ScuolAnticoli

Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Romeo e Giulietta

 

Home     Torna all’indice generale dei film

 

 

Clicca qui per scaricare la scheda in formato pdf

Clicca qui per scaricare la scheda in formato Word

 

Titolo: Romeo e Giulietta.

Autore della tragedia (1595): William Shakespeare.

Regista: Franco Zeffirelli.

Paesi di produzione: Italia e Gran Bretagna.

Anno di produzione: 1968

Attori principali: Leonard Whiting (Romeo), Olivia Hussey (Giulietta), John McEnery (Mercuzio), Milo O’Shea (Frate Lorenzo), Pat Heywood (La Balia), Robert Stephens (Il principe), Michael York (Tebaldo), Bruce Robinson (Benvolio), Paul Hardwick (Capuleti), Natasha Parry (Madonna Capuleti), Antonio Pierfederici (Montecchi), Esmeralda Ruspoli (Madonna Montecchi).

Durata: 2h 18’.

 

Lo scrittore

William Shakespeare

 

Il regista

Franco Zeffirelli

 

Il film

 

Mille volte i Montecchi e i Capuleti, “due famiglie di uguale nobiltà”, hanno versato gli uni il sangue degli altri, contendendosi brutalmente il potere affinché “nella bella Verona” non si possa neanche immaginare che Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, giovanissimi e unici eredi di così acerrimi nemici, un giorno s’incontrino e s’innamorino senza sapere chi siano, senza domandarsi il nome e il cognome, ignari d’essere stati condannati a odiarsi ancor prima di venire al mondo...

 

Eppure è accaduto.

 

Ma è un amore tragico, poiché tutti sono contro di loro: i genitori, che badano solo ai propri interessi; i fratelli e gli amici, malvagi o sciocchi o impotenti; il principe, incapace di tenere a freno le avverse fazioni e di guarire la comunità dall’odio; e frate Lorenzo, il peggiore di tutti, i cui tentativi di far del bene, per chissà quale avverso sortilegio, causano invece dolore e disperazione. Finché gli innamorati, sconfitti, muoiono, mentre gli altri, benché disumani e infelici, vincono e sopravvivono.

 

La tragedia di Romeo e Giulietta è una delle opere di William Shakespeare più conosciute e dolorosamente amate. Franco Zeffirelli ne trae un film senza dubbio notevole per il ritmo appassionato, per la struggente colonna sonora di Nino Rota e per la perfetta trasposizione della vicenda dall’angusto “recinto” del palcoscenico agli spazi aperti della città medioevale, ma nondimeno sottilmente “disonesto” nei confronti dell’opera: servendosi dei “presentimenti” di Romeo, l’unico che senta profondamente l’odio di Verona e che lo tema (“Ho fatto un sogno, questa notte! [...] il mio cuore predice un triste avvenimento, ancora sospeso nelle stelle: questa notte, durante la festa, avrà un tremendo inizio...” [I, IV]) per far di lui un “portatore di morte” fatale a sé stesso e a chi lo ama; attenuando le gravi responsabilità di Mercuzio ― che a ruota libera “parla di nulla” (come dice Romeo [I, IV]) per impedire a chicchessia di parlar di qualcosa davvero ― e quelle ancor più gravi di frate Lorenzo (Zeffirelli, come il Principe, lo assolve a priori: “Noi ti abbiamo sempre ritenuto un santo” [V, III]); e, quel ch’è peggio, annullando l’intelligenza e la sapienza di Giulietta (tranne che nella seconda scena del balcone, “blindata” da Shakespeare in modo che tradirne il senso risulti impossibile) per non lasciarle che la giovinezza e la bellezza. Le quali, per quanto straordinarie, da sole non spiegano l’odio collettivo da cui anche lei è colpita: ché la Giulietta di Shakespeare è quasi un’Ipazia, e chi lo “dimentica”, invece, è della stirpe di frate Lorenzo.

 

Meno male che in parte rimediano agli “errori” di Zeffirelli i due giovanissimi interpreti, inesperti ma molto bravi, che a dispetto della superficialità loro imposta dalla sceneggiatura riescono a contrapporre alla stolida rozzezza di ogni faccia nemica una bellezza in cui ben più che la semplice perfezione dei lineamenti esprime le “ragioni” dell’odio che travolge l’amore e le vite di Romeo e Giulietta.

Il commento di Luigi Scialanca

 

Come se non avessero ognuno la propria storia e non si fossero in essa già in parte realizzati, come se nascessero solo allora, quando per la prima volta si vedono e l’un l’altra s’illuminano di luce umana1, sembra che Amore in persona, l’antica divinità, faccia innamorare Giulietta di Romeo e Romeo di Giulietta; e che essi non possano fare per impedirlo più di quel che poterono fare per nascere in un altro luogo, in una famiglia e in una città rimaste umane, anziché tra individui che vivono come lupi in una foresta buia: Romeo e Giulietta s’innamorano sconosciuti, nulla sapendo l’uno dell’altra, e solo quando niente può più separarli senza ucciderli scoprono chi sono e in quale guaio l’amore li ha cacciati. Poiché in amore non c’è pretesa di scegliere che tenga: non si esamina, non si valuta, non si ragiona né tanto meno si decide, e chi lo fa non ama, ma mente e finge. Nella migliore delle ipotesi, anche con sé stesso.

 

È quel che non sa più il vecchio Capuleti, il padre di Giulietta, che invita il conte Paride alla festa invitandolo a “parlare con tutte, guardarle tutte, e amare quella che, per le sue doti, gli sembrerà che valga più delle altre” (Romeo e Giulietta, traduzione italiana di Salvatore Quasimodo, atto I, scena II). Poiché Capuleti non parla d’amore, ma d’affari; e Paride, che è come lui, mai amerà né sarà amato.

 

Ma anche Romeo crede di poter comandare all’amore con la ragione: “Fammi vedere una donna che sia bellissima fra le altre” dice al cugino Benvolio, “e la sua bellezza non sarà altro per me che una pagina dove leggerò di quella che supera tutte per bellezza” (Romeo e Giulietta, I, I). Perfino Giulietta: “Guarderò, se il guardare spinge ad amare” promette alla madre; “ma non lascerò che il mio occhio si abbandoni più di quanto il vostro consenso gli darà forza di farlo” (I, III).

 

Entrambi ignorano, per non averlo mai provato ― e i vecchi perché non se ne ricordano; “ma i vecchi” dice Giulietta, “molte volte paiono già morti: incerti, lenti, pesanti e lividi come il piombo” (II, V) ― che non c’è vero amore che non sia fulmineo e invincibile. È stupido, oltre che cinico, prendere in giro Romeo per la rapidità con cui dimentica quella Rosalina che credeva di amare come un pazzo (lo deride per primo Mercuzio, dando il là a un coro di sbeffeggiatori della cosiddetta “volubilità giovanile” che non si è mai più azzittito: “Romeo! Capriccioso! Pazzo! Amante furioso!”, II, I; e Romeo: “Chi non ha mai avuto una ferita, ride di chi ne porta i segni”, II, II): Romeo la “scorda” all’istante non per leggerezza ma perché niente può impedirglielo, se colei che in quell’attimo per la prima volta vede è la ragazza di cui non importa il nome: “Come colomba bianca in una lunga fila di cornacchie sembra la fanciulla fra le sue compagne. [...] Ha amato mai il mio cuore? Negate, occhi: prima di questa notte non ho mai veduto la bellezza” (I, V). Romeo un incostante, un fatuo, un “innamorato dell’amore”? Ma se “Verona è orgogliosa di lui perché è un giovane virtuoso e bene educato” (I, V)! Lo dice un testimone non sospetto, il vecchio Capuleti che lo odia; e dev’esser vero, se a modo suo lo conferma perfino quella belva di Tebaldo: “La sua presenza, che ora può sembrare dolce, diverrà amarissimo fiele” (I, V) sibila, mentre Romeo si presenta a Giulietta tendendole la mano: poiché intuisce, Tebaldo, che sotto i suoi occhi sta nascendo quel che in un istante ― nell’istante in cui nasce ed è già irresistibile ― non può non sovvertire qualsiasi Società il cui primo scopo sia quello di rendere impossibile a tutti un amore vero.

 

È così anche per Giulietta, e anche più che per Romeo: “O sconosciuto, troppo presto visto e troppo tardi conosciuto! O sovrumana forza d’amore, tu mi fai amare il nemico che odiavo” (I, V). “Ogni mia gioia è in te [...]; improvviso, inaspettato, rapido, troppo simile al lampo che finisce prima che si dica «lampeggia»” (II, II). Così è amore, e non è amore ciò che così non è: potere a cui niente può opporsi, neanche il tempo, cui l’amore occorre assai di più di quanto all’amore occorra il tempo. Tutto è nell’amore e l’amore è tutto, dice il Coro: è “la passione [che ha] la forza, il tempo, i mezzi e il modo” (II, prologo).

 

Purtroppo, spiega Shakespeare, l’amore è irresistibile solo per gli innamorati; sugli altri, e sulla Società che gli altri talvolta fanno contro di esso, l’amore non ha che il potere, per loro inammissibile e intollerabile, di mandarli in pezzi fin dal suo apparire. E di conseguenza è per difendere sé stessa che la Società degli adulti anaffettivi, pieni d’odio e di violenza, esercita un’assoluta supremazia sui giovani e su tutti quelli che, anche da grandi o da vecchi, non pèrdono la capacità d’innamorarsi, di desiderare, di accendersi di passione per un altro essere umano o magari per un’idea generosa e geniale.

 

Non solo: così totale, dice Shakespeare, è il dominio di Verona sull’amore che essa odia, che non c’è “fortuna” che possa contrastarlo. Tant’è vero che nella tragica vicenda di Giulietta e Romeo i “casi” e le “coincidenze” ― deus ex machina insolitamente funesto ― anziché a realizzarne il sogno d’amore conducono entrambi alla morte proprio quando senza di essi si sarebbero forse salvati. Ma è perché la “fortuna”, la “sorte”, il “destino”, il deus ex machina, in realtà non esistono: sono i nomi che per paura o stupidità diamo all’agire segreto degli insospettabili individui che si fingono avversari della Società dell’odio per impedire ai giovani di ritrovare nell’amore l’immaginazione e il pensiero e il coraggio che la sconfiggerebbero davvero: come i criminali, grotteschi sortilegi e sotterfugi di frate Lorenzo, pieno di quelle “virtù” cristiane che quando gli affetti e l’intelligenza umani non son più intatti, quando non c’è umana conoscenza né metodo scientifico, possono solo voler perdere quelli che credono di voler aiutare.

 

Così è l’amore, secondo Shakespeare, nella Verona che lo odia. Ma Giulietta, a Romeo, insegna invece come potrebbe essere in una Società rimasta umana. Poiché Giulietta è superiore a lui in quasi tutto, benché Romeo non l’ami certo meno di quanto è amato: pensa più di lui, capisce più di lui e più di lui sa cos’è l’amore. Pensa e capisce e sa, soprattutto, che a Verona è impossibile amare perché non si rinnegano i padri e, con loro, tutto il “pensiero”, le ideologie e le fedi che i loro nomi racchiudono: “O Romeo! Romeo! Perché tu sei Romeo? Rinnega dunque tuo padre e rifiuta quel nome, o se non vuoi, légati al mio amore e più non sarò una Capuleti2 [...] Solo il tuo nome è mio nemico: tu, sei tu, anche se non fossi uno dei Montecchi. Che cosa vuol dire Montecchi? Né mano, non piede, né braccio, né viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome! Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo. Anche Romeo senza più il suo nome sarebbe caro, com’è, e così perfetto. Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per il nome, che non è parte di te, prendi me stessa” (II, II).

 

Rinuncia a tutto ciò che hanno accumulato su di te, contro di te, dal giorno in cui sei nato: rinuncia, Romeo, al disumano che ti è stato imposto! Poiché Giulietta è filosofa, Giulietta pensa, e proprio questa intatta capacità è il bersaglio dell’odio che si scatena contro di lei. E come sa che non si ama se non ci si separa dai padri, sa che non si ama se non ci si separa l’una dall’altro: “Buona notte, amore! Questo germoglio d’amore che si apre al mite vento dell’estate sarà uno splendido fiore quando ci rivedremo ancora” (II, II). Ma, da sapiente vera, quel che sa non sa imporlo, non ne è capace, e alla separazione, benché sappia che li farà amare di più, lei stessa contro il proprio sapere si oppone con quegli indimenticabili, infiniti ritorni al balcone che solo uno Shakespeare poteva immaginare di donarle.

 

Così sapiente è Giulietta ancora, nei suoi quattordici anni, che perfino il padre glielo deve riconoscere: “Ehi, sofista!” le dice, mentre le dà della “carogna anemica”, della “puttana” e della “faccia di sego” (III, V). Perfino frate Lorenzo la chiama “pensierosa fanciulla” (IV, I). Mentre Romeo non è proprio alla sua altezza, in ciò ― benché lo sia nell’amarla ― e quando tenta anche lui di “filosofare” sull’amore, i suoi scarsi esiti lo confermano: “Amore va verso amore come i ragazzi fuggono dai libri; ma amore lascia amore con la malinconia dei ragazzi quando vanno a scuola” (II, II).

 

Così sapiente è Giulietta, a quattordici anni non ancora compiuti, che “sa” che la razionalità maschile le è nemica perfino in Romeo ― anzi: è nemica di entrambi e del loro amore, è la “quinta colonna”, nel suo Romeo, della Società che li odia ― e che lei deve sconfiggerla anche in lui, perché abbiano una possibilità di salvarsi. Ma non del tutto, non al punto (cioè) che un Romeo senza più ragione non sappia più difendersi anche con essa da chi l’arrovella contro di loro: l’usignolo della notte ― della verità umana ― deve averla vinta sull’allodola del giorno ― della dura realtà; ma poi dargliela vinta, anche, quando dell’allodola avrà smascherato le “dissonanze”, gli “aspri acuti” e i “ripugnanti occhi da rospo” (III, V):

 

giulietta

“Vuoi andare già via? Ancora è lontano il giorno:

non era l’allodola, era l’usignolo

che trafisse il tuo orecchio timoroso:

canta ogni notte laggiù dal melograno;

credimi, amore, era l’usignolo.

 

romeo

Era l’allodola, messaggera dell’alba,

non l’usignolo. Guarda, amore, la luce invidiosa

a strisce orla le nubi che si sciolgono a oriente;

le candele della notte non ardono più e il giorno

in punta di piedi si sporge felice dalle cime

nebbiose dei monti. Devo andare: è la vita,

o restare e morire.

 

giulietta

Quel chiarore laggiù

non è la luce del giorno, lo so: è una meteora

che si libera per te dal sole questa notte,

la torcia per farti lume sulla via di Mantova;

dunque rimani ancora, c’è tempo per andare.

 

romeo

Mi prendano pure, sarà certo la morte,

ma sono felice se tu vuoi così. E dirò, allora,

che là, quel grigio non è l’occhio del mattino

ma il fioco riverbero della fronte di Cinzia;

che non è l’allodola a battere la volta

del cielo, così alta su di noi. Io voglio restare,

non voglio più partire: vieni, o morte,

sarai la benvenuta! Vuole così Giulietta.

Che c’è, anima mia? Parliamo, non è giorno.

 

giulietta

È giorno, è giorno: dunque, presto, va’ via!

È l’allodola che canta fuori tono

forzando su dissonanze e aspri acuti.

Dicono che l’allodola divida con dolcezza

ogni accordo: questa non ci divide con dolcezza;

e ancora, che l’allodola e il rospo ripugnante

abbiano scambiato i loro occhi:

così avessero fatto anche della voce,

poi che quella voce lotta il nostro abbraccio,

perché ti caccia da me, col suo richiamo al giorno.

Oh, va’, ora, va’; si fa sempre più luce”

 

Ma contro una Società fondata sull’odio nemmeno la sapienza di Giulietta può farcela, se le manca il sapere che il matrimonio stesso è strumento di quell’odio e della sua pretesa che l’amore vero (che è solo umano, gli altri animali non unendosi che per inconsapevoli calcoli) sia un che di bestiale da “purificare” e “santificare” sottomettendolo al nulla che purificatori e santificatori chiamano Dio. Questo, neanche Giulietta lo sa, e tanto meno lo sa Romeo. E lei per prima, quindi, mette fra l’amore e loro il “rito” che, per mente e per mano di frate Lorenzo, condurrà alla morte il loro amore e loro: “Se questo tuo amore è onesto e mi vuoi come sposa, domani mandami a dire, da chi verrà da te, dove e in che giorno compiremo il rito: avrai allora ai tuoi piedi la mia sorte, mio signore, e verrò con te in tutto il mondo” (II, II). Così l’idea delirante, che debba esserci matrimonio perché ci sia l’amore, tramuta ― malvagio incantesimo ― quel che soprattutto è umano, l’amore, in quel che non lo è se il matrimonio non lo rende tale: facendo di un tutto un niente, e delirando poi che sarà il nulla a far di quel niente un qualcosa.

 

Più che con le spade, Verona uccide con le “grandi” idee, come quella del matrimonio, e con le volgari ideuzze con cui i genitori di Giulietta (e la “buona”, stupida nutrice) “giustificano” i propri sordidi interessi e li ricoprono di ragionevolezza3. E le idee, non avendo spade, uccidono con i propri sgherri: con gli “intellettuali”, cioè, e soprattutto con i preti: con il “buon” Mercuzio, e con il “santo” Lorenzo.

 

Quando Romeo, tra le braccia di Giulietta, le “ubbidisce” fino a scambiar l’allodola per l’usignolo, la mostruosa Società dei Capuleti-Montecchi è a un passo dalla fine. Ma è tardi: c’è già stato il matrimonio, e ha reso a Verona il tempo e la forza che bastano perché Mercuzio, vuoto parolaio, “intellettuale” “diverso” e “oppositore” a chiacchiere della città dell’odio, chiuda di nuovo Romeo tra le sue mura: Mercuzio che lo incontra “usignolo” (il Romeo che dice a Tebaldo: “Ti voglio bene più di quanto tu possa immaginare”) e sùbito, ferocemente attaccandolo (“Che fredda, disonorevole e vile sottomissione!”), s’immola al rabbioso Capuleti purché Romeo torni “allodola” e nemico del suo stesso amore: “O dolce Giulietta, la tua bellezza mi ha reso effeminato e ha indebolito la tempra d’acciaio del mio coraggio. [...] Torna al cielo, o prudente dolcezza; e tu ora guidami, o furia dall’occhio di fuoco” (III, I).

 

Ma di Mercuzio non è da meno frate Lorenzo. Frate Lorenzo, “saggio senza occhi” (III, III) in cui neanche l’intatta umanità di Giulietta può incrinare l’odio religioso che nell’essere umano gli fa vedere mostri: “Come nelle erbe, così nell’uomo stanno accampati due re nemici: la grazia e la volontà spietata. E quella pianta dove predomina la peggiore di tali forze, è presto divorata dal cancro della morte” (II, III). Frate Lorenzo, che tra gli umani mostri da tenere sotto controllo annovera perfino l’amore: “Amatevi, dunque, con misura; così l’amore durerà più a lungo” (II, VI). Frate Lorenzo, che odia la donna al punto di chiamare “mostro”, nell’uomo, quel che c’è in lui di lei: “Sei un uomo? L’apparenza lo afferma, ma le tue sono le lacrime di una donnetta! [...] O donna che ti nascondi nell’aspetto d’un uomo, o, meglio, mostruoso animale che sei l’uno e l’altra insieme!” (III, III). Ecco: questo frate Lorenzo intravede la possibilità di servirsi dei due innamorati per accreditarsi come il “salvatore” e il padrone di Verona: “Il matrimonio potrebbe far mutare in sincero amore l’odio delle vostre famiglie” (II, III). E poi, quando il suo delirio d’onnipotenza va in fumo e si rende conto che Giulietta non potrà sottrarsi alle nozze con Paride se non rivelando che lui, frate Lorenzo, l’ha già data in moglie a Romeo senza il consenso delle famiglie (“Così non conoscessi la ragione per la quale bisognerebbe rallentare questa fretta [IV, I]) chi, allora, se non questo frate Lorenzo, per liberarsi degli unici testimoni del suo misfatto, escogiterà il piano criminale di assassinare Giulietta avvelenandola e Romeo inducendolo così al suicidio?

 

Certo: Shakespeare non può scrivere, nel 1595, ciò che ancora nel 2013 non possiamo dire senza correre qualche rischio. Ed escogita, perciò, il micidiale equivoco che “salva” frate Lorenzo facendo morire Giulietta e Romeo l’una per amore dell’altro. Ma quel che non può scrivere lo fa dire a Giulietta, e anche lui, Shakespeare ― possiamo esserne certi ― sarebbe stato felice che credessimo più a lei:

 

“E se fosse un veleno che il frate avesse preparato con astuzia per farmi morire, piuttosto che aver disonore da queste nozze perché proprio lui mi aveva già unita con Romeo? Temo che sia così, ma credo poi che non sia possibile perché egli è stimato come un santo” (IV, III; corsivi miei).

 

Chi vola più vicino al vero? L’usignolo che teme o l’allodola che ha fede?

 

 

Per il vero amore non c’è dunque speranza? Gli unici rapporti umani con qualche probabilità di durare son dunque quelli che si basano sull’interesse o, peggio, sul terrore dell’ignoto?

 

No, ragazzi. Shakespeare non dice questo. La tragedia di Romeo e Giulietta, come quelle che anche oggi coinvolgono e talora distruggono giovani vite, è un monito agli adulti affinché comprendano quanto grande è il potere su di voi (positivo o negativo) del modo in cui essi realizzano e conducono i rapporti reciproci, pubblici o privati che siano. E al contempo è un monito ai giovani affinché capiscano che tutto ciò che replicheranno e ripeteranno (dei modi sbagliati di rapportarsi di chi ha più anni di loro) non potrà che condurli a commettere i loro stessi errori e a trovarvi la loro stessa rovina.

 

(Dove, invece, non possiamo esser d’accordo con Shakespeare è quando sembra credere che la morte di Romeo e Giulietta renderà migliori le loro mostruose famiglie e la disumanizzata Verona: “Da questi nemici discendono i due amanti, che, nati sotto contraria stella, dopo pietose vicende, con la loro morte annientarono l’odio di parte” [Prologo]. Ma non è così: nessuna giovane morte ha mai reso il mondo più umano, solo la pienezza della vita e il pieno successo dell’umanità che nei giovani è intatta può farlo).


 

[1] Romeo: “Dammi una torcia, non ho voglia di ballare, mi sento pesante e porterò la luce che è leggera” (Romeo e Giulietta, traduzione italiana di Salvatore Quasimodo, I, IV). Giulietta: “Ogni mia gioia è in te [...]; improvviso, inaspettato, rapido, troppo simile al lampo che finisce prima che si dica «lampeggia»” (II, II). Ancora Giulietta: “Agli amanti basta la loro bellezza come luce nei convegni d’amore; [...] O Romeo, vieni, tu, giorno nella notte” (III, II).

 

[2] E Romeo, allievo diligente, impara: “Oh, ditemi, padre” dirà a frate Lorenzo, “ditemi in quale parte miserabile di questo corpo è chiuso il mio nome! Ditemelo perché io possa saccheggiare quel luogo odioso” (III, III).

 

[3]  Il vecchio Capuleti ha pur chiesto al conte Paride, “prima che Giulietta sia matura per le nozze”, di lasciare “che l’estate inaridisca ancora per due volte nelle sue fiamme” (I, II). Ma dopo la morte di Tebaldo, suo unico erede, urge rimpiazzarlo (e chi meglio di Paride?) nonché approfittare del lutto ― perché no? ― per spendere il meno possibile per le nozze (“una mezza dozzina di amici e non più” [III, IV]). E quindi via: “Mercoledì è troppo presto? Facciamo giovedì!” E come lui sua moglie: “Piangi ancora la morte di tuo cugino? Credi di poterlo strappare alla tomba con le lacrime? E se anche tu potessi strapparlo di là, non potresti ridargli la vita. Basta, dunque: un dolore ragionevole è segno di molto affetto, ma un dolore esagerato indica mancanza di saggezza” (III, V). E con loro, purtroppo, anche la nutrice: “Romeo è bandito; e, scommetto tutto il mondo contro nulla, non tornerà più indietro a cercarvi o, se lo farà, lo dovrà fare segretamente. E dunque, stando così le cose, io penso sia meglio che sposiate il conte. Oh, egli è un adorabile gentiluomo! Romeo al suo confronto è uno straccio!” (III, V).

*

(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

*

 

*

Torna in cima alla pagina                    Home