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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Le avventure di Pinocchio

 

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Per dimostrare agli altri che si è veri, si devono superare delle prove? (Sonia, a.s. 2006-2007)

 

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Titolo: Le avventure di Pinocchio

Regista: Luigi Comencini (1916 - 2007)

Autore del romanzo: Carlo Collodi (Carlo Lorenzini, 1826-1890)

Paesi di produzione: Italia - Francia - Germania

Anno di produzione: 1972

Attori principali: Andrea Balestri (Pinocchio), Nino Manfredi (Geppetto), Gina Lollobrigida (La Fata Turchina), Franco Franchi (Il Gatto), Ciccio Ingrassia (La Volpe), Vittorio De Sica (Il Giudice), Lionel Stander (Mangiafuoco).

Durata: 4h 40’.

 

Lo scrittore

 

Carlo Collodi

 

Il regista

 

Luigi Comencini

Il commento di Luigi Scialanca

 

Pinocchio ― lo sanno tutti ― vuol diventare un bambino vero.

 

E perché vuol diventare un bambino vero?

 

“Perché è finto, è un burattino di legno!” diranno i piccoli lettori.

 

“No, ragazzi, state sbagliando. Pinocchio è di legno, è vero, ma siete proprio sicuri che sia finto?”

 

Una bambola, per esempio ― che so?, una di quelle Barbie che la notte, mentre le padroncine dormono, se ne stanno buone buone in uno scatolone e non vanno in giro per casa a curiosare o a spaventare il gatto ― una Barbie, dicevo, è sicuramente finta. Non è, cioè, una ragazza vera. Non è, insomma, un autentico essere umano, ma solo la sua riproduzione inanimata e miniaturizzata.

 

Pinocchio, invece, parla e qualche volta dice bugie, va a spasso e si caccia nei guai, mangia, dorme, piange e può essere triste o allegro, affettuoso o arrabbiato, sciocco o astutissimo. Ha tutte le caratteristiche e fa tutto ciò che fanno i bambini veri, insomma. Anzi, in certi momenti la sua vita sembra perfino più avventurosa ed emozionante di quella di un bambino vero.

 

Ripeto, dunque, la mia domanda: siamo proprio sicuri che Pinocchio sia finto? E se lo è ― se davvero è finto ― in che senso lo è?

 

Diciamo sùbito che per più di metà del romanzo (cioè per venticinque capitoli su trentasei) Pinocchio non ha la minima idea di non essere un bambino vero. E non ce l’hanno neanche gli altri ― da Geppetto al Grillo-parlante, da Mangiafuoco al Gatto e alla Volpe ― che talora si riferiscono a lui come a un burattino, è vero, ma la maggior parte delle volte lo chiamano ragazzo:

“Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori” gli dice il Grillo-parlante. “Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti,” gli dice Geppetto dopo che Pinocchio ha divorato le tre pere. “Tu sei un gran bravo ragazzo,” gli dice perfino Mangiafuoco, “vieni qui da me e dammi un bacio...” E si potrebbero fare molti altri esempi, e aggiungere che anche Pinocchio, naturalmente, nella prima parte del romanzo, pensa a sé stesso come a un bambino autentico: “Davvero,” dice fra sé pochi minuti prima d’incontrare nel bosco i suoi assassini, “come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi...”

 

Un istante dopo, raggiunto dal Gatto e dalla Volpe, Pinocchio viene impiccato, agonizza e muore. E forse è proprio questa esperienza (la più terribile e, in genere, l’ultima che si possa fare!) a mettere in moto nella sua mente il processo che lo porterà a riconoscere che in lui c’è qualcosa che non va.

 

Poco dopo, infatti, Pinocchio incontra la persona più importante della sua vita: la Fata dai capelli turchini. Che per un po’, essendo ancora bambina, gli fa da sorella; ma che poi (non a caso dopo esser morta anche lei) diventa donna e può dunque essere per lui la mamma che Pinocchio non ha mai avuto. Come sorellina, la Fata gli salva la vita (che già non è poco) e si prende cura di lui. Ma come mamma gli rivela (nel venticinquesimo capitolo) ciò che né Pinocchio né altri avevano ancora capito: che il burattino, appunto, non può essere chiamato ragazzo perché ragazzo non è. Perché non è un ragazzo vero.

 

Rileggiamo, dunque, quel che Pinocchio e la Fata si dicono in questo fondamentale capitolo, e capiremo, finalmente, in che senso il burattino è finto:

 

“Ma come avete fatto a crescere così presto?” domanda Pinocchio alla Fata, che aveva lasciato bambina e che ora ha ritrovato tanto donna, che potrebbe quasi fargli da mamma...

 

“È un segreto”.

 

“Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io”.

 

“Ma tu non puoi crescere” replica la Fata.

 

“Perché?”

 

“Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini”.

 

Per la prima volta, in questo momento e da queste parole, Pinocchio viene a sapere che c’è qualcosa che tutti gli esseri viventi possono fare e che lui invece non può. Lui, che finora si è sentito ed è stato come tutti gli altri ― lui che può perfino sognare, come si legge nel tredicesimo capitolo ― scopre che invece non è come tutti gli altri: poiché gli altri crescono, e lui invece no.

 

“Oh, sono stufo di far sempre il burattino!” grida Pinocchio, dandosi uno scappellotto. “Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo...”

 

“E lo diventerai, se saprai meritartelo...”

 

“Davvero? E che cosa posso fare per meritarmelo?”

 

“Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene”.

 

“O che forse non sono?”

 

“Tutt’altro!”

 

Il mistero è sciolto: Pinocchio è finto non perché sia di legno, ma perché non è perbene. E nemmeno, a ben vedere, perché non possa crescere fisicamente, ma perché non si decide a “crescere” mentalmente, a trasformarsi, a diventare diverso e “migliore” nel carattere.

 

Cosa importa, infatti, che sia di legno, se respira, cammina, parla, ama, soffre e gioisce come ognuno di noi? Quel suo legno è uguale alla carne, visto che ha le stesse proprietà della carne. È carne chiamata legno, proprio come Pinocchio è un ragazzino chiamato burattino. O, almeno, così è stato finora. Ma nel venticinquesimo capitolo, a un tratto, scopriamo che invece quel legno, almeno in una cosa, è legno per davvero: non può crescere, proprio come non può crescere il legno “terrestre” una volta che sia stato separato dalla viva pianta che l’ha prodotto.

 

Ma... un momento: è proprio vero che il legno di cui è fatto Pinocchio non può crescere? Niente affatto! Il suo naso, infatti, benché di legno, cresce e come! Come i nasi veri, che nel corso della vita (anche se molto più lentamente) da graziosi nasini di neonati si trasformano in bozzuti nasoni.

 

Vuol dire che la Fata ha detto una bugia lei, questa volta, sostenendo che Pinocchio non può crescere? Non proprio. La Fata non ha mentito. Ha solo usato il verbo “crescere” ambiguamente.

 

“Tu non puoi crescere,” ha detto. Ma intendeva: “Tu non puoi crescere se non cambi”.

 

Se cambierà, se si avvezzerà a essere un ragazzino perbene, Pinocchio crescerà come tutti i bambini del mondo. Dunque Pinocchio può crescere, può mutare, può trasformarsi: lo spavento è già passato, tutto è tornato a posto! Pinocchio ― come noi (e anche lui) credevamo fino a un momento fa ― è davvero un bambino vero fatto di una carne che sembra legno ma è carne. La sua crescita non è impossibile, è solo temporaneamente bloccata. Ma può riprendere.

 

Pinocchio, insomma, è finto perché non è un ragazzino perbene. Perché solo i ragazzini perbene, a quanto pare, sono ragazzini veri. Ma diventerà vero non appena sarà diventato come lo vuole la Fata. Quando sarà ubbidiente, quando dirà sempre la verità, quando amerà lo studio e il lavoro e andrà volentieri a scuola ― gli dice la Fata ― allora evidentemente sarà cambiato. Sarà cresciuto dentro. E allora nessuno potrà più mettere in dubbio la sua verità.

 

Diventare un ragazzino vero, dunque, vuol dire corrispondere all’immagine di ragazzino che la Fata ha in mente. È la Fata la padrona e la depositaria della verità, è la Fata che decide quali bambini sono veri e quali no: se si è come vuole (pensa, immagina) lei, si è veri; se si è diversi, invece, si può tutt’al più sembrare veri, ma non certo esserlo.

 

La Fata, nel venticinquesimo capitolo de Le avventure di Pinocchio, rivela al loro protagonista che egli non è un ragazzino vero, ma finto (cioè che non è un burattino finto, ma vero) e gli annuncia che, per diventare vero, dovrà superare una prova.

 

Ma perchè? Perché mai una creatura che può respirare, camminare, parlare, amare, soffrire, gioire come ognuno di noi e perfino crescere fisicamente (sì, perché almeno il naso gli cresce) deve ancora superare una prova per dimostrare di essere vero?

 

Perché vero, un essere umano, lo è solo se si trasforma. Perché è la trasformazione la verità dell’essere umano. L’essere umano è tale in quanto è capace di trasformare e di trasformarsi. Il resto, tutto il resto (respirare, camminare, comunicare, amare, gioire, soffrire) lo sanno fare anche gli altri animali.

 

Ma anche gli altri animali crescono. Anch’essi, da cuccioli dai movimenti incerti, diventano adulti, ben saldi e sicuri, e poi vecchietti, di nuovo traballanti. Anche loro si trasformano, dunque?

 

Sì, ma solo fisicamente. Mentre gli esseri umani, soltanto gli esseri umani, sanno cambiare “dentro”: sanno diventare diversi da prima, sanno rendersi migliori o peggiori. Sanno, per esempio, diventare ragazzini perbene, se prima non lo erano, e purtroppo anche smettere di esserlo se prima lo erano.

 

La Fata, dinanzi a Pinocchio, è come la Sfinge (ma una Sfinge benevola) dinanzi a Edipo, e l’indovinello che gli pone è lo stesso: qual è quell’essere che non può crescere se non cresce e che può crescere soltanto se cresce? E Pinocchio, se rispondesse: Io, io sono così!, sarebbe perduto, perché vorrebbe dire che (come un animale non umano) non ha e non vede altra crescita che quella fisica. Ma Pinocchio capisce subito ciò che la Fata intende dire: “Da oggi in poi voglio mutare vita,” risponde, e con queste parole dimostra alla sua quasi-mamma che anche lui, come lei, è in grado di intendere in due modi la parola crescere: come diventare più alto di un soldo di cacio, d’accordo, ma anche come diventare un ragazzino perbene. E così dicendo scioglie l’enigma: c’è solo una creatura, sulla Terra, per la quale la parola crescere può avere due significati diversi nella stessa frase, e questa creatura è l’essere umano. E Pinocchio, che questo doppio significato è capace di intendere, è perciò già ora un essere umano e un ragazzino vero.

 

Poiché solo gli esseri umani sanno trasformarsi per far diventare vere le immagini create dalle Fate. E render fate le Fate cambiando davvero.

 

Da qui in poi, infatti, per Pinocchio non è più questione di essere di legno o di carne. La sfida è un’altra, adesso, molto più importante, ed è quella di essere umano o non umano.

 

Ragazzo o ciuco.

 

Sarà umano se riuscirà ad avvezzarsi a essere un ragazzino perbene. Sarà ciuco ― cioè sarà trattato come se umano non sia ― se invece fallirà. Poiché chi fallisce la crescita come crescita umana non è più in grado di comprenderla né di farla valere.

 

Eppure, alla fine del romanzo ― quando l’ex burattino domanda a Geppetto: “E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?” e Geppetto risponde: “Eccolo là” e noi ci voltiamo insieme a Pinocchio e vediamo un grosso burattino appoggiato a una seggiola col capo girato “sur una parte”, con le braccia ciondoloni e con le gambe “incrocicchiate” e ripiegate a mezzo, “da parere un miracolo se sta ritto” (ritto, badate, aggiungiamo noi, come se ancora voglia esser vero e far tutto ciò che fanno gli esseri veri) e Pinocchio commenta: “Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!” ― quale lettore, leggendo queste righe, non prova un po’ di malinconia e una punta di rimpianto per il Pinocchio di prima? E come si spiega questa nostalgia? Avremmo forse preferito che Pinocchio fallisse? Volevamo forse che alla fine si dimostrasse davvero non vero, davvero finto, davvero non umano e burattino, davvero di legno e non di carne?

 

La spiegazione di questo misterioso sentimento è tutta in quella curiosa espressione della Fata: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.

 

Avvezzarsi, dicono i vocabolari, significa prendere il vezzo, cioè l’abitudine (e vezzo ― pensate un po’ ― ha la stessa etimologia di vizio, cioè di cattiva abitudine). L’avvezzarsi, insomma, è un processo meccanico, ha a che fare con l’assuefazione, con qualcosa che ti accade a poco a poco tuo malgrado, col ridursi e l’abbassarsi delle tue resistenze per effetto di una lunga esposizione a ciò che inizialmente non gradivi o addirittura non sopportavi: Piano piano ci ho fatto l’abitudine... Col tempo ci ho fatto il callo... Cosa si può immaginare di ancor meno creativo?

 

Quell’avvezzarsi ci dice che ciò che la Fata propone a Pinocchio non è creatività. Il ragazzino perbene di cui la Fata parla a Pinocchio non è un’immagine più o meno inconscia che ella ha in mente e che potrà o non potrà coincidere con quella che Pinocchio liberamente creerà. Non sarà, cioè, un “miracolo” umano, se il ragazzino perbene che Pinocchio realizzerà sarà proprio come lo desiderava lei. Sarà per costrizione, invece. Sarà perché Pinocchio si imporrà di essere come lei vuole. Sarà perché Pinocchio rinuncerà alla creatività ― cioè a creare liberamente sé stesso ― e si adatterà a modellarsi sul ritratto che la Fata gli mette davanti. Sarà perché imiterà il ragazzino perbene della Fata, anziché diventare quello di Pinocchio. Sarà, insomma, perché Pinocchio non sarà un ragazzino perbene vero, ma solo una copia.

 

Il fascino che Lucignolo esercita su Pinocchio (e su ogni bambino vero che in un Lucignolo s’imbatta nella realtà) altro non è che il fascino che il pirata, libero scorridore dei sette mari, esercita su colui che avverte il pericolo di piegarsi, come un asino, sotto il giogo di un modello imitato e non creato, imposto e non desiderato, ricevuto e non costruito; e che, pur di sfuggire a questo pericolo ― pur di non avvezzarsi, come un animale un tempo selvaggio che a poco a poco si addomestica ― accetta qualunque rischio, anche quello di non riuscire a essere alcunché, di non arrivare a creare proprio niente, di trascorrere tutta la vita a recalcitrare e a distogliere il capo dalla cavezza; e che così, non facendo alcunché di sé per paura di farne quel che vogliono gli altri, da creatore si fa distruttore, da ribelle si fa bandito, da ragazzino (che poteva essere perbene a modo proprio) si fa ciuco per non esserlo al modo altrui: e proprio come un ciuco, allora, viene trattato e sfruttato.

 

Pinocchio, terrorizzato dal tremendo destino di Lucignolo che per poco non è anche il suo, sceglie infine la via più facile: rinuncia a essere e a creare sé stesso, diventa come la Fata lo vuole, consola il suo babbo (che credendo di farsi un ragazzino finto, di legno, fabbricato come lo voleva lui, aveva invece messo al mondo un ragazzino vero che però gli sembrava di legno, finto, perché non era come lui se l’era aspettato) e si avvezza, pian pianino, a portarsi addosso la “pelle d’asino” di un’immagine imposta e subìta, di una “verità” che non è la sua, di un sembrar vero che non è esserlo.

 

Ed è per questo che a noi dispiace, alla fine, di vedere il burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato da una parte, le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se sta ritto: avremmo preferito un Pinocchio che trionfasse su tutti, sul Gatto e la Volpe e Mangiafuoco, su Geppetto e sulla Fata, su Lucignolo e sul Paese dei Balocchi (pericoli estremi, quest’ultimi, perché così simili alla realizzazione e al successo) e che alla fine, senza rinunciare alla libertà né alla ribellione, trovasse la prova definitiva d’esser vero nel realizzarsi come un ragazzo in cui tutti avrebbero riconosciuto un ragazzo perbene e nessuno il proprio ragazzo perbene. Un ragazzo che sarebbe loro piaciuto nonostante la sua diversità dalle loro aspettative, e non perché identico a esse. Un ragazzo perbene nuovo, creato da Pinocchio e non da altri: uno, magari, che alla fine delle proprie avventure avrebbe ripensato con tenerezza all’immagine a cui la Fata aveva tentato di avvezzarlo e avrebbe detto a Geppetto: “Com’ero buffo quando credevo di non esser vero!”

 

Invece chiudiamo il libro salutando un po’ freddamente un ragazzino perbene che sentiamo finto (perché imposto e subìto e avvezzato) e rimpiangendo un ragazzino che si credeva finto e che invece era (e ci appariva) molto più vero del proprio successore. Poiché un vero essere umano (un essere umano che non tradisce la propria natura) è una creazione, non un’imitazione. E il Pinocchio “di legno”, dunque, in quanto libera creazione, è di gran lunga più umano del Pinocchio “in carne e ossa” che si avvezza a essere come lo vuole la Fata. Anche se si caccia in terribili guai e rischia di farsi ciuco e di perdere la vita: vorremmo che risolvesse i suoi problemi da bambino vero, com’è all’inizio, anziché rassegnato a essere per sempre un’ubbidiente marionetta, come lo vediamo alla fine.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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