ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Karl, Jenny, Heinrich

e la pura perla

 

Home     Clicca qui per scaricare il testo in formato .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in formato .doc

 

Clicca qui per scaricare il testo in formato .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in formato .doc

 

 

A diciassettenne anni, nell’estate del 1835, Karl Marx consegue la licenza liceale presso il ginnasio Federico Guglielmo di Treviri con la valutazione media di abbastanza soddisfacente.

 

Poteva far meglio? Certo. Ma legge e studia anche per suo conto, scrive poesie, s’innamora: alla scuola ha dedicato solo una parte del suo tempo. Ed è così sicuro di sé che non dubita di poter continuare a impegnarsi su entrambi i fronti: far contento il padre che ama moltissimo, e che insiste perché si concentri nella costruzione di un futuro professionale e sociale all’altezza delle sue qualità, e proseguire l’appassionante ricerca della “pura perla”1.

 

Così, verso la metà di ottobre, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bonn.

 

Un mese dopo riceve una lettera dal padre: “Caro Karl, sono trascorse più di tre settimane dacché sei partito, e nessun segno da parte tua! Conosci tua madre e la sua apprensività, e tuttavia questa sconfinata noncuranza! Ciò, con mio dispiacere, mi conferma anche troppo nell’opinione che, nonostante alcune tue buone qualità, io continuo ad avere, che cioè nel tuo cuore domina l’egoismo”2.

 

Non si conosce la risposta di Karl, ma probabilmente si dichiara addolorato se Heinrich, in una lettera successiva, ammette di avergli detto “di scrivere solo dopo che [si fosse] un po’ ambientato. Voglio che tu raggiunga ciò che io in circostanze meno favorevoli non potei ottenere. Desidero vedere in te ciò che forse sarei diventato se fossi venuto al mondo sotto auspici altrettanto buoni. Le mie più belle speranze tu le puoi realizzare o distruggere. [...] Che tu ti mantenga moralmente buono, è cosa di cui non dubito affatto. Tuttavia un grosso sostegno della morale è la pura fede in Dio. Sai che niente mi è più alieno del fanatismo, ma la fede prima o poi è per l’uomo un vero bisogno, e ci sono momenti nella vita in cui anche gli atei sono involontariamente portati a invocare l’Altissimo”3.

 

Heinrich sa che il figlio non crede in Dio. Ma ignora che Karl, oltre che a diventare quel che Heinrich non ha saputo essere, è alla ricerca di qualcosa che il padre non riesce neanche a immaginare: “Ti confesso con tutta sincerità, caro Karl, che non capisco la tua poesia: né il suo vero senso, né a cosa tenda. Nella vita comune è un assioma incontestato che con l’adempimento del più ardente desiderio il valore di ciò che si desidera diminuisce di molto e spesso scompare del tutto. [...] Guidàti da questo pensiero, si rifiutano i piaceri immorali e si differiscono anche i leciti, per mantenere col differimento il desiderio o anche per avere un piacere aumentato. Lo dice bene Kant nella sua Antropologia4.

 

Karl rimane a Bonn fino all’estate successiva, quando il padre gli ordina5 di proseguire gli studi a Berlino. Perché? Karl, è vero, ha speso tanto e commesso qualche ragazzata (“Riguardo al suo comportamento, va notato che è incorso nella pena di un giorno di carcere per schiamazzi notturni e ubriachezza” dice il suo certificato di congedo dall’Università di Bonn6. Sembra, inoltre, che a primavera si sia battuto in duello) ma il motivo della decisione di allontanarlo da Bonn è sicuramente un altro.

 

Da Treviri a Bonn vi sono duecento chilometri. Da Bonn a Berlino, altri quattrocento. Una distanza enorme, per quei tempi. E, per il diciottenne Karl, un abisso tra lui e la famiglia, gli amici, i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. Tanto più che all’inizio dell’estate (prima che il padre gli imponesse di trasferirsi a Berlino) si è innamorato della ventiduenne Jenny von Westphalen, “compagna di giochi della sua infanzia e amica intima, nonché coetanea, della sorella Sophie”: una ragazza “non solo di non comune bellezza, ma anche di animo e carattere non comuni”, “molto corteggiata e ambita”, alla quale “si apre l’avvenire brillante di una figlia di funzionario d’alto rango”7.

 

È un amore appassionato. E l’estate del ’36 è indimenticabile per entrambi, se ancora ventisette anni dopo, nel 1863, recatosi a Treviri per i funerali della madre, Karl potrà scrivere a Jenny: “Tutti i giorni sono andato in pellegrinaggio alla vecchia casa dei Westphalen, che mi ha interessato più di tutte le antichità romane poiché mi ricordava i tempi felici della giovinezza e racchiudeva il mio tesoro più caro. E ogni giorno, a destra e a sinistra, mi hanno domandato della quondam «più bella ragazza» di Treviri e della «reginetta del ballo». È terribilmente piacevole, per un uomo, che la moglie viva ancora nella fantasia di tutta una città come «la principessa del sogno»”8.

 

Separarsi da una ragazza così amata è molto doloroso per Karl (oltre che, naturalmente, per Jenny). Tanto più che l’imposizione è determinata dalla diffidenza di Heinrich per la passionalità e la “poesia” di un figlio che molti anni dopo racconterà ai propri “di essere stato da giovane, nell’amore per la loro madre, un vero Orlando furioso”9. Racconta Franz Mehring: “Pare un colpo di testa da studente quando Karl si fidanza. Ed è verosimile che il fidanzamento rafforzi la decisione del padre, piuttosto che indebolirla, e che la sua natura riflessiva, mirando lontano, gli faccia considerare consigliabile, per il momento, una lunga separazione dei due innamorati”10.

 

Berlino è per Karl quel che Tomi fu per Ovidio, “il tenero poeta dell’amore” che predilige, e del quale nei primi mesi del 1837 traduce per il padre una parte de I libri della tristezza: “Ovidio sedeva a Tomi, dove era stato scaraventato dall’ira del divo Augusto poiché possedeva più genio che buon senso. Lì, tra i barbari selvaggi, sfioriva il tenero poeta dell’amore, e l’amore stesso l’aveva fatto precipitare. Il suo capo meditabondo poggiava sulla sua destra, e sguardi nostalgici vagavano verso il lontano Lazio. Il cuore del cantore era spezzato, eppure doveva ancora sperare, e la sua lira non poteva ammutolire, e in canti melodiosi, dolcemente espressivi, faceva ardere la sua nostalgia e il suo dolore”11.

 

In che senso è “di natura riflessiva” il vecchio padre di Karl Marx (che nel 1836 ha solo 54 anni, ma in effetti è così vecchio che morirà due anni dopo)? Non è difficile immaginarlo, sapendo che si è convertito al protestantesimo, lui ebreo, per il suo forte patriottismo prussiano e in cerca di una religiosità più razionale. Le sue riflessioni lo convincono che al cuore del figlio (per “differirne il desiderio”, come consigliano “un assioma incontestato” e Kant) si deve dar modo di maturare, e alla sua immaginazione di placarsi. E che, se a ciò non bastano gli studi giuridici, che Karl non ama, e la lontananza della ragazza per la quale ha perso la testa, per maggior sicurezza gli si deve impedire di scriverle e di ricevere sue lettere per un anno intero12.

 

Fidanzarsi, all’epoca, tanto più con “la figlia di un funzionario d’alto rango”, è un atto solenne e definitivo in cui le famiglie impegnano l’onore. Ma Karl e Jenny agiscono d’impulso: lui da “Orlando furioso”, e lei da Angelica, visto che si fidanza “all’insaputa dei propri genitori”13.

 

Per molto tempo, solo Heinrich (e Sophie) sanno del fidanzamento: non i von Westphalen né, a quanto pare, la madre di Karl. E Heinrich ne approfitta per aggravare gli effetti che si attende dalla separazione arrogandosi il ruolo di “intermediario” fra gli innamorati e attuando, nei confronti di Karl, una sottile, raffinata opera di indurimento (nonché, nei confronti di Jenny, una strategia intesa a istillare in lei la propria immagine di Karl come di un immaturo farfallone). In che modo? Perorando nelle lettere al figlio la causa di Jenny. Incitandolo a mantenere gli impegni verso la fidanzata. Tentando, cioè, di convincerlo che il suo poetico amore non dev’essere molto affidabile (proprio perché poetico, e poiché infiamma un giovane già così poetico per conto suo) se il padre tanto amato, e che lo conosce tanto bene, sente di dover adoperarsi per consolidarlo.

 

“Ti ho inviato una lettera da Francoforte” scrive Heinrich il 9 novembre 183614. “Sembra che tu non l’abbia ancora ricevuta. Là ti ho fatto abbastanza prediche [sul suo dovere verso Jenny di mettere la testa a posto, come si evince dal prosieguo] e perciò non ne voglio fare più per un bel pezzo. Però desidero una risposta a quella lettera. A causa di quel punto particolare, così importante [il fidanzamento] ti prego addirittura di mettere nella busta, oltre alla lettera indirizzata a me, ancora un’altra specialissima. In genere non ho segreti per la cara mamma, ma in questo caso, per il momento, mi preoccupo ancora per la sua eccessiva apprensività. [...] Non sono certo un angelo, so che l’uomo non vive di solo pane; tuttavia, di fronte all’adempimento di un dovere sacro, ogni fine secondario deve tacere. E ripeto: non vi è per l’uomo un dovere più sacro di quello che assume nei confronti della donna, che è più debole. Sii perciò, a questo proposito come in ogni altro, del tutto aperto con me, come con un amico. E se, dopo un distaccato esame di te stesso, perseveri nel tuo proposito [di tener fede al fidanzamento], allora devi diventare immediatamente un uomo. Ma ciò non impedisce lo slancio poetico: anche lo slancio per il dovere è molto poetico”.

 

Permeare di astratto dovere l’amore del figlio insinuando che egli ami in modo immaturo (e non se ne renda conto, poiché non vede chiaro in sé stesso come vede chiaro in lui il padre): questa è la strategia di Heinrich. Il quale vede chiaro, questo sì, che l’amore di Karl per Jenny tanto meno darà forza e passione alla sua poetica e filosofica ricerca umana, quanto più si tramuterà in un duro impegno quotidiano, negli studi giuridici e in società, per garantire a sé e a lei un avvenire sicuro.

 

Karl ha un punto debole “leopardiano”: solo il padre15 capisce (razionalmente) le sue immense aspirazioni intellettuali. Per questo, e poiché lo ama, tiene moltissimo al rapporto con lui. E Heinrich, che lo sa bene, e che perciò è attento a non intaccare quella “complicità”, comprende sùbito quanta forza acquisirà, contro quelle aspirazioni (serbando tuttavia un’apparenza di irreprensibile rispetto per esse) convincendo il figlio che tenerle a freno è un pegno d’amore che deve a Jenny, e che lui stesso si è assunto fidanzandosi con lei.

 

Ma Karl probabilmente16 gli risponde con una certa asprezza se Heinrich, nella successiva lettera del 28 dicembre 1836, giudica opportuno tornare alla carica con queste parole:

 

“Caro Karl, se io fossi meno indulgente, se riuscissi a serbare rancore più a lungo, e in particolare nei confronti dei miei cari, avrei certamente motivo per non risponderti. Non è lodevole essere esageratamente suscettibile, e tanto meno nei confronti di un padre il cui difetto non è di certo la severità.

 

Se tu avessi riflettuto [...] che io, essendomi ormai immischiato in una faccenda (che di per sé non era per me precisamente gradevole) per senso del dovere nei confronti di una persona realmente molto degna [Jenny], dovevo per forza irritarmi per un silenzio incomprensibile [si noti come il silenzio di Karl viene contrabbandato come un silenzio verso Jenny, quando invece è per volontà paterna che Karl non può scriverle]; e che, se davvero mi sono servito di qualche espressione che poteva suonare dura, io in primo luogo non ho ritenuto di dover pesare le mie parole con la bilancia, e poi mi ero anche irritato non del tutto senza ragione; oltre tutto ti assicuro che non avevo l’animus calumniandi. [...] Ma tu stesso ammetti di avermi dato in precedenza [cioè “in precedenti faccende di cuore”, ma detto con l’intento con cui frate Lorenzo, ricordando a Romeo la sua infatuazione per Rosalina, mette in dubbio che l’amore per Giulietta sia serio] occasione di nutrire qualche dubbio nei confronti della tua abnegazione. E in considerazione di tutto ciò avresti dovuto essere un po’ meno suscettibile nei confronti del tuo papà.

 

È ormai assolutamente tempo che tu la smetta con questa tensione che rovina anima e corpo [cioè la passione poetica e intellettuale che Heinrich vuol tramutare in “slancio”... per il dovere], [...]. Lo ripeto, ti sei assunto grossi impegni; e a rischio, caro Karl, di urtare la tua suscettibilità, voglio esprimere la mia opinione nel modo un po’ prosaico che mi è solito: con tutte le esagerazioni e le esaltazioni dell’amore in un animo poetico non puoi ricondurre la calma nell’essere al quale hai dato tutto te stesso [insinuazione che anche Jenny sia preoccupata, per non dire atterrita, dalla passionalità di Karl]. Anzi, corri il pericolo di distruggerla. Solo col più esemplare comportamento, attraverso uno sforzo fermo e virile, che tuttavia non ti alieni la simpatia e il favore delle persone, puoi ottenere che la situazione si appiani e che lei sia innalzata e rassicurata ai propri occhi e a quelli del mondo.

 

Ho parlato con Jenny e avrei desiderato rassicurarla completamente. Ho fatto il possibile, ma non si può spazzare via tutto col ragionamento. [Possiamo ben immaginare, a questo punto, con quali “ragionamenti” Heinrich abbia tentato di “spazzare via tutto” ― parole orribili, per alludere alle “esaltazioni dell’amore negli animi poetici” di un diciottenne e una ventiduenne ― dal cuore della ragazza]. Ancora non sa come i suoi genitori accoglierebbero la relazione. Anche il giudizio dei parenti e del mondo non è una piccolezza17. [...] Lei ti offre un sacrificio inestimabile [insinuazione che l’amore di Jenny, se Karl non si “calma”, farà di lei la sua vittima, ma involontaria ammissione, anche, che Jenny lo ama com’è] e dimostra un’abnegazione che può essere apprezzata interamente solo dalla fredda ragione.

 

[...] Ti prego e ti scongiuro, quindi, [...], di calmarti; modera queste passioni, e tanto meno destale nel seno di un essere che merita la calma e ne ha bisogno.

 

[...] Spero che tu abbia ormai ricevuto il vino. Attingine allegria e lascia perdere ogni cosa secondaria, ogni disperazione, e nella vita dimentica la poesia, se non abbellisce, se non rende felici”18.

 

Significativo il poscritto della sorella Sophie, che dimostra che è sinceramente dalla parte del fratello e dell’amica ma rivela, anche, la pressione a cui Jenny è sottoposta, lontana da Karl e impossibilitata a comunicare con lui, mentre egli, anche lui lontano e costretto al silenzio, subisce un’analoga pressione da parte di Heinrich: “La tua ultima lettera, caro Karl, mi ha fatto piangere lacrime amare: come hai potuto pensare che avrei tralasciato di darti notizie della tua Jenny?! Sogno e penso solo di voi. Jenny ti ama; se la differenza di età la preoccupa, questo accade solo a causa dei suoi genitori. Cercherà di prepararli un po’ per volta; dopodiché scriverai loro tu stesso, hanno veramente un’alta stima di te. Jenny ci visita spesso. Anche ieri è stata da noi, e ricevendo le tue poesie [riguardo alle quali, indiretto unico contatto fra i due innamorati dall’estate del ’36 a quella del ’37, vedi più avanti], ha pianto lacrime di gioia e di dolore. I nostri genitori e i fratelli l’amano molto, gli ultimi oltre ogni misura: prima delle dieci non le permettiamo mai di lasciarci, che te ne sembra? Addio, caro, buon Karl, i miei auguri più cari per il successo del tuo più caro desiderio”19.

 

La successiva lettera di Heinrich, del 3 febbraio 183720, è inquietante perché ci fa temere che Karl stia cedendo alla “calma”, alla “fredda ragione” e allo “slancio” per il “dovere” che il padre esige da lui in luogo delle “esaltazioni ed esagerazioni del suo animo poetico”; poiché insinua che Jenny sia ormai in sintonia con quella pretesa, benché ne soffra; e per la soddisfazione con cui Heinrich si lascia andare a battute di spirito che suonano come larvate ammissioni del proprio ruolo in tali metamorfosi:

 

“Caro Karl, la tua ultima lettera mi ha estremamente rallegrato, poiché mi dimostra che hai messo da parte le piccole debolezze che tra l’altro mi preoccupavano, che riconosci la tua posizione e ti sforzi, con energia e dignità, di rendere più sicuro il tuo avvenire. Ma, caro Karl, non cadere nell’estremo opposto [cioè non trascurare per lo studio le amicizie importanti che possono aiutarti a renderlo produttivo]. A parte il fatto che la socievolezza offre immensi vantaggi per il divertimento, il riposo e l’istruzione, specialmente dei giovani, la saggezza (che tu, non essendo più solo, non puoi trascurare) esige che, naturalmente in modo onorevole e dignitoso, ci si procuri degli appoggi: le persone importanti [...] non perdonano facilmente di venir trascurate.

 

[...] Non esagerare in nulla. Con le tue attitudini naturali e la diligenza attuale raggiungerai lo scopo, e non ha importanza un semestre in più o in meno. [Quale disponibilità verso il figlio, se mettendo da parte le precedenti “debolezze” si concentrerà nello studio non più come appassionata ricerca e realizzazione umana, ma allo scopo di “rendere più sicuro” il suo avvenire”!].

 

Per quanta esperienza io possa avere, non ti posso tracciare un piano completo, con una chiara visione di tutte le sfumature [segno che Karl gli ha chiesto un piano di studio che lo aiuti, secondo la volontà paterna, a non disperdersi]. Comunque mi pare indubbio che il tuo proposito di avanzare nella carriera accademica sia ottimo e adatto a te. [...] Una solida poesia può occupare il secondo posto e non danneggia mai la fama [Heinrich è troppo astuto, come abbiamo notato, per aggredire lo slancio poetico del figlio: purché, s’intende, faccia della poesia “solida”, razionalmente intesa a facilitargli la carriera].

 

[...] Tu sai, caro Karl, che per amor tuo mi sono imbarcato in qualcosa che non si addice completamente al mio carattere e che talvolta mi opprime [cioè quel che sta facendo “per” Karl e Jenny]. Ma nessun sacrificio mi è troppo grande se lo esige il bene dei miei figli. Ho anche conquistato l’illimitata fiducia della tua Jenny. Ma la buona, gentile fanciulla si angustia incessantemente, teme di danneggiarti, di indurti a fatiche eccessive, ecc. ecc.. La opprime il fatto che i genitori non sappiano o, come io credo, non vogliano sapere. Lei stessa non sa come spiegarsi come ella, che riteneva di essere una persona razionale, si sia lasciata tanto trascinare. [Piange il cuore al pensiero che la fiducia della ragazza nei confronti di Heinrich sia ormai così “illimitata” da indurla a colpevolizzarsi per essersi “lasciata trascinare” dalla passione di Karl, e ciò mentre anche Karl si sente in colpa per averla “trascinata”].

 

Una tua lettera ― che puoi accludere ― non dettata però dal poeta fantastico [sic!], può consolarla. Dev’essere, cosa di cui del resto non dubito, piena di tenero, fervido sentimento e puro amore, ma deve esaminare chiaramente la relazione, discutere e illuminare le prospettive. [...] Occorre che sia fermamente espressa la certezza che questo rapporto, lungi dal portarti danno, può avere su di te gli effetti più felici, e in un certo senso lo credo io stesso.

 

[...] Che ne dici di tuo padre? Non trovi che io sono adatto in modo sorprendente a fare da intermediario? Come sarei certo giudicato male da molti, se la mia attività fosse conosciuta! Quali oscuri motivi mi si potrebbero forse attribuire! Tuttavia non ho niente da rimproverarmi... Basta che il Cielo dia il suo beneplacito, e io ne sarò estremamente felice.

 

[...] Il signor von Notz mi ha detto che tu verresti qui nelle vacanze autunnali. Non sono assolutamente dell’idea, e se tu mediti la situazione tua e quella di persone a te care, mi dovrai dare ragione. Ma è possibile che faccia io un viaggio a Berlino. Cosa ne dici?

 

[...] P.s.: vedo Jenny di rado; non può fare ciò che vuole. Puoi stare tranquillo, il suo amore è fedele. Quando tu avrai scritto nel modo che desidero, allora esigerò una risposta”.

 

Eppure il giovane resiste. E odia Berlino talmente, racconta Franz Mehring, che “la capitale prussiana gli sarà antipatica per tutta la vita”21. Studia, sì, ma “è l’amore a rivendicare soprattutto i propri diritti su di lui. E l’amore, «ebbro di nostalgia e vuoto di speme», si riversa in tre quaderni di poesie, tutti dedicati «alla mia cara, eternamente amata Jenny von Westphalen»”.

Quei versi sono le sole parole che a Jenny, per un anno, è consentito ricevere da Karl. Sappiamo già, da Sophie, che la ragazza li accoglie “con lacrime di gioia e di dolore”. Leggiamone dunque anche noi alcuni, prima di esaminare le successive lettere di Heinrich al figlio:

 

“A me nessuna fama terrena,

che fra genti e paesi si espande,

che lietamente vinti tutti nutrono

quando vibrando echeggia oltre,

può dare ciò che mi danno gli sguardi tuoi trasfigurati,

il tuo cuore quando ardente vampa lo circonda,

o soltanto due lacrime commosse

che il mio canto strappa ai tuoi occhi”.

 

“...voglio solo che tu ascolti il canto,

che tu lo adorni e trasfiguri,

e poi nel cupo nulla pur svanisca”.

 

“A me intorno ondeggia un eterno impulso,

eterno impeto, eterno ardore:

non può esser costretto entro la vita,

non vuole scorrere in flutti pacati.

[...]

Perciò tutto fateci osare,

senza sostare, senza riposare;

mai per apatia si smetta di parlare,

mai si smetta di volere e di fare.

Mai ci si abbandoni al tetro meditare,

timidi piegandosi al basso giogo,

ché l’anelito e il bramare,

e anche l’azione ci restino per sempre”.

 

“Parole! Menzogne siete, ombre vuote

che girano attorno alla vita!

Dovrei effondere in voi, morte, deboli,

gli spiriti che mi pervadono?

Ma gli invidiosi dèi della terra avevano

fin nel profondo scrutato l’ardore dell’uomo:

il misero deve congiungere al suono

l’ardente vampa del petto.

Ché se audace e fremente emersa fosse

nel dolce splendore dell’anima,

ardita i vostri mondi avrebbe avvolto,

voi dal vostro trono avrebbe scalzato,

la danza dello zefiro avrebbe superato

e al di là di voi un mondo sarebbe germogliato”.

 

“Jenny! Con ironia tu mi chiederai

perché il mio canto sempre a Jenny è dedicato:

è che solo per te ogni mia vena batte,

solo per te ogni mio canto piange

e te porta in seno;

è che ogni sillaba professa te,

ogni suono brucia melodioso per te

e nessun alito dalla sua dea si divide.

Per me così dolce risuona il nome,

così mi colpiscono i suoi tratti,

sì pieno in ogni sala si diffonde:

mi afferra come tremor di spiriti lontano,

come suono di cetra dalle corde divine,

come bizzarra, magica vita.

Vedi, mille libri riempire potrei,

sempre e soltanto Jenny scriverei,

oppure celerebbero pensieri,

atti eterni e costante volontà,

dolce poesia, delicato appagamento di brama,

tutto l’ardore e ogni splendor di etere,

ogni divina gioia e la pena della malinconia,

tutto il mio sapere e l’essere mio stesso.

Nelle stelle solo posso leggerlo,

dallo zefiro mi riecheggia,

dall’essenza fragorosa dell’onda,

e in sì magico cerchio penso di scriverlo un dì

che secoli interi avvolga il tuo sguardo.

Jenny deve rimanere il nome dell’amore”.

 

E soprattutto la poesia, in diciannove quartine, intitolata Metamorfosi:

 

“Il mio occhio guarda così vago,

la guancia è così pallida,

la mente è così confusa;

è un regno davvero singolare.

Volevo in temeraria audacia

veleggiare ardito sul mare,

dove mille scogli emergono,

e flutti, cavi e vuoti.

Mi attenni al pensiero,

alla sua coppia d’ali,

e pur se tempesta mi circondava,

il pericolo io sfidavo.

Mai ho indietreggiato,

sempre audacemente sono avanzato,

con libero sguardo d’aquila

su vie senza fine.

Né i canti adulatori

che la sirena tesse

io ascoltai, né le armonie

con cui affascina il cuore.

Non ascoltai quel suono,

e l’orecchio distolsi;

verso un premio più alto

s’innalzò il mio petto pulsando.

Ma ahimé! Le rapide onde,

esse non si calmarono mai,

e più d’una era passata

prima che il mio sguardo la vedesse.

Invano volevo avvincerle

con magica formula e forza,

esse rapide svanirono,

fino ad esser tutte spazzate via.

E nella calca dei flutti

mi afferrò vertigine;

precipitai davanti alla moltitudine

in notte di densa nebbia.

E quando mi alzai

da fatica invano spesa

la forza era dispersa,

spento l’ardor del cuore.

Guardai pallido e tremante

nel mio proprio petto,

ma nessun canto si elevò,

a riempirmi di piacere.

Sfuggiti erano i canti,

sfuggita la dolce arte,

nessun dio me la restituì

né il favore di alcun ente eterno.

Crollata era la fortezza,

un tempo così salda,

l’ardore era spento,

e deserto il paese del cuore.

Allora ti guardai nello splendore,

nella più pura luce dell’anima,

dove in danza alterna

il cielo s’intreccia alla terra.

Nel profondo fui legato,

il mio occhio si schiarì,

ebbi allor trovato

quel che era brama oscura.

Ed ecco venire il canto più forte e più libero

dal petto profondamente mosso,

in sublime festa del cielo

e nella gioia esso risuona.

Emersero tutti gli spiriti

dal mio seno

e come un mago

dominai il loro corso.

Lasciai che le onde rapide

e il cangiante flusso

sullo scoglio s’infrangessero,

e fermo tenni l’interno ardore.

Ciò che al mio spirito non fu dato col suo volo

pungolato dal destino,

al cuore mio venne

da sé, con lo sguardo tuo”22.

 

Certo, l’amore per Jenny è intatto e perfino più “più forte e più libero” nel “petto profondamente mosso”, benché sia “crollata la fortezza, un tempo così salda, l’ardore spento, e deserto il paese del cuore.” Ma come non temere, come non sentire, leggendo questi versi, che alla fine del 1836 un altro slancio, uno “slancio poetico”, ben più profondo di quello “per il dovere”, si stia indebolendo nel diciottenne Karl? Prima della metamorfosi, un’appassionata, tempestosa ricerca (quella della “pura perla” di cui scriverà al padre un anno dopo); dopo, ripeto, intatto e forse perfino più vivo è l’amore per Jenny, ma... un altro, forse, sta diventando il ragazzo che l’ama. E l’amore stesso, allora, benché più comprensibile e rassicurante per un uomo come Heinrich, non è anch’esso umanamente a rischio?

 

Ora, tra il febbraio e l’aprile del 1837, Karl scrive poesie... per il padre. Diverse da quelle per l’amata: spesso fredde, razionali. Tranne quando sono disperate. O quando cantano donne infelici, come le ballate La pazza23, La disperata24, La fanciulla pallida25 (che si uccide), Il rapimento26 (una fanciulla, calandosi dalla finestra, precipita e muore tra le braccia dell’amato, che muore anch’egli) e Lucinda27 (storia del suicidio di un amante abbandonato e della pazzia dell’amata). O uomini che falliscono.

 

“L’ho sognato, ho fatto un sogno oscuro,

forse mai potrai spiegarlo,

la mia testa è vuota, il mio cuore è vuoto,

una tomba mi voglio preparare!”28.

 

“L’omino gli occhi si strappò,

a scavar con le mani incominciò,

si costruì nel silenzio profondo una tomba,

là giace, là giace sepolto”29.

 

Ma anche, forse, confusi tentativi di resistenza, come nella ballata Canto di sirene30 (dove non è chiaro, tuttavia, se le “sirene” che il giovane riesce a non ascoltare siano quelle hegeliane, o quelle paterne, o quelle che il padre... non vuole che ascolti):

 

[...] “Sembra gofiarsi, zampillare,

sprigionarsi un mondo dalle onde,

misterioso e maestoso,

quasi nel fondo delle acque

dormissero tutti gli dei,

nell’intenso blu del mare.

[...]

E, ascolta, un’eco giunge come di nostalgia,

come di lontani, magici toni

dal canto delle sirene;

per incantare il giovane

si adornano le dee

di bellezza e di suoni:

«O giovane, lìbrati in alto e suona,

domina il mare che ascolta,

certo un’altra meta ti attrae,

il petto si gonfia maestoso!

[...]

Scendi da noi nel fondo,

porgici la tua mano,

spirito diventano le tue membra,

se guardi il regno profondo».

[...]

Afferra il giovane come un delirio,

le lacrime gli scorrono,

batte il cuore colmo;

lo sguardo non può distogliere,

deve bruciar per loro,

sciogliersi in voluttà ardente.

A fondo il suo cuore pare meditare,

vuol conquistare il dominio di sé,

poi in alto egli si erge,

guarda con fare superbo,

in temeraria raffigurazione di Dio,

e forte risuona all’orecchio:

«Nei vostri abissi gelidi

nulla di grande può annunciarsi,

là non arde nessun eterno Iddio;

voi splendete per incantarmi,

mai felicità mi darete,

e beffa è il vostro canto.

Vi manca del seno il battito,

il caldo ribollir del cuore,

dell’anima il volo alto [...]»”.

 

Bello, però, il ditirambo Immagine di sogno31:

 

“Dai sogni vorrei con lusinghe attrarre

adagio un’immagine in rete intessuta di profumo,

anche se i cerchi ne dovessi intrecciare

dai miei stessi anelli di riccioli,

anche se notturno sangue dal cuor dovessi far sgorgare,

per trarre immagine ardente dalle onde del sogno.

 

Immagine che sù e giù ondeggia,

musica eolica, bellezza d’amore sussurrando.

 

S’inturgidirebbe essa, dorata brillerebbe,

in più ampia volta l’angusta casa si inarcherebbe,

i miei riccioli fluttuerebbero torcendosi,

donna celeste di nero avvincendo;

verso canti perlacei scorre via il mio sangue,

fluendo intorno alla vampa della nuca marmorea.

 

E la lampada lampeggia soli,

arco di cielo inonda il mio cuore.

 

Crollino pur, tremando, i luoghi tutti intorno,

ma a me, cresciuto fino a esser gigantesco eroe,

con notturna, maestosa cerimonia nello sguardo,

grande come il mondo sarebbe a me la lira tempestosa,

in tonante canto più alto batterebbe il mio cuore,

come soli il suo amore, come roccia il suo dolore.

In umiltà superba io mi prostrerei,

in superba audacia al suo petto mi getterei”.

 

Ma Heinrich continua a dubitare del figlio: “Non mi posso liberare da idee malinconiche, presaghe, che destano paura” scrive un mese dopo, il 2 marzo 183732, “quando rapido come il lampo si insinua in me questo pensiero: il tuo cuore corrisponde davvero alla tua mente, alle tue doti?... C’è spazio, in esso, per quei sentimenti, terreni, sì, ma più dolci, che in questa valle di lacrime offrono una così essenziale consolazione agli uomini sensibili? E dato che esso, evidentemente, è animato e dominato da un demone non concesso a tutti, quel demone è di natura celeste o faustiana? [...] Sarai mai sensibile a una felicità domestica, veramente umana? Sarai mai in grado (e questo dubbio non è meno doloroso, da quando amo una certa persona come una figlia mia) di diffondere felicità tra quelli che ti sono più vicini?”

 

Heinrich non pensa che il figlio sia preda di ambizioni pazzesche, superiori alle sue capacità: si rende conto delle sue doti “non concesse a tutti gli uomini” (che nessuno le veda quanto lui è la fonte inesauribile, come ho già notato, dell’affetto e della soggezione di Karl nei suoi confronti). Né può davvero temere che sia “senza cuore”, lo conosce troppo bene. Eppure insinua che sia un insensibile, visto che non lo affascina la “consolazione” della “felicità domestica”, e che ami “una certa persona”, in fondo, meno di quanto l’ama lui. Sì, non ci sono dubbi, l’arma del padre contro il “demone faustiano” del figlio è proprio l’amore di Karl per Jenny: il giovane deve darle al più presto la “felicità domestica” senza la quale la ragazza è condannata all’infelicità, e per dargliela deve tramutare il proprio demone (non distruggerlo, poiché Heinrich sa bene che senza di esso non farà strada33 da “faustiano” in “celeste”.

 

Anche Jenny la pensa così? Senza dubbio, è ciò che Heinrich vuol far credere al figlio: “Vedo uno strano fenomeno in Jenny. Lei, che si abbandona a te così totalmente con il suo puro animo infantile, mostra talvolta involontariamente e contro la sua volontà una specie di timore, di timore presago, che non mi sfugge e che non so spiegare, e del quale ha cercato di cancellare ogni traccia nel mio cuore non appena gliel’ho fatto notare... Cos’è, cosa può essere? Non so spiegarmelo, ma sfortunatamente la mia esperienza non permette che io mi lasci facilmente trarre in inganno”34.

 

Poco più avanti, però, leggiamo che Karl ha inviato al padre una lettera per Jenny in cui le annuncia di voler chiedere per iscritto ai genitori di lei il consenso al fidanzamento: “Jenny ci ha fatto visita qualche giorno dopo avere ricevuto la tua lettera, che le ha portato Sophie, e ha parlato del tuo proposito. Sembra approvare le tue argomentazioni, teme però il passo in sé stesso, e ciò è molto comprensibile. Io, da parte mia, lo ritengo buono e lodevole [ma allora perché, in questa stessa lettera, Heinrich séguita a dubitare della “sensibilità” del figlio per la “felicità domestica? Teme che Karl voglia soltanto rassicurarlo, che cerchi di guadagnare tempo?]. A quanto lei lascia capire, ti scriverà di non spedire la lettera direttamente: ma con questa idea non posso essere d’accordo. Per tranquillizzarla puoi fare così: dirci otto giorni prima in quale giorno spedirai la lettera alla posta... La cara fanciulla merita ogni riguardo e, lo ripeto, solo un’intera vita piena di tenero amore potrà compensarla di ciò che ha già sofferto e anche di ciò che soffrirà ancora, poiché ha a che fare con tipi davvero strani!35

 

È soprattutto un riguardo nei suoi confronti che mi fa desiderare così intensamente che tu faccia molto presto un buon passo avanti nella società, poiché ella ne avrebbe serenità, almeno lo credo. [...] Tu lo vedi: quell’incantatrice ha un po’ stregato anche il mio vecchio cervello, e sopra ogni cosa desidererei vederla serena e felice. Questo puoi farlo solo tu, [...] e forse è cosa molto buona e salutare che tu, [...] malgrado ogni genio malefico, sia costretto a esercitare un umano riguardo, addirittura saggezza, prudenza e matura meditazione. Ne ringrazio il cielo, poiché voglio amare eternamente in te l’uomo e tu sai che io, uomo pratico, non sono però così tetragono a tutto ciò che è alto e buono, ma tuttavia non mi lascio volentieri strappare totalmente dalla terra, dove ho delle basi, per essere portato solo in aeree sfere, dove non sento nessun terreno sotto i piedi”36.

 

Dispiace non avere le lettere di Karl. Ma non vi è dubbio che il giovane stia temporeggiando: non perché il suo amore per Jenny non sia saldo, ma poiché pensa che ella lo ami a sua volta talmente, e abbia una tale fiducia in lui, nel suo genio oltre che nel suo amore, da potere e voler concedergli tutto il tempo che gli sarà necessario per completare gli studi senza però abbandonare la sua ricerca, per “demoniaca” e “faustiana” che sia37. Il padre, invece, del tempo vuol privarlo: al punto che, per mettergli fretta, in questa lettera non esita a proporgli, in luogo della “grande prova” in cui lo sa impegnato, un risibile lavoretto (“costringere un grande affresco entro una piccola cornice”) sulla battaglia di Waterloo. Il quale, “svolto in modo patriottico, appassionato, e con spirito tedesco”, “basterebbe per fondare una fama, per consolidare un nome”: “Mi piacerebbe troppo vedere la buona Jenny serena e in grado di alzare gli occhi orgogliosa. La cara bambina non deve logorarsi. Se ciò ti riuscisse (e la pretesa non è certo superiore alle tue forze) sei a posto e puoi inoltre smettere per un po’ la vita da serra”.

 

Ma la risposta di Karl piace così poco a Heinrich, che egli, in una o più lettere che non ci sono pervenute, lo rimprovera tanto aspramente da sentirsi poi in dovere di scusarsi38: “Caro Karl, la mia lettera, nata in un momento di grande eccitazione, può averti colpito un po’ duramente, e rimpiango di cuore se così è accaduto” scrive il 12 agosto 183739. “Non che abbia commesso con quella una cosa ingiusta: lascio a te il giudizio se avevo motivi fondati per essere adirato. Sai, devi sapere, di quale amore ti circondo. Le tue lettere (nella misura in cui non vi trovo tracce di sensibilità morbosa e di neri pensieri fantastici) costituiscono un vero e proprio bisogno. [...] [Ma] la tua reazione, il lungo malessere di Jenny, la sua pena profonda, la mia ambigua posizione nei confronti dei suoi genitori, tutto ciò ha influito profondamente su di me e talvolta ha turbato tanto il mio carattere che io stesso non mi riconoscevo; e così ti chiedo ora se nel sentimento di profondo malumore sono stato per caso troppo duro.

 

Quanto più ti amo sopra ogni cosa ― all’infuori della mamma ― tanto meno sono cieco, e ancor meno lo voglio essere. Io ti rendo giustizia per molte cose, ma non mi posso liberare completamente dal pensiero che non sei privo di egoismo, che tu ne abbia un po’ di più di quanto sia necessario per l’autoconservazione. Non riesco sempre a scacciare il pensiero che io, al tuo posto, sarei venuto incontro ai desideri dei genitori con più riguardo, con più spirito di sacrificio. [...] A ogni più piccola tempesta cedere al dolore, a ogni sofferenza mettere a nudo un cuore straziato, e insieme straziare quello dei nostri cari, questo si deve chiamare poesia? Dio ci scampi dal più bello fra tutti i doni della natura, se questo è il suo effetto più immediato. No, sono solo la debolezza, l’esser viziato, l’egocentrismo e la presunzione che riducono a sé ogni cosa in questo modo e fanno indietreggiare sullo sfondo perfino le immagini più care!

 

La prima di tutte le virtù umane è la forza, la volontà di sacrificarsi, di posporre il proprio io, quando il dovere, quando l’amore lo comanda, e non si tratta di quei sacrifici brillanti, romantici o eroici, che sono l’opera di un attimo entusiasta e sublime. Di quelli è capace anche il più grande egoista, poiché è proprio l’io a risplendere alto in quei casi. No, sono quei sacrifici che si ripetono giornalmente e di ora in ora, quelli che nascono dal cuore puro dell’uomo buono, del padre affettuoso, della madre tenera, dei coniugi amorevoli, del figlio riconoscente, quelli che conferiscono alla vita l’unico incanto e che l’abbelliscono malgrado ogni avversità.

 

[...] Per il tuo bene non posso e non voglio smettere questa predica, finché non sarò convinto che questa macchia sia sparita dal tuo carattere altrimenti così nobile. Tu diventerai, devi diventare adesso, in giovane età, un padre di famiglia. Ma né l’onore né la ricchezza né la fama renderanno felici moglie e bambini; solo tu lo puoi, il tuo io migliore, il tuo amore, il tuo comportamento affettuoso, il lasciar da parte stranezze tempestose, ire impetuose, sensibilità morbose, ecc., ecc.. Non parlo quasi più per me, richiamo la tua attenzione sul legame che stai per contrarre”.

 

Può Karl considerarle soltanto “prediche”? No, non può: esse lo costringono a un’ininterrotta, dolorosa resistenza che probabilmente lo fa sentire colpevole, poiché il suo affetto per il padre e soprattutto i richiami ai suoi doveri verso la fidanzata le rafforzano oltre misura. Tanto più che Jenny, ora che finalmente ai due giovani è stato tolto il divieto di scriversi, rifiuta di farlo:

 

“Jenny non è ancora qui, deve però venire presto” riferisce Heinrich il 16 settembre. “Che non ti scriva è ― non posso chiamarlo diversamente ― cosa da bambina caparbia. Poiché, che lei ti circondi dell’amore più disinteressato, è indubbio, e non è stata troppo lontana dal provarlo con la sua morte.

 

Ella ha proprio l’idea che è inutile scrivere; o qualsiasi altra oscura idea su ciò ella abbia, vi è certamente contenuto anche qualcosa di geniale; e in fondo che cosa importa? Puoi essere sicuro, e io stesso lo sono (e tu sai che non sono un credulone) che neanche un principe sarebbe in grado di allontanarla da te. Ti è attaccata anima e corpo, e ― non dovrai mai dimenticarlo ― alla sua età fa per te un sacrificio di cui ragazze comuni non sarebbero certo capaci. Se dunque ha l’idea di non voler o di non poter scrivere, lascia perdere, in nome di Dio. Poiché in fondo è solo un segno di cui si può fare a meno, se si è sicuri della persona. Io ne parlerò con lei quando ne avrò l’occasione, benché lo faccia malvolentieri”40.

 

Il sacrificio di Jenny è l’attesa. E rifiutarsi di scrivere a Karl (anche se davvero è convinta di non voler farlo poiché giudica, o sente, che sia “inutile”) è senza dubbio una forma di pressione. Per indurre Karl, in sintonia con Heinrich, ad abbreviare quell’attesa? Non lo sappiamo. Le lettere del giovane possono davvero essere tormentose: egli è dolorosamente consapevole di imporle un sacrificio, ed è possibile che le chieda continue rassicurazioni. Ma questa è solo un’ipotesi: quel ch’è certo è che al divieto di scriversi imposto loro dal padre è subentrato quello di lei.

 

Heinrich interviene per convincerla a toglierlo. Lo si deduce da quel che scrive al figlio, insieme ai consueti rimproveri, il 17 novembre 183741: “Caro Karl, [...], ancora, dopo un periodo di due mesi, di cui il secondo mi ha portato spiacevoli ore piene di preoccupazioni, ricevo uno scritto senza forma né contenuto, un frammento sconnesso che non dice nulla, che non sta in relazione con ciò che è avvenuto prima e non si allaccia al futuro! Se la corrispondenza deve avere interesse e valore, vi dev’essere una coerenza, e chi scrive deve necessariamente avere il suo ultimo scritto davanti agli occhi, così come l’ultima risposta. Il tuo penultimo scritto conteneva parecchie cose che avevano suscitato la mia aspettativa. Avevo scritto numerose lettere che chiedevano non poche informazioni. E al posto di tutto ciò ricevo una lettera frammentaria, sconnessa e, ciò che è peggio, straziata.

 

Detto apertamente, mio caro Karl, non amo questa parola moderna42 dietro a cui si nascondono tutti i deboli quando se la prendono con il mondo poiché non possiedono, senza alcun lavoro e fatica, ben ammobiliati palazzi con milioni e carrozze. Questo strazio mi disgusta, e da te me lo aspetto meno che mai. Quale motivo puoi avere per una cosa del genere? Non ti ha forse sorriso tutto, fin dalla culla? Non ti ha forse la natura dato magnifiche doti? Non ti hanno i tuoi genitori circondato di un amore anche troppo generoso? Non hai sempre potuto soddisfare i tuoi desideri ragionevoli? E non hai forse conquistato, nel modo più incomprensibile, il cuore di una fanciulla che ti invidiano in mille? E la prima avversità, il primo desiderio non esaudito [cioè il desiderio che Jenny gli scriva] suscita tuttavia un tale senso di crisi! E questa sarebbe forza? Questo sarebbe un carattere virile? Tu stesso, a tal proposito, avevi dichiarato di accontentarti della promessa per il futuro, e per essa di voler rinunciare, per il presente, a ogni segno esteriore. Non significava questo, alla lettera, rinunciare a qualsiasi corrispondenza epistolare? Solo i bambini si lamentano della parola data, quando cominciano a sentirne il peso.

 

Ma anche qui si dimostra la tua fortuna. La tua buona mamma, che è più tenera di me e alla quale viene in mente ancora molto spesso che anche noi una volta fummo oggetto degli strali del piccolo monello cieco [Cupido], ha suonato l’allarme, i troppo buoni genitori della tua Jenny non vedono l’ora che il tuo povero cuore ferito venga consolato, e a quest’ora il rimedio è senza dubbio nelle tue mani, se la mancanza del giusto indirizzo non ha deviato la lettera”.

 

Ed eccoci, dunque, alla “lettera al padre”43 che Karl invia da Berlino il 10 (o 11) novembre 1837. L’unica che ci sia pervenuta, pubblicata nel 1897 dalla figlia Eleanor44:

 

“Caro padre, vi sono momenti, nella vita, che come segnali di confine concludono un periodo ormai trascorso, ma allo stesso tempo indicano con certezza una nuova direzione”.

 

Il figlio, vinto, consegna al passato, cioè al padre, la propria storia precedente: un tempo nuovo comincia, tutto cambia per sempre. E non possiamo supporre che voglia solo farglielo credere: nei suoi confronti può essere talvolta reticente, temporeggiare, ma lo ama, lo rispetta (o lo venera) troppo per mentirgli: “In simili momenti di transizione sentiamo il bisogno di contemplare con l’occhio d’aquila del pensiero il passato e il presente, per giungere alla coscienza della nostra reale situazione. [...] Ogni metamorfosi è da un lato canto del cigno, dall’altro ouverture di un nuovo grande poema, che in colori brillanti, ma ancora confusi, cerca di acquistare consistenza; e tuttavia vorremmo erigere un monumento a ciò che già si è vissuto; esso deve riguadagnare nel sentimento il posto che ha perduto nei confronti dell’azione, e dove potrebbe trovare dimora più sacra che nel cuore dei genitori, il giudice più indulgente, il più stretto compartecipe, il sole dell’amore, il cui fuoco riscalda l’intimo centro dei nostri sforzi? Come potrebbero alcune cose spiacevoli, degne di biasimo, trovare meglio appianamento e perdono, che chiarendosi come manifestazioni di un assetto essenzialmente necessario? Come potrebbe, almeno, il gioco spesso avverso della casualità, dell’errore dello spirito, sottrarsi all’accusa di malvagità di cuore?”

 

Pur nella “metamorfosi”, cioè, il passato che Karl s’impegna a non protrarre “nell’azione” permarrà intatto “nel sentimento”: egli seguiterà ad amare il proprio passato, e in esso continuerà ad amare anche “le cose spiacevoli e degne di biasimo” che il padre gli rimprovera. Chiede, sì, che gli siano “perdonate”, ma ne rivendica la “necessità”. Cambierà il suo comportamento (“l’azione”), ma non la sua certezza che quel comportamento è stato un imprescindibile dovere verso sé stesso. È una resa? Certamente sì, o non ammetterebbe che possano esservi stati, da parte sua, anche degli “errori dello spirito”. Ma una resa orgogliosa: Karl chiede a Heinrich l’onore delle armi.

 

“Se io dunque ora, alla conclusione di un anno passato qui, getto indietro uno sguardo sulle circostanze di esso, rispondendo in tal modo, mio amato padre, alla tua cara, carissima lettera da Ems45, mi sia concesso di esaminare la mia situazione come in generale considero la vita, cioè come l’espressione di un’attività spirituale che si esplica e imprime la propria forma in ogni sfera, nella conoscenza, nell’arte, e infine nella vita privata”. Karl la chiama, secondo la terminologia dell’epoca, “attività spirituale”; ma definendola “espressione della vita che imprime la propria forma in ogni sfera” non ci lascia dubbi: è della propria identità che sta parlando, ed è la sua continuità che egli riafferma: si comporterà diversamente, aderirà alla volontà paterna ― in ciò consiste la “metamorfosi” ― ma rimarrà sé stesso.

 

S’inganna: non è già più sé stesso.

 

“Quando vi lasciai era sorto per me un nuovo mondo, quello dell’amore, e in verità, all’inizio, di un amore ebbro di desiderio e privo di speranza46. Perfino il viaggio a Berlino, che in altre circostanze mi avrebbe riempito di entusiasmo, mi avrebbe spinto a contemplare la natura e avrebbe esaltato la mia gioia di vivere, mi lasciò freddo, anzi mi mise stranamente di cattivo umore, poiché le rocce che vedevo non erano più aspre e ardite dei miei sentimenti, le grandi città non erano più vive del mio sangue, le tavole delle trattorie non erano più sovraccariche e indigeste dei bagagli di fantasie che portavo con me, e infine l’arte non era bella quanto Jenny”.

 

Com’è disteso il tono del racconto! Karl ripercorre l’anno 1836-1837 (che è stato, forse, il più importante della sua vita, ed egli inconsapevolmente sembra sentirlo) con la calma di chi si accinge all’autobiografia. È, anche questo, un segno di “orgoglio”; e allo stesso tempo è un modo pacato, perfino “umoristico” (le “tavole delle trattorie”) di ricordare al padre che la lontananza da Jenny e il divieto di comunicare con lei lo hanno fatto soffrire fino a privarlo della “gioia di vivere”, renderlo “freddo”, precipitarlo in uno stato di larvata depressione (lo “strano” “cattivo umore”, l’inappetenza dinanzi ai cibi di cui “le tavole” erano “sovraccariche”): non se ne lamenta, no (non sarebbe da uomo), ma il rispetto per sé stesso (il “monumento” che non può non “erigere a quel che ha vissuto”) gli impone di non tacerlo.

 

“Giunto a Berlino, ruppi tutti i legami che avevo avuto fino allora, feci di malavoglia alcune rare visite, e cercai di immergermi nella scienza e nell’arte”.

 

Si noti: nella scienza e nell’arte insieme.

 

È un punto critico: Karl deve “giustificare” la sua “poesia”. Cioè la prima, e forse la più grave (dal punto di vista di Heinrich) delle “cose spiacevoli, degne di biasimo” che devono ora trovare “appianamento e perdòno”, sì, ma come “manifestazioni di un assetto essenzialmente necessario”.

 

“Nello stato d’animo in cui ero, il primo mio oggetto ― o quanto meno il più gradito, il più naturale ― doveva necessariamente essere la poesia lirica; ma, conformemente alla mia situazione e a tutto il mio sviluppo precedente, essa era puramente idealistica. Un aldilà, lontano come il mio amore, divenne il mio cielo, la mia arte. Tutto ciò che è reale si confonde, e tutto ciò che si confonde non trova alcun limite: attacchi al presente, sentimento espresso prolissamente e senza forma, un’assoluta mancanza di naturalezza, costruzioni del tutto chimeriche, il più completo contrasto tra ciò che è e cio che deve essere, riflessioni retoriche invece di idee poetiche, ma forse anche un certo calore di sentimenti e un’aspirazione allo slancio poetico, caratterizzano tutte le poesie dei primi tre fascicoli che Jenny ricevette da me. L’intera estensione di un desiderio che non conosce limiti si esprime in molteplici forme e fa del «comporre» poetico un prolisso «diffondersi»”.

 

Questa dura autocritica suscita sentimenti contraddittori. Si vorrebbe approvarne il rifiuto dell’idealismo, ma si dubita che Karl, per compiacere Heinrich, chiami “idealismo” l’essersi impegnato nella ricerca di qualcosa di più dei prosaici studi giuridici e del “dovere” di costruirsi rapidamente l’avvenire sicuro auspicato dal padre. E dispiace, quindi, che Karl difenda con tanta timidezza il “calore dei suoi sentimenti”, la sua “aspirazione allo slancio poetico”, il suo “desiderio senza limiti”. Sembra che conceda troppo al padre, su questo punto fondamentale, e tanto più quanto più è apparso evidente, nelle lettere di Heinrich, che la “poesia” che rimprovera al figlio è qualcosa di ben più vasto e profondo della “semplice”... poesia: è la sua identità e, con essa, la sua vitalità. Rileggiamolo: “Ti confesso del tutto sinceramente, caro Karl, che non capisco la tua poesia: né il suo vero senso, né a cosa tenda. Nella vita comune è un assioma incontestato che con l’adempimento del più ardente desiderio il valore di quel che si desidera diminuisce molto e spesso scompare del tutto”47 (corsivo mio). Ciò a cui la sua poesia tende: ecco cosa il giovane non difende abbastanza.

 

“Tuttavia, la poesia poteva e doveva essere solo un accompagnamento; io dovevo studiare giurisprudenza, e mi sentivo innanzitutto spinto a lottare con la filosofia”48.

 

Il “dovere”, riconosce Karl, era quello di studiare giurisprudenza; ma più forte di esso è stato l’impulso irresistibile (Drang, termine caro ai romantici) di lottare strenuamente (nel verbo ringen, infatti, vi è un senso quasi di sofferenza) con la filosofia.

 

Cioè con Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831).

 

Le pagine che seguono sono un resoconto di questa lotta contro... non il proprio idealismo, ma quello hegeliano. In essa il giovane si è impegnato e logorato per un anno, scrivendo centinaia di pagine (che non ci sono pervenute) con l’appassionata speranza di uscirne vincitore traendo “alla luce del sole” la “pura perla” che, come vedremo, era l’eroico obiettivo della sua ricerca.

 

Ma è stato sconfitto. Ha vinto Hegel. Poiché Heinrich, frattanto, lettera dopo lettera, ha lottato contro di lui? Per la costante preoccupazione, fomentata dal padre, per la dolorosa attesa di Jenny? Per paura di perdere il suo amore? La risposta è sì, al di là di ogni dubbio.

 

“Cercai di eseguire una filosofia del diritto [...] e portai avanti questa infelice opera fino al diritto pubblico, un lavoro di quasi trecento fogli. Qui, soprattutto, veniva fuori in modo assai fastidioso il medesimo contrasto tra l’essere e il dover essere49 che è proprio dell’idealismo. [...] Alla fine [...] mi accorsi dell’erroneità dell’insieme, [...] e di nuovo capii che senza filosofia non si poteva venire a capo di niente. Così potevo buttarmi un’altra volta nelle sue braccia con la coscienza tranquilla, e scrissi un nuovo sistema metafisico di base, alla cui conclusione fui daccapo costretto a riconoscere l’assurdità di esso e di tutte le mie fatiche precedenti. [...] Alla fine del semestre ho cercato di nuovo le danze delle muse e la musica dei satiri, e già, in quest’ultimo quaderno che vi ho mandato, l’idealismo traspare ovunque attraverso un umorismo forzato [...] e un dramma fantastico malriuscito [...], finché da ultimo si ribalta completamente e passa ad arte puramente formale, per lo più senza oggetti stimolanti, senza un vivace corso di idee. E tuttavia queste ultime poesie sono le sole in cui improvvisamente, come per un colpo di bacchetta magica ― ah! il colpo fu all’inizio sconvolgente ― il regno della vera poesia mi balenò davanti come un lontano palazzo di fate, e tutte le mie creazioni si dissolsero nel nulla”.

 

È il fallimento della speranza di essere un poeta: di sconfiggere Hegel e l’idealismo, e di giungere alla verità, alla “pura perla”, attraverso la poesia e la filosofia, l’arte e la scienza insieme. Un “colpo” di per sé durissimo, ma reso “sconvolgente” dall’aver intravisto, nel momento stesso in cui si è reso conto del fallimento, la vera poesia: finalmente compresa, sì, ma irraggiungibile.

 

“Un sipario era caduto, il mio sacrario era spezzato, e nuovi dèi dovevano essere insediati”.

 

Sa bene, Karl, che il padre non ama lo “strazio” e le lamentazioni. Tuttavia, anche se in tono quasi scherzoso, non può non accennare ― per il rispetto che sente di dovere al passato che sta consegnando alla “sacra dimora” del “cuore” del padre ― che la battaglia è stata così dura da compromettere la sua salute: “Ho dovuto vegliare molte notti, sostenere molte lotte, sopportare parecchie sollecitazioni interne ed esterne, senza tuttavia trarne, alla fine, un grande arricchimento; inoltre ho trascurato la natura, l’arte, il mondo, e allontanato gli amici: queste sono state le riflessioni che è parso fare il mio corpo; un medico mi ha consigliato la campagna, e così, per la prima volta, attraversata la città in tutta la sua lunghezza, sono capitato fuori porta, a Stralow. Non immaginavo affatto che là, da un adolescente gracile e anemico qual ero, mi sarei trasformato in un giovane dal corpo saldo e robusto”.

 

È al ritorno da Stralow che Karl, per un attimo, sente nelle proprie mani la “pura perla”: l’intuizione, cioè, di dover “giungere, dall’idealismo” (che non significa, purtroppo, “abbandonando l’idealismo”, ma “partendo dall’idealismo”) “a cercare l’idea nella realtà stessa” (corsivi miei); vale a dire a far sì che “gli dei”, che “prima avevano abitato al di sopra della terra”, ne “divengano il centro”50.

 

“Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa51 non mi era piaciuta. Ancora una volta volli immergermi in profondità nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica, di non usare più arti di scherma, ma di tenere la pura perla alla luce del sole”52.

 

Riparleremo di queste righe ― le più importanti per comprendere la “lettera al padre” e forse l’intera opera di Karl Marx ― analizzando la sua tesi di laurea. Ma prima continuiamo a leggere.

 

“Scrissi un dialogo di circa ventiquattro fogli, Cleante, o del punto di partenza e del necessario svolgimento della filosofia. Qui si univano in certa misura l’arte e la scienza53, che prima si erano del tutto separate; come un robusto camminatore mi accinsi a quest’opera, intesa a mo’ di un dispiegarsi filosofico-dialettico della divinità, così come questa manifesta sé stessa come concetto in sé, come religione, come natura e come storia. La mia ultima frase era l’inizio del sistema hegeliano, e questo lavoro, [...], che mi era costato una fatica infinita, [...], questa mia creatura prediletta, nutrita al chiaro di luna, mi ha portato come una sirena ingannatrice tra le braccia del nemico. Per la rabbia fui, per alcuni giorni, del tutto incapace di pensare, e mi aggiravo come un pazzo...”

 

La “pura perla”, la volontà di “cercare l’idea nella realtà stessa” ― quella “pura perla” che Karl, per un attimo, è stato certo di avere in pugno e di volere e poter “tenere [halten] alla luce del sole ― si tramuta in un’illusione, in un “canto di sirena”: in un inseguire “l’idea” (diventata, hegelianamente, “la divinità”) nel suo svolgersi (manifestarsi) nella realtà. Ma Karl è così consapevole che questo è un nuovo fallimento, un “ritrovarsi tra le braccia del nemico”, che per la “rabbia” diviene “come pazzo”.

 

“A causa del dispiacere per la malattia di Jenny [depressione?] e per i miei inutili, falliti lavori intellettuali, per la rabbia bruciante di dover prendere come mio idolo una concezione a me invisa, mi ammalai [depressione?], come già, caro padre, ti ho scritto in precedenza. Ristabilito, bruciai tutte le poesie, gli abbozzi di novelle, ecc., nell’illusione di potermene del tutto distogliere, del che d’altronde, fino adesso, non ho ancora dato alcuna prova contraria”.

 

Che la “malattia” sia un attacco di depressione sembrano attestarlo le parole successive: “Durante la malattia lessi Hegel dal principio alla fine”. Durante la malattia, cioè, si getta ancor più “tra le braccia del nemico”! Poi, “attraverso alcuni convegni con degli amici a Stralow, capitai nel Doktorclub [fondato, quello stesso anno, da giovani hegeliani berlinesi]. Qui [...] mi legai sempre più saldamente all’attuale filosofia del mondo, alla quale avevo pensato di sfuggire: ma ogni armonia si era ammutolita, e fui preso da una vera smania d’ironia, com’era assai facile che avvenisse dopo tante cose negate. A ciò si aggiunse il silenzio di Jenny, e io non potetti aver pace fin quando non mi fui messo al passo e non ebbi raggiunto il punto di vista dell’attuale concezione scientifica” (corsivi miei).

 

La “pura perla” gli è caduta dalle mani. Si è inabissata. Non la “tiene” più “alla luce del sole”. E perché? Per “tenersi al passo”. Per mettersi in riga.

 

Non abbiamo altri scritti di Karl fino alla sua tesi di laurea in filosofia, che comincia a preparare un anno dopo e scrive fra il 1840 e il 1841. Ma ci sono giunte ancora tre lettere di Heinrich, scritte nei primi tre dei sei mesi che, dopo la “lettera al padre”, gli restano da vivere.

 

La prima, datata 17 novembre 183754, quasi certamente si incrocia con la “lettera al padre”. La risposta alla quale, perciò, non può essere che la durissima lettera di Heinrich del 9 dicembre55:

 

“[...]. Qual è il compito di un giovane uomo, al quale la natura innegabilmente ha conferito talento fuori del comune? E in special modo se egli, come dice e io del resto credo volentieri, onora suo padre e idealizza sua madre? Se egli, senza badare alla sua età e alla sua condizione, ha incatenato al suo destino una delle più nobili fanciulle e, con ciò, ha posto un’onoratissima famiglia nella situazione di approvare un rapporto che apparentemente e secondo il comune corso delle cose è pieno per questa amata figlia di pericoli e di prospettive oscure? Avevano i tuoi genitori qualche diritto di esigere che la tua condotta, il tuo modo di vivere portasse loro gioia, almeno qualche momento di gioia, e possibilmente scacciasse i momenti cupi? Quali sono stati finora, per quel che riguarda i tuoi genitori, i frutti delle tue magnifiche doti naturali? Quali sono stati questi frutti in relazione a te stesso?

 

[...] Voglio rispondere io, a rischio di sembrare troppo prosaico al mio signor figlio.

 

[...] Un giovane doveva porsi [...] come scopo [...] di offrire davvero gioia ai suoi genitori, i cui meriti verso di lui si lascia al tuo cuore di valutare; e ciò in particolar modo se egli sapeva che questi genitori hanno posto in lui le loro migliori speranze. Egli [inoltre] doveva porre mente al fatto di essersi assunto un dovere che con ogni probabilità è superiore alla sua età, ma proprio per questo è tanto più sacro, cioè il dovere di sacrificarsi al bene di una fanciulla la quale, dati i suoi particolari meriti e la sua posizione sociale, ha compiuto un grande sacrificio quando alla sua splendida situazione e alle sue prospettive ha rinunciato per un futuro grigio e incerto, e incatenandosi al destino di un giovane. La soluzione semplice e pratica è di crearle un futuro, un futuro degno di lei, nel mondo reale, non nella stanza affumicata, presso la puzzolente lampada a olio, a fianco di uno studioso inselvatichito. Sì, egli ha un grosso debito da pagare, e una nobile famiglia esige un grande compenso per la perdita delle sue belle speranze, tanto giustificate dalla segnalata personalità della figlia. Poiché, davvero, migliaia di genitori avrebbero rifiutato il loro consenso. E nei momenti tristi il tuo stesso padre desidererebbe quasi che l’avessero fatto, poiché troppo mi sta a cuore il bene di questa fanciulla angelica, che amo in effetti come una figlia, ma per la cui felicità proprio per questa ragione nutro timori.

 

Tutti questi doveri insieme formavano un legame intessuto così saldamente, che doveva bastare da solo a bandire tutti i cattivi spiriti, ad allontanare tutti gli smarrimenti, a rimediare a tutte le carenze, a sviluppare istinti nuovi e migliori; a trasformare un giovane inselvatichito in un uomo ordinato, un genio negativo in un vero pensatore, un dissoluto capoccia di giovani dissoluti in un uomo socievole, che certo deve avere abbastanza orgoglio per non piegarsi come un anguilla, ma anche abbastanza senso pratico e tatto per sentire che solo frequentando persone rispettabili si può imparare l’arte di mostrarsi alla società dal lato più piacevole e vantaggioso, di conquistarsi, e il più presto possibile, considerazione, affetto e stima, e di fare uso pratico delle doti che madre natura in verità gli ha conferito a piene mani. Questo era, in poche parole, il compito. Come è stato eseguito?

 

Ahimé!!! Disordine, cupo vagare in tutti i campi del sapere, cupo rimuginare presso la tetra lampada a olio; inselvatichimento nella veste da camera da studioso e con i capelli scarmigliati, al posto dell’inselvatichimento davanti al bicchiere di birra; insocievolezza scostante, con l’abbandono di ogni decoro e persino di ogni riguardo nei confronti del padre. L’arte di frequentare la società ridotta alla stanza sporca, dove forse, in classico disordine, le lettere d’amore di una Jenny e le esortazioni paterne, date con buona intenzione e forse scritte con le lacrime agli occhi, vengono adoperate per accendere la pipa, cosa del resto sempre preferibile al fatto che, a causa di un disordine ancor più irresponsabile, esse venissero nelle mani di terzi. E qui, in questa fucina di erudizione insensata e senza scopo, dovrebbero maturare i frutti che confortino te e i tuoi cari, qui dovrebbe essere accumulato il raccolto che possa servire ad adempiere sacri doveri?!

 

[...] Io voglio e devo dirti che hai dato ai tuoi genitori molti dispiaceri e poca o nessuna gioia.

 

[...] Una folle abborracciatura che indica come tu sperperi le tue doti e vegli le tue notti soltanto per partorire mostri56; che tu segui le tracce dei nuovi geni maligni57 che rigirano le loro parole finché essi stessi non le capiscono più, che battezzano la ridondanza di parole parto geniale poiché essi non espongono alcun pensiero o soltanto pensieri confusi.

 

[...] Certo [...] il mio Karl, bravissimo, pieno di talento, sta sveglio per intere misere notti, spossando il suo spirito e il corpo in studi severi, si priva di ogni divertimento per dedicarsi, in effetti, a studi astratti e seri; ma ciò che costruisce oggi lo distrugge domani, e alla fine ha distrutto le cose sue senza essersi impossessato di quelle altrui. Alla fine il corpo si ammala e lo spirito si confonde, mentre le povere persone comuni vanno avanti quatte quatte, indisturbate, e talora giungono alla meta meglio, o almeno più comodamente, di chi disprezza le gioie giovanili e si rovina la salute cercando di acchiappare l’ombra dell’erudizione che essi probabilmente avrebbero ottenuto meglio in un’ora di socievole conversazione con persone competenti, avendo per giunta anche il piacere di stare in compagnia!!!”

 

Così Heinrich, morente, dice addio all’amato Karl che tanto lo ama: rimproverandolo per non essersi “divertito”, magari “davanti a un bicchiere di birra”, anziché “inselvatichirsi” in una ricerca che il figlio stesso, è vero, come abbiamo visto, imprudentemente gli ha descritto come per il momento infruttuosa e perfino controproducente, ma della quale, in ogni caso, il padre dà prova di non aver minimamente compreso l’importanza o, purtroppo, di averne compreso fin troppo bene quel che ha reso ancora più aspra l’avversione che essa già suscitava in lui.

 

Come mai proprio ora, dopo la “lettera al padre”, Heinrich si lascia andare a un’invettiva così violenta? Intuendo di star per morire, vuol forse colpire il figlio, un’ultima volta, il più duramente possibile? Ma cosa gli fa credere che Karl, che si mostra così arrendevole, sia invece ancora sull’orlo di quello che per Heinrich è un baratro da cui solo con la forza, ormai, lo si può costringere a recedere? Nella “lettera al padre”, niente sembra giustificare tale impressione. Al contrario, come abbiamo visto, Karl vi appare fin troppo remissivo, fin troppo disposto ad ammettere di esser finito in un vicolo cieco. Che Heinrich abbia intuìto, leggendola, che il figlio medita di abbandonare gli studi giuridico-amministrativi, come in effetti farà dopo la sua morte, per dedicarsi interamente alla filosofia? E che, di conseguenza, possa tornare ad appassionarsi alla ricerca della “pura perla”? Sono state proprio quelle tre parole, la pura perla, a indurre Heinrich a tentare il tutto per tutto?

 

Karl, invero, anche sul punto della “carriera” ha cercato di rassicurarlo: “Per quanto ora riguarda la questione della carriera nel campo amministrativo-finanziario, ho fatto da poco, caro padre, la conoscenza di un certo assessore Schmidthänner, il quale mi ha consigliato di passare a essa, dopo il terzo esame di legge, come magistrato; il che mi sarebbe tanto più gradito in quanto io, in effetti, preferisco la giurisprudenza a tutte le scienze dell’amministrazione. Questo signore mi ha detto che lui stesso e molti altri della Corte d’appello di Münster in Vestfalia sono giunti in tre anni al grado di assessore, il che, a suo dire, non sarebbe difficile (si capisce, lavorando molto) poiché qui le tappe non sono fissate in modo così rigido come a Berlino e altrove. Se poi da assessori si ottiene il dottorato, ci sono anche molte più probabilità di entrare sùbito come professore straordinario”...58

 

Ma questa rassicurazione non è forse stata abbastanza abile, poiché nomina l’“amministrativo” e il “finanziario” soltanto per lasciarseli alle spalle a favore della “giurisprudenza”, allude a un “qui” che non è più Berlino, la capitale prussiana che per Heinrich è il solo luogo in cui Karl può far carriera sul serio, e si conclude prefigurando un futuro da “professore” che al padre non può non sembrare la diretta prosecuzione del suo presente da “studioso coi capelli scarmigliati” e, perciò, una sistemazione del tutto inidonea a “trasformare un giovane inselvatichito in un uomo ordinato, un genio negativo in un vero pensatore, un dissoluto capoccia di giovani dissoluti in un uomo socievole”.

 

Ma anche così la violenza dell’ultima lettera di Heinrich non si spiega, in assoluto e a paragone dell’astuta cautela da lui mostrata nelle precedenti, se non ipotizzando che a scatenarla sia stata appunto l’inconsapevole intuizione (di un padre che conosce e “comprende” il figlio più di quanto egli conosca e comprenda sé stesso) che Karl è andato molto vicino a un’immensa scoperta, benché ora si senta irrimediabilmente sconfitto. E che perciò adesso o mai più, quando forse può ancora cogliere il successo da cui Heinrich ha fatto di tutto per allontanarlo, gli si debba infliggere il colpo decisivo. Affinché la “pura perla”, “l’idea nella realtà stessa”, non segni la definitiva sconfitta della religione del “dovere” e la vittoria non meno definitiva, in Karl (e nel mondo, poiché perfino Heinrich s’inganna per difetto, sulle “doti” e sul “talento” del figlio) di quell’umana “poesia” che il razionale funzionario prussiano detesta più di ogni altra cosa. Al punto che da un anno ha iniziato a morire per abbandonare Karl sotto un fardello ― il senso di colpa per averlo “deluso”, e la cieca venerazione con cui tenterà di risarcirlo ― che peserà su di lui, su sua moglie e sulle sue figlie per tutta la vita.

 

Le “braccia del nemico” sono, in fondo, quelle del padre: il 10 maggio 1838, quando Heinrich morendo gli si rende sacro, Karl perde di vista per sempre, non ancora ventenne, la meta intravista.

 

E Jenny? Qual è il suo ruolo in questa tragica sconfitta?59

 

Vorrei tenerla al riparo, la “più bella ragazza di Treviri”, la “reginetta del ballo”, la “principessa del sogno”. Vorrei convincermi che sia un’incolpevole vittima della sua epoca, delle rigide convenzioni sociali allora imperanti e dell’astuta, indefessa “intermediazione” di Heinrich Marx. E ci riesco, come si vedrà. Ma... non del tutto, poiché non posso dimenticare che Jenny, che per tutta la vita sarà l’instancabile ancella del marito, senza la quale i suoi scritti non avrebbero visto la luce, mai darà però alcun segno di aver intuìto quale “magnifico diciannovenne”60 fosse scomparso per sempre sotto i suoi occhi.

 

E tuttavia non si può non innamorarsi di lei, leggendo le sue lettere a Karl.

 

La prima che sia giunta fino a noi è un frammento non datato la cui stesura risale ai giorni immediatamente successivi alla morte di Heinrich. Un frammento dal quale veniamo a sapere che Karl, tornato a Treviri per il funerale, le ha dato della “ragazza volgare”!

 

“Ah, Karl, Karl, lo sguardo con il quale mi guardasti, ancora adesso fa tremare il mio animo. Mi pareva che il cuore dovesse spezzarsi. Ancora adesso sento spesso il dolore, soltanto più attutito, ma sempre abbastanza profondo. [...] Rimasi in silenzio, il mio cuore cessò di battere; allora sentisti ciò che avevi fatto e chiedesti perdono. Questo hai potuto farlo in momenti di profondo amore; cosa posso aspettarmi, quando in futuro l’amore si sarà raffreddato? Vedi, Karl, questo è un pensiero che racchiude in sé l’inferno. Alimentarlo sarebbe suicidio. [...] Era il 3, il 7 sei partito, il 10 [maggio 1838] Egli non c’era più. Era troppo! Era il presentimento della morte, ma più spaventoso, poiché non vi era fine e ogni giorno portava più angoscia, più dolore, più paura. Eppure ciò che sentii quel giorno non l’ho più provato. La seconda volta sarebbe la mia morte. Karl, che tu abbia potuto dirmi che sono una ragazza volgare, [...], non è stata una cosa giusta. Non sono adirata con te per questo, forse hai ragione, ma fa così male. [...] Non ti offendo, vero? Continuo a riflettere se nell’ultima lettera non ti abbia detto niente di offensivo! Non riesco a trovar niente e poi, comunque, non vi era l’intenzione; quella però non c’era neppure quella volta, com’è vero Iddio, ma io ero così offesa, così agitata, e tu sai, poi, come sono vanitosa e... Karl, perdonami ancora quest’unica volta, brucia la lettera e dimenticala. Ho scritto di nuovo in modo un po’ agitato, è colpa della tua lettera. Che soltanto tu stia bene, mio caro, unico amore”61.

 

Mancano (non a caso?) l’inizio e la fine, dai quali capiremmo perché Karl (oltre che per il suo dispotismo, noto ai suoi cari fin da quand’era bambino62) l’abbia offesa così brutalmente. Ma il dissidio non dura a lungo se un mese dopo, da una località di villeggiatura, Jenny può scrivergli così63: “Questo foglietto deve raccontarti [...] della mia vita interiore ed esteriore nel piccolo, piacevole luogo termale, ma prima devi star zitto e ascoltare attento, tu, caro adorato del cuore, i cari saluti d’amore che ti porta, le dolci, tenere parole d’amore che ti sussurra... Caro Karl, potessi tu essere ora accanto a me, potessi io riposare sul tuo cuore e unita a te guardare la serena, ridente vallata, gli ameni prati, i monti con le loro cime boscose! Ma, ahimé, tu sei così lontano, così lontano, così irraggiungibile; invano ti cercano i miei occhi, invano le mie braccia si tendono verso di te, invano ti grido tutti i dolci nomi dell’amore più tenero; sulle mute testimonianze del tuo amore debbo stampare tutti i caldi baci, esse e non te debbo stringere al mio cuore, bagnare delle mie lacrime”...

 

Ma dopo queste righe appassionate, un’ombra ― quella del defunto Heinrich, che già nella lettera precedente Jenny ha chiamato Egli, con l’iniziale maiuscola ― si dispiega all’improvviso, cupa, sulle sue parole, e il “foglietto” si tramuta in un lungo, doloroso compianto: “Karl, mandami spesso questi dolci messaggi d’amore, scrivimi spesso; ne ho bisogno, più di quanto possa dire; è proprio l’unica cosa che ho, l’unica che può sollevare l’anima abbattuta, l’unica che mi trattiene dall’abbandonarmi del tutto al dolore, dall’esser disperata. Non posso ancora raccapezzarmi, sopportare con calma e padronanza il pensiero di una perdita che è irreparabile; tutto mi sembra così tetro, così funesto, tutto il futuro così oscuro, nessuna immagine piacevole mi sorride, non ho nemmeno una sola prospettiva allegra; anche dal luminoso passato emergono solo ricordi malinconici e, ahimé, ogni ora dell’infelice presente mi costringe di nuovo nel modo più doloroso al paragone tra la nostra precedente ricchezza e la nostra attuale miseria; ogni giorno, ogni attimo mi ricorda che le cose non sono più come erano una volta, che non potranno mai, mai più essere così, che non è più tra noi quell’uomo nobile che ha benedetto il nostro amore, che nell’oscurità del presente egli non può più gettare benedicenti, vivificanti raggi di sole, che egli ci è strappato per sempre, per sempre è perduto.

 

La giornata di oggi mi richiama particolarmente alla memoria la sua cara, nobile immagine. Proprio oggi, un anno fa, eravamo insieme a Kürenz; eravamo noi due soli soli e ci intrattenemmo per due o tre ore sulle cose più importanti della vita, sugli interessi più nobili e sacri, la religione e l’amore. Disse magnifiche, splendide parole, aurei insegnamenti per il mio cuore, mi parlò con un amore, una cordialità, un’affettuosità, quali può avere solo un animo ricco come il suo. Il mio cuore gliel’ha fedelmente ricambiato, quest’amore, glielo conserverà sempre!... C’è un tipo d’amore che va al di là di questa vita, che è infinito, e questo gli appartiene.

 

[...] Gli colsi un mazzetto di fragole, e gli porsi via via le più belle: avresti dovuto vedere come si rallegrò allora, come mi ringraziò, come mi sorrise. Non lo dimenticherò mai, quel sorriso sublime! [...] E così ogni giorno, ogni attimo mi ricorda lui, quell’uomo nobile, e risveglia sempre di nuovo i sentimenti di calda nostalgia per il caro scomparso e per i giorni più belli della sua vita tra noi. E tuttavia non lo vorrei di nuovo in questo mondo di miseria, no, io benedico, io invidio il suo destino... io mi rallegro della pace beata di cui gode tra le braccia del suo Dio, mi rallegro che abbia cessato di soffrire, di star male, che abbia trovato di là il ricco premio della sua bella vita!...

 

Perdona, Karl, questi sfoghi di dolore, perdonami di essermi fermata così a lungo sul sacro, eternamente indimenticabile oggetto del lutto tuo e di noi tutti, di avere così suscitato di nuovo sentimenti appena sopiti, di non aver saputo trattenere meglio i miei lamenti, perdona che io non mi ti accosti allegra e ridente, ma non posso ancora padroneggiare del tutto i miei sentimenti, non posso ancora dominare del tutto il mio dolore. [...] Ti unisco qui alcuni capelli del nostro caro, è l’ultima cosa che ci resta della sua spoglia esteriore: dolore e preoccupazioni li hanno resi bianchi. Io li ho coperti dei miei baci e bagnati delle mie lacrime. Possano essere per te un talismano in questa vita”.

 

Che dire di queste righe? Heinrich, è vero, è morto da sole cinque settimane. Heinrich, è vero, per due anni è stato sempre presente... tra loro. (E già qui, come vorrei sapere se anche per Jenny, come certamente per Karl, qualche volta non lo sia stato troppo!). La morte di Heinrich, è vero, toglie alle speranze matrimoniali della ragazza il loro più forte sostenitore presso la famiglia di lei, che ama Karl ma è ora abbandonata all’influsso pervicacemente ostile di Ferdinand... Tuttavia (lo scrivo con dolore, e con tutto l’affetto che provo per Jenny, oltre che per Karl) come non sentire eccessivi, crudeli, tanto lutto e una così disperata (e disperante) religiosità? Come non temere che Jenny abbia finito almeno in parte per condividere i dubbi di Heinrich sullo “slancio” del figlio per il “dovere”, se la sua morte ha potuto precipitarla in una “oscurità” talmente fitta, che “le cose, poiché egli non può più gettarvi benedicenti, vivificanti raggi di sole, non saranno mai più come una volta”?

 

Heinrich, morendo quando lo scontro col figlio è al culmine, e più grave è il pericolo che Karl, provato dal rovinoso confronto con Hegel, perda per sempre la “pura perla”, gli ha inflitto, ripeto, un colpo decisivo: Karl, da quel giorno, lo venererà come un dio64, e la sua sconfitta sarà irrimediabile. Jenny, in un momento simile, non dovrebbe evitare “di fermarsi così a lungo su [quel] sacro, indimenticabile oggetto di lutto” e di “suscitare così di nuovo” i “sentimenti appena sopiti” del fidanzato?

 

Ma non si può capire Jenny se non si comprende qual è e sarà sempre, per lei, il suo ruolo di donna nel rapporto con l’uomo che ama. Il suo ruolo? No. La sua identità.

 

Jenny è una ragazza religiosa, e lo sarà per tutta la vita. Ma timidamente, in silenzio, in segreto: la sua religiosità trasparirà a Natale (benché con la scusa che la “festività”, in casa Marx, vale “solo per i bambini”) o quando, la domenica, si lascerà sorprendere a canticchiare Gesù, Gesù, dolce e buono, un inno di Charles Wesley, fondatore del metodismo65. Ma con qualcuno si confiderà: nel 1866 scriverà a Ernestine, moglie di Wilhelm Liebknecht, “esprimendole le sue opinioni sulle cattive conseguenze di un’educazione atea (anche se non è chiaro se tali conseguenze siano cattive in quanto irreligiose o in quanto socialmente malviste). E dicendole che c’è un mucchio di cose che potrebbe raccontarle su quel che fanno le ragazze e sulle loro conoscenze, ma tali relazioni sono spesso di natura tanto delicata che preferisce non metterle per iscritto. «Laura e Jenny hanno caratteri molto diversi, ma il particolare indirizzo della loro educazione finirà per portarle a un penoso conflitto con i loro amici. Sono state educate con nozioni e opinioni che le isolano completamente dall’ambiente sociale che frequentano; ma, nello stesso tempo, non sono materialmente indipendenti. [...] Se fossero ricche, se la caverebbero anche senza battesimo, chiesa e religione; stando così le cose, invece, dovranno affrontare dure lotte. Spesso penso che, se non si può dare ai figli l’agiatezza o almeno una completa indipendenza finanziaria, non è giusto allevarli in aperto contrasto con la società: si troveranno sempre in una posizione falsa, e tutto ciò è per me un pesante fardello»66.

 

Ma a Karl non lo dirà mai: ben più di Dio, il Dio di Jenny è lui. Solo una cosa ― sposarlo, e poi vegliare sul matrimonio come sul più sacro degli altari ― è per lei più importante della totale (anche se mai cieca) sottomissione a lui. Non si ribellerà, né tanto meno penserà di separarsene, non solo nei lunghi, orribili anni di nera miseria che sopporterà perché egli possa dedicarsi allo studio, alla scrittura, alla lotta politica e alla corrispondenza coi suoi seguaci sparsi per il mondo, ma neanche quando Karl, dopo otto anni di matrimonio, avrà un figlio dalla governante Helene Demuth, più giovane di Jenny di sei anni. Costei vivrà coi Marx fino alla morte, anch’ella con sovraumana devozione, e Jenny si accontenterà (ma senza chiederlo, né tanto meno pretenderlo) che Karl non riconosca il bambino e, allontanatolo da casa e affidatolo economicamente a Engels, non lo veda mai più.

 

Jenny è stata educata così. Anzi: è così, e non dubiterà mai di esserlo per natura, la propria e quella di tutte le donne: “L’amore della fanciulla è diverso da quello dell’uomo, deve essere diverso” leggeremo tra poco. “La fanciulla non può dare all’uomo nient’altro se non amore e sé stessa, la sua persona così com’è, totalmente indivisa e per sempre”. La fanciulla deve darsi, intende, se è una fanciulla.

 

Sono certo che mai, nei sette anni di fidanzamento, Jenny ha rivolto a Karl (o immaginato di rivolgergli) anche soltanto un millesimo delle opprimenti esortazioni che egli ha dovuto subire dal padre. Ma non sono meno certo che mai si è adoperata per alleviargliele. Anzi: in un momento critico, come abbiamo visto, per mesi ha rifiutato di scrivergli perché... “era inutile”. E tuttavia non posso attribuirle, nei confronti di Karl, un influsso negativo paragonabile sia pure alla lontana a quello di Heinrich: Jenny si è limitata ad attendere, a soffrire e a sperare, in perpetua adorazione. Ma senza la minima idea della sfida che Karl, se lei lo avesse aiutato a resistere al padre, forse avrebbe vinto.

 

Per questo, alla fine del 1836, Jenny accoglie le poesie dell’innamorato “con lacrime di gioia”, sì, ma anche “di dolore”: poiché lo “slancio poetico” di Karl le fa paura. Ma in lei non suscita, però, il freddo odio per cui Heinrich s’infuria e stenta a dominarsi. Per questo la morte di Heinrich la sconvolge fino alla disperazione: poiché adesso è sola, a lottare per il suo Dio. Ma senza la mostruosa capacità di Heinrich di tessere intorno a lui una tela di ragno dai fili d’acciaio: Jenny non può che adorarlo, attendere, soffrire, sperare, e tentare, ma solo per lettera, di farlo immedesimare in lei.

 

“Mio unico amore, caro” gli scrive67 un anno dopo, tra il 1839 e il 1840, “non sei più adirato con me, e neppure in ansia per me, vero? Ero così eccitata l’ultima volta che ti scrissi, e in tali momenti vedo le cose ancor più nere e spaventose di quanto in realtà siano. Scusami, mio unico amore, se ho potuto spaventarti tanto, ma mi sentivo distrutta dai tuoi dubbi nei confronti del mio amore e della mia fedeltà. Dimmi, Karl, come hai potuto far questo, scrivermi ciò in modo così arido, esternare un sospetto soltanto perché il mio silenzio è stato un po'’più lungo del solito, perché un po’ più a lungo ho tenuto chiuso in me il dolore causato dalla tua lettera, da Edgar68, ah!, da tante cose che soffocano la mia anima con indicibile pensa. [...] Ah, Karl, quanto poco mi conosci, quanto poco ti rendi conto della mia situazione e quanto poco senti in cosa consiste la mia sofferenza, in quale punto il mio cuore sanguina.

 

L’amore della fanciulla è diverso da quello dell’uomo, deve essere diverso. La fanciulla in effetti non può dare all’uomo nient’altro se non amore e sé stessa, la sua persona così com’è, totalmente indivisa e per sempre. [...]. Ora però, Karl, immagina la mia situazione: tu non mi stimi, non ti fidi di me, e che io non sia in grado di conservare il tuo appassionato amore giovanile di oggi, in fondo lo sapevo fin dall’inizio, lo sentivo nel profondo ancor prima che me lo si spiegasse in modo così freddo, acuto e sensato. Ah! Karl, proprio in ciò sta la mia pena, che quel che riempirebbe ogni altra fanciulla di gioia indicibile, cioè il tuo amore bello, commovente, appassionato, le tue espressioni indicibilmente belle, le esaltanti immagini della tua fantasia, tutto ciò mi spaventa soltanto, e spesso mi porta alla disperazione.

 

Quanto più mi abbandonassi alla felicità, tanto più spaventoso sarebbe il mio destino, se il tuo amore appassionato cessasse, se tu dovessi diventare freddo e scostante. Vedi, Karl, la preoccupazione che il tuo amore finisca mi toglie ogni piacere, non posso rallegrarmi completamente del tuo amore, poiché non mi credo più sicura di esso, e per me niente potrebbe essere più spaventoso di questo.

 

Vedi, Karl, per questa ragione non sono così completamente grata, così completamente felice del tuo amore, come esso meriterebbe, per questa ragione ti rammento spesso le cose esteriori, la vita, la realtà, anziché restare fedele, come sei capace tu, al mondo dell’amore, al perdersi in esso, all’essere un’unica cosa con te, in modo spirituale più profondo, più prezioso, in esso dimenticando ogni altra cosa, trovando soltanto in esso consolazione e felicità. Karl, se tu potessi sentire lo strazio, saresti più buono con me e non vedresti ovunque orribile prosaicità e mediocrità, non vedresti ovunque mancanza di vero amore e di profondità di sentimento. Ah! Karl, se potessi riposare sicura nel tuo amore, la mia testa non brucerebbe così, il mio cuore non sentirebbe un dolore così acuto e non sanguinerebbe. Potessi riposare eternamente sicura sul tuo cuore, Karl, in nome di Dio, la mia anima non penserebbe alla vita e alla fredda prosaicità. Ma, angelo mio, tu non badi a me, non hai fiducia in me, e il tuo amore per il quale io darei tutto, tutto, non posso conservarlo fresco e giovane. In questo pensiero si nasconde la morte, coglilo una volta così come sta nella mia anima, e sarai più indulgente se anelo a una consolazione al di fuori del tuo amore. Sento interamente che tu hai ragione in tutto, ma immagina anche la mia situazione, la mia tendenza a pensieri cupi, rifletti bene una volta a come stanno queste cose, e non sarai più così duro nei miei confronti. Se tu potessi una volta essere per un po’ una fanciulla e, per giunta, una fanciulla così particolare come lo sono io! Così, amor mio, dalla tua ultima lettera mi sono martoriata con la paura che per causa mia tu potessi esser finito in brutte faccende e poi in un duello. Giorno e notte ti ho visto ferito e sanguinante e malato e, Karl, ti voglio dir tutto: non ero poi così infelice immaginando tutto ciò, poiché mi convincevo quasi che tu avessi perduta la tua manina destra e, Karl, mi estasiavo ed ero felice poiché vedi, amore, così pensavo di poter divenire per te davvero indispensabile, così mi avresti avuta sempre intorno a te e mi avresti tenuta cara. Poi pensavo che avrei potuto scrivere tutti i tuoi cari pensieri divini e avrei potuto esserti davvero utile. Tutto ciò me lo sono immaginato in modo così naturale e vivo che sentivo sempre la tua cara vocina, nella quale le tue care parole scorrevano su di me e io le ascoltavo attentamente e le conservavo per gli altri accuratamente. Vedi, mi rappresento sempre cose simili, e allora sono felice, poiché allora sono con te, tua, tutta tua. Se io potessi anche solo pensare tutto ciò come possibile, sarei già soddisfatta.

 

Caro unico amore, scrivimi presto e dimmi che stai bene e che mi ami sempre. Ma Karl, tuttavia devo ancora una volta essere un po’ severa con te, dimmi, come hai potuto dubitare della mia fedeltà? Ah, Karl, lasciare che un altro ti oscuri! Non che io misconosca buone, degne qualità negli altri e consideri te insuperabile, ma, Karl, il fatto è che io ti amo così indicibilmente, e dovrei ora trovare in un altro qualcosa degno di amore! Ah, Karl! Non ho mai mancato nei tuoi confronti, mai, mai, e tuttavia non ti fidi di me, ma è strano che ti sia stato fatto il nome proprio di quello, che non è quasi stato visto a Treviri, che non può essere conosciuto, mentre mi hanno visto, spesso e molto, vivace e contenta in compagnia e in conversazione con uomini di ogni tipo.

 

Sono spesso capace di essere davvero vivace e civetta, scherzare con estranei e condurre una conversazione allegra e contenta, tutte cose che con te non so fare. Vedi, Karl, posso chiacchierare e intrattenermi con ognuno; e invece basta che sia tu a guardarmi, ed ecco che per timore non so spiccicare parola, il sangue mi si coagula nelle vene e la mia anima trema. Spesso, quando all’improvviso penso a te, ammutolisco, rabbrividisco fra me e me e allora non potrei dire nulla per nessuna cosa al mondo, ah! non so di che si tratta, ma mi sento così strana quando penso a te, e non ti penso solo in momenti singoli e in occasioni particolari, no, tutta la mia vita e il mio essere è un pensare a te. Spesso mi vengono in mente cose che mi hai detto, che mi hai domandato, e allora vorrei sprofondare per indicibili, mirabili sensazioni. Ah, Karl, quando tu mi baciavi così e mi abbracciavi tenendomi così stretta e io per timore e spavento non potevo più respirare, e poi mi guardi in quel modo, così tuo, così dolce, ah, amore, tu non sai come mi hai guardato spesso. Mio piccolo Krl, se soltanto sapessi come mi sento, io non so proprio descrivertelo. Talvolta anche mi immagino quando sarò con te sempre e tu mi chiamerai la tua mogliettina, come deve essere bello. [...] Ah! amore, la cosa più bella che ho avuto al mondo è stata quando tu mi guardasti la prima volta in quel modo, e poi distogliesti rapidamente lo sguardo e poi di nuovo, e io feci la stessa cosafinché, infine, ci guardammo negli occhi a lungo e nel profondo e non potevamo più distogliere lo sguardo”.

 

Il 15 aprile 1841, a Jena ― non a Berlino, poiché in Prussia, per gli hegeliani, l’aria si sta facendo irrespirabile ― Karl si laurea in filosofia con una tesi sulle differenze tra le filosofie di Epicuro e di Democrito, alla quale ha lavorato per tre anni. Scrivendo, intanto, lettere a Jenny che non ci sono pervenute, ma il cui tenore si può cercare d’immaginare leggendo quelle di lei.

 

Poi si trasferisce a Bonn, dove progetta di dar vita a una rivista con l’amico Bruno Bauer, trentaquattrenne filosofo e teologo della Sinistra hegeliana e docente presso la locale università. E a Bonn, nell’agosto del 1841, riceve un’altra lettera da Jenny. Karl ha 23 anni, ora, e Jenny, che ne ha ventisette, non è considerata una zitella soltanto perché da cinque è fidanzata con lui.

 

“Mio orsacchiotto selvatico” gli scrive da Treviri69, “come sono felice che tu sei contento e che la mia lettera ti ha rallegrato e che hai nostalgia di me e che abiti in camere tappezzate e che a Colonia hai bevuto champagne e che là ci sono club intitolati a Hegel e che hai sognato e che, in breve, tu sei il mio amore, il mio orascchiotto selvatico. Ma con tutto ciò una cosa mi manca: avresti potuto lodarmi un poco per il mio greco e avresti potuto dedicare alla mia erudizione un piccolo articolo elogiativo; ma così siete, voi signori hegelingi70... non riconoscete niente, neanche se fosse la cosa più perfetta, quando essa non rispecchia esattamente la vostra tendenza. E così devo rassegnarmi a riposare sui miei propri allori [corsivo di Jenny]. Sì, amor mio, purtroppo devo ancora e sempre riposare, su piume e cuscini, e perfino questa breve lettera viene spedita nel mondo dal mio lettino. Domenica osai un’audace sortita nelle stanze anteriori, ma mi è andata male e ora la devo scontare.

 

Schleicher [medico di Treviri, collaboratore della Trier’sche Zeitung] mi ha appena detto di avere ricevuto una lettera da un giovane rivoluzionario [Karl stesso, come si evince dal prosieguo] che si sbaglia però di grosso per ciò che riguarda i suoi compatrioti: lui non crede di poter procurare né quote né altro. Ah, caro, caro amore, ora t’immischi perfino in politica. Ma è la cosa più spericolata! Mio piccolo Karl, ricordati sempre che a casa hai un’amata che spera e si dispera e che dipende totalmente dal tuo destino. Caro, caro amore, se almeno ti potessi rivedere. [...] Addio, unico amore. Non posso più scrivere, se no la testa mi si confonde. [...] È vero che ti posso sposare? Addio, addio, amore mio”.

 

Dicevo che Jenny non può che adorare il suo Karl e aspettare, soffrire, sperare... Ma poi, quella stessa estate del 1841, a un tratto, senza ombra di calcolo, fa molto di più: lo raggiunge a Bonn e gli si dà.

 

“Mamma comincia di nuovo ad ammonirmi” gli scrive il 13 settembre71, “facendomi rimostranze per ogni cosa, e ha ordinato a Edgar di venire a prendermi a Colonia e di stare attento al decoro esteriore e interiore, altrimenti non potrei farti visita a Bonn. Ahimé, amore, quanto mi è riuscito pesante tutto ciò! Decoro esteriore e interiore! Ah, mio Karl, mio dolce, unico Karl!

 

E tuttavia, Karl, io non posso sentire e non sento alcun pentimento se chiudo stretti stretti gli occhi e poi vedo i tuoi che sorridono felici ― allora, Karl, io stessa sono felice nel pensiero di essere stata tutto, per te... e non essere più niente per gli altri. Ah, Karl, io so molto bene ciò che ho fatto e come sarei considerata agli occhi del mondo, so tutto ciò, tutto, e nondimeno sono lieta e felice e non darei il ricordo di quelle ore per tutto l’oro del mondo. Questo è ciò che mi è più caro, e deve restarlo eternamente. Solo quando penso di dover vivere ancora tanto tempo separata da te, così circondata interamente di nuovo da miseria e meschinità, allora tremo tutta. Ma, Karl, tu mi scrivi così caramente, così bene, così... ah, Karl, come ho coperto di baci le tue lettere. Le porto sempre sul mio cuore, esse hanno la forza di risollevarmi. Karl, come sei angelico, se tu ora tacessi, se non fossi pieno d’amore affettuoso e riconoscente, dovrei disperarmi. Ma non sei stato mai, mai così caro e tenero e, amore, vero che anche in futuro le cose resteranno così, e non bacerai nessun’altra ragazza come fai con me? Karl, non sono arrabbiata con te perché hai baciato in quel modo la sposina, anch’io sono un po’ felice se tu lo eri, tanto ti amo, ma dover essere contenta che altre abbiano la felicità più grande, che oso appena sperare per me stessa, questo, Karl, non posso farlo. Ah, Karl, non è vero che tu mi resterai sempre e sempre fedele, e farai anche in modo che presto io diventi la tua sposina? Oh, amore, voglio leggerti negli occhi ogni desiderio, e pensare sempre a darti gioia.

 

[...] Un paio di giorni fa non sopportai più di star chiusa [...]. Era una sera divinamente bella, con il cielo chiaro di stelle che annunciava un giorno sereno. La stella dell’amore [Venere] luceva splendente e chiara in alto, e per me era come se fosse attaccata lì solo per me, per farmi luce fino a casa, per irraggiare gioia e piacere nel mio cuore e festeggiare il mio amore. Come pensavo a te e al tuo amore. Vivevo di nuovo tutte le ore gioiose, di nuovo giacevo sul tuo cuore, ebbra d’amore e felice. E come mi sorridevi ed eri lieto. Karl, Karl, quanto ti amo! Oggi non riesco, non ho quasi il dono della comunicazione, e tutto ciò che porto in cuore, ogni mio pensiero e idea, tutto, tutto, passato, presente, futuro, tutto ha un solo suono, un solo segno, una sola voce, e quando risuona dice solo: ti amo indicibilmente, senza limiti, senza tempo, senza misura... Ogni altra cosa sparisce in questo. Karl, Karl, quando penso a tutto ciò! E con quanto amore, con quanta dolcezza me lo fai ricordare! Come sei capace tu, angelo, di imprigionare lo spirito e l’anima, e di rapirmi in alto, al di là di quanto io stessa desideri. Sì, Karl, quando ti vidi e ti credetti così felice avrei dato in cambio la vita, la beatitudine, l’eternità. Avrei sopportato contenta l’onta e lo scherno del mondo, per darti un momento felice! Ah, Karl, e tuttavia... ora ho così spesso paura, no, no, poi vedo di nuovo i tuoi occhi, leggo le tue lettere, e tutto va di nuovo bene ed è pace nel mio cuore. [...] Caro, dolce angelo, pensi ancora spesso a tutta la felicità, ah, mio caro, caro amore, com’ero felice, ultrabeata! Karl, essere la tua donna, quale pensiero... forse, o Dio, mi vengono le vertigini a pensarci! Vero, però, che sono già un po’ tanto la tua sposina? Piccolo Karl, di’, sarò ancora tutta tua, tutta. Ah, quando penso a Treviri, tremo in tutto il corpo... là abitano i miei genitori, i miei vecchi genitori, che ti amano tanto, ah, Karl, sono davvero cattiva e non c’è più niente di buono in me, tranne il mio amore per te... che però è grande più di ogni cosa, forte ed eterno. Karl, scrivimi presto, di nuovo presto, più presto che puoi. Mai le tue lettere furono più gradite, più benefiche, più necessarie... Pensa, Karl, se tu ora ti dimenticassi di me... no, no, questo non puoi farlo... non potrai farlo mai. La fine del tuo amore e quella della mia esistenza avverrebbero nello stesso momento. E dopo questa morte non c’è alcuna resurrezione... poiché solo nell’amore c’è la fede nella durata eterna. Ah, Karl, la stanza rintrona e mi balla intorno. Non posso più... Addio, angelo, scrivi presto, presto, non posso più vivere senza le tue lettere, nella prossima maggiori particolari su quando ci rivedremo. Angelo, come ti amo, ti amo, questo è tutto il mio umorismo, il mio spirito, la mia vita, il mio pensiero. Addio, addio”.

 

Il 3 marzo 1842 muore il padre di Jenny, Ludwig von Westphalen.

 

Il 19 giugno 1843, “a Kreuznach, dove Karl ha vissuto nel 1843, Karl e Jenny si sposano. La baronessa von Westphalen (allontanatasi da Treviri con i figli Jenny e Edgar per evitare che le reazioni a quell’evento così malvisto si manifestino nella loro città) arriva in tempo per assistere al contratto di matrimonio. Non è presente alcun altro, né della famiglia della sposa, né di quella dello sposo. I testimoni sono quattro cittadini di Kreuznach”72.

 

Karl e Jenny avranno sei figli: due maschi e quattro femmine. Solo tre supereranno l’infanzia: Jenny (1844-1883), che morirà di cancro a 39 anni, Laura (1843-1911), che si suiciderà insieme al marito Paul Lafargue (su istigazione di quest’ultimo, deciso da tempo a uccidersi a settant’anni per evitare le sofferenze della vecchiaia) ed Eleanor, nata nel 1855 e suicida nel 1898, anche lei su istigazione del marito, Edward Aveling, che però non la segue. Tre figlie assolutamente certe, come la madre, che la “natura” femminile imponga a ogni donna di seguire i mariti anche nella morte, se del caso.

 

Ma probabilmente più per l’influsso di Karl che per quello di Jenny. “Da alcune lettere da lei scritte molti anni dopo, possiamo infatti intuire qualcosa del suo atteggiamento nell’educare i bambini, che ci appare molto umano. Descrivendo a Karl un pranzo in casa di una vedova racconterà: «I bambini sono continuamente sorvegliati e richiamati all’ordine: devono mangiare correttamente, parlare correttamente [...]. Il bambino piccolo, simpatico, ma bruttino, era in uno stato di terrore, alle prese con una coscia d’anatra difficile da maneggiare. Avrebbe voluto tagliarne un pezzetto, ma poiché non osava poggiare un dito sull’osso (l’occhio della governante non abbandonava i bambini nemmeno per un istante), la coscia saltò fuori dal piatto. Avresti dovuto vedere il povero bimbo e poi tutta l’agitazione creatasi intorno alla tavola: i risolini delle sorelle, lo sguardo minaccioso della governante, la confusione dei domestici e, a coronamento di tutta la scena, la solenne predica di G. sulle buone maniere a tavola». Mai, dunque, pare evidente, la signora Marx educherà le sue figlie con simili metodi”73.

 

Jenny “manterrà sempre inalterata la sua devozione agli interessi del marito, e sarà sempre convinta, non meno di Karl, che egli «debba perseguire il proprio scopo nella buona e nella cattiva sorte, non permettendo alla società borghese di trasformarlo in una macchina per fare soldi»74. Ricorderà sempre, annoverandoli tra i più felici della sua vita, i giorni passati nel piccolo studio a «ricopiare gli articoli illeggibili» di Karl. Ma la lotta sarà troppo crudele, abbrutente e lunga. [...] Affronterà con forza non comune situazioni particolarmente difficili, [...] ma gli affronti e le privazioni saranno troppo gravosi per una donna come lei, sempre inquieta per ciò che avrebbe detto la gente, fiera della sua casa, e timidamente ambiziosa, se non per sé stessa, per la condizione e l’avvenire delle figlie. Vivrà nella morsa di un’implacabile marea di debiti, che periodicamente supererà il livello di guardia minacciando di inghiottire l’intera famiglia. Mai sarà completamente travolta, ma ne risentirà molto nell’umore, malgrado il suo inestinguibile ottimismo e qualche punto di contatto con la signora Bennet75. Con l’avanzare dell’età diverrà sempre più irritabile e comincerà a mostrare i primi segni di una depressione nervosa così grave, che ci saranno momenti in cui Karl avrà paura che impazzisca.

 

Nel 1872, a cinquantotto anni, ripensando alla sua vita piena di affanni, Jenny scriverà a Wilhelm Liebknecht: «In tutte le lotte la parte più difficile, perché la più meschina, ricade su noi donne. Mentre gli uomini traggono vigore dalle battaglie combattute nel mondo esterno e si rafforzano scontrandosi faccia a faccia con il nemico, sia pure un intero esercito, noi donne stiamo a casa, a rammendare calze. Questo non scaccia davvero le preoccupazioni, anzi, lentamente ma inevitabilmente, i piccoli affanni di tutti i giorni indeboliscono la nostra vitalità... Posso dire, sinceramente, che il mio coraggio non si è mai facilmente abbattuto. Ma ora sono troppo vecchia per sperare ancora qualcosa»”76.

 

Sì, possiamo esser certi che Jenny non ebbe parte alcuna, nella perdita della “pura perla”. Ma non fece niente per impedirla, non la vide, non la sentì. Solo Heinrich, purtroppo, ne ebbe sentore.

 

Ma quanto fu vicino, il “magnifico diciannovenne”, a cambiare la Storia del comunismo e dell’Umanità, e ad evitare le immani tragedie dalla cui ripetizione nemmeno oggi possiamo sentirci al sicuro?

 

Si può trovarne un indizio nella Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro.

 

“Marx iniziò a redigere la dissertazione di laurea nell’inverno 1838-39, e andò avanti con lentezza [si laureò, infatti, il 15 aprile 1841] poiché intendeva comporre una vasta Storia della filosofia epicurea, stoica e scettica. [...] Solo in un secondo tempo, pressato dalla famiglia e per riguardo alla fidanzata, rinunciò al progetto per limitarsi al tema più ristretto trattato nella Differenza77.

 

Il criterio-guida della Differenza78 è l’opposizione alla religione: “La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione di Prometeo: «Detto francamente, io odio tutti gli dei» è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dei celesti e terreni che non riconoscono l’autocoscienza umana come divinità suprema. Nessuno deve stare a fianco di questa. [...] Essa torna a rispondere [...] ciò che Prometeo rispondeva al servitore degli dei Ermete: «La mia sventura con la tua servitù io, sappilo chiaro, non la cambierei. Preferibile infatti mi sembra essere schiavo di questa rupe, che fungere da fedele nunzio del padre Zeus». Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico”79.

 

La “divinità suprema” è “l’autocoscienza umana”. Cioè quella che nella “lettera al padre ha chiamato “la natura spirituale, altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica”.

 

Come mai, però, il seguace di Prometeo si propone di studiare Epicuro nel suo differenziarsi da Democrito? “È un fenomeno degno di nota” risponde Karl “che dopo la filosofia platonica e quella aristotelica, che si estendono fino a un ambito di totalità, sorgono nuovi sistemi che non si appoggiano a quelle ricche figure dello spirito ma, guardando più indietro, si rifanno alle scuole più semplici: ai filosofi della natura per quanto concerne la fisica, alla scuola socratica per quanto riguarda l’etica”.

 

Degno di nota come lo è, ai nostri occhi, che il giovane Marx, dopo Hegel, si rifaccia, in nome di Prometeo, a un saggio, Epicuro, che riprese il cammino della filosofia dal punto in cui, dopo Democrito, con Platone e Aristotele si era avviato su un percorso che l’avrebbe condotto, quasi senza soluzione di continuità, alla “grottesca melodia rocciosa” del sistema hegeliano.

 

La prima differenza di Epicuro rispetto a Democrito consiste, dunque, nel tentativo di Epicuro di riprendere una ricerca che Platone e Aristotele hanno troncato e che Democrito, loro contemporaneo, non ha saputo riavviare: una ricerca per la quale la filosofia non separi dalla natura l’idea per dedicarsi solo a quest’ultima; né, “per quanto riguarda l’etica”, si disinteressi dell’essere umano, e del suo desiderio di essere “saggio”, per incentrarsi esclusivamente sul “bene”.

 

In altri termini, la prima differenza di Epicuro rispetto a Democrito è la differenza tra un successo e un fallimento. Ma gli storici della filosofia l’hanno capovolta (e perciò è necessario “rimetterla in piedi”) accreditando “il pregiudizio dell’identità della fisica democritea e della fisica epicurea” (un “pregiudizio vecchio come la storia della filosofia”) e vedendo “nelle modifiche arrecate da Epicuro solo trovate arbitrarie”80. Mentre è vero l’opposto, scopre Karl: Epicuro e Democrito “si contrappongono diametralmente in tutto ciò che riguarda [...] il rapporto tra il pensiero e la realtà”81.

 

Si contrappongono diametralmente, cioè, niente meno che sul problema fondamentale della filosofia di tutti i tempi, ivi compresi il tempo di Marx e il nostro: “la verità e la certezza della conoscenza umana”82. Una certezza che Democrito non ha, come stiamo per vedere, ed Epicuro sì. Poiché Democrito rimane, per tutta la vita, diviso tra ragione e sentimento. E perciò non è un saggio: poiché la filosofia e la vita, nella sua opera e soprattutto nella sua storia, non si fondono mai.

 

È un altro punto fondamentale. Per Karl poco più che ventenne, già quasi due secoli or sono è assodato quel che ancora oggi fatichiamo a comprendere: colui che si crede ed è creduto saggio non lo è, è falso e ingannevole, se il suo “sapere” e il suo vivere non sono tutt’uno.

 

Vediamo, dunque, in che modo, per Karl, Epicuro sia vissuto meglio di Democrito, e sia stato umanamente migliore, essendo al contempo, in un insieme inscindibile, un miglior filosofo.

 

In Democrito “«i veri principi sono gli atomi e il vuoto; tutto il resto è opinione, parvenza» [...]. [Per lui], perciò, sono da contemplare con la ragione [sono, cioè, tali da far sentire certi di sapere] solo i princìpi, che già per la loro piccolezza sono inaccessibili all’occhio sensibile, e per questo motivo sono chiamati idee83. Mentre la “percezione sensibile” è “mutevole”, “instabile”, non è verità né certezza. In Democrito, insomma ― in Democrito in quanto essere umano e filosofo ― “il concetto di atomo e l’intuizione sensibile si scontrano ostilmente” ed egli, perciò, “non sfugge all’antinomia”84.

 

Non sfugge alla scissione, intellettuale in quanto umana, umana in quanto intellettuale.

 

“Sentiamo invece Epicuro. Il saggio, egli dice, [...] [è in] vantaggio su tutti gli altri [perché] egli sa con convinzione”. Poiché, per lui, “«Tutti i [suoi] sensi sono nunzi del vero» [e] «niente può confutare la [sua] esperienza sensibile»”85.

 

Ma questa fondamentale differenza di Epicuro rispetto a Democrito, per Karl ― intuizione che è già, a mio parere, una “pura perla” ― non la si può considerare dimostrata basandosi soltanto sui testi: si deve stabilire, con altrettanta certezza, se essa è presente anche nelle loro realtà umane, e dunque nelle loro vite: se Democrito, non solo pensando ma anche vivendo, è diviso (“non sfugge all’antinomia” tra la ragione e la percezione sensibile, tra i princìpi e i fenomeni) e se Epicuro, invece, è uno.

 

Ed è proprio così, scopre Karl: “La differenza tra i giudizi [...] di Democrito e di Epicuro sulla certezza della scienza e la verità dei suoi oggetti trova la propria realizzazione nella differenza di energia e prassi scientifica tra questi due uomini. Democrito, per cui il principio [così com’è contemplato dalla ragione, cioè gli atomi e il vuoto, le idee] non giunge a manifestarsi e rimane senza realtà ed esistenza [...], è quindi spinto all’osservazione empirica. Insoddisfatto della filosofia, si getta nelle braccia del sapere positivo”. “Il suo non essere soddisfatto del sapere vero, cioè filosofico, lo spinge ad andare lontano”. Ma ovunque vada, dall’Egitto all’Etiopia, dal Mar Rosso alla Persia e forse all’India, “la sua brama di sapere non trova pace”: “il sapere che egli ritiene vero” (il sapere degli atomi e del vuoto, dei princìpi, delle idee, della ragione) “è privo di contenuto”, mentre “quello che gli offre un contenuto” (il “sapere positivo” dato dall’instancabile “osservazione empirica” del mondo sensibile) è privo di verità”86.

 

Ma questo sentir “priva di verità” una scienza “positiva” i cui “princìpi” razionali non riescono a renderla umanamente saggia ― questa “antinomia” del pensiero che diventa una contraddizione apparentemente insanabile “nell’energia e nella prassi” degli scienziati non “solo” in quanto scienziati, ma anche in quanto esseri umani ― non ricorda (o, per meglio dire, non preannuncia) l’insostenibile condizione di molti ricercatori odierni, imperterriti nel creder vero quel che persistono a osservare isolandolo rigorosamente da sé stessi in quanto esseri umani pur mentre i fisici da decenni dimostrano loro che ogni osservazione ― ai livelli più profondi della realtà, là dove la realtà non si lascia in alcun modo isolare dall’umano ― è sempre condizionata dall’osservatore?

 

In Epicuro, invece, Karl scopre “un tipo d’uomo opposto”, che “trova la sua soddisfazione e la sua beatitudine nella filosofia” e insegna che “«né il giovane deve esitare a filosofare, né il vecchio dal filosofare desistere. Infatti nessuno è troppo immaturo, nessuno troppo maturo per guarire nell’anima [...]». [E così], “mentre Democrito, insoddisfatto della filosofia, si getta nelle braccia del sapere empirico, Epicuro disprezza le scienze positive ― poiché, secondo lui, esse non contribuiscono affatto alla vera perfezione ― [e perciò] viene chiamato nemico della scienza [...] e lo si accusa perfino di ignoranza”87.

 

Sia pure in un testo permeato di hegelismo, quale la Differenza purtroppo indubbiamente è, è un grave errore storico, io penso, interpretare anche queste parole come hegeliane. Il giovane Karl, evidentemente non ancora del tutto “tra le braccia del nemico”, è certissimo che Epicuro non è un nemico della scienza (dal momento che per lui, come abbiamo visto, “niente può confutare la percezione sensibile”). E deve da ritenersi impossibile, pertanto, che egli “arruoli” Epicuro in una guerra contro di essa. Karl al contrario pensa, con Epicuro, che nemico della scienza sia piuttosto Democrito, visto che si rassegna a una “scienza” che non “contribuisce alla vera perfezione” dell’essere umano poiché, dividendolo, gli nega di partecipare per intero a essa e, di conseguenza, gli impedisce di “guarire nell’anima”.

 

Così, “mentre Democrito sente il bisogno di andare in tutte le regioni del mondo, Epicuro lascia il suo giardino in Atene sì e no due o tre volte, e va in Ionia non per fare ricerche, ma per visitare amici. E mentre alla fine Democrito, disperando della scienza, si accieca, Epicuro, quando sente vicina l’ora della morte, s’immerge in un bagno caldo, chiede del vino schietto e raccomanda agli amici di restare fedeli alla filosofia. [Ma tali] diversità non sono da attribuire alla casuale individualità dei due filosofi: si tratta di due orientamenti opposti che prendono corpo [die sich verkörpern]. [E] noi vediamo come differenza nell’energia pratica ciò che prima si esprimeva come coscienza teoretica88.

 

Cos’è che fa “stare così bene” Epicuro (a differenza di Democrito) come scienziato e uomo indissolubilmente fusi in un essere umano in rapporto col mondo? È, dice Karl, il rifiuto della necessità. La certezza che ogni necessità deve cedere il passo, quando le si contrappone l’essere umano:

 

“Nel rapporto generale che il filosofo pone tra il mondo e il pensiero, egli non fa che oggettivare a sé stesso il modo in cui la sua particolare coscienza si rapporta al mondo reale. Ora, Democrito adopera come forma di riflessione della realtà la necessità. [...] La necessità sarebbe, secondo Democrito, il destino e la legge e la provvidenza e la creatrice del mondo”.

 

Ma cos’è la necessità, se non l’esclusione dell’essere umano da ogni rapporto con la realtà?

 

“Al contrario Epicuro: «La necessità, che da alcuni è introdotta come la dominatrice di tutte le cose, non lo è; bensì alcune cose sono casuali, altre dipendono dal nostro arbitrio. [...] Sarebbe meglio seguire il mito sugli dei che essere schiavi del determinismo dei fisici. Quello infatti lascia adito alla speranza della misericordia se rendiamo onore agli dei, questa invece è necessità inesorabile. Ma è il caso, e non dio, come crede la moltitudine, che dobbiamo ammettere» [accanto, come detto sopra, al nostro arbitrio]. «È una sventura vivere nella necessità, ma vivere nella necessità non è una necessità. Ovunque sono aperte le vie verso la libertà, molte, brevi, facili»”89.

 

Ma cos’è il nostro arbitrio, se non il rapporto dell’essere umano con la realtà?

 

Dice Karl: “Epicuro nega perfino il giudizio disgiuntivo, per non dover ammettere alcuna forma di necessità”90. Dice la fisica moderna: non si può stabilire una volta per tutte se la luce è un’onda oppure una particella; la luce è tanto un’onda quanto una particella: dipende dall’osservatore.

 

Ma in che modo il nostro arbitrio esercita sulla realtà l’azione che Epicuro afferma e Democrito nega? Attraverso “la declinazione dell’atomo dalla linea retta”, che in Democrito non c’è.

 

Lucrezio, “che in generale è il solo fra tutti gli antichi ad aver compreso la fisica epicurea”91, “ha ragione di affermare che la declinazione infrange i decreti del fato [la necessità, il determinismo delle “scienze positive”]; e poiché egli applica sùbito ciò alla coscienza, si può dire dell’atomo che la declinazione è quel qualcosa nel suo petto [in seiner Brust] che può opporsi e resistere92.

 

Ma se il “qualcosa nel seno dell’atomo e della coscienza” è da un lato il caso, sì, ma dall’altro l’arbitrio umano, come non supporre che proprio negli atomi di Epicuro il giovane Karl veda “la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica”, cioè la “pura perla”?

 

Tant’è vero che “Epicuro [...] cerca [...] di dare della declinazione una raffigurazione non sensibile [cioè non percepibile dai sensi ma, allo stesso tempo, non spirituale]. Essa non si ha né in un luogo, né in un istante determinato [nec regione loci certa, nec tempore certo] e avviene nel più piccolo spazio possibile”. Poiché, altrimenti, “una causa fisica [...] ricondurrebbe la declinazione nella catena del determinismo, da cui appunto essa dovrebbe emancipare”. E, del resto, “l’atomo, prima [...] della declinazione, non è ancora per niente completo93.

 

L’atomo, per Epicuro e il giovane Karl, finché non declina, “non è completo”: vale a dire, esiste e insieme non esiste. Eppure esso esiste, ma... evidentemente, cade in linea retta e insieme declina.

 

Non è qui intuìto, in anticipo di parecchi decenni ― ma in Epicuro di millenni ― ciò che la fisica moderna chiama principio d’indeterminazione?94

 

Per Epicuro (a differenza che per Democrito) “gli atomi sono sì la sostanza della natura, da cui tutto si origina e in cui tutto si dissolve. Ma il continuo annientamento del mondo fenomenico non giunge ad alcun risultato [cioè non giunge a fare il nulla anziché l’essere ― come in Democrito, per il quale, tolti “gli atomi e il vuoto, le idee, tutto il resto è opinione, parvenza”]: si formano nuovi fenomeni, ma l’atomo resta sempre a base come fondo [als Bodensatz]. Nella misura dunque in cui l’atomo viene pensato secondo il suo puro concetto [vale a dire “prima” della declinazione, che ad arbitrio nostro o del caso realizza “quel qualcosa nel petto che si oppone e resiste” all’astratto determinismo], la sua esistenza è lo spazio vuoto, la natura annientata [il nulla]; nella misura in cui trapassa alla realtà [zur Wirklichkeit fortgeht], esso decade a base materiale che, supporto di un mondo di svariate relazioni, non esiste mai altro che in forme a essa indifferenti ed esterne”95.

 

“La singolarità astratta [cioè l’atomo] è la libertà dall’esistenza, non la libertà nell’esistenza [l’atomo di Democrito, cioè, senza la declinazione, senza di noi, annienta l’esistente e rende non vera la scienza].

La singolarità astratta non può splendere alla luce dell’esistenza, che è un elemento in cui essa perde il suo carattere e diventa materiale. Perciò l’atomo non entra nella luce della fenomenicità o, quando vi entra, decade a base materiale. L’atomo come tale [l’atomo senza la declinazione] esiste solo nel vuoto [nel nulla]. Così la morte della natura [“l’atomo come tale”, “nel vuoto”] è diventata l’immortale sostanza di essa, e con ragione Lucrezio esclama: «La morte immortale ha rapito la vita mortale» [mortalem vitam mors immortalis ademit]96.

 

Gli atomi, dunque, sono non esistenza e insieme esistenza. Sono non esistenza (e pertanto inconoscibili scientificamente) se li immaginiamo senza rapporto con noi, come pure idee, nel vuoto. Sono esistenza, l’Universo e noi in esso, se riconosciamo scientificamente il nostro interferire con essi.

 

Il saggio, dicono Epicuro e il giovane Karl, è chi sa di esser parte della realtà. Non c’è realtà senza l’umano. Ed essa non può essere conosciuta se non nel suo essere in rapporto con l’umano.

 

“Se io considero l’aggregazione [degli atomi, cioè il loro “declinare” (decadere) a Universo fisico] secondo la sua esistenza, allora l’atomo esiste dietro di essa, nel vuoto, nell’immaginazione [im Leeren, in der Einbildung]; ma se [come Democrito e “le scienze positive”] considero l’atomo secondo il suo concetto, allora l’aggregazione o non esiste affatto, o esiste solo nella rappresentazione soggettiva”97.

 

“Nel vuoto, nell’immaginazione”, tutto appare necessario e determinato indipendentemente dagli esseri umani. Ma non è la realtà. Nella realtà, tutto il non casuale dipende da noi. Vale a dire: una “scienza” che non prende in considerazione l’arbitrio umano (e del caso), o è “scienza” di qualcosa “che non esiste affatto”, oppure è opinabile “rappresentazione soggettiva” ― a tutti gli effetti, pura mitologia.

 

*

 

Cosa facciamo con Marx? Entusiasti con il Marx giovane, rifiutiamo il Marx dell’Ideologia tedesca. Annichiliti dall’imbecillità della frase: “Per la Germania la critica della religione è, in complesso, terminata”, sùbito dopo troviamo la felicità alla frase “...e la critica della religione è il presupposto di ogni critica.

 

Cosa facciamo con Feuerbach che per la sola formulazione “non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea Dio” merita il riconoscimento di genio, ma che per il resto sta malamente a strimpellare di amore e di amicizia, ritirato in campagna in una astrazione completa da qualsiasi rapporto interumano? Lui che, grandioso!, aveva parlato di proiezioni! (Feuerbach e non Freud, tanto per amore di verità).

 

Allora cerchiamo la dialettica, formidabile!, c’è Hegel che è sovrano. Ma... è dialettica dell’istinto di morte. Però c’è Marx che rovescia la dialettica, ma... e la realtà psichica e le pulsioni umane? In Marx non esistono. L’unico, grande valorizzatore della realtà umana reale, concreta, fuori da ogni spiritualismo che annulla l’uomo, dopo un primo exploit geniale, a 27 anni scrive una breve frase che sarà il cardine di ogni successiva ricerca:

 

“Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale”.

 

E il bambino, e la donna che non hanno prodotto i mezzi di sussistenza, l’uno per ragioni naturali, l’altra per ragioni storiche? Il grande Marx uccide il bambino e la donna e diventa positivista. Quale uomo può venir fuori dall’annullamento del bambino e della donna che sarebbero animali? Soltanto un violentatore di bambini e di donne. E, peggio ancora, quale dialettica ci rimane? Quella fisicamente violenta. Perbacco! C’è da rimanere frastornati con rischio di impazzire. E lo psichiatra deve guarire le persone, non farle impazzire!

 

Qui si può comporre il nesso tra la celebre frase di prima... “ora si tratta di trasformarlo”98, come a dare per scontato che sia stato interpretato (dava per buona, almeno in parte, l’interpretazione di Hegel) e questa frescaccia che la critica alla religione sia terminata. Può essere terribile supporre quanti guai storici possono essere derivati da questo liquidare brevemente quanto invece richiedeva una resistenza e un lavoro ben più lungo e duro. Tra noi questa frase è nota come eiaculazione precoce di Marx di fronte alla religione, alla alienazione religiosa degli uomini.

 

Il progresso della scienza, al di là del positivismo, si lega al superamento di quel principio di realtà [...] che permette all’uomo di poter fare soltanto quella conoscenza della realtà materiale che non valica il limite del mondo non umano.

 

Portarsi dietro, anche in parte, l’interpretazione di Hegel (il nucleo razionale dentro il guscio mistico) significa reagire a essa con l’azione pura e semplice, con la ribellione che distrugge le cose ma non intacca... l’interpretazione. E l’interpretazione è dominio sulla mente degli uomini che resta immodificato e forse peggiorato dalla alleanza stessa che i ribelli hanno con quanto non hanno scientificamente e coerentemente rifiutato.

 

Peggiorato dalla dinamica per la quale l’ignorare quanto, invece, va concretamente affrontato, ha la stessa pulsione di istinto di morte che si vuole contrastare. E l’istinto di morte mira a distruggere la vita dell’uomo, la sua nascita, la sua fantasia, la sua realtà psichica.

 

Far iniziare l’umanità con il comportamento dell’uomo adulto, significa gestire lo stesso istinto di morte di Hegel. Hegel lo ha dichiarato esplicitamente signore del mondo e della storia, origine di tutte le cose. Marx, ignorandone l’esistenza e la violenza, lo lascia libero di agire incontrastato sulla vita degli uomini. E con tale padrone, onnipotente fino a che resta nascosto, l’azione degli uomini si svolge in modo stupido e violento, la conoscenza di loro resta al rapporto con la realtà materiale non umana.

 

Affrontare l’alienazione socio-economica senza, se non prima, almeno contemporaneamente, affrontare l’alienazione religiosa, lascia gli uomini illusi e delusi. È quanto accade a leggere Marx

 

“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale”.

 

Molto giusto, molto bello. Non c’è lo spirito, ci sono uomini che gestiscono le pulsioni, gli amori e gli odi che fanno le rappresentazioni. Ma sùbito dopo:

 

“Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento”.

 

Che cavolo dice ora? Che se uno mi dà un pugno, poi pensa di darmi un pugno? E il pugno chi me l’ha dato? Il solito spirito santo?

 

Poi ti rabbonisce di nuovo:

 

“La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita”.

 

E ancora:

 

“Non la coscienza determina la vita, ma la vita determina la coscienza”.

 

Ma ora, come si suol dire, non mi freghi più. Qui il processo reale non è propriamente... il processo reale, o la vita... la vita, ovvero la nascita, lo sviluppo che è contemporaneamente materialità e psiche, ma sono i gesti e le cose che un uomo adulto fa.

 

Le brutte conseguenze che derivano dal non affrontare l’alienazione religiosa degli uomini: si fa una religione della realtà materiale, dei meccanismi fisiologici dei riflessi condizionati. Si va a finire nell’obbligo di essere felici una volta risolte le disuguaglianze economiche. Si deve essere felici... per ordine dello Stato... poi gli uomini non sono felici e sarebbero controrivoluzionari perché Marx ha detto che l’alienazione religiosa cade da sola una volta che siano stati modificati i rapporti di produzione; cadono da soli i disordini mentali degli uomini, le depressioni, le impotenze, l’angoscia, la pazzia umama. E se alcuni, più o meno male o bene, si ribellano, vanno ricoverati in manicomio perché, nel momento in cui non sono felici, sono matti. E, si badi bene, non per alterazioni psichiche che, coerentemente, non ci possono essere, ma per malattia organica del cervello.

 

Volendo essere ottimisti e considerando che non tutti i mali vengono per nuocere, prendiamo per una fortuna che il discorso psicoanalitico non sia entrato nel marxismo nonostante i tentativi recenti. Perché sarebbe entrato il violentatore freudiano che avrebbe distrutto quella che possiamo considerare sempre una possibilità. Ora però sarebbe tempo che la vergine (anche se troppo spesso si è data alla masturbazione) trovi in sé la donna. Si apra a una nascita sempre attesa e mai avvenuta.

 

E pensare che Marx ci era andato vicino, aveva colto la possibilità di un discorso scientifico e artistico insieme, nei riguardi della realtà psichica (che lui chiama spirituale), e lo dice. A 19 anni! È nella lettera al padre del 10 novembre 1837:

 

“Un sipario era caduto, il mio sacrario era spezzato, e nuovi dèi dovevano essere insediati. Dall’idealismo ― del quale, sia detto per inciso, erano stati per me modello e alimento quello kantiano e quello fichtiano ― giunsi a cercare l’idea nella realtà stessa. Se prima gli dei avevano abitato al di sopra della terra, ora ne erano divenuti il centro.

Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa non mi era piaciuta. Ancora una volta volli immergermi in profondità nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica, di non usare più arti di scherma, ma di tenere la pura perla alla luce del sole.

Scrissi un dialogo di circa ventiquattro fogli, Cleante, o del punto di partenza e del necessario svolgimento della filosofia. Qui si univano in certa misura l’arte e la scienza, che prima si erano del tutto separate; come un robusto camminatore mi accinsi a quest’opera, intesa a mo’ di un dispiegarsi filosofico-dialettico della divinità, così come questa manifesta sé stessa come concetto in sé, come religione, come natura e come storia. La mia ultima frase era l’inizio del sistema hegeliano, e questo lavoro, [...], che mi era costato una fatica infinita, [...], questa mia creatura prediletta, nutrita al chiaro di luna, mi ha portato come una sirena ingannatrice tra le braccia del nemico”.

 

Il magnifico diciannovenne aveva colto nel segno: trovare una realtà psichica altrettanto necessaria, concreta e dai contorni altrettanto sicuri quanto la natura fisica; la perla delle perle. Riunire l’arte e la scienza. Ma poi... non è riuscito. Si è ritrovato nelle braccia del nemico. E ci è rimasto, sempre divincolandosi, ma senza mai riuscire a liberarsi veramente. Chissà perché, in questo confronto con la realtà psichica si deve sempre morire. Si scappa o si muore.

 

E scappare e morire nel confronto con la realtà psichica significa cadere in trappole sottili ma non per questo meno disastrose. Si cade nella trappola del sapere e/o fare. Sapere prima ciò che si fa, col rischio di cadere nell’ideologia, nel processo dell’Idea, nelle braccia del nemico. Fare prima senza sapere, col rischio di cadere in una prassi distruttiva fine a sé stessa che si costituisce come coazione a ripetere, come rapporto di castrazione con la realtà.

 

È perché senza confronto con la realtà psichica, senza un lavoro sulla realtà psichica, viene a mancare una premessa: l’essere. La possibilità di fare senza esattamente sapere non può fondarsi su altro che non sia l’essere dell’uomo. Non può fondarsi su altro che non sia il superamento della scissione tra corpo e anima. Il corpo, cioè, deve aver raggiunto una identità e una libertà completa, cosa che non potrà mai essere se l’uomo non si libera dall’istinto di morte e dalla castrazione e dalla dinamica che si svolge tra i due.

 

La prassi materiale di trasformazione dell’esistente implica una tale libertà di comportamento, che la possibilità di cadere immediatamente nella delinquenza e nella pazzia è enorme.

 

E, peraltro, questa trasformazione che dovrebbe essere ricerca dell’essere, riferita direttamente al cambiamento della realtà dei rapporti materiali cade nell’illusione di una esistenza senza essenza, ripete la scissione tra realtà e pensiero nel momento in cui la realtà è l’ “essere” dell’uomo nel suo rapporto con la natura senza rapporti interumani.

 

E continua il giro infernale per cui l’uomo, castrato nei suoi rapporti interumani, si rapporta alla natura con la sua castrazione e, soddisfatti i bisogni, ripete nei rapporti interumani la costruzione della sua castrazione99.

 

*

 

Eleanor, Lissagaray e Karl

 

 

 

Nel 1872, a diciassette anni, Eleanor Marx “si fidanzò con Lissagaray [che ne aveva trentaquattro], un tipo impetuoso, uno dei più coraggiosi combattenti della Comune di Parigi, che tuttavia Marx non vedeva affatto di buon occhio come genero. [...] Benché il legame (cominciato, i primi tempi, di nascosto) sia durato ben nove anni, la madre ne parlò esplicitamente solo una volta [in una lettera a Sorge del 1877], mentre il padre rifiutò assolutamente di prenderne atto. [...] Era soprattutto l’esuberanza di Lissagaray, proprio la qualità che aveva fatto innamorare Eleanor, a renderlo sgradito. Marx non aveva fiducia in lui. Scriveva a Engels: «Non chiedo niente a L. se non una prova ― non belle parole ― che egli è migliore della sua fama e che vi è qualche buona ragione per contare su di lui»”100.

 

“Dell’infanzia di Hyppolite-Prosper-Olivier Lissagaray, che tutti, e anche lui, chiamarono sempre soltanto Lissagaray, si sa che seguì gli studi classici e si laureò prima dei ventidue anni, quando andò in America per un breve soggiorno. Al ritorno in Francia, alla fine del 1860, cercò di risvegliare la libertà di pensiero e di parola con un corso di conferenze, una sorta di università popolare, dove scrittori progressisti, giornalisti, e professori privati della cattedra per ragioni politiche, costituivano un richiamo per un gran numero di giovani: «I giovani devono essere seri e austeri, anziché spensierati» affermava, «poiché non abbiamo più tempo per essere giovani»”. In seguitò si diede a un’intensa attività pubblicistica contro il Secondo Impero di Napoleone III, per la quale subì “una serie di arresti, di prigionie e di ammende che, nel periodo precedente e seguente le elezioni del 1869, ammontarono a oltre due anni di prigione e circa 150 sterline di multe per «provocazioni, oltraggi, violenze», «atti contrari alla legge» e violazioni dei decreti sulle riunioni pubbliche”. Nel 1870-71 partecipò alla Comune di Parigi, prima come giornalista e poi come combattente, finché “il 28 maggio, sulla collina di Belleville, difese da solo, per un quarto d’ora, la barricata all’incrocio tra rue de la Tourtille e rue Ramponeau, che fu l’ultima a essere presidiata. Quando non ebbe più munizioni, si allontanò e scomparve”. Fuggì a Londra, dove visse in esilio dal 1871 al 1880 seguitando a impegnarsi nell’attività politica e pubblicistica, prodigandosi per le migliaia di esiliati della Comune in miseria, e scrivendo “la sua classica Histoire de la Commune de 1871, [...] per la quale il suo nome è famoso e ricordato tra i posteri”101.

 

“Grande ammiratore di Victor Hugo, [...], individualista esaltato e ribelle, ricco di coraggio fisico, impareggiabile tiratore e appassionato combattente di duelli [nessuno dei quali mortale], Lissagaray fu certamente una personalità eccezionale: aveva il gusto del comandare e il massimo disprezzo per l’autorità; non risulta che abbia mai scritto per un giornale non diretto da lui stesso. Ebbe pochi amici intimi, poiché possedeva la capacità, che rasentava la genialità, di litigare con quelli che aveva: tutte le sue amicizie, e anche i suoi legami sentimentali ― tranne quello con Eleanor ― finirono, generalmente, fra tuoni e fulmini. [...] Sotto l’influenza di Marx, in lui si operò un certo cambiamento nelle sue idee sul socialismo, che prima erano state molto utopistiche, ma si rifiutò sempre di riconoscere [...] la necessità di creare partiti operai organizzati. [...] Appassionato, orgoglioso, caparbio, rimase un capo solitario, senza seguaci, che non doveva obbedienza ad alcuno; la sua stella tramontò intorno agli anni ’80 [cioè quando Eleanor, dopo nove anni di resistenza passiva al padre che stroncò più lei che Marx, infine lo lasciò], benché essa risplenda ancora brillante nella sua famosa Histoire. Nel novembre del 1877, nella prefazione alla prima edizione inglese, tradotta da Eleanor, Lissagaray scriveva: «Non c’è dubbio che chi parla è un esule, ma un esule che non è mai stato né membro, né ufficiale, né funzionario della Comune; che, per cinque anni, non ha fatto che vagliare testimonianze; che non si è arrischiato a fare una sola affermazione, senza averne prima accumulato prove; che vede il vincitore attento alla minima inesattezza per poter, da questa, negare tutto il resto; che non conosce, per i vinti, migliore difesa che il semplice e veritiero racconto della propria storia. Questa storia, inoltre, è dedicata ai loro figli, a tutti i lavoratori del mondo. I giovani hanno il diritto di conoscere i motivi delle sconfitte dei padri, e il partito socialista quello di conoscere le battaglie combattute in nome della sua bandiera, in tutti i paesi»”102.

 

Questo fu Lissagaray, contro il quale Karl Marx piegò per sempre la figlia. E che morì nel 1901, a sessantadue anni, meno di tre anni dopo il suicidio di Eleanor a quarantaquattro.

 

La loro relazione, cominciata nel marzo del 1872 e fin da sùbito poco gradita dal padre di lei, cominciò a essere seriamente avversata nel novembre di quello stesso anno, quando Lissagaray ebbe un duro scontro politico con Paul Lafargue, il marito di Laura Marx. Fu allora, “scrivendo a Jenny a Oxford, che Eleanor si lamentò per il modo offensivo in cui i Lafargue, arrivati a Londra da poco, si erano comportati verso Lissagaray: quando egli si era presentato in casa Marx, e i Lafargue si erano limitati «a un freddo saluto», Eleanor lo aveva attribuito «al lieve imbarazzo del primo incontro». Ma al momento di andarsene erano stati egualmente poco cordiali, e poi, a un secondo incontro, avevano stretto la mano a tutti i presenti tranne che a Lissagaray”103.

 

“Nella primavera del 1873, la situazione era ormai diventata «molto sgradevole» e la tensione aveva raggiunto il culmine. Nella seconda metà di marzo, Eleanor andò col padre a Brighton [una località di mare sulla costa meridionale dell’Inghilterra]”. Perché questo viaggio? Fu un tentativo di Marx [nello stile di nonno Heinrich] di allontanare fisicamente Eleanor dal fidanzato, aver modo di premere in solitudine sulla figlia e, al contempo e malgrado ciò, rinsaldare il proprio ascendente su di lei. Lo dimostra il fatto che il 25 marzo la madre, Jenny, scrisse a Eleanor “esprimendo [tra l’altro] la speranza che «quelle due settimane di distacco» le avrebbero fatto bene”. Ma Eleanor [nello stile di Karl], pur accettando rispettosamente l’allontanamento da Lissagaray [che invece non lo accettò, visto che in seguito, come vedremo, andò a trovarla lì], escogitò contro il padre una sorta di irreprensibile ribellione: “Il 1° aprile Marx tornò a casa da solo, poiché Eleanor aveva deciso di fermarsi a Brighton e di guadagnarsi da vivere. Decisione, è chiaro, che non era stata né premeditata né progettata”104.

 

Il 3 aprile la madre le scrisse: “«Sii brava e coraggiosa. Non lasciarti sopraffare da questa terribile crisi. Credimi, nonostante le apparenze contrarie nessuno capisce più di me la tua posizione, il tuo conflitto, la tua amarezza. Fa’ che il tuo giovane cuore abbia il sopravvento, e ricordati che dove vi è colpa [cioè in Marx e in Laura] vi sono anche le peggiori sofferenze... Perdonami, se qualche volta hai avuto la sensazione che io ti abbia fatto del male...». Commenta Yvonne Kapp, biografa di Eleanor: “Ci sono, in questa lettera, molti elementi che fanno supporre che Laura dovette avere una parte notevole nella «terribile crisi», poiché la madre continua a sottolineare che, mentre «una sorella [cioè Laura per Eleanor] può cessare di sentirsi e di comportarsi come una sorella», una figlia [cioè Laura per la madre] rimane sempre una figlia, anche se sbaglia ed è in errore. «Anzi, più sbaglia, più grande diventa l’affetto e la comprensione» continuava la madre, e il fardello di Eleanor doveva essere assai leggero, poiché ella non aveva niente, o quasi niente, da rimproverarsi. Purtroppo non ci è dato di capire in che cosa consistesse la “colpa”, chi fosse da biasimare, e quale ne fosse il motivo”105.

 

A me sembra chiaro, invece. Per “salvare” il rapporto di Eleanor col padre dal rischio di raggelarsi in un rispetto e un’obbedienza senza più amore (rispetto e obbedienza da cui ella, come Karl verso Heinrich, non defletté neanche col pensiero né allora né mai), la madre Jenny, il padre stesso (e, per amore di Marx, anche la biografa di Eleanor) tentarono di addossare la “colpa” della “crisi” (cioè della decisione di Marx, imminente o già presa, che Eleanor e Lissagaray non si vedessero più) interamente a Laura, attribuendola però (in vista di una futura, sperata riconciliazione tra le sorelle) non alla tetragona volontà di Laura di schierarsi col padre contro Eleanor (che temeva da lui più amata) ma ad “imprescindibili” motivazioni politiche. Le quali dovettero esserci e contare, purtroppo, ma solo perché l’incapacità di Marx di riconoscersi affettivamente nella figlia (cioè di riconoscere in lei sé stesso alla sua età) gli impedì, per la seconda volta in vita sua, di ribellarsi al proprio padre riconoscendo l’assoluta preminenza dell’identità di lei sulla razionalità del “dovere”, quale che fosse, che egli le imponeva.

 

E la madre, Jenny? Forse non era altrettanto contraria alla relazione di Eleanor con Lissagaray. Ma anch’ella era sottomessa a un “dovere” a cui mai si permise d’immaginare di poter sottrarsi: il dovere di ubbidire, sempre e comunque, alla volontà del marito.

 

A Brighton, lontana da casa per la prima volta, “Eleanor trovò presto alunni a cui dare lezioni private. [...] E a partire dal 5 maggio [...] iniziò un regolare rapporto di lavoro in una scuola privata per giovanette. [...] Non alloggiava nella scuola, ma in una camera ammobiliata. [...] “Durante questo periodo, la madre le scrisse regolarmente: mai la loro corrispondenza fu più intensa e affettuosa”. Ma in queste lettere, colme di premure per il vitto, l’abbigliamento e la salute di Eleanor, di particolari domestici e di pettegolezzi, rimbomba la mancanza, dopo le poche frasi contenute nella prima, della pur minima attenzione per il travaglio interiore della figlia. Volontariamente o involontariamente, esse “dimostrano che ella considerava [o voleva considerare] l’intero episodio di Brighton come una prolungata convalescenza, anche se un po’ sconsigliata. [...] In generale, le si rivolge come a una mezza invalida. Eppure dalle lettere di Eleanor non appare questo quadro: promette, sì, di non affaticarsi, ma non si lamenta per la salute e non sembra curarsi troppo né dei consigli né delle raccomandazioni né, tanto meno, dei vestiti offerti: si sofferma poco sulle chiacchiere materne su persone e fatti di Londra [che però non contengono che “pochi accenni a Marx o ai Lafargue”], parla invece del tempo che fa a Brighton, delle allieve [Eleanor, “benché non avesse un regolare diploma di insegnante, fu molto amata” dalle allieve e dalle signorine Hall, sue datrici di lavoro] in tono sereno, ma senza vivacità”106.

 

“Il 22 maggio Marx andò per dodici giorni a Manchester [...]. Appena partì, Jenny si recò a Brighton. Qui venne a sapere da una delle signorine Hall che Lissagaray aveva fatto visita a Eleanor a scuola, visita consentita «in quanto era fidanzata». La faccenda mise in imbarazzo la signora Marx, che se la cavò non esprimendo né obiezioni né condanne, ma semplicemente dicendo che la «posizione», per il momento, escludeva qualsiasi impegno ben definito”107.

 

“«Per il momento, il signor L. dovrà fare buon viso a cattivo gioco» scriveva invece Marx a Engels [e quasi certamente a Eleanor, anche se forse in altri termini] il 23 maggio. [...] Una settimana più tardi, Marx ebbe da Eleanor una lettera molto rassicurante, che spedì a Engels insieme con una arrivatagli da Lissagaray. Aveva detto alla figlia che non vi era alcun motivo perché ella lo accusasse di essere ingiusto verso Lissagaray. «La cosa maledetta» scriveva Marx il 31 maggio, «è che, per il bene della ragazza, debbo muovermi con ogni cautela e riguardo»108.

 

“Eleanor rimase a Brighton fino alla fine del trimestre scolastico. [...] Ma quando tornò a casa non fu più possibile eludere la questione di Lissagaray, che ora le era proibito incontrare. Precisamente quando e perché questo divieto le fu imposto non si sa. [...] Molti particolari di questo periodo rimangono oscuri. [...] Ma una cose è assolutamente certa: questo contrasto con la famiglia, questa rottura, questo tentativo di Eleanor di essere indipendente, allorché rimase sola a Brighton, [...] non furono in alcun modo una «ribellione». Quanto a fuggire con Lissagaray, pare che tale pensiero non le sia mai passato per la testa; e benché Franziska Kugelmann abbia affermato, nei suoi ricordi, che egli si rivolgeva a Eleanor chiamandola ma chère petite femme, non vi è alcuna prova che ella non abbia rispettato o si preparasse a non rispettare le convenzioni o, se non altro, i suoi genitori. Anzi, l’unica testimonianza diretta di cui disponiamo indica un atteggiamento completamente opposto: è in una lettera, dolce e piena di turbamento, scritta al padre il 23 marzo 1874 [quando il divieto di vedere Lissagaray durava da più di un anno!]. Ci sono tante lettere scritte da ragazze innamorate a padri inflessibili, ma raramente perorano la propria causa con tanto patetico coraggio, candore e devota obbedienza:

 

«Carissimo Moro, sto per chiederti una cosa, ma prima desidero che tu mi prometta che non ti arrabbierai. Vorrei sapere, caro Moro, quando posso vedere di nuovo L. È così doloroso, non vederlo mai. Ho fatto del mio meglio per essere paziente, ma è tanto difficile e non credo che potrò esserlo ancora per molto. Non pretendo certo che tu mi dica che egli può venire qui. Non lo vorrei neppure: ma non potrei andare ogni tanto a fare una passeggiatina con lui? Mi lasci uscire con Outine, con Frankel; perché non con lui? Inoltre, nessuno si scandalizzerà a vederci insieme, poiché tutti sanno che siamo fidanzati... Quando ero così malata a Brighton (per una settimana, svenivo due o tre volte al giorno), L. è venuto a trovarmi e ogni volta mi ha lasciato più forte e più serena; e soprattutto più capace di sopportare il pesante fardello che grava sulle mie spalle. È tanto tempo che non lo vedo e inizio a sentirmi così infelice, nonostante i miei sforzi di non perdermi di coraggio, poiché ho provato con ogni mezzo a mantenermi serena e fiduciosa. Ora non ce la faccio più. Credimi, caro Moro, se potessi vederlo ogni tanto, mi gioverebbe più di tutte le medicine della signora Anderson messe insieme: lo so per esperienza. A ogni modo, carissimo Moro, se non mi è dato vederlo sùbito, potresti dirmi quando mi sarà dato? Sarebbe già qualcosa vivere nell’attesa e, se la data fosse meno vaga, sarebbe meno faticoso aspettare. Carissimo Moro, ti prego, non essere in collera se ti ho scritto questo e perdonami per essere stata abbastanza egoista da tormentarti ancora. La tua Tussy. Naturalmente, tutto assolutamente entre nous»”109.

 

Il fidanzamento di Eleanor con Lissagaray proseguì per nove anni, “prolungandosi senza alcuna prospettiva di una concreta realizzazione”110, mentre Eleanor seguitava a studiare e lavorare, faceva nuove conoscenze e cominciava a impegnarsi nell’attività politica: “Eleanor, quali che fossero gli altri interessi che perseguiva, era coinvolta in ogni problema sociale in patria e all’estero ed era, come la definì la madre, «politicizzata dalla testa ai piedi»”111. Ma non era felice: nei mesi successivi “non riuscì più a dormire e smise completamente di mangiare. [...] Un medico, chiamato a consulto da Marx [che scrisse a Engels che “«l’esaurimento del sistema nervoso» della figlia si rivelava nel tremito delle mani, in un tic facciale e anche in spasimi convulsi”] “affermò che in lei non c’era niente di organicamente malato, ma «un completo sconvolgimento della funzione dello stomaco» dovuto al persistente digiuno”. Malgrado l’interesse per la politica, il lavoro a casa (tra l’altro, era la “segretaria” del padre) e fuori, e da qualche tempo la volontà di dedicarsi al teatro, “si sentiva sempre più insoddisfatta della propria vita”112. Quando la madre morì, il 2 dicembre 1881 [“l’ultima parola che disse fu per papà: «Bene...»” (lettera alla sorella Jenny del 4 dicembre113] Eleanor scrisse a un’amica: “Mia madre e io ci amavamo profondamente... Uno dei più amari dolori della mia vita è che sia morta pensando, nonostante tutto il nostro amore, che io sia stata dura e crudele, senza mai immaginare che, per non dare dispiacere a lei e a mio padre, ho sacrificato gli anni migliori, i più belli della mia vita”114.

 

“Il provocatorio fidanzamento con Lissagaray durava ormai da molti «lunghi e tristi anni», [come Eleanor li definì in una lettera a un’amica] e gettava un’ombra fra lei e il padre: quella romantica storia d’amore non era più che un peso opprimente. [...] «Ho molta carne al fuoco, mia cara, ma sento di aver sprecato già abbastanza la mia vita e che è ora di far qualcosa» scrisse alla sorella Jenny: la crisi, dunque, era scoppiata proprio nel momento in cui stava escogitando nuovi modi per scoprire e sviluppare tutte le sue capacità. [...] Fu un periodo che avrebbe fiaccato anche la persona più robusta: eppure, sebbene lo scotto fosse alla fine pagato dal fisico di Eleanor, già minato dal rifiuto del cibo, il suo buon senso e il suo buon umore non vacillarono. Ma quando diminuirono i compiti che avevano gravato in modo così eccezionale sulle sue spalle ― partiti gli ospiti, suo padre fuori pericolo, terminate le sofferenze della madre ― esplose la reazione. [...] Eleanor apriva il suo cuore a Jenny, diagnosticando abbastanza acutamente il proprio stato: «Quello che né papà, né i medici, né nessun altro capisce è che quello che più di tutto mi fa soffrire è il rovello mentale»115.

 

“Da qualche tempo, ormai, tentava di porre fine al fidanzamento con Lissagaray, ma non si decideva a farlo poiché non c’era niente che giustificasse la rottura: egli era «irreprensibile» ed era stato «tanto buono, gentile e paziente con lei», scrisse a Jenny. [...] Si vergognava profondamente di sé stessa perché angustiava il padre con il suo carattere antipatico e con il suo egoismo. [...] Girava e rigirava il problema, discutendo più con sé stessa che con Jenny. Alla fine «prese il coraggio a due mani» e ruppe il fidanzamento. Disse a Jenny che, non solo il fardello era diventato troppo pesante, ma che c’erano «altre ragioni», che non poteva scrivere, e chiese alla sorella il grande favore di vedere ogni tanto Lissagaray e «trattarlo proprio come un vecchio amico»”116 [segno che egli ne soffrì].

 

Due anni dopo, quando Marx morì, “Eleanor scrisse a un’amica: «Le nostre due nature erano esattamente eguali. Ricordo che una volta egli disse una cosa che allora non compresi e che suonò come un paradosso. Ma ora so cosa intendeva dire... Papà stava parlando di me e di mia sorella Jenny e disse: ‘Jenny è molto simile a me, ma Tussy (il caro, vecchio nome che mi davano a casa) è me’. Era vero. Solo che io non sarò mai buona e altruista come lui»”117.

 

Marx in fondo sapeva, dunque, che avrebbe dovuto dare a Eleanor ciò che Heinrich non aveva dato a lui. Ma non lo fece. E non capì mai ― nel poco che sopravvisse alla rottura di quel fidanzamento che nessun altro che lui aveva logorato fino a stroncarlo ― che la figlia, privandosi dell’amore per Lissagaray, aveva perduto la parte migliore di sé. La propria “pura perla”. Fallite le sue aspirazioni teatrali (guarda caso, dopo un’interpretazione di Giulietta), dedicò il resto della vita all’attività politica (nella quale si rese indimenticabile per l’immensa passione e l’intelligenza che vi profuse, ma che la ferì a morte quando fu chiaro che il comunismo, almeno in Inghilterra, non aveva alcuna speranza di attecchire) e a una devastante relazione, che la condusse infine al suicidio nel 1898, con un “compagno” non meno “impegnato” di lei ma del tutto anaffettivo e privo di ogni scrupolo nei rapporti umani.

 

Quanti altri “figli” di Karl (e “nipoti” di Heinrich) hanno fatto la stessa fine, nel corso del tempo?

 

 

(febbraio-aprile 2016. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com)

Clicca qui per scaricare il testo in formato .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in formato .doc

 

[1] Riguardo alla quale, vedi più avanti.

[2] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, vol. I, Karl Marx 1835-1843, Editori Riuniti, 1980, p. 742. Da qui in avanti, tutte le note fra parentesi quadre sono mie. Gli eventuali corsivi, invece, saranno attribuiti di volta in volta.

[3] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 743-744.

[4] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 745. A tal proposito, in una lettera successiva, Heinrich Marx riconosce: “Tu sai, caro Karl, quanto poca poesia mi abbia istillato la natura, come anzi io in vita mia non sia mai stato in grado di fare un verso sopportabile, neanche nei dolci giorni del primo amore” (Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 748).

[5] “Non solo do a mio figlio Carl [sic] Marx il mio permesso, ma è mio volere che egli il prossimo semestre frequenti l’Università di Berlino, per proseguire là i suoi studi di scienze giuridiche e amministrative iniziati a Bonn. Treviri, 1° luglio 1836” (Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 753).

[6] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 755.

[7] Franz Mehring, Vita di Marx, Editori Riuniti, 1972, p. 8.

[8] Ibidem, p. 9.

[9] Ibidem, p. 13.

[10] Ibidem, p. 12.

[11] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 716.

[12] Cioè fin quasi al 30 novembre 1837, quando Karl scriverà la celebre “lettera al padre” che ci commuove, oggi, almeno quanto al genitore dispiacque. Ma di essa più avanti.

[13] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 911, nota 598.

[14] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 757. Corsivo mio.

[15] La madre, Henriette, discendente da una dinastia di rabbini, è quasi analfabeta: “Con tutte le sue tenere premure per il marito e i figli, consumò l’esistenza nella pace domestica; per tutta la vita parlò un tedesco molto approssimativo, e non prese parte alcuna alle lotte intellettuali del figlio, se non coi rimpianti su ciò che il suo Karl sarebbe diventato se si fosse messo sulla buona strada” (Franz Mehring, Vita di Marx, cit., p. 4). Inoltre è piuttosto gretta: dopo la morte del marito, quando Karl “cercò di convincerla a liquidargli la sua parte dell’eredità paterna, Henriette gli ricordò che suo padre si era aspettato da lui che diventasse un uomo di legge, non un giornalista senza impiego fisso. Non era disposta a incoraggiarlo in una professione di cui suo padre non aveva parlato che con disprezzo” (Heinz Frederick Peters, Jenny la rossa – una vita con Karl Marx, Milano, Mursia, 1989, p. 38).

[16] È significativo che quasi tutte le lettere a Karl si siano conservate, ma nessuna delle sue tranne la famosa “lettera al padre” del 30 novembre 1837: segno, io penso, che il ragazzo tiene ai suoi cari un po’ di più di quanto essi tengano a lui. (Anche se non è impossibile che siano state distrutte da Engels dopo la sua morte, come molte altre missive private, e dalle figlie Laura e Eleanor dopo la morte di Engels).

[17] I genitori di Jenny, e in particolare il padre, stimano immensamente Karl. Ma il fratellastro di lei, Ferdinand von Westphalen, alto funzionario prussiano, non perde occasione per istigarli contro quel “giovinastro”: “Quando Ferdinand, primo consigliere governativo di Treviri, viene a sapere che la sua bella sorella si è fidanzata con Karl, si rivolge alla polizia berlinese perché gli faccia un rapporto sulla vita e i modi del futuro cognato. Le informazioni fornite lo sconvolgono. Karl fa finta di studiare giurisprudenza, ma in realtà frequenta solo le lezioni di filosofia e spreca il tempo in accese discussioni con atei radicali su Dio, gli uomini e la società; scola birra e vino a litri e fuma grossi sigari neri. Ferdinand dà immediatamente al padre il dettagliato resoconto di come Karl vive a Berlino e insiste perché si obblighi Jenny a rompere il fidanzamento con il perdigiorno ebreo” (Heinz Frederick Peters, Jenny la rossa – una vita con Karl Marx, cit., p.34).

[18] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 759-761.

[19] Ibidem, p. 762. Il corsivo è di Sophie.

[20] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 763-765. Corsivo di Heinrich.

[21] Franz Mehring, Vita di Marx, cit., p. 12.

[22] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 577-587.

[23] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 615.

[24] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 638-640.

[25] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 674-676.

[26] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 681-682.

[27] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 621-626.

[28] Da Nostalgia – romanza, Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 596.

[29] Da Re dei fiori – ballata fantastica, Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 617.

[30] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 599-602.

[31] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 709.

[32] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 766-769.

[33] “Che tu salga molto in alto, la lusinghiera speranza che il tuo nome acquisti in futuro una grande risonanza, così come il tuo benessere su questa terra, queste cose non solo mi stanno a cuore, sono illusioni nutrite a lungo, che si sono radicate a fondo. Tuttavia in fondo questi sentimenti son propri in gran parte degli uomini deboli, e non sono del tutto puri da scorie come superbia, vanità, egoismo, ecc., ecc.. Ma ti posso assicurare che la realizzazione di queste illusioni non avrebbe il potere di rendermi felice. Soltanto se il tuo cuore rimane puro e batte in modo umano e nessun genio demoniaco sarà in grado di renderlo estraneo ai migliori sentimenti, soltanto allora troverei la felicità che per tuo tramite sogno per me già da lunghi anni; altrimenti vedrei distrutto lo scopo più bello della mia vita”. (Ibidem, corsivo mio). E sarà proprio la scelta non casuale, da parte di Heinrich, di aggettivi come “demoniaco” e “faustiano” a dare origine, negli ambienti pseudointellettuali del fanatismo religioso, alla leggenda di un giovane Marx “satanista”, inventore del comunismo per consegnare l’Umanità a Lucifero.

[34] Ibidem.

[35] L’allusione, quasi certamente, non è ai genitori di Jenny, ma al fratellastro Ferdinand. Riguardo al quale vedi sopra, nota 17, p. 5.

[36] Ibidem.

[37] Che la “strategia” di Karl sia proprio quella tipicamente adolescenziale di guadagnare tempo, e perfino di far finta di non udire o di non capire, ci sarà confermato dall’orribile replica di Heinrich alla sua famosa “lettera al padre”, su cui mi soffermerò a lungo più avanti. Eccone, intanto, un brano particolarmente illuminante sulle modalità e il tenore delle risposte di Karl alle lettere paterne: “Mai abbiamo avuto il piacere di una corrispondenza ragionevole, che di regola costituisce la consolazione dell’assenza. [...] Mai ricevemmo risposta ai nostri scritti, mai la tua lettera successiva conteneva un riferimento né alla tua precedente né alla nostra. Se un giorno ricevevamo l’annuncio di una nuova conoscenza, essa svaniva sùbito di nuovo del tutto e per sempre, quasi come un bambino nato morto. Su cosa in realtà facesse il nostro fin troppo amato figlio, su quali fossero i suoi pensieri e le sue azioni, a malapena erano buttate là talvolta alcune frasi rapsodiche, e già il ricco registro si chiudeva sùbito come per incanto. Parecchie volte siamo stati dei mesi senza lettere” (Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 789. Il brano, ripeto, è dalla lettera con cui Heinrich, il 9 dicembre 1837, risponderà a quella del figlio del 10 novembre, l’unica che ci sia rimasta: riguardo alla quale, vedi più avanti).

[38] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 770-773. Corsivi di Heinrich Marx.

[39] Mentre “da sette-otto mesi” (cioè dalla fine del 1836, quando per la prima volta scrisse al figlio in tono di rimprovero) è “afflitto da una tosse noiosa”. Che non si placherà più, e che il 10 maggio 1838 lo condurrà alla morte.

[40] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 779.

[41] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 782-783. Corsivi di Heinrich.

[42] La Zerrissenheit (lo strazio, la lacerazione) è, all’epoca, un termine molto in voga.

[43] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 8-17.

[44] Eleanor Marx (1855-1898). Riguardo alla quale, e al suo amore ostacolato da Karl, vedi più avanti.

[45] La “lettera da Ems”, che non ho citato, è quella che Heinrich gli ha scritto alla fine di agosto (Marx-Engels, Opere, cit., pp 774-775). Che Karl affermi (a metà novembre!) di rispondere a essa (anche se frattanto ne ha ricevuta almeno un’altra) si spiega col fatto che la lettera del padre da Ems è, fra tutte, quella che meno ha il tono di una predica, la meno ricattatoria, l’unica che non si serve come di un’arma dell’amore di Karl per Jenny. Perciò il giovane la chiama “cara, carissima”: così, presentando la propria come una risposta a essa, può meglio sostenere l’orgogliosa parte dello sconfitto ma non domato.

[46] “Privo di speranza” non perché egli non fosse certo di essere ricambiato, ma poiché capiva quanto si opponevano alla “speranza” (di soddisfare il “desiderio” che lo “inebriava”) i suoi quattro anni meno di Jenny, i suoi diciotto contro i ventidue di lei: un’età che a quell’epoca, per una ragazza, era già a rischio di “zitellaggio”, mentre lui, Karl, per sposarla e provvedere a lei doveva ancora cominciare a costruirsi un futuro nella società.

[47] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 745.

[48] Nun durfte und sollte die Poesie nur Begleitung sein; ich mußte Jurisprudenz studieren und fühlte vor allem Drang, mit der Philosophie zu ringen.

[49] Il contrasto tra l’essere e il dover essere... Cioè, in fondo, tra la realtà e l’immaginazione? Ne riparleremo commentando la tesi di dottorato di Karl su Democrito ed Epicuro.

[50] Von dem Idealismus [...] geriet ich dazu, im Wirklichen selbst die Idee zu suchen. Hatten die Götter früher über der Erde gewohnt, so waren sie jetzt das Zentrum derselben geworden.

[51] Significativo, a questo proposito, un epigramma di Karl, di pochi mesi prima, il cui “protagonista” non può essere che Hegel:

“Parole insegno, mischiate in demoniaco ingranaggio confuso,

ognuno ne pensi poi ciò che gli piace pensare.

[...] Tutto infatti io vi dico, poiché un bel nulla vi ho detto!

Kant e Fichte volentieri verso l’etere volteggiano,

cercando là un paese lontano,

ma io cerco soltanto bravamente di comprendere

ciò che... per la strada ho trovato!” (Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 632).

[52] Ich hatte Fragmente der Hegelschen Philosophie gelesen, deren groteske Felsenmelodie mir nicht behagte. Noch einmal wollte ich hinabtauchen in das Meer, aber mit der bestimmten Absicht, die geistige Natur ebenso notwendig, konkret und festgerundet zu finden wie die körperliche, nicht mehr Fechterkünste zu üben, sondern die reine Perle ans Sonnenlicht zu halten. (Alla “perla” sembra riferirsi anche un brano dell’incompiuto “romanzo umoristico” Scorpione e Felice, scritto anch’esso nel 1837: “L’uomo [...] lotta con la vita vorticosa, si getta nel mare che si gonfia e col diritto di Prometeo ruba perle alle sue profondità; meravigliosamente gli si presenta davanti agli occhi l’interna struttura dell’idea, ed egli compie audaci creazioni [...]. Trovata la pietra filosofale, trovata!” (Marx-Engels, Opere, cit., p. 720).

[53] Hier vereinte sich einigermaßen Kunst und Wissen. Ma il dialogo, purtroppo, non ci è pervenuto.

[54] Della quale ho già parlato (nel testo e nella nota 39) a p. 17.

[55] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 785-791. I corsivi sono di Heinrich Marx.

[56] Il sonno della ragione genera mostri (El sueño de la razón produce monstruos) è un’acquaforte e acquatinta realizzata nel 1797 da Francisco Goya e facente parte di una serie di ottanta incisioni chiamata Los caprichos (I capricci) pubblicata nel 1799. Heinrich Marx, quarant’anni dopo, poteva certamente averne visto una riproduzione a stampa. La scena rappresenta un uomo addormentato mentre intorno a lui prendono forma sinistri uccelli notturni, inquietanti volti ghignanti e diabolici felini.

[57] Sono i giovani hegeliani. Che Heinrich adesso detesta, a differenza che in passato, poiché l’hegelismo sta cadendo in disgrazia, in Germania, e per la carriera di un giovane è ormai un ostacolo.

[58] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., p. 16.

[59] Che può non sembrare una sconfitta, se si considera che il Capitale, per non citare che l’opera più importante do Marx, è ancora oggi ― oggi più che mai, forse ― un testo imprescindibile per la comprensione del capitalismo. Ma che lo fu, invece, se è vero che Karl, a diciannove anni, avrebbe potuto “unire l’arte e la scienza”, “la realtà psichica e la realtà fisica, e imprimere una svolta epocale alla storia del pensiero.

[60] Massimo Fagioli, Bambino donna e trasformazione dell’uomo, 1980; 2013, Roma, L’Asino d’oro Editore, p. 119. Alle cui fondamentali considerazioni sul giovane Marx, che hanno ispirato la mia ricerca, doverosamente darò, concludendola, l’ultima parola.

[61] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 799-800.

[62] “Karl non era un bambino qualunque [...]. Dotato di una forza di volontà straordinaria, egli non tollerava la minima cotrarietà da parte dei compagni di giochi. «Le mie zie [cioè le sorelle di Karl] mi hanno raccontato spesso [chi parla è Eleanor Marx, quarta femmina dei sei figli che Karl e Jenny ebbero nei primi dodici anni di matrimonio] che egli era un terribile tiranno: le obbligava a correre a tutta forza sul monte Markus di Treviri e, quel che è peggio, pretendeva che mangiassero i dolci da lui confezionati con le mani sporche e con una pasta ancor più sporca. Ma esse sopportvano tutto con estrema docilità, poiché Karl, per premio, raccontava poi loro storie meravigliose»” (Heinz Frederick Peters, Jenny la rossa – una vita con Karl Marx, cit., p.22).

[63] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 801-803. Corsivo di Jenny.

[64] “Era profondamente attaccato al padre. Non si stancava mai di parlarne, e portava sempre su di sé un vecchio dagherrotipo con il suo ritratto. Lo ritrovammo dopo la sua morte in un taschino sul petto, insieme a una vecchia fotografia di mia madre e una di mia sorella Jenny. Engels li depose nella sua bara” (Eleanor Marx parla di suo padre, in Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. II, Gli anni dell’impegno – 1884-1898, Torino, Einaudi, 1980, pp 630-631).

[65] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, Vita famigliare – 1855-1883, Torino, Einaudi, 1977, p. 50).

[66] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 52-53.

[67] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 804-808. I corsivi, ove non diversamente specificato, sono miei.

[68] Edgar von Westphalen, fratello minore di Jenny, fu sempre un po’ un perdigiorno.

[69] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 817-819.

[70] Hegelingi era il soprannome ironico dato ai Giovani hegeliani da Heinrich Leo, loro avversario di estrema destra.

[71] Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 820-823. Corsivi di Jenny.

[72] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 158.

[73] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 24-26.

[74] Da una lettera dello stesso Karl a Joseph Weydemeyer datata 1° febbraio 1859. Citata da Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 24.

[75] Madre di Elizabeth e Jane Bennet, protagoniste di Orgoglio e pregiudizio (1813), di Jane Austen (1775-1817).

[76] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 24-26.

[77] Alfredo Sabetti, Nota introduttiva a Karl Marx, Democrito e Epicuro, Firenze, 1979, La Nuova Italia, p. VII.

[78] Karl Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, cit., pp 19-103. Citata d’ora in poi semplicemente come Differenza. Ma integrata, ogni qual volta mi son trovato in dubbio sulla perspicuità della traduzione, con quella di Alfredo Sabetti (vedi nota precedente) o con una mia personale traduzione dell’originale tedesco. I corsivi, salvo diversa indicazione, sono tutti dell’originale.

[79] Karl Marx, Differenza, cit., pp 24-25.

[80] Karl Marx, Differenza, cit., p. 30.

[81] Karl Marx, Differenza, cit., p. 32.

[82] Karl Marx, Differenza, cit., p. 32.

[83] Karl Marx, Differenza, cit., p. 33.

[84] Karl Marx, Differenza, cit., p. 33.

[85] Karl Marx, Differenza, cit., p. 34.

[86] Karl Marx, Differenza, cit., pp 34-35.

[87] Karl Marx, Differenza, cit., pp 35-36.

[88] Karl Marx, Differenza, cit., p. 36.

[89] Karl Marx, Differenza, cit., p. 37.

[90] Karl Marx, Differenza, cit., p. 37.

[91] Karl Marx, Differenza, cit., p. 42.

[92] Karl Marx, Differenza, cit., p. 44.

[93] Karl Marx, Differenza, cit., p. 45.

[94] Per il principio d’indeterminazione, enunciato dal fisico Werner Heisenberg (1901-1976, premio Nobel nel 1932, “è impossibile misurare contemporaneamente la posizione e la velocità (o l’impulso) di una particella. Poiché questo rende impossibile predire in modo assolutamente esatto la posizione di una particella, ne segue la necessità di servirsi a tal fine di previsioni di carattere statistico, nelle quali si tratta di prevedere non già la comparsa di un certo evento, bensì il grado di probabilità che esso abbia luogo. Secondo Heisenberg, ciò esclude che dietro le asserzioni statistiche della fisica quantistica si possa supporre un ordine naturale deterministico” (AA. VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 1982, p. 399) e “lascia pensare che le proprietà quantistiche siano radicalmente dipendenti dall’osservatore” (Amanda Gefter, Due intrusi nel mondo di Einstein, Milano, 2015, Raffaello Cortina, p. 485). Heisenberg, pertanto, “immagina che gli elettroni non esistano sempre, ma solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcosa d’altro. I «salti quantici» da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione all’altra. Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un luogo” (Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Milano, 2015, Adelphi, pp 26-27).

[95] Karl Marx, Differenza, cit., p. 57.

[96] Karl Marx, Differenza, cit., p. 58.

[97] Karl Marx, Differenza, cit., p. 59.

[98] “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo” Karl Marx, Tesi su Feuerbach, 1845, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere, vol. V, 1845-1846, Editori Riuniti, 1972, p. 5) Nota mia.

[99] Massimo Fagioli, Bambino donna e trasformazione dell’uomo, 1980, 2013, Roma, L’Asino d’oro Editore, pp 114-120. Corsivi dell’Autore.

[100] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 125-126.

[101] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 137-141.

[102] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 142-143.

[103] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 127-128.

[104] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 128.

[105] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 128.

[106] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 129-133.

[107] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 132.

[108] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 132-133.

[109] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 134-136. I corsivi sono di Eleanor.

[110] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 163.

[111] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 195.

[112] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 204-205.

[113] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 202.

[114] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., p. 203.

[115] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 205-208.

[116] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 208-210.

[117] Yvonne Kapp, Eleanor Marx, vol. I, cit., pp 209-210.

 

*

 

*

Torna in cima alla pagina     Home     Clicca qui per scaricare il testo in formato .pdf     Clicca qui per scaricare il testo in formato .doc