Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino
Il signore delle mosche
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Titolo: Il signore delle mosche. Scrittore: William Golding Regista: Chris Marker. Paese di produzione: Gran Bretagna. Anno di produzione: 1963. Attori principali: James Aubrey (Ralph), Tom Chapin (Jack), Hugh Edwards (Piggy, Tom Gaman (Simon), David e Simon Surtees (Sam ed Eric), Roger Elwin (Roger). Durata: 1h 32’.
Lo scrittore
Il regista
Il film
Un aereo precipita nell’Oceano. Un gruppo di bambini e di ragazzi si ritrovano su un’isola deserta abbandonati a sé stessi, poiché nessuno degli adulti che li accompagnavano è sopravvissuto al disastro. Con grande coraggio e forza di volontà, i giovanissimi naufraghi tentano di far fronte alla drammatica situazione: esplorano l’isola, accendono un fuoco su una collina sperando che sia avvistato da qualche nave di passaggio, si procurano da mangiare, allestiscono dei ripari di fortuna; e saggiamente, per evitare che la loro convivenza possa deteriorarsi, si danno delle regole da rispettare. Ben presto, però, alcuni sono irresistibilmente attratti da un modo di comportarsi, di vivere (e in definitiva di essere) che li allontana sempre più dalla civiltà, dalla gentilezza e da tutte le buone qualità che avevano portato con sé dalle loro vite precedenti; diventano “cattivi”, nemici l’uno dell’altro, feroci, pericolosi; e si illudono che ciò li renda più forti dei “buoni”, addirittura irresistibili, “vincenti”... Ma perché? Di chi o di che cosa è la colpa, se qualcuno sa come restare umano, e altri, invece, sembrano capaci soltanto di distruggersi e distruggere? È la grande domanda de Il signore delle mosche ― un romanzo che ha appassionato milioni di lettori, per il quale William Golding vinse (nel 1983, trent’anni dopo averlo scritto) il premio Nobel per la Letteratura ― e il film di Peter Brook ne dà conto in modo puntuale e suggestivo. |
Il commento di Luigi Scialanca
Si dice che il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), nella più celebre delle sue opere, Il Leviatano, abbia affermato (in latino) che homo homini lupus, cioè che tutti gli uomini sono come lupi nei confronti dei propri simili, e che da lupi (cioè da belve) essi sono sempre portati a comportarsi, quando pensano che nessuno li controlli e che non saranno giudicati né puniti per i loro misfatti.
In effetti ― benché Hobbes, quella frase, non l’abbia mai pronunciata né scritta ― essa esprime in modo netto e preciso il concetto che è alla base della sua opera filosofica e politica: l’idea, cioè, che gli esseri umani siano feroci per natura, e che solo uno Stato onnipotente possa costringerli (con la paura che incutono le leggi, la polizia, i tribunali e le forche) a rispettarsi a vicenda.
Pubblicato nel 1954 ― tre secoli e tre anni dopo Il Leviatano ― Il signore delle mosche è stato dunque più volte accusato di non essere una vera opera d’arte, ma solo un veicolo propagandistico per questa idea profondamente pessimista, radicata nella cultura anglo-americana fin dai tempi di Hobbes e nella cultura dell’Umanità da quando per la prima volta si è parlato di peccato originale: l’idea, ripeto, che gli esseri umani siano per natura nemici, e decisi a sbranarsi l’un l’altro anche solo per ricavarne un modesto vantaggio, poiché del tutto incapaci di convivere in pace se una legge e un potere irresistibili non li obbligano a farlo minacciandoli di pesanti sanzioni.
William Golding, è l’accusa, per istillare nei lettori tale idea disperata dell’Umanità (e parare in anticipo l’obiezione che le viene rivolta, e cioè che solo certi esseri umani sono malvagi perché lo sono diventati per colpa di una Società ingiusta e malata, mentre alla nascita siamo invece tutti socievoli, portati a dimostrarci solidali gli uni verso gli altri e a collaborare per il bene comune) che cosa ha escogitato? Ha scelto come protagonisti proprio dei bambini, che dovrebbero essere la più perfetta incarnazione dell’iniziale innocenza dell’Umanità, li ha collocati in un’isola deserta (cioè, appunto, in uno stato di natura, vale a dire in una condizione di assoluta libertà dalle leggi, dal potere e dalla presenza stessa degli adulti e della loro cosiddetta civiltà) e li ha tramutati in mostri per “dimostrare”, così, che già nei bambini l’umanità non è che apparenza, un sottilissimo, evanescente strato di amorevolezza imposto loro dalla famiglia e dalla scuola: un’illusione, insomma, da cui può emergere e scatenarsi in ogni momento la brutale realtà del feroce animale umano. (Del resto faceva o non faceva l’insegnante, William Golding? E dunque chi mai poteva sapere, meglio di lui, di cosa sono capaci i bambini ― e perciò tutti gli esseri umani, che dei bambini sono lo sviluppo ― se non li si sorveglia come pericolosi criminali?)
Però, prima di domandarci se l’accusa rivolta a William Golding sia giustificata o no dalla vicenda che Il signore delle mosche effettivamente racconta, proviamo per un momento a riflettere sul significato e sulle conseguenze di questa spaventosa idea della nostra specie.
In primo luogo, se fosse vero che ogni essere umano è geneticamente predeterminato a essere il peggior nemico dei propri simili, la libertà sarebbe impossibile, tutti noi dovremmo continuamente sorvegliarci a vicenda e nessuno potrebbe mai fidarsi o anche solo sentirsi sicuro vicino ad alcun altro.
In secondo luogo sarebbe impossibile qualsiasi progresso morale, civile, sociale e politico: come non si possono rendere amici e collaboratori i predatori e le prede, così non vi sarebbe modo di far convivere in pace le nazioni, le classi sociali e i singoli individui.
In terzo luogo sarebbe impossibile allevare ed educare con amore e fiducia i bambini: solo con le minacce, le punizioni e le percosse (o le promesse, i premi e le carezze elargiti soltanto per aver qualcosa in cambio) i “cuccioli” della nostra specie potrebbero essere indotti a comportarsi umanamente, se davvero ognuno di essi nascesse nemico di ogni altro.
Ma le cose non stanno affatto così. La verità, diametralmente opposta, è che gli esseri umani sono naturalmente sociali: esseri, cioè, che l’evoluzione ha reso collaborativi, solidali, portati fin dalla nascita a desiderare e cercare la compagnia, l’amore, l’aiuto, il sapere, l’intelligenza e la fantasia gli uni degli altri. E che soltanto dopo, nel corso delle loro concrete e diverse esistenze, alcuni esseri umani diventano pericolosi gli uni per gli altri per non aver saputo resistere, per non essere riusciti a rimanere umani, per non aver conservato e sviluppato la propria nascita umana a dispetto di qualsiasi aggressione esterna.
Tale è la verità, e l’opposto di essa non può dunque essere che una menzogna. Pensata, detta e ripetuta, quasi sempre, per “giustificare” più o meno consapevolmente la violenza del potere di certi esseri umani su tutti gli altri. E creduta e fatta propria, quasi sempre, solo per disperazione.
È questo, dunque, il significato de Il signore delle mosche? È una brutta bugia, la vicenda spaventosa che esso racconta? Ed è per interessata malignità e violenza, o quanto meno per un suo personale disperato sconforto, che William Golding la inventò?
Purtroppo sì.
Vi è chi lo nega, con “indulgenza”, sostenendo che solo una parte dei piccoli naufraghi si tramuta in un’orda di fanatici e violenti mostriciattoli. Mentre altri cedono e si lasciano soggiogare dai compagni più feroci, sì, ma solo per paura, per debolezza. E alcuni, invece, rimangono fedeli alla propria umanità fino a rischiare e addirittura a sacrificare la vita per difenderla.
Ma non è così: questa interpretazione si basa su una lettura superficiale de Il signore delle mosche (o, il che è lo stesso, su una lettura ipocritamente politically correct). Che, però, è il romanzo stesso a permettere e incoraggiare con la sottile ambiguità di cui alcune scene cruciali sono permeate.
È vero: fin dalle prime pagine (o dalle prime scene, nel caso del film) tutti vediamo quanto son diversi i “buoni” ― Piggy, Ralph e Simon ― da Jack e da quelli che di Jack subiscono il fascino perverso. Fin dalla sua prima battuta di caccia, infatti, abbandonando e lasciando spegnere il fuoco, Jack dà prova di non sperare in una salvezza umana ― in una salvezza, cioè, che si realizzi attraverso l’umana solidarietà e collaborazione tra i bambini, da un lato, e dall’altro tra gli adulti che li cercano ― e di essere del tutto certo, al contrario, che non vi sia che un modo per sopravvivere: far sì che la disumanità si manifesti e trionfi, poiché solo essa rende forti, potenti, invincibili.
E noi, pertanto, fin dalle prime pagine ci schieriamo con i suoi avversari.
(Anche se dovrebbe metterci sull’avviso, fin dalle prime pagine, la delusione che Ralph infligge a Piggy e a noi rivelando a Jack il suo soprannome).
Ci riempie di speranza constatare (per quanto inconsapevolmente) che Ralph, Piggy e Simon, ciascuno a suo modo, sembrano intuire (per quanto inconsapevolmente) che la salvezza che il fuoco sempre acceso promette e rende possibile rappresenta la luce che splende nella mente umana fin dalla nascita, che mai deve spegnersi, e che ci rende assolutamente unici sulla Terra: la comune umanità che ci distingue da tutto ciò che non è umano, e per la quale nessuno che sia nato da una donna e da un uomo può essere oppresso, sfruttato, maltrattato o ucciso come se fosse un animale o una pianta.
Per Jack quel fuoco, quella luce che splende nel buio di un Universo senza immaginazione né pensiero, evidentemente non importa, non serve, non ha valore, non esiste. Né negli altri né in lui. Poiché nessuno, evidentemente, da quando Jack è al mondo, lo ha guardato o gli ha parlato o lo ha sfiorato con una carezza vedendo quella luce nei suoi occhi, e volendo mantenerla e ravvivarla. Nessuno, evidentemente, lo ha mai chiamato a sé facendo suonare per lui la conchiglia del desiderio e della considerazione reciproca che chiama a raccolta gli esseri umani che sanno che uno speciale legame li unisce tutti. Il povero Jack è cresciuto senza vederla, quella luce, senza udire le dolci ma perentorie note di quella conchiglia: senza mai sentirsi speciale, prezioso, desiderato, diverso dalle bestie, umano. Senza mai sentirsi unito a ogni altro essere umano dalla suprema volontà di non lasciarla mai spegnere, quella luce, di non infrangerla mai, quella conchiglia, anche a costo della vita.
Poiché vi è solo una cosa che vale più della vita umana: che la vita sia umana.
Ma questo, a Jack, nessuno lo ha mai detto. Peggio: nessuno gliel’ha mai fatto sentire.
La sua mente, quindi, non può che esser piena dell’orrore che il buio di quel fuoco mai acceso in lui e il silenzio di quella conchiglia mai ascoltata vi hanno seminato e coltivato. Ed è per questo che Jack e gli altri si convincono che vi sia sull’isola un mostro che li minaccia tutti: poiché il mostro è in loro, poiché i mostri sono loro; poiché il mostro, il “sovraumano” feroce, insensato e orribile, è l’odio e il disprezzo per tutto quel che è umano con cui sono stati nutriti e avvelenati fin dalla nascita. E la testa di porco, l’idolo terrorizzante e nauseabondo, il signore delle mosche (“Questo è un regalo per il mostro” dice Jack, issandola su una pertica) che altro è se non il vero volto del Dio di chi mai fu trattato da essere umano? Sì: la testa di porco è Dio, e Dio è la testa di porco, per quelli che al mondo sono stati accolti come animali, e che tali si sono infine convinti di essere quando hanno dimenticato e perduto ― sconfitti da una società, una scuola e una famiglia disumane ― la certezza della propria nascita umana.
Eppure, fino all’ultima pagina (o all’ultima scena, nel caso del film) noi speriamo che non sia vero che Il signore delle mosche racconti ― e che Golding, mentendo sui bambini perfino ai bambini, voglia farci credere ― che Jack rappresenti tutti gli esseri umani. Fino all’ultima pagina speriamo che Ralph, e Piggy, e Simon, siano diversi da Jack e da quelli che lo ammirano e ne fanno il loro capo. Speriamo che noi e i nostri cari siamo come Ralph, e Piggy, e Simon, non come Jack. E che Ralph, e Piggy, e Simon, e noi, siamo sempre stati umani, ci siamo nati ― come Jack e gli altri ― ma a differenza di loro siamo riusciti a rimanerlo. E poco c’importa se Ralph è rimasto umano “solo” perché né cattiverie né menzogne né incomprensioni hanno mai aggredito la sua nascita umana, e Piggy, invece, lo è rimasto grazie ai fragili occhiali del sapere libresco in cui deve aver trovato rifugio da un ambiente non troppo diverso da quello che ha distrutto l’infanzia di Jack, e Simon, invece, grazie alle sue solitarie fantasie: ciò che conta, per noi, è che in un modo o nell’altro sono rimasti umani tutti e tre, e adesso sono qui a ricordarci che la nostra specie non è solo quella che sciama come mosche sugli idoli dalla testa di porco, ma anche (e soprattutto, e originariamente) la specie che ha nella mente una luce ― un “fuoco” ― che mai si spegnerà, e una conchiglia che la chiama a raccolta per tenerlo acceso per sempre.
E così non vediamo ― non vogliamo vedere, e non vedendolo sconfiggiamo Golding e Brook ― che invece Ralph (sottile, raffinata, “geniale” ambiguità di Golding e Brook!) sotto sotto è un debole che non può che soccombere insieme agli illusi che si fidano di lui; che invece Piggy (sottile, raffinata, “geniale” ambiguità di Golding e Brook!) sotto sotto è un intellettuale impotente le cui idee non hanno altro senso che quello di permettergli di sopravvivere malgrado la sua inferiorità; che invece Simon (sottile, raffinata, “geniale” ambiguità di Golding e Brook!) sotto sotto è un povero pazzo.
E non vediamo, così, che anche Ralph e Piggy, trascinati dalla disumanità che infine trionfa anche in loro, hanno creduto nel signore delle mosche e hanno partecipato all’assassinio di Simon. Perché non vogliamo vederlo? No: perché non vogliamo lasciarci ingannare da sottili, raffinate menzogne sulle nostre nascite. Neanche se chi tenta di propinarcele è un genio. |
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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.
Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.
Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)
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