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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Anna dei miracoli

 

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Perché tra Helen e Anna c’è una intesa maggiore, ma nascosta, che con la madre?

La madre non dovrebbe essere un punto di riferimento per ogni ragazzo? (Igor, a.s. 2000-2001)

 

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Titolo: Anna dei miracoli

Titolo originale: The miracle worker

Regista: Arthur Penn (1922 - 2010)

Paese di produzione: U.S.A.

Anno di produzione: 1962

Attori principali: Anne Bancroft (Annie Sullivan), Patty Duke (Helen Keller), Victor Jory (Capitano Keller), Inga Swenson (Kate Keller), Andrew Prine (James Keller), Kathleen Comegys (Zia Ev).

Durata: 1h 46’

 

Il film

 

Basato su una vicenda realmente accaduta, e girato quando la più giovane delle due protagoniste era in vita, Anna dei miracoli è la storia del drammatico e straordinario rapporto tra una bambina sordomuta e cieca, Helen, vittima della rassegnazione (camuffata da affettuosa tolleranza) in cui i suoi l’hanno cresciuta, e l’infermiera Anna, che rifiuta di accettare l’idea che la piccola non abbia futuro e s’impegna in un combattimento durissimo contro i suoi genitori e contro la bambina stessa, che in cambio di un ruolo di piccola tiranna sembra essersi ormai adattata alla propria condizione.

Girato in un bianco e nero fortemente “contrastato”, aspro come il conflitto tra l’amore e il sapere di Anna e l’ignoranza e la misera affettività dei suoi avversari, reso tagliente come un bisturi da un montaggio che lo ha liberato da tutto ciò che poteva far velo alla spietatezza di tale conflitto, Anna dei miracoli (come dovrebbe fare ogni opera basata su vicende autentiche) realizza la creatività del regista proprio nel modo di raccontarla, la sua storia vera: senza concessioni al sentimentalismo (né nei dialoghi né nelle immagini) e quindi senza concedere agli spettatori alcuna possibilità di continuare a non vedere l’importanza di ogni gesto, ogni parola e ogni più lieve sfumatura tra la luce e l’ombra, nel determinare il successo o l’insuccesso, in certi momenti e in situazioni cruciali, del rapporto interumano.

 

Il regista

 

Arthur Penn

Il commento di Luigi Scialanca

 

“Dio forse non vuole che Helen diventi un essere normale” dice il capitano Keller, padre della bambina.

“Ma io sì!” ribatte Anna fieramente.

 

È in queste due battute il significato del film: nessun compromesso bipartisan è possibile ― mai lo è stato e mai lo sarà ― fra chi crede, come quel padre, che esistano situazioni disumane per “volontà di Dio” e chi, come Anna, sa che volere o non volere, far “miracoli” o pronunciare “condanne”, ogni situazione e ogni soluzione, dipendono a questo mondo soltanto da noi.

 

Nessun Dio ha “condannato” la piccola Helen al silenzio e nessun Dio può “salvarla”: solo l’ignoranza e l’anaffettività umana possono tramutare in una “condanna” la sua disabilità, e solo l’amore e il sapere umani possono restituirle, pur nella disabilità, la vita e il futuro pienamente umani che le spettano per un diritto assoluto, anch’esso umano, che solo l’odio ― di altri umani ― può annullare o negare.

 

Anna ha il sapere e il saper fare: per tutta la vita ha lottato per averli e sa molto bene quanto valgano e possano. Ma Anna sa anche, a differenza del dottor Itard di Truffaut ― o non lo sa, che forse è meglio, ma agisce come se lo sapesse ― che sapienza e competenza, senza amore, son peggio che impotenti: sono strumenti, potentissimi, di distruzione.

 

“Vuol bene alla bambina?” domanda il capitano Keller ad Anna con l’aria di dubitarne.

“E lei?” ribatte la ragazza al fiero militare sudista, convinto di essere un uomo tollerante perché accetta di non poter dimenticare, dinanzi a una donna del Nord, che “lassù le donne sono persone”.

 

Sì, Anna vuol bene alla bambina. Gliene vuole più di ogni altro, più dei genitori e del fratello, più ― in un certo senso ― di quanto se ne voglia la bambina stessa: non c’è alcun nesso ― non c’è mai stato e non ci sarà mai ― tra amore e parentela. A volte i parenti si amano e a volte no, a volte gli estranei si amano e a volte no: esser parenti o estranei non influisce in alcun modo sui sentimenti umani, il cosiddetto “sangue” ― quanto a questo ― è proprio acqua. Con la capacità di amare si nasce, tutti; vivendo si deve lottare per non perderla ― i flashback sull’infanzia di Anna raccontano la sua, di lotta, e che lei è riuscita a rimanere umana pur attraverso terribili sofferenze, ma non ci dicono come abbia fatto ― e quando poi, un giorno, ci si ritrova ad averne tanta o poca o nessuna, ciò non ha niente a che fare con l’esser padri, madri, fratelli, sorelle o sconosciuti incontrati per caso. Mentre ha tutto a che vedere, invece, con chi e come si è diventati nel tempo: con chi e come si è arrivati a essere , e in quel momento.

 

Per questo Anna viaggia, prima di arrivare da Helen: per far sì che noi ci si accorga che lei, quando arriva da Helen, la ama già, la ama da prima di conoscerla. Com’è possibile? Come si può amare qualcuno che non è nostro parente, che per noi ― come ammonisce un terribile modo di dire ― non è nessuno, che addirittura ci è del tutto sconosciuto? Eppure è così: Anna, che nei confronti dei bambini disabili ha il sapere e il saper fare e sa bene quanto valgano e possano, non col sapere e il saper fare va incontro per la prima volta a quella bambina sconosciuta, ma “solo” sentendo di volerle già bene ― può farci niente: è così che lei è rimasta, rimanendo umana ― e portandole una bambola. Una bambola che è di Anna da anni, ma che negli anni è rimasta di Anna perché all’occorrenza sia di Helen. E l’occorrenza è arrivata. Ripeto la domanda: com’è possibile? Come si può amare qualcuno che non è nostro parente, che per noi non è nessuno, che ci è del tutto sconosciuto? Quando si tratta, come in questo caso, di bambini ― ma chissà: forse sempre, di chiunque si tratti ― io penso che l’amore abbia qualcosa a che vedere col ricordo: li amiamo prim’ancora di conoscerli solo se “ricordiamo” di esserlo stati anche noi. Ci amiamo, tutti, e in un certo senso per forza, solo se “ricordiamo” di essere (o perfino essere stati) umani anche noi.

 

“Non si può fare nulla per disseppellire quest’anima? (...)” legge Anna nel libro che le è caro. “Se fosse una donna sepolta dal crollo di una scarpata, tutto il vicinato accorrerebbe a salvarla, e scaverebbe giorno e notte, con ogni mezzo, per tirarla fuori di lì!...” Sì, il vicinato lo farebbe, certo. Ed è proprio in questa parola, vicinato, che la verità dell’amore è racchiusa: i vicini ci amano davvero, non i parenti.

 

“L’insegnante riesce a far passare la ribelle Helen dallo stato animale a quello umano, e a fare di lei sua figlia, nel senso più profondo della parola”, scrivono Laura, Luisa e Morando Morandini. E non potrebbero scrivere niente di più insensato, su Anna dei miracoli, sugli umani e sugli animali. Se la condizione di Helen fosse quella di un animale non umano, infatti, o se Anna davvero lo pensasse, ella non potrebbe fare per la bambina alcunché e sarebbe matta se credesse di poterlo: ché solo un matto crederebbe di avere il magico potere di rendere umani gli animali! E quanto alla “figlia”, cosa c’è di più evidente, in questo film, del fatto ― di cui non si può parlare, si sa, o sono guai, ma di cui Anna dei miracoli si permette di parlare lo stesso ― che ogni speranza e possibilità di vero aiuto, a questo mondo, è fuori dalla famiglia, talora contro la famiglia, e fuori e contro tutte le istituzioni? Cosa c’è di più evidente, in questo film e in ogni buon senso, che la Società umana sopravvive e rimane umana perché e finché continuerà a schierare, contro la famiglia e le istituzioni, sé stessa e i propri incontrollabili affetti?

 

Chi ama come ama Anna, può non esser facile guardarlo negli occhi, sostenerne lo sguardo.

 

“Perché ha gli occhiali scuri? La gente, mi piace guardarla negli occhi!” dice il padre di Helen a Anna.

“Qualsiasi luce mi fa male agli occhi...” risponde la ragazza, fissandolo. Ed egli capisce (o almeno è ciò che gli auguriamo) che nemmeno lui sopporta le “luci” che sono gli occhi di lei, e che lei ― senza saperlo, forse ― porta gli occhiali scuri per proteggere i propri occhi, certo, ma anche i suoi.

 

Proteggerli da che cosa? Sarebbe facile rispondere: dalla luce della verità, o dell’amore, o qualche luogo comune del genere. Invece è ben altro: è che dalle persone come Anna ci si deve davvero proteggere fisicamente. La forza che Anna ha serbato intatta, o quasi, è quella che noi da tutta la vita conteniamo e indeboliamo, quando addirittura non la umiliamo: come abbracciare una donna così senza restarne fulminati? Ecco perché distoglie lo sguardo, Anna, quando il fratello di Helen la guarda e le parla come se si stesse innamorando: sa o sente che lui non la reggerebbe nella realtà, sa o sente che a lui farebbe male toccare davvero una donna come lei. Lo stesso rischio che corre la piccola Helen, certo, ma che Anna non può risparmiarle più di quanto un medico può risparmiare a un malato il solo farmaco che può salvargli la vita, ma i cui effetti collaterali potrebbero allo stesso tempo stroncarla.

 

“Cosa vuole? Certe volte non si può farle fare le cose per forza...” dice la mamma di Helen ad Anna.

“Già... Ma vede: anch’io sono fatta così!” risponde la giovane donna alla più anziana.

 

Anna è fatta così, dice Anna. E tutti lo siamo, tutti siamo fatti così dall’evoluzione che ci ha fatti: dotati della forza irresistibile che è l’amore di noi umani per gli umani a noi vicini, per gli umani simili a noi, o per gli umani dei quali riusciamo almeno ad accorgerci che son proprio come noi quando eravamo umani. La cosiddetta “durezza” di Anna, quella “durezza” che i genitori di Helen non sopportano (e neanche Helen, per quasi tutto il film) niente ha a che fare con la pedagogica severità del sadismo, quando non dell’odio antiumano, dei pedagoghi anaffettivi. Anna non “impartisce lezioni” e non applica “metodi”, duri o non duri che siano ― a parte ovviamente il metodo d’insegnamento del linguaggio per i sordomuti, metodo che però, da solo, non è che tecnica e come tutte le tecniche a niente serve: la “durezza” di Anna è la naturale “durezza” degli esseri intatti, la naturale “durezza” che chi non è più quello che poteva seguitare a realizzarsi dovunque ciò lo portasse sente in chi ancora lo può. E per noi, che di Anna dei miracoli siamo solo gli spettatori ― ma che la sua “durezza” sentiamo, visto che ne siamo così coinvolti pur essendone “fuori” ― è la naturale “durezza” dell’intuizione con cui Anna dei miracoli ci “trafigge”: l’intuizione che non c’è ― e non c’è mai stata, e non ci sarà mai ― un’epoca della storia che non abbia da trovar fra gli umani un’Anna, essendo lei una Helen; e che, non trovandola, non viva invano.

 

E per finire, un po’ per scherzo e un po’ sul serio...

 

Quattro “semplici” Regole per far miracoli

 

I “miracoli” umani ― gli unici possibili ― sono il risultato, innanzi tutto, di un’affettività assolutamente incomprimibile: se volete operare un miracolo, non ci dev’essere alcuna possibilità che riusciate ad anestetizzarvi al dolore che la situazione da miracolare vi infliggerà se la sentite davvero (e le situazioni che han bisogno di miracoli, in genere, son di quelle che di dolore ne infliggono parecchio...).

 

In secondo luogo, è necessaria l’intelligenza per avere delle idee sensate, su come risolvere la situazione a cui occorre il vostro “miracolo”; e, con l’intelligenza, anche la passione con cui le avrete provate e riprovate per anni, le vostre idee, e con cui ci avrete riflettuto per altrettanto tempo senza pensare ad altro, prima che qualche “miracolo” ( ma anche uno sarebbe già un colpaccio!) finalmente si verifichi.

 

In terzo luogo ci vuole il coraggio di restar soli; e di subire i più violenti attacchi da tutti quelli che scopriranno di non avere altrettanto amore né altrettanta intelligenza né altrettanta testardaggine.

 

In quarto (e ultimo?) luogo, è indispensabile la cattiveria senza la quale è impossibile infliggere a chi ha bisogno di “miracoli” (e che in genere, per questa sua situazione e per la nauseabonda “bontà” che ha dovuto subire, è diventato anch’egli un bel po’ “cattivo” per conto proprio) le sofferenze che i “miracoli” umani arrecano; e, con la cattiveria, anche quel po’ di indifferenza che vi servirà a resistere al senso di colpa che di sicuro vi verrà, quando tutti vi accuseranno di essere stupidi, matti e cattivi.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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