’American Museum of Natural History di New York e scrittore, va riconosciuto un merito: è stato il “primo” ― anche se qualche decennio dopo Massimo Fagioli ― a parlare dell’essere umano come di un caso unico tra i viventi.
“Noi esseri umani siamo animali enigmatici” scrive nel 1998. “Siamo imparentati con il resto del vivente, ma ci distinguiamo per le nostre capacità cognitive. Gran parte del nostro comportamento è condizionato dall’interesse per concetti astratti e simbolici. Ciò non significa che non condividiamo con altri animali alcuni comportamenti, inclinazioni e strutture fisiche: questa verità non è nemmeno in discussione. Anzi, è osservando le somiglianze che sappiamo di essere parte integrante della natura, ed è studiando come sono distribuite tali somiglianze fra le numerose specie della Terra che possiamo conoscere precisamente il nostro posto nel grande albero della vita”1. Tuttavia, “con la comparsa sulla Terra di Homo sapiens anatomicamente moderno si è presentato sulla scena un essere del tutto nuovo”2.
Da più di quindici anni Tattersall “insegue” questo essere del tutto nuovo. Con qualche passo avanti e forse, come vedremo, anche qualche passo indietro. Ma senza pervenire a una soddisfacente comprensione e definizione non tanto dell’unicità umana (essa non è altro che l’immaginazione, e Tattersall lo ha intuìto dall’inizio) ma di cosa sia e in cosa consista, invero, l’immaginazione che ci rende unici.
“Homo sapiens,” ribadisce nel 2000, “rappresenta qualcosa di innegabilmente insolito [...]. Di qualunque cosa si tratti, questo quid ha a che fare con il modo in cui ci rappresentiamo il mondo esterno: è, quindi, un fattore comportamentale”3. Ma poi, a proposito di tale quid ― rischiando il “fraintendimento” di cui parleremo tra poco ― si spinge invece a definirlo “una scintilla di creatività”4.
“Con la comparsa sulla Terra di Homo sapiens e dei suoi comportamenti moderni [...],” scrive nel 2002, “entra in scena una categoria di essere vivente del tutto nuova. E spiegare [...] questo straordinario fenomeno è il problema al contempo più interessante e più elusivo di tutta la biologia”5.
“Gli esseri umani sono unici”, scrive nel 2008. “[...] Un’entità a parte rispetto al resto della natura. [...] Evidentemente, quando comparve sulla scena Homo sapiens, il cervello degli ominidi [...] si era evoluto fino al punto in cui un unico cambiamento casuale ― o un gruppo di cambiamenti geneticamente collegati ― fu sufficiente a generare una struttura dotata di un potenziale completamente nuovo”6.
“È ormai chiaro”, scrive nel 2012, “che gli esseri umani moderni non sono semplicemente una «versione migliorata» delle scimmie antropomorfe: noi non abbiamo precedenti sul pianeta e spiegare i casi unici, si sa, è un compito ingrato e difficile”7.
Quello stesso anno, a Roma, nel corso di una seguitissima e applaudita lectio magistralis, Ian Tattersall afferma: “Gli esseri umani sono indubbiamente straordinari. [...] E la cosa che ci fa sentire tanto diversi dagli altri viventi è il modo unico che abbiamo noi di elaborare le informazioni nel nostro cervello. [...] Noi non facciamo solo quello che fanno gli altri esseri viventi, ma gestiamo le informazioni in un modo che definirei del tutto caratteristico della nostra specie”8.
E nel 2014: “Noi siamo diversi. Non è un segreto che qualcosa ci rende profondamente diversi da tutti gli altri organismi, compresi quelli che ci sono più vicini sul grande albero della vita. Ovviamente possediamo un numero notevole di peculiarità fisiche che ci rendono piuttosto insoliti, la maggior parte delle quali sono legate al nostro modo, davvero curioso, di camminare eretti, su due gambe. La cosa che però ci fa personalmente sentire tanto diversi, anche rispetto agli scimpanzé, i nostri parenti più stretti oggi, è di certo lo strano modo che abbiamo di elaborare l’informazione con il cervello”9.
E ancora nel 2014: “Noi esseri umani siamo primati davvero particolari. Camminiamo eretti, tenendo i nostri pesanti corpi in precario equilibrio su due piedi corti. [...] [Ma] la cosa forse più notevole è che elaboriamo l’informazione sul mondo intorno a noi in un modo che non ha precedenti. Per quanto ne sappiamo, siamo i soli”10.
Il coraggio di Tattersall ― anche se, come ho già sottolineato, ad alcuni decenni di distanza da un coraggio di gran lunga più straordinario ― va nondimeno riconosciuto soprattutto perché lo ha esposto (e lo espone) al rischio di essere emarginato dalla comunità scientifica internazionale per un motivo che è, al contempo, semplice, condivisibile, e tuttavia molto complesso e inaccettabile.
È dai tempi di Darwin, infatti, che gli scienziati ergono barriere contro chi si riferisce alla specificità umana in termini qualitativamente incomparabili a quelli utilizzati per ogni altro animale conosciuto. Barriere comprensibili, ben motivate, come dirò fra un momento, ma fatali per il progresso della nostra conoscenza di noi stessi.
Perché lo fanno? Per un ottimo motivo, ripeto: temono (e a ogni costo vogliono impedire) che, da dietro quei “non abbiamo precedenti”, “siamo una categoria di esseri viventi del tutto nuova”, “siamo davvero particolari”, “siamo i soli”, “abbiamo un quid innegabilmente insolito”, “una scintilla di creatività”, torni a far capolino l’“idea”, purtroppo non ancora sepolta, che la “specialità” umana consista in un’“anima” soprannaturale di origine divina.
Gli scienziati hanno ragione di temerlo e di fare il possibile per evitarlo: la superstizione religiosa, che non ha mai smesso di attentare al progresso scientifico, negli ultimi decenni ha infatti perfezionato tattiche mistificatrici sempre più raffinate e aggressive, basate sulla capacità di servirsi, contro la Scienza, di concetti, terminologie e strumenti apparentemente scientifici.
Dirò fra poco che Tattersall è consapevole di ciò e sempre molto attento a rifiutare la minima indulgenza al creazionismo. Ma è interessante notare che il primo che si rese conto di questo gravissimo pericolo fu Charles Darwin in persona. Che tuttavia, per “immunizzare” la Scienza contro di esso, soppresse (certo senza rendersene conto) il primo, tenero germoglio di ricerca scientifica (per quanto ambigua) sul quid che ci rende umani. Germoglio che, anche per effetto della sua (ripeto: motivatissima) intransigenza, ha poi dovuto attendere quasi i giorni nostri per cominciare a rifiorire.
Chiunque conosca la vita di Darwin sa che quel genio straordinario, il 18 giugno 1858 ― mentre combatteva con la terza stesura de L’Origine delle Specie dibattendosi nelle incertezze e nei timori che da vent’anni lo trattenevano dall’annunciare al mondo la propria rivoluzionaria scoperta ― ricevette una lettera che lo preoccupò non poco. Era del giovane naturalista Alfred Russel Wallace (1823-1913), che da qualche tempo intratteneva con lui una fitta corrispondenza scientifica, ed era accompagnata da un articolo di una ventina di pagine, che l’autore gli chiedeva di valutare, che esponeva una teoria dell’origine e dell’evoluzione delle specie identica a quella di Darwin. Il quale si rese conto, quel giorno, di aver atteso davvero troppo, dando modo a un altro di pensare da solo (o forse con qualche piccola “spinta”, inconsapevole per entrambi, da parte del Maestro) la stessa gigantesca idea che aveva avuto lui.
Come tutti sanno, Darwin ruppe immediatamente gli indugi e nel novembre del 1859 annunciò finalmente all’Umanità la teoria dell’evoluzione. Mentre Wallace, dal canto suo, estremamente corretto, riconobbe e diede atto al Maestro di averlo preceduto.
I due studiosi continuarono a scriversi fino al 10 maggio 1864, quando Darwin ricevette da Wallace una comunicazione che lo indusse a ritenerlo pericoloso per il progresso della Scienza e, ben presto, a metter fine alla loro amicizia.
Perché pericoloso? Perché l’allievo, giudicò Darwin, stava dando segni di misticismo.
“Sono stato portato” gli aveva scritto Wallace “a occuparmi della necessità di spiegare le immense differenze mentali e craniche, associate a differenze strutturali tanto esigue in altre parti del corpo, esistenti fra l’uomo e le antropomorfe”. Concludendone che “l’azione speciale della selezione naturale sull’uomo (sulla mente e non più sul corpo) abbia reso l’uomo altrettanto «speciale» rispetto agli altri esseri viventi”13.
Contrariamente alle sue abitudini epistolari, di solito poco espansive, Darwin rispose “a giro di posta”: “Dissento alquanto dal rango che tu assegni all’uomo dal punto di vista della classificazione: non credo che qualsiasi carattere, per il semplice fatto di essere presente in eccesso, debba mai essere utilizzato per le divisioni di ordine superiore. Le formiche non saranno mai separate dagli altri insetti imenotteri, per quanto elevati siano gli istinti delle une e bassi quelli degli altri”14.
Fu l’inizio di una netta divergenza di idee che in pochi anni sfociò in una rottura definitiva. Soprattutto, e inevitabilmente, quando Wallace, cinque anni dopo, cominciò purtroppo a sostenere che l’origine dell’essere umano “doveva avere richiesto l’intervento di un’intelligenza superiore”15.
Wallace non si riebbe mai più. Ma la triste involuzione religiosa dell’allievo si sarebbe potuta evitare se Darwin, il Maestro, da buon maestro avesse cercato di capirlo e aiutarlo, anziché ergere tra loro una barriera destinata a stroncare sul nascere, dal 1864 fin quasi ai giorni nostri, ogni tentativo di ricerca sulle “immense differenze mentali” tra l’essere umano e ogni altro animale?
Una cosa è certa: Darwin effettivamente non capì. Scrivendo, infatti, che “nessun carattere, per il semplice fatto di essere presente in eccesso, può essere utilizzato per le divisioni di ordine superiore”, e paragonando la diversità dell’essere umano dagli altri viventi a quella “tra le formiche e gli altri imenotteri”, Darwin interpretò le “immense differenze mentali” su cui Wallace si interrogava come differenze meramente quantitative16. E la possibilità di svolgere su di esse una ricerca seria fu così preclusa alla Scienza per più di un secolo e abbandonata nelle grinfie della superstizione creazionista.
Intendiamoci: il minimo accenno, da parte di Darwin, a una presa di posizione che, sia pure alla lontana e/o disonestamente, potesse venire interpretata come un cedimento alla religione, avrebbe avuto esiti catastrofici per l’opera di tutta la sua vita e per il progresso della Scienza e dell’Umanità. Ma Darwin, a quanto pare, non si permise nemmeno di domandarsi se la questione della specificità umana si potesse affrontare, invece, non religiosamente: udì qualità, ma capì quantità17.
Tattersall, al contrario, osa. Ma, ripeto, consapevole di muoversi su un terreno “minato” ormai da un secolo e mezzo (e minato niente di meno che da Darwin in persona) è attentissimo a evitare con la massima fermezza che la sua ricerca possa essere “interpretata” in senso creazionista:
“La selezione naturale non è ― e non può essere ― un processo creativo in sé. La selezione naturale può solo promuovere o eliminare le novità proposte dai cambiamenti genetici casuali (influenzati, ovviamente, da ciò che vi era prima) che sono alla base di ogni innovazione biologica. L’evoluzione deve essere descritta come opportunistica: essa semplicemente sfrutta o respinge le possibilità che si presentano; e, a loro volta, queste possibilità possono essere favorevoli o sfavorevoli, a seconda delle circostanze ambientali (nella definizione più ampia) in ogni dato momento. Non vi è nulla di intrinsecamente direzionale o inevitabile in questo processo, che può tranquillamente invertirsi ogni volta che l’ambiente cambia”18. E ancora: “Non siamo il risultato di un costante e accurato processo di perfezionamento, e gran parte della nostra storia è stata il frutto del caso e della fortuna. La natura non ha mai «inteso» che occupassimo la posizione dominante in cui ci troviamo. Si può dire che siamo turisti casuali nella natura; ma, ovviamente, questo non ci rende meno straordinari. E tanto meno liberi da responsabilità”19.
E nel 2012, dopo un’attenta disamina della imprevedibilità dell’evoluzione e dell’assoluta casualità dei suoi sviluppi: “Per quanto speciali, siamo solo il prodotto di un processo biologico ordinario”20.
Forte di questa doverosa, estrema cautela anticreazionista21, Tattersall muove dunque alla ricerca di cosa sia, invero, la nostra “unicità”, il nostro “essere speciali”.
“Noi esseri umani facciamo parte della natura,” scrive nel 1998, “ma pur essendo il risultato degli stessi processi naturali che hanno generato tutte le altre miriadi di forme di vita del mondo, ci sentiamo diversi dagli altri organismi. E questo in effetti è vero, sebbene si possa sostenere che anche le altre specie sono uniche. Tuttavia la nostra diversità consiste nel fatto che noi, e solo noi, siamo in grado di riflettere su di essa”22. Ma “in che cosa consiste la nostra unicità?” si domanda. “Quali sono gli attributi che ci danno il nostro acuto senso di diversità rispetto a tutte le altre specie viventi?”23. E risponde: “L’essenza dell’umanità è innegabilmente il simbolismo [...]. Se vi è una sola cosa che distingue l’uomo da tutte le altre forme di vita, attuali o estinte, è la capacità di pensiero simbolico: saper generare complessi simboli mentali ed elaborarli in nuove combinazioni. È proprio questo il fondamento dell’immaginazione e della creatività: la capacità, unicamente umana, di creare un mondo nella propria mente, e di ricrearlo in quello reale che si trova all’esterno. Altre specie possono sfruttare il mondo esterno con grande efficienza, [...] ma tutte mantengono, sostanzialmente, il ruolo di soggetti passivi e meri osservatori”24.
Sarebbe dunque il “pensiero simbolico” il “fondamento dell’immaginazione”? Ma come potremmo “generare simboli mentali” se non fossimo già dotati di immaginazione? Se, cioè, non fosse piuttosto l’immaginazione il fondamento del pensiero simbolico? E se la nostra diversità è la capacità “di riflettere [mediante simboli mentali] su di essa”, su cosa si fonda l’ “acuto senso di diversità”, il nostro sentirci diversi, anch’esso unico, dal momento che il “sentire” non è certamente un “riflettere”?
Non desta meraviglia che su tali basi, non meno insicure che affascinanti, il libro del 1998 giunga a parlare della “nostra straordinaria coscienza”25 per definire quel “che ci fa sentire diversi da tutti gli altri meravigliosi risultati dell’evoluzione”26: “È la coscienza la caratteristica umana più evidente, ed è impossibile ignorarla in qualsiasi spiegazione di noi stessi”27. E poche pagine dopo, parlando del cosiddetto “occhio della mente”, o “sguardo interiore” (termini coniati dallo psicologo Nicholas Humphrey per designare la “capacità di osservare noi stessi al lavoro” e quindi “di comprendere, prevedere e influenzare il comportamento altrui”28) Tattersall osserva: “Dubito però che, quanto alle relazioni interumane, l’«occhio della mente» costituisca l’unica chiave del successo della nostra specie. Più che essere la causa della coscienza umana, esso è plausibilmente un risultato della nostra capacità di astrazione simbolica”29. Identificando con la coscienza, così, (cioè col pensiero razionale), quella “capacità di astrazione simbolica” in cui vuol far consistere la nostra unicità.
Ma la cosa non lo soddisfa. Sente ― ed è “il bello” di Tattersall, benché lo esponga a continue contraddizioni ― che c’è qualcosa di più: “Per quanto stimiamo le nostre capacità di ragionamento, non è certo il libero esercizio della razionalità a caratterizzarci [...]. No, la questione è molto più complessa”30.
“Ma allora” conclude il libro del 1998 “che cosa c’è esattamente dietro la nostra acquisizione della piena coscienza umana? [...] Il linguaggio articolato, possiamo affermare, è più o meno sinonimo di pensiero simbolico. [...] È certo (quanto può esserlo un’inferenza) che il linguaggio e le capacità mentali a esso associate hanno strettamente a che vedere con la capacità di pensare, che è il fondamento del successo della nostra specie. Il linguaggio, come il pensiero, comporta la formazione e l’elaborazione di simboli nella mente, e la nostra capacità di ragionamento simbolico è praticamente inconcepibile in sua assenza. Anche l’immaginazione fa parte dello stesso processo: solo dopo aver creato simboli mentali possiamo combinarli in nuovi modi e proporci nuovi interrogativi. Il linguaggio è dunque molto più del semplice mezzo con cui spieghiamo i nostri pensieri a noi stessi e agli altri: è fondamentale per lo stesso processo di pensiero. [...] L’anatomia ossea di tipo moderno giunse insieme con il cervello di tipo moderno ex-attato, [ma] questo sorprendente nuovo organo rimase inattivo [...] finché uno stimolo culturale (quasi certamente l’invenzione del linguaggio) lo mise all’opera nell’ambito di una popolazione locale. È addirittura possibile che la capacità umana si sia originata almeno in parte in un evento epigenetico, legato allo sviluppo, piuttosto che in un cambiamento di grande entità avvenuto nella struttura cerebrale geneticamente programmata. Lo sviluppo cerebrale dopo la nascita comprende la formazione di specifiche vie da una complessa massa di interconnessioni neurali, prevalentemente attraverso processi di eliminazione selettiva. Nell’infanzia è facile imparare le lingue, anche molte contemporaneamente, ma dopo i dieci anni le vie neurali specifiche si sono formate e l’acquisizione di nuove lingue è molto più difficile. Ne consegue che le attività linguistiche coinvolgono la strutturazione del cervello nel corso del suo sviluppo. Non è dunque troppo difficile immaginare, almeno sommariamente, come una prima forma di linguaggio, relativamente rudimentale, possa essere stata acquisita (chissà, inizialmente, addirittura fra i bambini) attraverso mezzi comportamentali, affinandosi e diversificandosi nei millenni fino a produrre la stupefacente varietà di lingue oggi parlate in tutto il mondo. Certamente la comparsa del linguaggio così come oggi ci è universalmente familiare non può essere stata un evento rapido. Comunque sia, è molto più plausibile pensare che esso, con le sue capacità mentali e le complessità comportamentali associate, si sia diffuso (e diversificato) dal suo luogo d’origine attraverso il contatto e la diffusione tra popolazioni umane ben affermate che già possedevano la capacità potenziale di acquisirlo, e non fra quelle numerose popolazioni di individui i quali, pur essendo fisicamente uguali a noi, mancavano di quella capacità, e che quindi scomparvero in tutto il mondo in un periodo relativamente breve”31.
Ma se “immaginare” è solo “combinare simboli mentali in nuovi modi”, e se, perciò, possiamo immaginare “solo dopo aver creato simboli mentali”, cioè solo dopo aver inventato il linguaggio, come potemmo, sia pur da bambini, immaginare il linguaggio che ancora non c’era? O dobbiamo considerare il linguaggio una sorta di “ur-invenzione” che, diversamente da tutte le successive realizzazioni umane, ci fu possibile quando la capacità di immaginare era solo “potenziale” e non ancora attivata?
Tattersall, però, non è mai del tutto certo di quel che scrive (e non lo dico per biasimarlo, perché proprio questo, lo ripeto, è “il bello” della sua riflessione): nelle stesse righe che ho appena citato, per esempio, a proposito dei Neanderthal, dice che essi “quasi certamente mancavano della cruciale capacità di pensiero simbolico della quale il linguaggio è la manifestazione emblematica”32...! Ma allora, al contrario di ciò che affermano le righe precedenti e successive, fu il “pensiero simbolico” a creare il linguaggio?
Eppure, quantunque il libro del 1998 sia quello in cui più si parla di “coscienza simbolica” per designare l’esperienza mentale umana, nelle sue pagine conclusive affiora il dubbio che la razionalità cosciente non abbia, in noi, un’importanza così assoluta: “Sembra che fare una semplicistica distinzione tra funzioni emozionali e funzioni razionali sia gravemente fuorviante. Tra i due gruppi vi è infatti un livello intermedio costituito dalla funzione neurocomportamentale, partecipe di entrambi. È l’intuizione, che opera in assenza di ragionamento conscio e che da tempo numerosi psicologi cognitivi ritengono radicata nella memoria emozionale. E ora si sta profilando fortemente la possibilità che l’intuizione abbia un ruolo importante anche nella maturazione delle decisioni razionali. [...] L’intuizione è un pilastro indispensabile dell’edificio della creatività umana. Anche la scienza, compendio delle attività razionali umane, lo conferma. Infatti, mentre vanta di mettere obiettivamente alla prova ipotesi emerse da osservazioni accuratamente raccolte, non tiene conto del fatto che le ipotesi iniziali sono molto spesso il prodotto di un’intuizione, e non di un ragionamento verbalmente fondato. L’intuizione è dunque un mediatore indispensabile dei nostri processi di pensiero”33.
Ma poi si perde di nuovo, poiché, per lui, l’intuizione umana non è diversa da quella di altri animali a noi “vicini”: “L’intuizione non verbale può dirci molto sul mondo, e mentre non sarebbe esatto considerarla linguaggio articolato inespresso, possiamo considerarla un suo precursore, o almeno una sua precondizione. Ma la pura intuizione ha limiti molto visibili. Essa è individuale e direttamente esperienziale, mentre il linguaggio è condiviso e simbolico. Wolfgang Köhler, che fu il primo a studiare l’uso di strumenti fra gli scimpanzé, mise a punto un esperimento che evidenziava con chiarezza le limitazioni imposte dall’assenza di linguaggio, pur rivelando che il problema era stato [intuitivamente] compreso”34.
E se la “pura intuizione” umana, a monte del linguaggio, non avesse alcun limite? Se proprio essa, cioè, ci distinguesse qualitativamente (perfino) dagli scimpanzé?
“Homo sapiens rappresenta qualcosa di innegabilmente insolito” scrive Tattersall nel 2000. “Qualunque cosa sia, questo quid ha a che fare con il modo in cui ci rapportiamo con il mondo esterno: è, quindi, un fattore comportamentale”35. Sembra, leggendo queste righe, di notare un “arretramento” dal discorso di due anni prima: lì il “rapporto col mondo” (benché nel permanere di un’ambiguità di fondo tra il “sentire” e il “riflettere mediante simboli”, tra l’“immaginazione” e la “coscienza” razionale) aveva inizio con la “capacità [...] di creare un mondo nella mente”; qui, invece, il “rapporto” è immediatamente “comportamento”. Lì Tattersall sembrava pensare che l’agire umano, anziché identificarsi col “rapporto” che intratteniamo col mondo, ne sia l’esito visibile (e documentabile); qui, al contrario, sono presentati (quasi) come la stessa cosa. Ma poche righe dopo, invece, parlando dell’invenzione (un milione e mezzo di anni fa, forse da parte di Homo ergaster) dell’ascia a mano bifacciale, Tattersall nota che essa “presuppone il rispetto di una simmetria, ed è quindi la prima testimonianza dell’esistenza di un’immagine mentale a cui l’esecutore si attiene, nel forgiare l’oggetto”36. Con il che il “comportamento” (la realizzazione dell’ascia) e il “rapporto” col mondo (la creazione dell’immagine mentale di essa) tornano a non coincidere, a succedersi l’un l’altro.
Inoltre, se “l’immagine mentale a cui l’esecutore si attiene nel forgiare l’oggetto” non può non essere cosciente, che dire della “simmetria” che quell’immagine “rispetta”? Cosciente anch’essa?
Tattersall ha spesso di tali “sbalzi” concettuali quando si avvicina a pensare che l’immaginazione sia alla base di ogni realizzazione non solo nel mondo, ma anche nel pensiero (e possa dunque non estrinsecarsi ― per esempio nel neonato, e nei predecessori dei sapiens ― in alcuna realizzazione “pratica”).
Nelle pagine successive dell’articolo del 2000 Tattersall parla di “comportamento simbolico” (consistente nella produzione di “oggetti simbolici” realizzati a partire da “immagini mentali”) per caratterizzare il quid che distingue la nostra specie da tutte le altre (alternando al termine quid, come ho già riferito, la suggestiva metafora della “scintilla di creatività”37). E, dopo aver osservato che, sebbene gli inizi di Homo sapiens in Africa debbano essere collocati tra i 150 e i 200.000 anni fa, tuttavia “i modelli di comportamento moderno non iniziarono a emergere se non molto tempo dopo”38, così conclude:
“Per quanto profonde possano essere state le conseguenze dell’acquisizione del pensiero simbolico, il processo da cui esso provenne non fu qualcosa di eccezionale. Al momento non abbiamo idea di come il cervello umano moderno converta una miriade di scariche elettriche e chimiche in ciò che sperimentiamo come coscienza. Sappiamo, però, che in qualche modo la nostra stirpe è passata al pensiero simbolico da un precedente stato di pensiero non simbolico”39.
E così l’indistinzione tra rapporto col mondo e comportamento, che per un attimo sembrava di poter superare, è invece ribadita dall’indistinzione tra “pensiero simbolico” e “coscienza”, cioè pensiero cosciente. Ma se il “rapporto” col mondo, ancorché “simbolico”, fosse invece inconscio, irrazionale? Tattersall, nel 2000, sembra non sospettarlo neppure. Per il lungo periodo in cui Homo sapiens, benché “anatomicamente moderno”, non lascia alcun documento “comportamentale” della sua umanità, preferisce parlare, piuttosto che di “abilità” non consapevoli, irrazionali, di “abilità quiescenti”:
“È plausibile che le moderne capacità umane siano emerse, più o meno in corrispondenza con l’origine di Homo sapiens, come abilità quiescenti attivate da uno stimolo culturale. Se abbastanza vantaggiosa, questa innovazione comportamentale potrebbe quindi essersi diffusa rapidamente per contatto culturale tra popolazioni che avevano già il potenziale per recepirla. [...] È impossibile accertare la natura di una simile innovazione, ma si può presumere che si sia trattato dell’invenzione del linguaggio”40.
Lungi da me l’idea di svalutare l’importanza del “contatto culturale” per il progresso dell’Umanità. Ma cosa significa che il “contatto culturale” sarebbe andato ad “attivare” “potenziali” “abilità quiescenti”? Forse che si è (si nasce) umani solo in potenza, ma lo si diventa per effetto dell’insegnamento? Forse che chi inventò il linguaggio insegnò poi a parlare a quelli che non l’avevano inventato e, così, suscitò anche in costoro il “pensiero simbolico” che il linguaggio aveva “attivato” in lui per primo? E se, invece, il “pensiero simbolico” fosse presente per natura in tutti gli umani, e il linguaggio non gli aggiungesse che la possibilità di esprimerlo mentalmente e verbalmente (ma anche di “tradirlo”)?
Nel 2000, Tattersall sembra propendere per la prima ipotesi: “Il linguaggio infatti non è semplicemente il mezzo con cui ci comunichiamo idee ed esperienze: esso è fondamentale per la stessa formulazione dei pensieri, in quanto implica l’attribuzione di nomi e categorie a oggetti e sensazioni del mondo esterno e interno, e la creazione di collegamenti tra i simboli mentali così prodotti. È di fatto impossibile, per noi, concepire un pensiero in assenza di linguaggio; la capacità di formare simboli mentali è la fonte della nostra creatività, dato che solo dopo aver dato forma a questi simboli possiamo ricombinarli e proporci domande del tipo: «Che accadrebbe se...»”41.
Affascinante: nel 1998 e nel 2000, per la prima volta al di fuori della folta cerchia degli estimatori delle scoperte di Massimo Fagioli, Ian Tattersall allude all’immaginazione come al quid che ci distingue da ogni altro animale42. Ma, al contempo, smentisce la propria intuizione adombrando una sorta di “demiurgo” che avrebbe inventato il linguaggio quando ancora la capacità di inventare era solo “quiescente”, se ne sarebbe servito per produrre “pensiero simbolico” (cioè per “attivare” la propria immaginazione) e lo avrebbe insegnato ai suoi simili “attivando” in essi, così, la medesima capacità. Li avrebbe resi umani, quindi (sia pur sulla base delle loro “abilità quiescenti”) attraverso un rapporto di insegnamento. Al quale saremmo tutti debitori, da allora e per sempre, dell’unicità umana.
Intuendo, forse, il rischio che questo discorso reintroduca l’intervento divino “dalla finestra” dopo che con tanta fatica lo si è scacciato “dalla porta”, ancora nell’articolo del 2002 Tattersall ripropone l’idea molto poetica (e all’apparenza contrastante con l’ipotesi deleteria che non si sia effettivamente umani finché qualcuno non insegna a esserlo) alla quale aveva già accennato, en passant, nel libro del 1998:
“Come poi il linguaggio sia stato inventato è una questione sulla quale non sono abbastanza esperto per avanzare ipotesi. Ma [...] la mia preferita è che una forma iniziale di linguaggio possa essere stata inventata dai bambini. Dato che il cervello non è una struttura statica, ma un’entità dinamica che si riorganizza durante lo sviluppo (e, in presenza di stimoli appropriati, per tutta la vita) non è implausibile che un precursore del linguaggio sia nato in un gruppo di bambini, durante il gioco. Tale pre-linguaggio poteva comprendere parole ― suoni ― legate con significato additivo. È difficile immaginare che, compiuta questa invenzione, la società potesse non adottarla”43.
Suggestivo, ma non cambia granché: anche così ci sarebbe stato un “Gesù” (quantunque “bambino”) e noi, da allora, diventeremmo capaci di immaginare... ripetendo le sue parole.
È pur vero che, sempre nell’articolo del 2002, Tattersall tenta di attenuare ulteriormente le implicazioni “demiurgiche” del suo discorso ricorrendo alle scoperte dell’allora neonata epigenetica: “Nel caso del potenziale linguistico dobbiamo supporre, data la sua innata presenza negli uomini attuali, che inizialmente in una popolazione sia avvenuto un cambiamento neurale. In termini genetici, fu probabilmente un mutamento non molto rilevante, che non aveva nulla a che fare con l’adattamento in senso classico. Poiché nella prima infanzia il cervello si ristruttura con la creazione di vie specifiche a partire da masse indifferenziate di connessioni neurali, è possibile che questo evento sia stato non genetico ma epigenetico, dipendente da stimoli legati allo sviluppo”44. Ma anche così (pur trovando interessante, in queste righe, l’implicita conseguenza che la ricchezza o la scarsità di stimoli, riverberandosi per via epigenetica sulle generazioni successive, possano implementare o, all’opposto, deprimere la nostra umanità) al centro della scena sapientemente allestita da Tattersall rimarrebbe pur sempre (benché nel senso più lato possibile) il rapporto di insegnamento a partire da un demiurgo-genio-primitivo-bambino. E il linguaggio, una volta da lui (o da lei) inventato e insegnato e da noi imparato, da allora sarebbe in ognuno di noi (se troviamo insegnanti) il creatore-attivatore dell’immaginazione per la quale, solo poi, noi sapiens (e soltanto noi) saremmo umani non solo in potenza, allo stato “quiescente”, ma a tutti gli effetti.
Mettere, al posto di Dio, un uomo-dio, o una donna, o un bambino (e, dopo di loro, una sorta di stirpe di “scribi” auto-riproducentisi) non cambia un granché. O, se cambia, cambia in peggio.
Non è più convincente (e non incorre assai meno nel “rasoio” di Occam) ipotizzare che il quid immaginativo che ci rende unici sia in tutti gli esseri umani (certo, per una o più casualità evolutive); che esso ci abbia dato, nel corso dei millenni, non “solo” tutte le nostre creazioni artistiche e tecnologiche (compreso il linguaggio) e le nostre scoperte scientifiche, ma anche e soprattutto quel rapporto umano con la realtà che, se rimane tale, se non si disumanizza, rende ogni nostro istante umanamente degno di essere vissuto e diverso da ogni altro; e che anche la ricchezza (o scarsità) di stimoli da parte di ognuno di noi che accelera (o inverte) il nostro progresso ne sia il frutto?
Ian Tattersall forse lo sente, poiché intorno al suo concetto di immaginazione continua ad aggirarsi insoddisfatto, guardingo, affascinato e timoroso come gli “antenati dell’uomo” di Stanley Kubrick45 intorno al loro misterioso monolite: “Ciò che chiaramente accomuna i comportamenti [di Homo sapiens] è che tutti hanno come presupposto l’acquisizione di processi cognitivi simbolici. Non c’è dubbio che fu questa acquisizione generalizzata, e non l’invenzione di alcuno specifico comportamento, [...] a permettere l’introduzione di schemi di comportamento «moderni» nel repertorio della nostra specie. [...] Chiaramente, quindi, non possiamo attribuire l’avvento delle capacità cognitive moderne semplicemente alla culminazione di una lenta tendenza al perfezionamento del cervello nel tempo. Accadde qualcosa di diverso da un potenziamento fisico del meccanismo cognitivo”46.
Dove, da un lato, ribadisce che il “qualcosa di diverso” sarebbe stato un’“innovazione culturale” ― l’in-venzione del linguaggio ― diffusasi poi per via “educativa” (“se, a un certo punto, diciamo 60.000-70.000 anni fa, si ebbe un’innovazione culturale, in seno a una popolazione umana, che attivò le potenzialità di processi cognitivi simbolici, fino a quel momento presenti ma inespresse nel cervello umano, diventa facile spiegare la rapida espansione dei comportamenti simbolici attraverso un semplice meccanismo di diffusione culturale”47). Ma, dall’altro, l’idea che l’“innovazione culturale” abbia attivato capacità simboliche “fino a quel momento presenti ma inespresse” inevitabilmente spinge a domandarsi cosa siano mai queste “potenzialità simboliche” senza le quali le prime parole degli “inventori del linguaggio” sarebbero rimaste incomprensibili (e nessuno avrebbe potuto produrre ipotesi su ciò che i parlanti, parlando, stessero facendo) come lo sono per ogni altro animale.
Già nel 2002, Ian Tattersall sente che è questa la domanda a cui è necessario rispondere. E le gira intorno, e allude di nuovo all’immaginazione, ma al contempo si impedisce di pensarla tornando a concettualizzarla in modo ripetitivo (“I membri di altre specie spesso mostrano elevati livelli di ragionamento intuitivo e reagiscono agli stimoli ambientali in modi assai complessi, ma solo gli esseri umani sono capaci di combinare e ricombinare mentalmente simboli e di porsi domande come: «Che accadrebbe se...?». Ed è in primo luogo la capacità di fare questo che costituisce la base della nostra celebrata creatività”48). E di conseguenza non riesce ad andare avanti, perché quell’infelicissimo “combinare e ricombinare simboli mentalmente” continua ad allontanarlo da una vera comprensione della creatività sulla quale, tuttavia, sente di dover continuare a interrogarsi. Ma che niente può avere a che fare col “combinare e ricombinare”, perché esso non può esercitarsi che su “simboli” preesistenti, mentre la creatività, per esser degna del suo nome, e distinguerci davvero da ogni altro animale, i simboli... deve crearli.
E l’equivoco è tale da far dimenticare a Tattersall di avere appena alluso a “capacità simboliche presenti ma quiescenti” prima dell’invenzione del linguaggio, e da farlo cadere, presumibilmente senza avvedersene, nell’opposta idea che fu il linguaggio a creare... la creatività, anziché, come è ovvio, il contrario: “In realtà, il linguaggio è la funzione mentale simbolica per eccellenza, ed è pressoché impossibile, in sua assenza, concepire il pensiero come lo intendiamo”49. Il pensiero cosciente, forse. Ma non si era parlato di “quiescenti” “potenzialità” “preesistenti”? E non dovremmo, quindi, tentar di descrivere, definire e spiegare esse per prime, invece che accontentarci di “invocarle”?
Qualcuno, intanto, coglie al balzo la “palla” lanciata da Tattersall: esce, nel 2008, Human50, di Michael S. Gazzaniga, direttore del sage Center for the Study of the Mind e del Summer Institute in Cognitive Neuroscience presso l’Università della California-Santa Barbara nonché membro dell’American Academy of Arts and Sciences e del President’s Council on Bioethics (il qual Gazzaniga, per altro, in quasi 600 pagine fitte di note, riesce a citare Ian Tattersall solo una volta, e su una questione marginale).
“Io vedo” scrive Gazzaniga “l’essere umano che si volta con un coltello in mano e taglia il suo immaginario guinzaglio con le proprie versioni precedenti, divenendo così libero di fare cose che nessun altro animale è lontanamente in grado di fare. Noi umani siamo speciali. [...] La mente umana è così creativa e dedita all’immaginazione da fare cose come mappare l’agentività (ossia, proiettare intenzioni) praticamente su ogni cosa ― i nostri animali domestici, le nostre vecchie scarpe, le nostre macchine, il nostro mondo, le nostre divinità”51. Wow! Ci siamo, ragazzi! Sotto con le altre 598!
Un inizio ben più promettente degli ultimi (al 2008) esiti di Tattersall, malgrado quell’orrenda immagine del “coltello in mano” che al “nostro” non sarà certo piaciuta? Aspettate a dirlo. Poiché Gazzaniga, come Tattersall, deve ancora spiegarci cosa sia, questa (oggi) celebre immaginazione che tutti, o quasi, si portano ormai via di mano senza però citare, non pretendo Fagioli, ma neanche Shakespeare52...
“Un aspetto onnipresente e caratteristico del cervello umano è il modo in cui costruiamo coscientemente nelle nostre menti modelli delle intenzioni, dei sentimenti e degli scopi altrui”53.
Coscientemente? Cioè verbalmente?
“Gli esseri umani hanno una capacità innata di comprendere che i loro simili possiedono menti dotate di desideri, di intenzioni, di credenze e di stati mentali diversi. E sono in grado di formulare teorie abbastanza accurate su quali siano questi desideri, queste intenzioni, queste credenze e questi stati mentali. Tale capacità è chiamata «teoria della mente». [...] Essa raggiunge il pieno sviluppo in maniera automatica nei bambini attorno ai quattro o cinque anni di età. Sembra che non dipenda dal qi. Gli autistici, sia bambini che adulti, hanno carenze legate alla teoria della mente, e la loro capacità di ragionare sugli stati mentali altrui risulta intaccata”54.
“Come riconosciamo gli stati emotivi altrui? [...] Altri animali sociali condividono almeno alcune delle nostre capacità, ma c’è forse qualcosa di unico, nei nostri cervelli, che ci permette di avere interazioni più elaborate? Si sono raccolti molti dati che sembrano indicare che noi simuliamo automaticamente le esperienze degli altri e che questa simulazione contribuisce all’empatia e alla teoria della mente. È tutto automatico, oppure la mente cosciente contribuisce a queste valutazioni?”55.
Dopo di che, pur sapendo che gli altri animali non imitano (“L’imitazione volontaria del comportamento sembra rara nel regno animale. Non ci sono studi che testimonino la presenza di imitazione volontaria da parte delle scimmie, a prescindere da quanti anni di addestramento esse abbiano avuto”56), Gazzaniga chiama imitazione un comportamento esclusivamente umano che, invece, non può fondarsi che sull’immaginazione: “Numerosi studi hanno mostrato, indipendentemente, che i neonati da 42 a 72 minuti dopo la nascita sono in grado di imitare accuratamente le espressioni facciali”57.
“Molti archeologi hanno concluso che l’esplosione della creatività rappresenta un elemento evolutivo fondamentale nella linea di Homo sapiens. Qualcosa è cambiato nei nostri cervelli aumentando le precedenti capacità creative, qualcosa di unico all’Homo sapiens. [...] Improvvisamente, circa 40.000 anni fa, [...] l’Homo sapiens [...], con un’esplosione di attività creativa ed estetica senza precedenti, iniziò a dipingere immagini, a indossare gioielli e a inventare un’intera serie di oggetti utili. Perché ha cominciato a fare cose del genere e che cosa può dirci, questo, sui nostri cervelli?”58
Ancora: “L’«attrazione per l’esperienza di finzione» sembra [dirci] che gli umani hanno un sistema specializzato che permette loro di entrare in mondi immaginari”59.
E ancora: “Gli altri animali utilizzano solo tratti percettivi: l’apparenza, gli schemi comportamentali, l’odore, il suono e il tatto. Per gli altri animali, l’apparenza è la realtà”60.
E ancora: “È stato ipotizzato che gli umani siano unici nella capacità di ragionare su forze causali. [...] Che la teoria della mente si sia formata su sistemi cognitivi pre-esistenti per ragionare sul comportamento percepibile, in modo da permettere agli umani di re-interpretare un comportamento sociale complesso già esistente con la capacità aggiuntiva di pensare in termini di stati mentali”61.
Ma purtroppo, dopo 500 pagine di (rapidi) avvicinamenti e (sostanziali) allontanamenti dal concetto di immaginazione, quando finalmente giunge a (dover) tentare di dirci che cosa essa sia, Gazzaniga conclude il suo discorso “appiattendosi” sulle teorie di Jeff Hawkins62. Secondo il quale “quel che ci rende unici” sarebbe che “il cervello umano non «computa» [come gli elaboratori elettronici e gli altri animali] le risposte ai problemi, ma recupera le risposte dalla memoria. In sostanza, le risposte sono state immagazzinate in memoria tanto tempo fa [...]. Hawkins propone che il cervello utilizzi le memorie immagazzinate per fare costantemente previsioni [...] [e] che la capacità di predire «sia la funzione primaria della neocorteccia e la base dell’intelligenza» [...]. Per Hawkins, «il cervello umano è più intelligente di quello degli altri animali perché è in grado di fare predizioni su conformazioni più astratte e relativamente a sequenze di conformazioni più estese nel tempo»”63.
Creativi perché... formuliamo “previsioni” a partire da “memorie immagazzinate”? Molto meno degli altri animali, cioè, poiché all’incirca come i computer? Quanto meno sconcertante.
Hawkins scrive queste cose nel 2004, Gazzaniga le riprende nel 2008. Ma nessuno dei due dice sostanzialmente di più di quel che Ian Tattersall va scrivendo dal 1998. Anzi: dicono meno, poiché il “combinare e ricombinare” di Tattersall, benché non meno ripetitivo (e, quindi, tutto meno che creativo) del “recuperare” di Hawkins, riferendosi a “simboli” anziché a “memorie” sembra non precluderci del tutto la possibilità di pensare l’immaginazione che ci rende unici come una facoltà non raziocinante, non “rimuginante” il già noto, non “coatta a ripetere” il già pensato, ma davvero creatrice.
C’era bisogno di “riscrivere” Tattersall (molto più dettagliatamente, lo ammetto) per arrivare a conclusioni analoghe alle sue, ma assai più “povere” e meno “sofferte”? Beninteso, non è che una domanda.
Intanto, in quello stesso 2008, Ian Tattersall pubblica Come è nata l’intelligenza simbolica, (apparso in inglese su Comparative Cognition and Behavior Reviews, n. 3/2008, e un anno dopo, tradotto in italiano, in un numero speciale di MicroMega dedicato al bicentenario della nascita di Darwin):
“A quanto pare”, scrive, “la principale riorganizzazione biologica all’origine di Homo sapiens implicò alcune innovazioni neuronali che portarono alla cooptazione funzionale per il pensiero simbolico di un cervello umano già estremamente evoluto. Tale potenziale dovette poi essere «scoperto» a livello culturale, probabilmente attraverso l’invenzione del linguaggio. L’origine della coscienza simbolica nell’uomo sembra dunque implicare un processo di emergenza, più che una selezione naturale: una coincidenza casuale di acquisizioni che diedero origine a un livello di complessità del tutto nuovo e imprevisto”64.
Niente da eccepire sulla “coincidenza casuale di acquisizioni che diedero origine a un livello di complessità del tutto nuovo e imprevisto”. Niente da eccepire, forse, anche sul fatto che il “livello di complessità” umano dovette essere “scoperto”, vale a dire che ci si dovette rendere consapevoli di esserne dotati: non siamo forse noi tutti impegnati in questa continua scoperta ancora oggi? Ma perché non avanzare qualche ipotesi sul “prima”, sulla condizione, cioè, in cui i nostri antenati vissero, per migliaia di anni, quando già erano umani, proprio come noi, ma ancora “non sapevano” dirselo né lasciarne testimonianze? Tattersall continua a non osare. O, piuttosto, a osare e poi “pentirsene”.
“Ciò che possediamo di veramente diverso è la capacità generale e apparentemente inesauribile, basata sulle nostre abilità simboliche, di generare nuovi comportamenti in presenza di nuovi stimoli: è certo la nostra cognizione simbolica, più che l’una o l’altra delle nostre molte peculiarità fisiche, a darci quel fortissimo senso di essere un’entità a parte rispetto al resto della natura”65... Splendido! Ma perché non supporre, allora, che avessimo quel “senso” anche quando ancora non ci eravamo resi conto di averlo? Perché non immaginare che, prima di “generare nuovi comportamenti”, stessimo già generando, per quanto inconsapevolmente, un nuovo rapporto col mondo esterno ed interno?
Come negli scritti precedenti così in questo, una volta sfiorata (e perduta) l’occasione di “generare un nuovo rapporto” con l’oggetto della sua ricerca, Tattersall “ricade” nei soliti discorsi:
“Noi esseri umani abbiamo uno strano modo di concepire il mondo circostante. Altri organismi sembrano reagire più o meno direttamente agli stimoli che ricevono dall’ambiente, per quanto con livelli molto diversi di intelligenza e di complessità. A testimonianza del posto che occupiamo all’interno del mondo dei viventi, anche noi reagiamo in modo automatico, come quando tocchiamo un piatto rovente o ci chiniamo per schivare un oggetto che ci è stato lanciato contro. Ma a un livello superiore ricreiamo in continuazione il mondo nella nostra mente. Una volta schivato l’oggetto in questione, cominciamo a domandarci perché. Lo facciamo scomponendo la serie ininterrotta di eventi che viviamo in una massa di simboli mentali distinti che poi combiniamo e ricombiniamo per produrre le costruzioni mentali alle quali reagiamo. E, dati gli stessi eventi, è molto probabile che ciascuno di noi produca una costruzione leggermente ― o anche notevolmente ― diversa”66.
Dove, ancora una volta, le espressioni “Cominciamo a domandarci perché” e “combiniamo e ricombiniamo” smentiscono (e deludono) la bellissima intuizione di quel “ricreiamo in continuazione il mondo nella nostra mente”: sono, infatti, operazioni coscienti, e pertanto lasciano senza risposta (e addirittura ci impediscono di proporci) domande fondamentali come: e quando non siamo coscienti, (quando, per esempio, dormiamo), come “ricreiamo”, allora, “il mondo nella nostra mente”? Non siamo forse umani, nel sonno? Non siamo forse stati umani fin dal primo giorno di vita? Non eravamo forse già umani anche quando ancora non avevamo “scoperto” che “il mondo nelle nostre menti” differisce (e in modo diverso per ognuno di noi!) dal mondo qual è per ogni altro animale?
Quattro anni dopo, nel 2012, Ian Tattersall ripete: “Gli altri organismi vivono nel mondo all’incirca come questo viene loro offerto dalla natura, e ad esso rispondono in modo più o meno diretto, anche se talvolta le risposte possono essere sofisticate. La nostra vita, invece, si svolge soprattutto nei mondi che il nostro cervello ricrea, anche se spesso ci dobbiamo scontrare con la dura realtà”67.
Ma poi: “Il modo esclusivo in cui elaboriamo le informazioni è senza dubbio l’elemento che ci rende diversi dagli altri organismi, ed è certamente quello che ci fa sentire diversi. [...] Questa capacità non ha alcun precedente. Il ragionamento simbolico non solo manca ai nostri più stretti parenti viventi, le grandi scimmie antropomorfe, ma sembra assente anche nei nostri parenti estinti più prossimi (e perfino nei primi esseri umani con le nostre sembianze). Tuttavia, non bisogna dimenticare che condividiamo numerose caratteristiche intellettive con tutti questi parenti, scomparsi e viventi; e nonostante ci vantiamo della nostra razionalità non siamo certo esseri del tutto razionali”68.
Ma se il nostro esclusivo quid è “elaborazione”, “ragionamento” e “razionalità” ― e se l’irrazionalità la condividiamo invece con tutti “i nostri parenti, scomparsi e viventi ― con quale altra capacità “ci sentiamo diversi”, dal momento che sentire non è elaborare, non è ragionare e non è razionalizzare?
Più avanti, nel libro del 2012, Tattersall parla della nostra “capacità di previsione e anticipazione” che, dice, “non ricorda nulla di quanto vediamo negli scimpanzé”69.
Poi, a proposito del msr (“mirror self-recognition”, autoriconoscimento allo specchio) Tattersall osserva, sulla base di una nutrita serie di studi in proposito70, che “l’espressione dell’autoriconoscimento allo specchio negli esseri umani e nelle scimmie antropomorfe [scimpanzé, bonobo, gorilla e orangutan, ma solo se adulti e addestrati, nota mia] è, quasi certamente, una proprietà esclusiva di questo gruppo”71. E commenta, con notevole acutezza, che le grandi scimmie sono comunque “ignare della conoscenza che permette loro di fare ciò che fanno”: che esse, cioè, a differenza degli esseri umani, “non sanno quel che sanno, non possono riflettere su ciò che sanno e non possono diventare oggetto della loro stessa attenzione”72. “Non sono, quindi, in grado di formulare idee riferite a ciò che non c’è, ma sanno riferirsi soltanto a ciò che osservano”73.
Ma ― a parte il “conoscere”, a parte il “sapere”, a parte il “riflettere”: e se la grande scimmia, adulta e addestrata, che ha imparato a servirsi dello specchio per scoprire su sé stessa una macchia e per grattarsela via guardandosi nello specchio, non fosse assolutamente in grado, però, mentre si guarda, di sentire dentro di sé un mondo diverso dal mondo di ogni altro? Ecco: il “bello” di Tattersall è che egli ammette (o si lascia sfuggire) quell’umano sentirsi diversi che scompagina tutte le sue successive razionalizzazioni. E di ciò, io penso, gli va reso merito.
E ancora, sulla socialità: “Gli esseri umani si preoccupano del benessere gli uni degli altri; gli scimpanzé invece non lo fanno (come probabilmente nessun altro dei primati nostri parenti)”74.
E sulla creatività: “A partire da circa 1,5 milioni di anni fa [...] cominciano a comparire regolarmente prove di un nuovo corso nella produzione di utensili litici. Per un milione di anni, e forse anche più, l’idea fondamentale prevedeva la produzione di piccole schegge con un margine tagliente utile; il loro aspetto o quello dei nuclei da cui venivano staccate non sembrava avere importanza. Non c’era alcuna attenzione estetica, alcuna idea di una forma. Il concetto alla base della produzione di strumenti era esclusivamente funzionale: ottenere un margine tagliente. Poco dopo che Homo ergaster è comparso sulla scena tutto ciò è radicalmente cambiato, come dimostrano i ritrovamenti di amigdale (o bifacciali) [...] [Ma] questi strumenti sono diventati un reperto comune [soltanto] nei siti archeologici con un’età dai 700.000 anni in giù [...]. Per realizzare un bifacciale si modellava un nucleo di roccia (e più tardi una grande scheggia) con numerosi colpi su entrambi i lati, per ottenere una forma appiattita, simmetrica, a goccia. [...] Dunque il produttore aveva bisogno di «vedere» la forma finita nella roccia scelta ancor prima di cominciare a scheggiarla. [...] [Ma poiché] l’invenzione dei bifacciali sembra essersi verificata dopo la comparsa di Homo ergaster, [...], il potenziale intellettivo necessario per immaginare una forma a goccia all’interno di un blocco di roccia deve essere stato presente nel cervello degli ominidi prima che cominciassero a esprimerlo”75.
Eppure Homo sapiens è radicalmente diverso perfino da questi suoi “abili predecessori”. Perfino da Homo neanderthalensis: “Dal punto di vista comportamentale, [neanche] i Neanderthal rappresentano una rottura qualitativa rispetto al passato: semplicemente facevano, in modo migliore, le stesse cose dei loro predecessori. In altre parole, erano «un po’ di più» dei loro antenati. Noi, invece, possediamo un pensiero simbolico: per questo motivo possiamo considerarci diversi”76.
“I Cro-Magnon ci hanno lasciato tutte le possibili prove per affermare che, dal punto di vista cognitivo, erano uguali a noi. [...] Decorare le profondità umide e pericolose delle grotte con favolose immagini di animali e con un intero vocabolario di simboli geometrici è un’impresa a dir poco insolita. [...] Secondo alcuni studiosi la sorprendente arte dei Cro-Magnon rappresenta una rottura talmente profonda con il passato da indurci a pensare che, in tempi molto recenti, si sia verificato un cambiamento a livello genetico, nella loro linea di discendenza, senza il quale non si potrebbe spiegare tale creatività”77.
Malgrado ciò, l’ultimo capitolo di Signori del pianeta si intitola In principio era il verbo79, cosa che non inclina certo all’ottimismo il lettore che si accinge ad affrontare le ultime pagine del libro... E tuttavia, secondo un modo di procedere a cui Tattersall ci ha ormai abituato, ecco che quel titolo così “confessionale” viene (sia pur sottilmente) smentito già poche righe dopo la sua inquietante comparsa: “Il linguaggio infatti è un sistema simbolico, la cui esistenza dipende dalla creazione e dalla manipolazione di simboli mentali”80. “In principio”, dunque, non è affatto il “verbo”, ma piuttosto il “simbolo mentale” che il “verbo”, poi, con maggiore o minor successo tenta di esprimere?
“Il nuovo potenziale simbolico [...] deve essere rimasto a riposo per un sostanziale intervallo di tempo finché non è stato «scoperto» da coloro che lo possedevano. [...] La capacità di sviluppare un pensiero simbolico è rimasta nascosta, non riconosciuta, finché non è stata «rilasciata» grazie a uno stimolo che deve per forza essere stato di tipo culturale: la parte biologica, infatti, esisteva già”81.
Notate come le pagine 238-239 contraddicono, “negano”, la pagina precedente e tuttavia, al contempo, non lo fanno del tutto. La contraddicono: a pagina 237 il linguaggio non esisterebbe se non vi fosse, prima di esso, la capacità di “creare e manipolare simboli mentali”; alle pagine 238-239, invece, quel che precede il linguaggio non è più la capacità di creare simboli, ma solo la capacità di sviluppare un pensiero simbolico. Eppure non la contraddicono del tutto: alle pagine 238-239, infatti, la “capacità di sviluppare un pensiero simbolico” precede il linguaggio anche sotto forma di “capacità nascosta, non riconosciuta”; cioè non solo come potenzialità, ma anche come realtà già esistente.
Sottigliezze? Può darsi. Ma proprio attraverso questi lievissimi “slittamenti” (non solo formali, ma sostanziali) Tattersall può affermare nelle stesse righe che prima del linguaggio non era possibile l’immaginazione e che, nondimeno, prima del linguaggio l’immaginazione, in qualche modo... c’era già.
In Signori del pianeta, tuttavia, per la prima volta Ian Tattersall sembra rendersi conto della difficoltà (per non dire dell’impossibilità) di continuare a sostenere che il linguaggio ebbe origine da una capacità creativa (o da che cosa, se no?) che soltanto il linguaggio poté attivare. Nelle ultime pagine avanza infatti l’ipotesi che ― ancora prima del linguaggio “creatore”, o “maieuta”, del “pensiero simbolico” ― vi fosse già... il “pensiero simbolico” esclusivamente umano noto come “teoria della mente”:
“La socialità della nostra specie è davvero singolare, in quanto caratterizzata non solo dalla prosocialità (la preoccupazione per gli altri) che sembra mancare nelle scimmie antropomorfe, ma anche da una più distaccata socialità fondata sull’osservazione. Noi sappiamo che cosa stiamo pensando (gli psicologi parlano di intenzionalità di primo ordine), possiamo ipotizzare che cosa pensino gli altri (secondo ordine), possiamo anche sospettare che cosa gli altri pensino che noi stiamo pensando (terzo ordine) e così via. Le scimmie antropomorfe sembrano aver acquisito un’intenzionalità di primo ordine e, unico esempio tra i primati non umani, si sono avviate verso il secondo livello. [Ma] gli esseri umani [...] possono gestire fino a sei livelli di intenzionalità prima di non capirci più niente. [...] Alcuni scienziati ritengono perciò che l’evoluzione del nostro straordinario stile cognitivo sia stata guidata dallo sviluppo di una teoria della mente sempre più elaborata, necessaria per affrontare le dinamiche interazioni di una socialità che diventava sempre più complessa. In altre parole, la moderna capacità cognitiva umana si sarebbe sviluppata a causa delle pressioni di una socialità sempre più intensa, forse proprio intorno ai focolari dei primi accampamenti”82.
Se non che, sùbito dopo, Tattersall parla di nuovo del linguaggio come dell’“altro stimolo”83 dello stile cognitivo umano ricollocandolo, così, in posizione apicale accanto alla socialità.
E da tale “rebus” Signori del pianeta non si discosta più: questo prezioso panorama riccamente meditato della nostra unicità fin dagli albori si conclude, e ci lascia, alle prese con una sorta di “Comma 22”84 dell’evoluzione umana da cui Tattersall, a quanto sembra, non riesce a venir fuori.
Arriviamo, così, alla già citata lectio magistralis romana del 20 gennaio 2012:
“Quel che ci fa sentire tanto diversi dagli altri viventi è il modo unico che abbiamo noi esseri umani di elaborare le informazioni nel cervello. Ciò che facciamo noi ― e siamo gli unici, a quanto sembra ― è smontare tutto il mondo circostante nella mente facendone un enorme vocabolario di simboli mentali che poi ricombiniamo in modi nuovi per produrre concetti alternativi. Il risultato è che viviamo nel mondo così come lo ricostruiamo nella nostra mente, anziché nel mondo che la natura obiettivamente ci presenta. Questa capacità unica, esclusiva, si vede in ogni aspetto della nostra vita. Altre specie reagiscono più o meno rapidamente, e con maggiore o minore raffinatezza, agli stimoli provenienti dal mondo esterno, ma la nostra capacità simbolica consente a noi esseri umani di prevedere, di immaginare delle alternative, cioè di proporci quesiti come: «E se accadesse la tal cosa?». E forse non vi è miglior modo di esaminare tale diversità che osservare lo stile cognitivo dei nostri parenti più vicini, le grandi scimmie. [...] Gli scimpanzé fanno assegnamento solo sugli aspetti osservabili degli altri per dar vita ai propri concetti sociali. Essi non comprendono che altri esseri sono depositari di un’esperienza privata interna. Nonostante la loro notevolissima intelligenza intuitiva, cioè, le grandi scimmie non sono esseri simbolici così come lo siamo noi umani. Il divario cognitivo tra noi e loro, benché stretto, è invalicabile, assoluto. E tuttavia non si può dubitare che noi umani discendiamo da antenati non simbolici, che erano in larga misura come le scimmie per quanto riguarda gli attributi cognitivi: è molto probabile che fossero molto intelligenti, ma non che riflettessero su cose non osservabili. Cioè non avevano idee sulla mente. [...] Homo sapiens non è un’estrapolazione di trend precedenti: in realtà facciamo qualcosa di completamente nuovo, qualcosa di nuovo avviene nelle nostre teste. Da quando, con gli Homo sapiens simbolici, è emerso questo nuovo modo di pensare, esso ha portato a una rottura col passato che non possiamo liquidare, semplicemente, con la selezione naturale. Allora dobbiamo chiederci: cosa è successo? Be’, sappiamo già, visto che anche i Neanderthal avevano un gran cervello, che questo cambiamento non è un esito passivo dell’incremento delle dimensioni cerebrali. La differenza deve dunque dipendere da qualcosa di strutturale nell’encefalo, ma finché non sappiamo esattamente come il cervello metta insieme una massa di segnali elettrochimici in quella che noi, alla fine, viviamo come coscienza, non possiamo completamente capire quale sia questo nuovo “ingrediente” in termini fisici. Ma possiamo già vedere, comunque, i contorni della transizione. Il cervello umano ha una struttura piuttosto disordinata, ma molto efficace, che si è sviluppata in migliaia di anni, e la sua produzione di cognizione simbolica è avvenuta molto tardi nella sua storia: dopo, molto tempo dopo l’arrivo dell’Homo sapiens moderno dal punto di vista anatomico. Assai probabilmente, questa innovazione neurale così critica è stata acquisita come un prodotto secondario dell’organizzazione del nostro organismo che poi ha fatto nascere l’Homo sapiens come specie distinta. Ciò ha fornito il substrato biologico per la cognizione simbolica, senz’altro, ma questo nuovo potenziale che la nostra specie ha acquisito rimase in realtà inutilizzato, sterile, finché non lo realizzammo attraverso l’azione di quello che dovette essere uno stimolo culturale. E il miglior candidato per uno stimolo di questo tipo è l’invenzione del linguaggio, che è l’attività simbolica per eccellenza. Come il pensiero, il linguaggio comporta la produzione e la riorganizzazione di simboli nella mente, e l’immaginazione e la creatività fanno parte dello stesso processo. Se il linguaggio fosse arrivato dopo il cambiamento anatomico dell’Homo sapiens, allora il primo popolo che parlò una lingua era già dotato dell’apparato necessario per produrre l’eloquio, per esprimersi verbalmente. Inoltre, contrariamente ad altri “volani” putativi dei processi mentali, il linguaggio è un processo esterno, attributivo, che si diffonde rapidamente in una popolazione che ha la predisposizione biologica per produrlo. Di conseguenza, per riassumere, direi che è il pensiero simbolico che ha reso l’Homo sapiens un concorrente insuperabile. L’origine delle capacità umane uniche è qualcosa che è accaduto di recente, e piuttosto che essere guidato dalla selezione naturale, in realtà fu un evento emergente, di breve termine, che risultò da coincidenze casuali: da coincidenze, cioè, che ci sono state imposte casualmente dall’eredità che ci è stata consegnata da centinaia di migliaia di anni di evoluzione. E se noi, da ciò, possiamo concludere che l’Homo sapiens, dal punto di vista cognitivo, non è stato in realtà forgiato dall’evoluzione, questo ci consente forse anche di capire il nostro comportamento talvolta irrazionale. [...] Da quando nacque il pensiero simbolico, la storia dell’Umanità ha poi portato con sé l’esplorazione energica, incalzante, del potenziale culturale straordinario che esso liberò in noi”85.
La pur lunga citazione ci ha permesso di constatare che, il 20 gennaio 2012, niente era ancora mutato nella riflessione di Ian Tattersall sul quid che rende unici gli esseri umani. Ma quel giorno, terminata la lectio magistralis, il pubblico in sala poté rivolgere allo studioso una serie di domande, due delle quali dovettero, invece (o avrebbero potuto) proporgli una possibile, sostanziale novità:
Voce maschile: “Perché continuiamo a rivolgerci alla razionalità come se fosse l’unica caratteristica umana, per spiegare il nostro essere unici, quando questa unicità è evidentemente legata all’emersione di una capacità artistica, musicale, poetica, immaginativa, che appare invece di tipo irrazionale?”
Tattersall risponde: “Be’, è una domanda molto complessa, che realmente rispecchia la complessità di ciò che dovette accadere. È un’ironia, non trova?, che le migliori evidenze antiche di cui disponiamo di tale moderna sensibilità siano di tipo artistico e perciò trascendano, come lei ha detto, il puro e semplice ragionamento. Quel che abbiamo di fronte, però, è la situazione di un encefalo che si evolve per cinque milioni di anni ― tutto ciò che abbiamo noi lo hanno anche gli scimpanzé. Ma abbiamo anche qualcosa in più, ed esso è la combinazione di tutte le cose che fanno di noi le creature straordinarie che siamo”.
Voce di donna: “Guardando all’esplosione di creatività artistica dei Cro-Magnon, come facciamo a essere così sicuri che già parlassero?”
Tattersall: “Non c’è modo di dimostrarlo, in verità. Però sappiamo che erano già simbolici, e non c’è migliore testimonianza di tale capacità simbolica della creatività artistica e delle conquiste della gente del Paleolitico superiore, sul versante tecnologico, demografico... Cambiò tutto, tutto: un mondo diverso, un altro modo di elaborare l’informazione, di affrontare il mondo circostante... Un modo interamente nuovo. Come ho spiegato, a mio parere il linguaggio fu coinvolto in modo intimo nello sprigionare l’espressione del potenziale di cognizione simbolica di cui già il primo Homo sapiens disponeva. In questo quadro, penso che si possa dire quasi con certezza che i Cro-Magnon avevano un linguaggio. Non posso immaginare un essere senza linguaggio che consegua ciò che realizzarono i Cro-Magnon”86.
Esattamente due anni dopo, nel gennaio del 2014, MicroMega pubblica un nuovo articolo di Ian Tattersall intitolato “La seconda nascita di Homo sapiens”:
“Al massimo livello della nostra conoscenza, diversamente dagli altri organismi, noi umani sappiamo smontare pezzo per pezzo quanto abbiamo intorno trasformandolo in un intero vocabolario di simboli mentali. Questi simboli vengono poi ricombinati, secondo regole precise, per produrre interpretazioni alternative della realtà, non solo partendo dalla nostra esperienza diretta, ma anche da come crediamo che sia e perfino da come dovrebbe essere in altre circostanze. Tale capacità modifica radicalmente il nostro rapporto con il mondo che ci circonda, dato che, come risultato, ci troviamo a vivere per la maggior parte del tempo in un contesto ricreato nella nostra mente e non nello scenario che la natura direttamente ci offre. [...] Vi è pertanto una netta discontinuità, un profondo abisso qualitativo, tra il modo in cui gli altri organismi gestiscono l’informazione e il modo in cui lo facciamo noi. [...] È chiaro, infatti, che il nostro modo di far funzionare la mente non è semplicemente il prodotto di un miglioramento incrementale di altre forme cognitive esistenti. La differenza è chiaramente qualitativa, non tanto quantitativa: non abbiamo semplicemente un po’ di più della stessa cosa che hanno tutti gli altri viventi”87.
“Un aspetto particolarmente significativo è il fatto che quando cominciamo a trovare prove indirette del ragionamento88 simbolico la velocità del cambiamento aumenta enormemente. Nel corso della lunga storia tecnologica dell’Umanità il cambiamento è sempre stato sporadico e raro in quanto rappresentava l’eccezione e non la regola. Quando però gli esseri umani incominciano a realizzare oggetti simbolici in grado di testimoniare il loro modo nuovo di ragionare, il cambiamento diventa la norma. Oggi infatti la nostra vita è caratterizzata da una costante aspettativa di cambiamento. Con l’emergere della capacità simbolica, l’esperienza umana compie un balzo qualitativo e cambia anche la nostra relazione con il mondo. Ormai sulla scena c’è un essere interamente nuovo e di un tipo senza precedenti.
E dunque che cosa è accaduto? I più antichi Homo sapiens, i primi ad avere un aspetto molto simile a quello dei loro discendenti attuali, si comportavano più o meno come i Neanderthal (imitando in tal modo i loro predecessori, che sembrano essersi comportati all’incirca come gli antenati più antichi che li hanno preceduti). La regola, per le nuove specie di Homo, era di compiere limitati progressi incrementali rispetto al punto a cui si era arrivati in precedenza, ed evidentemente questo schema si applica anche ai primi Homo sapiens. Così la transizione dal vecchio modo di ragionare a quello radicalmente nuovo, simbolico e senza precedenti, si è verificata sorprendentemente tardi nella storia evolutiva umana durante il periodo di diffusione della nostra stessa specie Homo sapiens. L’inizio di questa trasformazione deve per forza essere associato a un cambiamento culturale e non biologico.
Anche se la natura della transizione cognitiva in sé è molto difficile da immaginare, il modo in cui è avvenuta può essere considerato ben poco insolito. Infatti, come accade sempre nell’evoluzione, le basi biologiche dovevano già essere stabilite per consentire che si sviluppasse il nuovo modo di agire. In poche parole, non è possibile fare qualcosa di nuovo se non si possiede già la capacità potenziale per farlo. [...] Nel nostro caso, la nuova caratteristica biologica non è stata semplicemente il prodotto passivo di un aumento della massa cerebrale, come mostra l’esempio dei Neanderthal che avevano un grande cervello ma non possedevano una capacità simbolica. Anzi, molto probabilmente essa è da mettere in relazione con il potenziamento strutturale della capacità del cervello di compiere associazioni tra gli output dei suoi centri più elevati. È evidente, inoltre, che questa nuova possibilità di utilizzare il ragionamento simbolico dev’essere stata scoperta piuttosto in fretta, entro 100.000 anni dalla prima comparsa di Homo sapiens anatomicamente distinti.
È in corso un ampio dibattito su come sia avvenuta questa scoperta, anche se in generale il principale stimolo culturale candidato viene considerata l’invenzione del linguaggio”89.
Niente di nuovo, si direbbe: l’articolo del gennaio 2014 sembra una trascrizione quasi letterale della lectio magistralis del gennaio 2012. Anzi: il passaggio ancor più brusco del solito, nelle ultime righe citate, dalla riflessione sulla “nuova caratteristica biologica” al rituale appello al linguaggio come a un Deus ex machina, fa addirittura temere che la ricerca di Tattersall stia andando incontro a un’involuzione. E invece, poche righe dopo, in perfetto stile “tattersalliano”, ecco una notevole novità:
“Il linguaggio non può spiegare tutto, neppure se ci limitiamo a considerare il nostro cervello cosciente. [...] Come facevano gli individui a gestire l’informazione, o a comunicare, poco prima dell’invenzione del linguaggio? Queste persone avevano un mondo interiore, come il nostro? Come poteva sentirsi il primo Homo sapiens in grado di pensare o parlare, senza un quadro di riferimento di alcun tipo? La mente letteralmente vacilla di fronte a simili domande”90.
Possiamo immaginare che le domande che Tattersall ricevette al termine della sua lectio romana abbiano qualcosa a che vedere con le domande dinanzi alle quali, due anni dopo, “la mente vacilla”?
L’ultimo scritto di Ian Tattersall che ho avuto modo di esaminare è quello, già citato, apparso poche settimane or sono sul numero di novembre 2014 della rivista le Scienze. Nel quale, però, la mente dello studioso pare tornata perfettamente stabile: “A darci un vantaggio competitivo è stata, quasi certamente, l’acquisizione di una modalità caratteristica ed esclusivamente nostra di pensiero simbolico, che ci permette di schematizzare e pianificare come mai era stato possibile prima. Interessante è il fatto che questo sviluppo sembra essersi verificato durante l’esistenza della nostra specie, Homo sapiens, evidentemente sotto la spinta di uno stimolo culturale; è del tutto plausibile individuarla nell’invenzione della massima attività simbolica, il linguaggio”91.
Rebus sic stantibus, la ricerca di Tattersall sembrerebbe ormai pervenuta a un punto morto che, nella sostanza, ben poco si discosterebbe dall’antiumanesimo di stampo religioso che da millenni cerca di convincerci che umani si diventa apprendendolo grazie al linguaggio e all’educazione. Cosa cambia che, secondo Tattersall, tale apprendimento sia reso possibile da una peculiarità evolutiva (casuale, per quanto unica) se poi, riguardo a tale unicità, non riesce a ipotizzare pressoché niente? Di essa non ci rimane altro, dopo aver seguito le riflessioni di Tattersall per ben tre lustri, che un vago concetto di “potenzialità quiescente”: così vago da indurre la malpensante superstizione ad affermare che lo studioso, alla fin fine, e benché probabilmente non se ne renda conto, parlando di essa parli di “anima”.
Ma no, non c’è solo questo... Ci sono anche quelle “domande” dinanzi alle quali “la mente vacilla”. E c’è un brano di Signori del pianeta, che a dispetto della cronologia voglio citare per ultimo perché, mi pare, con quelle domande ha non poco a che fare. Lasciando supporre che Tattersall, forse, intuisca (o, quanto meno, abbia intuito in passato) più di quel che vuole, o osa, raccontarci:
“C’è però un’altra possibilità per immaginare la condizione umana prelinguistica [= per immaginare umana anche la nostra condizione prelinguistica, nota mia]. Alcuni psicologi92 hanno suggerito che i bambini non ancora capaci di padroneggiare la lingua dei genitori pensino in modo diverso rispetto agli adulti. È quindi possibile che le loro elaborazioni mentali dell’informazione assomiglino, per alcuni aspetti, a quelle di Homo sapiens prelinguistico”93.
Ian Tattersall, dunque, non considera il primo anno di vita degli esseri umani meno umano dei successivi. E questo, io penso, lascia ben sperare, oltre che per lui, per il prosieguo della sua ricerca.
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La proposta con cui mi permetto di concludere si articola in sette punti:
1. Quel che ci rende unici è, dalla nascita ― ben prima del linguaggio verbale ― l’immaginazione non razionale, affettiva, che fin dall’inizio è non consapevole e lo rimane per tutta la vita, anche se, da un certo momento in poi, come specie e come singoli diventammo/diventiamo capaci di manifestarla in comportamenti dei quali invece siamo consapevoli, e sui quali riflettiamo e ci interroghiamo94.
2. L’immaginazione ― è ovvio, ma è meglio ribadirlo a scanso d’interessati equivoci superstiziosi ― è una proprietà biologica umana determinata da una o più mutazioni genetiche casuali e, di conseguenza, dato che la natura non ha intenzioni, assolutamente non “intese” a determinarla.
3. L’immaginazione non è una “capacità” ma... una incapacità di essere in rapporto con la realtà (esterna e interna) senza al contempo modificarla irrazionalmente e affettivamente (e inconsapevolmente, anche se, com’è ovvio, siamo intanto consapevoli della realtà quale, ognuno a suo modo, la sentiamo). Senza che la realtà sia, per noi, qual è e, al contempo, quale la sentiamo. Senza, cioè, discostarci più o meno profondamente, in ogni attimo delle nostre vite, dall’immediato vissuto (ancorché individualizzato dalle diverse caratteristiche biologiche e dalle particolari “esperienze” trascorse) in cui è invece immerso e da cui è interamente condizionato ogni altro animale95.
4. Per l’immaginazione la realtà è, per ognuno, (anche) quella che in quell’istante sente tale. Lo è in modo potentemente affettivo. E lo è più o meno diversamente da come lo è per ogni altro. Il che non significa che la verità sulla realtà non sia conoscibile, ma “solo” che non possiamo definirla e determinarla se non attraverso il rapporto non tanto con essa, quanto soprattutto con l’intera collettività umana.
5. L’immaginazione di ognuno, cioè la realtà, non potendo non rapportarsi all’immaginazione-realtà di ogni altro, può nel rapporto realizzarsi sempre più affettiva, profonda, potente. Ma può anche deteriorarsi, determinando un vissuto individuale del mondo esterno e interno, e in particolare della realtà umana (esteso, talora, ad altri individui o anche a intere comunità) alterato così negativamente da risultare più o meno gravemente incompatibile con la tenuta del legame affettivo con la realtà stessa. Senza il quale, il vissuto cade preda della razionalità astratta che lo assolutizza e lo rende violento.
6. L’immaginazione, benché gestita collettivamente, avrebbe forse portato Homo sapiens ― come forse portò i suoi predecessori ― a una totale incapacità di rapportarsi efficacemente con la natura non umana, e quindi ad estinguersi, se l’evoluzione non lo avesse provvisto, per puro caso, di esclusive caratteristiche corporee (bipedismo, nascita “precoce”, grande cervello, pollice opponibile e quant’altro) per mezzo delle quali la nostra specie ha tramutato lo “svantaggio” ― la relativa disabilità realistico-pratica rispetto agli altri animali ― in un vantaggio competitivo ineguagliabile.
7. L’arte, il linguaggio, la cultura, la tecnologia, sono creazioni che senza l’immaginazione non sarebbero possibili, ma che su di essa retroagiscono aiutandoci a produrre, insieme, una realtà condivisa compatibile con la nostra tenuta affettiva, e abbastanza stabile, in cui muoverci come se la realtà non fosse di continuo diversa per ognuno di noi. Tale retroazione, tuttavia, se non validamente gestita socialmente, può produrre scenari sociali disumanizzanti che tendono a deteriorare l’immaginazione individuale.
(Anticoli Corrado, novembre-dicembre 2014)
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[1] Ian Tattersall, Becoming Human, 1998, traduzione italiana di Laura Montixi Comoglio, Il cammino dell’uomo – Perché siamo diversi dagli altri animali, Milano, 2004, Garzanti, p. 9.
[2] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 160. Corsivo mio.
[3] Ian Tattersall, Tutti gli antenati dell’uomo, ne Le Scienze, marzo 2000, p. 34.
[4] Ibidem, p. 35.
[5] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, estratto da The Monkey in the Mirror: Essays on the Science of What Makes Us Human, ne Le Scienze, gennaio 2002, p. 52.
[6] Ian Tattersall, Come è nata l’intelligenza simbolica, apparso originariamente in inglese su Comparative Cognition and Behavior Reviews n. 3/2008, traduzione italiana in MicroMega, Almanacco di scienze - Darwin, 1809-2009, febbraio 2009, pp 181, 184, 204.
[7] Ian Tattersall, Masters of the Planet – The Search for Our Human Horigins, 2012, traduzione italiana di Allegra Panini, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, Torino, 2013, Codice edizioni, p. 4.
[8] Ian Tattersall, Lectio magistralis, Roma, Festival delle Scienze patrocinato dalla Fondazione Musica per Roma, 20 gennaio 2012. Ascoltabile in https://itunes.apple.com/it/podcast/festival-delle-scienze-2012/id499531754?mt=2 in traduzione simultanea. (Sui testi qui citati, e in particolare su questa conferenza ― molto interessante anche per le domande rivolte a Tattersall dal pubblico e per l’eco profonda (e non sempre positiva) che essa ha avuto in Italia ― tornerò a soffermarmi più avanti).
[9] Ian Tattersall, La seconda nascita di Homo sapiens, in MicroMega 1/2014, p. 55. Corsivi di Tattersall.
[10] Ian Tattersall, Datemi un martello, ne Le Scienze, novembre 2014, p. 58.
[11] Charles Darwin in un acquerello di George Richmond del finire degli anni trenta del XIX secolo.
[12] Alfred Russel Wallace (1823-1913).
[13] Lettera di Wallace a Darwin del 18 maggio 1864, citata in Lettere sul naturalismo, a cura di Silvia De Cesare e Telmo Pievani, in MicroMega 7, 2010, p. 104. Corsivo mio. Ragion per cui, “considerando i suoi speciali attributi da tale prospettiva, possiamo ammettere che anche chi reclama per l’uomo una posizione in un ordine, una classe o un sotto-regno a sé, ha un po’ di ragione dalla sua parte” (Alfred Russel Wallace, The Origin of Human Races, in MicroMega, cit.).
[14] Lettera di Darwin a Wallace del 28 maggio 1864, in MicroMega, cit.. Corsivo mio.
[15] MicroMega, cit., p. 102. Ho scoperto, quando avevo già scritto questa parte dell’articolo, che anche Tattersall ha colto l’importanza del dissidio tra Darwin e Wallace: “È interessante notare” scrive nel 2008 “che proprio sulla questione della comparsa della cognizione umana moderna Charles Darwin e Alfred Russel Wallace, coinventori del principio dell’evoluzione mediante selezione naturale, ebbero l’unico dissidio veramente profondo capace di incrinare il loro rapporto professionale. Per Darwin (1871) la selezione naturale era, senza ambiguità, la spiegazione della comparsa dell’umanità in tutta la sua complessità: «Se [le proprietà intellettuali e morali dell’uomo]» scrisse «fossero» state di estrema importanza per l’uomo primevo e per i suoi progenitori simili alle scimmie, sarebbero state perfezionate o sarebbero progredite mediante la selezione naturale» (Darwin 1871, vol. 2, p. 153). Wallace, d’altra parte, era meno convinto: «Come poteva la ‘selezione naturale’, cioè la sopravvivenza del più adatto nella lotta per l’esistenza», si chiedeva, «favorire in alcun modo lo sviluppo di capacità mentali così radicalmente lontane dalle necessità materiali di uomini selvaggi e che perfino oggi, con il nostro grado relativamente elevato di civiltà, sono nei loro sviluppi più estremi in anticipo sulla nostra epoca?» (1870, pp 351-352). Purtroppo la conclusione che ne trae, che «un’intelligenza superiore ha guidato lo sviluppo dell’uomo in una direzione predefinita» (1870, p. 359) ha offuscato fin da allora la sua reputazione. Ma la sua percezione fondamentale che, per le ragioni già addotte, la selezione naturale non avrebbe potuto portare all’esistenza della coscienza umana, era chiaramente accurata: solo la scelta del meccanismo [...] si rivelò un errore. In retrospettiva, è possibile comprendere che avevano ragione entrambi, ciascuno a suo modo. Darwin aveva ragione a concludere che la coscienza umana è il prodotto finale di un lunghissimo processo accrescitivo dell’evoluzione del cervello, che in ultima istanza risale alle più rudimentali origini dei craniati, circa 400 milioni di anni fa. Non si sarebbe potuto compiere nemmeno un passo di questo cammino senza tutti i passi che lo precedettero; ma nel caso umano la chiave risiede nel fatto che, per quanto un cervello capace di produrre la consapevolezza umana sia l’esito di questo infinito viaggio evolutivo, ciò non era predetto in nessuno dei suoi aspetti. In altre parole, come aveva capito Wallace con tanta chiarezza, il ragionamento simbolico umano non è semplicemente una estrapolazione di questa storia infinita, di cui non sarebbe che un gradino superiore. È invece qualcosa di totalmente nuovo e imprevisto, non pre-detto dai suoi antecedenti ― nemmeno dalla massa di tessuto cerebrale metabolicamente costoso che sembra aver caratterizzato in modo indipendente diverse discendenze all’interno del genere Homo ― anche se è chiaro che da tale sviluppo dipese. E se, nella nostra prospettiva moderna, Wallace fu malauguratamente incapace di trarne profitto, oggi è possibile rendersi conto che l’origine della coscienza umana deve essere stato un evento emergente, tramite cui fu possibile raggiungere un livello di complessità assolutamente imprevedibile mediante una pura coincidenza casuale di acquisizioni” (Ian Tattersall, Come è nata l’intelligenza simbolica, cit., pp 203-204. Corsivo di Tattersall). (Sui continui “slittamenti” di Tattersall dal sentirsi diversi alla coscienza, e viceversa, per caratterizzare il quid che ci rende unici, vedi più oltre).
[16] “La differenza tra l’uomo e gli animali di ordine superiore, per quanto grande, è certamente una differenza di grado e non di tipo” (Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, citato da Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, Milano, 2009, Raffaello Cortina Editore, p. 11. Sul quale, vedi più avanti).
[17] È significativa, a proposito della controversia Darwin-Wallace, la lettera appassionata che Darwin ricevette qualche anno dopo (forse nel 1870) da Frances Power Cobbe (1822-1904), scrittrice e attivista irlandese (nota per le sue campagne in favore del suffragio femminile e per un articolo del 1878 in cui sostenne che la causa fondamentale della violenza domestica risiede nella convinzione ampiamente diffusa dell’inferiorità femminile): “Noi poveri, umili apprendisti, ben lieti di essere i più docili dei vostri allievi”, scrisse Cobbe a Darwin, “vediamo uno di voi [il filosofo Immanuel Kant, nota mia] percorrere con sufficienza l’alta via maestra dell’«a priori» mentre l’altro, con infinita abilità, procede lungo il solido acciottolato dei fatti materiali. Dunque non finirete mai per unire le vostre linee di pensiero, mostrandoci come fisica e metafisica formino un’unica grande filosofia?” (MicroMega, cit., p. 115).
Possiamo legittimamente diffidare dell’accostamento tra Darwin e Kant, e la parola metafisica può, a buon diritto, accrescere la nostra diffidenza. Ma è pur vero che in termini analoghi si era espresso quarant’anni prima il diciottenne Karl Marx nella sua celebre Lettera al padre: “Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa non mi era piaciuta. Volli ancora una volta tuffarmi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica, di non usar più arti di scherma, ma di tenere la pura perla alla luce del sole”? (Karl Marx, Lettera al padre a Treviri del 10 novembre 1837, in Opere, vol. I, 1835-1843, Roma, 1980, Editori Riuniti, p. 14).
[18] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, cit., p. 51. Corsivi miei.
[19] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, cit., p. 56. Corsivi miei.
[20] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 14.
[21] Cautela che non gli ha evitato, purtroppo soprattutto in Italia, qualche fatuo e maldestro tentativo di stampo fondamentalista cristiano di contrabbandare la sua ricerca (o, per meglio dire, alcune sue frasi decontestualizzate) per una “rivalutazione” del creazionismo. La trappola scatta, a opera ― come ci si poteva aspettare ― di ambienti gravitanti intorno alla “ditta” finanziario-religiosa nota come Comunione & liberazione, dopo la lectio magistralis tenuta da Tattersall, il 20 gennaio 2012, per il Festival delle Scienze patrocinato dalla fondazione Musica per Roma: lo studioso viene invitato all’annuale Meeting di Cl a Rimini, accetta l’invito (forse incautamente), espone le sue teorie e sùbito è fatto oggetto, su certa stampa e su alcuni blog, di conati “annessionisti” insulsi e trionfalistici. Dall’articolo L’antropologo Ian Tattersall risponde ai creazionisti, di Beatrice Mautino, ecco in sintesi la vicenda, da cui si evince che l’Italia, per la reputazione di uno studioso serio, è ancora oggi rischiosa quanto lo sarebbe stato per la sua vita ai tempi di Giordano Bruno (http://www.queryonline.it/2012/09/10/lantropologo-ian-tattersall-risponde-ai-creazionisti/):
“La comparsa di Homo sapiens è avvenuta con una «improvvisa apparizione di una nuova e straordinaria capacità: l’elaborazione simbolica», affermazione questa assolutamente in linea con l’idea che tra l’Uomo e gli animali esista una cesura netta, quel «salto ontologico» che altri vogliono negare. Tattersall conferma poi che proprio di una differenza non di grado ma di essenza (fondamentale) si tratta”.
Le parole che leggete le ha scritte un insegnante di scienze creazionista sul suo blog, ma rappresentano bene il polverone che si è alzato a seguito della partecipazione di Ian Tattersall [...] al Meeting di Comunione & liberazione tenutosi a Rimini alla fine di agosto.
Ian Tattersall è uno dei più noti studiosi dell’evoluzione umana: capirete, quindi, lo stupore con cui abbiamo letto delle polemiche in corso.
Per essere chiari, ci sono due ordini di polemiche. Il primo riguarda la partecipazione stessa di Tattersall al Meeting e le sue parole di apertura verso il mondo della fede. L’antropologo ha su questi temi una posizione simile a quella proposta da Stephen Jay Gould con il nome di NOMA, Non Overlapping Magisteria. Scienza e fede sarebbero due ambiti compatibili fra loro proprio per la loro natura completamente differente e per gli ambiti d’azione non sovrapponibili. Altri scienziati, come Richard Dawkins o Jerry Coyne, sono invece su posizioni di rottura. Quindi, soprattutto negli Stati Uniti, le parole di Tattersall hanno riacceso il dibattito che, però, si è limitato principalmente agli addetti ai lavori.
Il secondo ordine di polemiche è invece tutto italiano e riguarda l’utilizzo delle parole di Tattersall per dichiarare inconsistenti le scoperte di Darwin sull’evoluzione della nostra specie.
L’intervento dell’antropologo americano era incentrato sulla nascita dell’intelligenza simbolica, una caratteristica umana che nessun altro essere vivente ha mai presentato. Lo sintetizzano con efficacia le parole di Telmo Pievani, filosofo della Scienza all’Università di Milano Bicocca e curatore della mostra Homo sapiens. La grande storia della diversità umana:
“Intorno a 45-40mila anni fa diventiamo non più soltanto anatomicamente ma anche mentalmente moderni. È il fiorire di un’intelligenza divenuta simbolica e capace di astrazione: pitture rupestri straordinarie, da sùbito animate sia di realistiche scene di caccia sia di figure stilizzate e simboliche; squisite opere d’arte intagliate nell’osso; sepolture rituali sofisticate; ornamenti per il corpo, monili e abbellimenti; i primi strumenti musicali; nuove tecnologie di lavorazione della pietra, dapprima del tipo aurignaziano, poi in rapido avanzamento e differenziazione in culture regionali distinte; la costruzione di ripari più complessi, anche in spazi aperti; forse persino i primi calendari lunari intorno a 32mila anni fa. Vediamo in azione una specie che immagina e s’interroga sulla natura circostante, sulle sue regolarità: le stagioni, le maree, i cicli lunari, i ritmi annuali di piante e animali. Tranne qualche accenno sporadico, non troviamo alcuna esplosione di creatività di questo tipo nelle altre quattro specie umane coeve di Homo sapiens. È come se avessimo imparato a inventare mondi possibili nelle nostre teste, anziché accettare passivamente la dura realtà naturale per come è. Nasce la mente umana moderna, pronta a cimentarsi su strade nuove, come l’arte, la musica e la danza”.
Davvero Tattersall pensa che questa caratteristica sia frutto di un “salto ontologico” e rappresenti una “cesura netta” fra l’uomo e le altre specie?
Glielo abbiamo chiesto, e la risposta è chiara e inequivocabile:
“Sono molto dispiaciuto che le mie parole siano state travisate a sostegno della falsa credenza che ci sia una «rottura» tra gli esseri umani e gli altri organismi. È certamente vero che il nostro modo insolito di elaborare le informazioni sembra essere stato acquisito recentemente, ma questo evento è chiaramente un’espressione perfetta del processo evolutivo che ha prodotto il grande albero della vita in cui noi esseri umani siamo completamente integrati.
Tutte le innovazioni evolutive appaiono de novo e spesso in contesti diversi da quelli in cui possono venire cooptate: basti pensare all’evoluzione degli arti, che ha consentito ai tetrapodi di muoversi sulla terra ferma e che, però, è stata ereditata dai loro antenati che nuotavano in mare”.
E aggiunge: “Mi dispiace molto di aver involontariamente alimentato le tesi creazioniste e vorrei che fosse chiaro che le mie parole sono state estrapolate dal contesto e completamente travisate”.
[22] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp 193-194. Corsivo di Tattersall.
[23] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 31. Corsivo di Tattersall.
[24] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 160. Corsivo mio.
[25] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 170. Corsivo mio.
[26] Ibidem.
[27] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 171.
[28] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 173.
[29] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 175. Corsivi miei.
[30] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 177.
[31] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp 201-208. Corsivo mio.
[32] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 205. Corsivo mio.
[33] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp 189-191.
[34] Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 202.
[35] Ian Tattersall, Tutti gli antenati dell’uomo, cit., p. 34. Corsivi miei.
[36] Ibidem. Corsivo mio.
[37] Ian Tattersall, Tutti gli antenati dell’uomo, cit., p. 35.
[38] Ibidem.
[39] Ian Tattersall, Tutti gli antenati dell’uomo, cit., p. 36. Corsivi miei.
[40] Ibidem. Corsivi miei.
[41] Ibidem. Corsivi miei.
[42] Che ne avrebbe detto Darwin? Se la sarebbe sentita di descriverlo, ancora una volta, come “un elemento in eccesso” paragonabile a quello “che distingue le formiche dagli altri imenotteri”?
[43] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, cit., p. 55.
[44] Ibidem. Corsivi miei. (Sull’epigenetica, cfr. in http://www.scuolanticoli.com/download/Epigenetica.pdf Le esperienze dei nostri nonni hanno influito sui nostri geni?).
[45] Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello Spazio, 1968.
[46] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, cit., p. 52. Corsivo mio.
[47] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, cit., p. 53.
[48] Ian Tattersall, Come siamo diventati umani, cit., p. 54.
[49] Ibidem.
[50] Michael S. Gazzaniga, Human, 2008. Traduzione italiana di Laura Sparaci, Human – quel che ci rende unici, Milano, 2009, Raffaello Cortina editore.
[51] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., pp 1-2.
[52] “Tell me where is fancy bred, / Or in the heart or in the head? / How begot, how nourished? / Reply, reply / It is engender’d in the eyes / With gazing fed; and fancy dies / In the cradle where it lies: / Let us all ring fancy’s knell; / I’ll begin it. Ding dong, bell / Ding, dong, bell” ― “Dimmi, dove nasce la fantasia, nel cuore o nella testa? Come si genera, come si sviluppa? Dimmi, dimmi. Dagli occhi si genera, si nutre dal guardare e muore nella culla dove vive. Suoniamo a morte la campana della fantasia. Din-don, din-don” (William Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto III, scena II. Citato da Massimo Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, Roma, 1972 ― Roma, 2010, prima edizione l’Asino d’oro edizioni, pp 73-74. Ripeto e sottolineo: millenovecentosettantadue).
[53] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., p. 47. Corsivo mio.
[54] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., pp 58-59. Corsivi miei.
[55] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., pp 200-201. Corsivi miei.
[56] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., pp 202-203.
[57] Ibidem. Corsivo mio.
[58] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., p. 270. Vale la pena di confrontare queste algide parole di Gazzaniga con quelle, ben più ricche di pathos – anche se pur sempre nel contesto dell’ambiguità di fondo che stiamo cercando di comprendere – che Tattersall dedica all’“esplosione creativa” dell’Homo sapiens in un suo articolo di quello stesso anno: “In Europa, circa 40.000 anni fa, i Neanderthal nativi videro sconvolta la loro tranquillità, se tale la possiamo considerare, dall’arrivo di una nuova specie di ominidi provenienti da est e da sud. I nuovi arrivati, noti a livello locale e informale come uomini di Cro-Magnon, erano Homo sapiens moderni non solo per le caratteristiche anatomiche, ma anche per il comportamento. Fin dall’inizio i Cro-Magnon produssero testimonianze dell’intera, stupefacente panoplia comportamentale che caratterizza oggi Homo sapiens in tutto il mondo. Dove e come esattamente sia stato acquisito dagli antenati dei Cro-Magnon questo nuovo insieme di comportamenti apparentemente senza precedenti resta al momento ignoto, anche se è ragionevole ipotizzare che la sua origine prima si trovi in Africa. Ma le testimonianze materiali di questo nuovo spirito lasciateci dai Cro-Magnon in Europa sono a tutt’oggi senza paragoni. Ben prima di 30.000 anni fa questi umani dipingevano sulle pareti delle caverne immagini sbalorditive, creavano incisioni squisite, traevano musica da flauti considerevolmente raffinati, registravano e annotavano dati su placche di osso. L’assortimento degli utensili è senza precedenti per varietà delle forme e dei materiali usati, e le tecniche di realizzazione rivelano una raffinata conoscenza delle loro peculiari caratteristiche meccaniche. Nel giro di poco tempo i Cro-Magnon impareranno a cucire indumenti con grande abilità, adoperando aghi d’osso con minuscole crune, e persino a cuocere figurine di ceramica grazie a forni semplici ma estremamente funzionali” (Ian Tattersall, Come è nata l’intelligenza simbolica, cit., pp 196-197).
[59] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., p. 275.
[60] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., p. 322.
[61] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., pp 326-331. Corsivi miei.
[62] Jeffrey Hawkins (sul quale cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Jeff_Hawkins), nato negli Stati Uniti nel 1957, è il fondatore della Palm Computing (per la quale ha inventato il Palm Pilot) e della Handspring (per la quale ha inventato il Treo). In seguito si è dedicato a tempo pieno alle neuroscienze, fondando nel 2002 il Redwood Center for Theoretical Neuroscience (ex Redwood Neuroscience Institute), nel 2005 Numenta, e pubblicando il libro On Intelligence, in cui descrive la sua teoria del cervello umano basata sulla memoria predittiva. Dal 2003 è membro della National Academy of Engineering.
[63] Michael S. Gazzaniga, Human – quel che ci rende unici, cit., pp 460-462.
[64] Ian Tattersall, Come è nata l’intelligenza simbolica, cit., p. 182.
[65] Ian Tattersall, Come è nata l’intelligenza simbolica, cit., pp 183-184. Corsivo di Tattersall.
[66] Ian Tattersall, Come è nata l’intelligenza simbolica, cit., p. 182.
[67] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 8.
[68] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., pp 8-9. Corsivi miei.
[69] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 77.
[70] Il primo a occuparsene fu Charles Darwin in persona, il che fa supporre che la questione su cui non volle (o non poté) accogliere le suggestioni di Wallace continuò tuttavia a preoccuparlo.
[71] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 86.
[72] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 87.
[73] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 88.
[74] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 138.
[75] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., pp 148-151. Corsivo mio.
[76] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 205.
[77] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 234.
[78] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 208.
[79] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 235.
[80] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 237.
[81] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., pp 238-239.
[82] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 242. Corsivi di Tattersall.
[83] Ibidem.
[84] Il “comma 22” (“Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di guerra. Ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di guerra non è pazzo”) è l’articolo (sperabilmente inventato) del Codice militare statunitense che dà il titolo a un famoso film antimilitarista del 1970, diretto da Mike Nichols e basato su un libro (del 1961) di Joseph Heller.
[85] Ian Tattersall, Lectio magistralis, Roma, 2012, cit..
[86] Ian Tattersall, Lectio magistralis, Roma, 2012, cit..
[87] Ian Tattersall, La seconda nascita di Homo sapiens, cit., pp 55-56. Corsivo di Tattersall.
[88] Ragionamento o pensiero simbolico? Tattersall ha sempre oscillato fra i due. È però possibile (ma in mancanza del testo originale lo si può solo ipotizzare) che alcuni traduttori, senza accorgersi dell’enorme differenza, rendano con il termine “ragionamento” la medesima parola inglese che altri rendono con “pensiero”.
[89] Ian Tattersall, La seconda nascita di Homo sapiens, cit., pp 63-64. Corsivo di Tattersall.
[90] Ian Tattersall, La seconda nascita di Homo sapiens, cit., pp 64-65. Corsivi miei.
[91] Ian Tattersall, Datemi un martello, cit., p. 61.
[92] Quali “psicologi”? Vedi, forse, la nota 94...
[93] Ian Tattersall, I signori del pianeta – la ricerca delle origini dell’uomo, cit., p. 248.
[94] È (al netto di ogni mia incomprensione o imprecisione) la fondamentale scoperta scientifica di Massimo Fagioli su quel che ci rende umani e unici tra gli animali, “vecchia” ormai di decenni e sulla quale egli ha fondato un pensiero e una prassi di straordinaria ricchezza e complessità, a tutt’oggi unici nel panorama scientifico globale e, forse, ormai così avanzati da indurmi a supporre che unici possano ancora rimanere per svariati decenni. La ricerca e lo studio ormai ventennali che mi hanno permesso di scrivere questo articolo non sarebbero mai neanche iniziati se non avessi colto, vent’anni prima, l’inestimabile opportunità che le vicende della vita mi hanno offerto di entrare in rapporto con quel pensiero e quella prassi. Il che non toglie, com’è ovvio, che la responsibilità di ogni eventuale manchevolezza di quanto ho scritto è esclusivamente mia e, in particolare, della mia solo relativa capacità di tenere tale rapporto ai livelli che tanto ho desiderato e desidero raggiungere. I libri di Massimo Fagioli sono pubblicati da L’asino d’oro editore: http://www.lasinodoroedizioni.it.
[95] Spetterà alla Scienza, e in particolare alla Fisica in rapporto con la Neuroanatomia, spiegarci esattamente come mai il nostro rapporto con la realtà esterna e interna è, allo stesso tempo, l’esatta percezione cosciente di essa, come lo è per ogni altro animale, e insieme l’irrazionale modificazione individuale da cui solo noi siamo affetti.
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