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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Harvey

 

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Dopo tutto, Harvey è dentro ognuno di noi. Ma se lui, nel momento in cui dovrebbe esserci, non c’è, noi a chi dovremmo rivolgerci?

Il nostro Harvey lo abbiamo fin dalla nascita, oppure col passar del tempo si unisce a noi? (Cecilia, a.s. 2006-2007).

 

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Titolo: Harvey

Titolo originale: Harvey

Regista: Henry Koster (1905-1988)

Paese di produzione: U.S.A.

Anno di produzione: 1950

Attori principali: James Stewart (Elwood P. Dowd), Josephine Hull (Veta Louise Simmons), Peggy Dow (Miss Kelly), Charles Drake (Dr. Lyman Sanderson), Cecil Kellaway (Dr. Willie Chumley), Victoria Horne (Myrtle Mae Simmons), Jesse White (Marvin Wilson), William H. Lynn (Giudice Omar Gaffney), Wallace Ford (P.J. Lofgren, tassista), Nana Bryant (Mrs. Ethel Chumley), Grayce Mills (Mrs. Ethel Chauvenet), Clem Bevans (Herman Schimmelplusser).

Durata: 1h 44’

 

Il regista

 

Henry Koster

 

Il film

 

Elwood P. Dowd è un uomo che tutti considerano molto simpatico, affabile, generoso e intelligente. Un uomo, la cui compagnia è un piacere e una gioia. Un uomo, insomma, conoscere il quale è una fortuna e un privilegio: chiunque lo incontri, anche solo per qualche istante, arriva sùbito a pensarla così.

Ho detto chiunque?... Be’, in realtà un paio di persone non ne possono più, di lui: sua sorella Veta (la premurosa mamma di Myrtle Mae), un’anziana signora molto come si deve che Elwood mantiene, con tutte le comodità, in una bella casa; e sua nipote Myrtle Mae (la capricciosa e pudicissima figlia di Veta), una fanciulla non più in fiore che Elwood mantiene, con tutte le comodità, in quella stessa casa.

E volete sapere perché ce l’hanno con lui, quelle due campionesse di riconoscenza e gratitudine? Per una sciocchezza: pensano che Elwood P. Dowd, loro zio e fratello, sia matto. E sono stanche, le poverine, di vergognarsi di lui davanti alle loro sussiegose invitate e ai maturi giovanotti che, se non ci fosse Elwood, già da un pezzo avrebbero chiesto la ben conservata mano di Myrtle Mae.

E perché sarebbe matto, il povero Elwood P. Dowd, secondo loro? Solo perché ha un carissimo amico, Harvey, che non abbandona mai e presenta a tutti quelli che conosce. Solo perché Harvey è invisibile. Insomma: solo perché Harvey è un puka: un enorme coniglio bianco, invisibile, alto due metri.

E per una bagatella del genere (ma anche perché da qualche tempo hanno talvolta la sconcertante impressione di vedere Harvey anche loro) le due brave donne hanno deciso di rinchiudere il povero Elwood in manicomio... Vi pare giusto?

Il commento di Luigi Scialanca

 

Come vi dicevo, Elwood P. Dowd è creduto matto dalla sorella e dalla nipote (e da qualche altra persona altrettanto poco simpatica) perché dice a tutti di avere un amico invisibile: Harvey, un enorme coniglio bianco dal quale non si separa neanche per un attimo.

 

Ma è davvero matto, Elwood P. Dowd?

 

No, non lo è.

 

Non ne siete convinti? Abbiate la compiacenza di considerare i seguenti fatti:

 

1°. Se fosse matto chiunque ha un amico invisibile, allora lo saremmo quasi tutti. È vero o non è vero, infatti, che molti di noi, pensando tra sé e sé, usano rivolgersi a sé stessi come se parlassero con un’altra persona, si impartiscono dei buoni consigli, talvolta si rimproverano, e magari, di quando in quando, si danno anche (sempre mentalmente) un colpetto d’approvazione su una spalla? L’unica differenza, rispetto a Elwood, è che noi non lo diciamo a nessuno che consideriamo noi stessi (o, per meglio dire, la nostra immagine ideale di noi stessi) il migliore amico che abbiamo al mondo.

 

Ma soprattutto, se davvero fossero da considerare matti tutti gli amici di amici immaginari, vorrebbe dire che sono matti tutti i bambini. Chi di loro, infatti, non è fermamente convinto di avere un amico invisibile? Foss’anche solo Babbo Natale o il Bambin Gesù (cioè Harvey “presi a prestito”, e non di propria creazione) non c’è bambino che non ne abbia almeno uno. E se considerassimo matti i bambini, allora dovremmo dichiarare matta l’intera specie umana, la cui natura originaria (prima che alcuni, crescendo, diventino matti sul serio) è proprio quella che osserviamo nei piccoli della medesima.

 

Siamo disposti a definire matta l’intera Umanità per poter chiamare matto Elwood P. Dowd? Io no.

 

2°. Se fosse matto chiunque crede all’esistenza reale delle proprie fantasie, allora lo sarebbero anche tutti coloro che erano (e sono) così convinti di esse, da partire per il mondo e affrontare ogni sorta di peripezie pur di trovare i propri “Harvey”: come Cristoforo Colombo, per esempio, che andò in cerca dell’Asia dove l’Asia non era, non la trovò mai, e nonostante ciò scoprì l’America e passò alla Storia. O come Edward Jenner, che credeva così tanto nell’esistenza reale di una cura contro il vaiolo (invece di rassegnarsi, quello strano tipo, al fatto che ai malati non fosse somministrato nient’altro che l’estrema unzione) che tanto fece che la trovò e inventò i vaccini. O anche, per non volare troppo in alto, come chiunque sia così certo dell’esistenza reale della donna dei suoi sogni (o, se è una donna, dell’uomo dei suoi sogni) da andare a cercarla davvero, incontrarla, innamorarsene e sposarla.

 

Ben lungi dall’essere matti, quelli che credono alle proprie fantasie sono gli esseri umani che non hanno rinunciato a essere umani. E chi ci crede più degli altri è chi prima o poi dona all’Umanità qualcosa di buono e di bello. (O, lo ammetto, le infligge qualcosa di malvagio e orribile se le sue fantasie, con l’andar del tempo, delle delusioni e dei cattivi pensieri, hanno preso una brutta piega).

 

3°. Se Elwood P. Dowd è matto, come riesce a farsi benvolere da tutti, mentre sua sorella Veta e sua nipote Myrtle Mae, le “brave” signore “normali”, non son simpatiche a nessuno (tranne che al giudice Gaffney, che per tutta ricompensa trattano come uno schiavo) e stanno per mettere in manicomio l’unica persona al mondo che vuole loro bene? Come riesce a guarire il dottor Sanderson, il “bravo” psichiatra, e la sua assistente, miss Kelly, dalla loro dolorosa incapacità di amare, mentre essi riescono solo a inzuppare i pazienti con le docce fredde o a imbottirli di psicofarmaci? Come riesce a trasformare quell’energumeno di Marvin Wilson, infermiere della clinica Chumley, in un affettuoso fidanzato per Myrtle Mae, e quella spocchiosa e gelida “santarellina” di Myrtle Mae in un’innamorata piena di passione per Marvin Wilson, mentre sia l’una che l’altro, non fosse stato per Elwood P. Dowd, erano condannati a una triste e livorosa solitudine? Come riesce a essere il più calmo e il più sicuro di sé anche quando tutti i cosiddetti “sani di mente” che lo circondano pèrdono miseramente la testa?

 

No, Elwood P. Dowd non è matto. È un artista. Quel particolare artista (assai comune, per buona sorte dell’Umanità, anche se spesso misconosciuto) la cui “opera” è il semplice comportamento (proprio come è “opera d’arte” il comportamento di ogni bambino; ed è per questo che Elwood, oltre che un artista, è un adulto... bambino): il suo rapporto con Harvey, il modo in cui gli si rivolge, i pensieri, l’atteggiamento verso la vita e verso gli altri che il rapporto con Harvey gli suggerisce, sono una bellissima creazione della fantasia e una fonte di gioia per chiunque li contempli senza pregiudizi. Ed Elwood ci crede, certo, crede nell’esistenza reale della propria opera: perché il crederci lo rende più felice di quanto facciano parecchie opere, atti e parole altrui; perché il desiderio di incontrare Harvey nella realtà è stato, verosimilmente, ciò che gli ha permesso di crearlo; e infine perché solo credendoci potrà trionfare sui suoi avversari nell’unico modo che può conservargli la stima e l’affetto di Harvey: facendo loro del bene.

 

Non siete d’accordo? Non volete credere che l’unico che sta bene, fra i personaggi di questa vicenda, è proprio Elwood P. Dowd?

Pensate a quando il dr.Sanderson (nella scena in cui Elwood, l’infermiera Kelly e lui s’incontrano al bar) esorta il suo “paziente” a fare i conti con la realtà: “Io ho lottato con la realtà per trentacinque anni, dottor Sanderson”, risponde Elwood, “e sono felice di dire che l’ho vinta fuggendola”. Cosa insegna, questa risposta, allo psichiatra convinto di sapere già tutto sulla psiche? Che adeguarsi, adattarsi e rassegnarsi alla realtà non è sempre sano. Che tenere i piedi per terra (come sa fare qualunque bestiola) significa talvolta danneggiare quella capacità di immaginare, di vedere ciò che con gli occhi fisici non si vede, di ipotizzare quel che non si sa, di desiderare quel che forse non sta da nessuna parte, di lottare con passione per quel che (ancora) non c’è, che distingue gli esseri umani dagli altri animali.

 

Certe realtà devono essere rifiutate. La disumanizzazione non si può accettare. Al disumano, in noi e negli altri, se non vogliamo soccombergli, dobbiamo sempre contrapporre le nostre idee umane. Dobbiamo pretendere, se vogliamo restare umani e mantenere umano il mondo, che sia la realtà a cedere all’immaginazione, non l’immaginazione alla realtà. E se questo dovesse risultare in tutto o in parte impossibile (com’è accaduto a Elwood, che ha lottato contro la realtà per trentacinque anni) allora possiamo creare un personaggio e un mondo immaginari che impersonino e conservino, per noi e per i nostri simili, l’ideale che desideravamo incontrare in loro e in noi: un Atreiu, per esempio, che dica al mondo come avremmo voluto essere e chi avremmo voluto incontrare; una Matilda; o anche un puka.

 

Tutto questo, Elwood P. Dowd lo sa bene. Lui, che sarebbe matto perché vede quel che non c’è (mentre i matti, spesso, son proprio quelli che vedono soltanto quel che c’è) è in grado di scorgere negli altri, compresi certi psichiatri, i mali che essi non vedono dentro di sé. Lo capiamo quando cura il dottor Sanderson (che vorrebbe curare lui) facendogli scoprire la bellezza di miss Kelly: “C’è chi ha occhi e non vede” gli rivela. O quando, parlando degli amici di bevute, dice che essi gli raccontano “le immense e terribili cose che hanno visto, perché nessuno porta mai qualcosa di men che immenso e terribile, in un bar”; e che poi, quando Elwood presenta loro Harvey, “che è molto più grande di qualunque cosa che loro abbiano donato a lui,” essi talvolta non si fanno più vedere, poiché son presi dall’invidia. Ma Sanderson non se ne dà per inteso, e continua a cercare di “analizzare” Elwood domandandogli se abbia mai incontrato qualcuno di nome Harvey: “No,” risponde Elwood, “non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse così. Forse è per questo che è il mio nome preferito”: svelandogli così una verità, su sé stesso, opposta a quella che il dottor Sanderson crede di vedere in lui in base alle astratte teorie di cui è imbevuto: Elwood non ha trovato in Harvey un sostituto di qualcosa che aveva e ha perduto (o che aveva ma non ha saputo riconoscere) ma proprio quel che dalla realtà non è (finora) mai riuscito a ottenere.

 

Così sano di mente è Elwood, che è riuscito in parte a curare perfino la quieta ma radicata follia di sua sorella, Veta Simmons. Pensate, per esempio, alla scena in cui Veta dice al dottor Chumley che i quadri son diversi dalle fotografie, nelle quali c’è “qualcosa di meccanico”, perché la pittura deve saper andare oltre la realtà e mostrare il sogno di un essere umano. Non prova, questo discorso, che Veta sta guarendo dalla malattia di vedere solo la realtà materiale? E che il putiferio che da qualche giorno sta combinando per chiudere il fratello in manicomio dev’essere quindi interpretato come un estremo tentativo di allontanare chi la sta spingendo a ritrovare sé stessa? È vero che sùbito dopo ha una crisi accorgendosi che il ritratto di sua madre è stato sostituito da quello di Elwood e Harvey... Ma quella frase sul sogno e la realtà l’ha ormai “tradita”, e dimostra ― insieme a quella con cui ammette, parlando con Myrtle Mae, che Harvey talvolta lo vede anche lei, o a quell’altra, sibillina, che dice alla figlia a un certo punto: “Sono tante le cose che non sai, Myrtle Mae!” ― che Veta è senza dubbio sulla buona strada.

 

Tanto che alla fine si lascia convincere dal tassista (“magicamente” trattenuto nella clinica Chumley dalla sparizione dei borsellini di Veta e del giudice Gaffney, operata da Harvey) e si rifiuta di autorizzare il dottor Sanderson a somministrare a Elwood il siero 977 (che “lo riporterebbe alla realtà, alle proprie responsabilità e ai propri doveri”) perchè non vuole che anche il fratello, come tutti coloro che il tassista ha portato lì a prendere quel siero, torni poi a a casa tramutato in una brutta persona...

 

Non c’è dubbio: non solo è sano di mente, Elwood P. Dowd, ma cura e guarisce i matti veri.

 

Se fosse matto, del resto, Harvey alla fine non resterebbe con lui, invece che col rinsavito dottor Chumley. Altrimenti vorrebbe dire che è matto anche Harvey. Che invece, vi assicuro, è sanissimo.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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