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Educazione europea
traduzione di Mario Nardi
1956, Éditions Gallimard 2006, Neri Pozza Editore, Vicenza
|
Partigiani in quanto esseri Umani |
La copertina del libro. |
“La
mamma ti manda a dire di pregare.”
Janek
pensò ai due fratelli uccisi. La mamma aveva tanto pregato per loro.
“A
che serve pregare?”
“A
niente. Però fai come dice la mamma.”
“Va
bene.”
(dal
capitolo 2)
Quando
scorgeva un ufficiale fra i visitatori si precipitava verso di lui, lo tirava
da parte, e con voce piagnucolosa e stridula chiedeva del carbone, più cibo,
acqua bollente, sigarette, sapone. Gli si appiccicava come un cucciolo e
finiva quasi sempre con l’ottenere quel che voleva. Allora si calmava di
colpo, sorrideva soddisfatta e andava a dare la buona notizia alle compagne. “Con i tedeschi è facilissimo. Se volete ottenere qualcosa da loro, se volete impressionarli, basta che diciate: schmutzig, schmutzig, che vuol dire sporco. La sporcizia è una cosa che non possono sopportare. Con questa parola otterrete da loro quel che vorrete.”
(dal capitolo 3) |
Uomini
affamati, esausti, vivevano rintanati nel cuore della foresta. In città
li chiamavano “partigiani,” in campagna “verdi.” Ormai da
parecchio tempo questi uomini si battevano soltanto contro la fame, il
freddo e la disperazione. Ormai volevano soltanto salvare la pelle.
Vivacchiavano sparsi a piccoli gruppi di sei o sette, nascosti nelle buche
scavate sottoterra, al riparo della boscaglia, come bestie braccate. I
viveri erano scarsissimi, spesso addirittura introvabili. Soltanto i
“verdi” che avevano parenti o amici nella regione riuscivano ad avere
qualche cosa da mettere sotto i denti; gli altri morivano di fame, oppure
uscivano dalla foresta per farsi ammazzare. Il gruppo di Czerw e Krylenko
era uno dei più vivaci, dei meno rassegnati. Era comandato da un giovane
ufficiale di cavalleria, il tenente Jablonski, un giovanotto biondo che
tossiva molto e sputava sangue; aveva un polmone offeso dallo scoppio
d’una granata durante la campagna di Polonia. Portava ancora il cappotto
militare e il berretto quadrato della cavalleria; la lunga visiera gli
metteva sempre un’ombra sul viso.
Quando
Janek gli fu presentato, gli domandò:
“Quanti
anni hai?”
“Quattordici.”
II
tenente lo guardò a lungo con i suoi occhi infossati, brucianti, divorati
dalla febbre.
“Vorresti
fare qualche cosa per me?”
“Sì.”
“Conosci
Vilna?”
“Sì.”
“La
conosci bene?”
“Sì.”
II
tenente esitò, parve in lotta con se stesso, si guardò intorno.
“Andiamo
fuori.”
Condusse
Janek nel folto del bosco.
“Prendi
questa lettera. Portala all’indirizzo segnato sulla busta. Sai
leggere?”
“Sì.”
“Bene.
Non te la far soffiare.”
“No.”
“E
aspetterai la risposta.”
“Bene.”
II
tenente distolse rapidamente lo sguardo e disse con voce sorda:
“Non
parlarne con nessuno, qui.”
“Non
ne parlerò.”
Janek
intascò la lettera e partì subito. Giunse a Vilna al calar della sera.
Le strade erano ingombre di soldati tedeschi, i camion passavano con
fragore sul grosso selciato, schizzavano fango sui marciapiedi di legno.
Trovò senza fatica la casa, nella Pohulanka. Attraversò un cortile e salì
una scala. Al primo piano si fermò e accese un fiammifero. C’era un
biglietto da visita attaccato alla porta: “Jadwiga Malinowska - Lezioni
di musica.” All’interno un pianoforte suonava. Ascoltò un momento.
Janek amava la musica, ma ne aveva sentita ben poca. Alla fine bussò. La
musica si interruppe bruscamente e una voce di donna domandò:
“Chi
è?”
Janek
esitò.
“Janek,”
disse alla fine, stupidamente.
Si
meravigliò di vedere che la porta si apriva. La giovane donna lo esaminò
con attenzione. Teneva in mano una lampada dal paralume giallo con sopra
risaie, pagode e uccelli. Le loro ombre si muovevano sul soffitto e sui
muri. A Janek la giovane donna parve molto bella. Si tolse educatamente il
berretto.
“È
per darvi questa,” disse, porgendole la lettera. Lei la prese e subito
l’apri. Mentre leggeva, Janek la guardava. Come era bella. Nessuna
meraviglia che suonasse tanto bene il pianoforte. Quella musica le si
confaceva, le assomigliava. La ragazza finì di leggere.
“Entra,”
disse.
Richiuse
la porta.
“Devi
essere affamato, dopo tanta strada.”
“No.”
“Non
vuoi un po’ di tè?”
“No,
grazie.”
Lei
osservò quel ragazzo dal viso terribilmente serio.
“Come
vuoi. Vado a preparare la risposta... No. Meglio di no. Se ti
fermassero...”
“Non
mi fermeranno.”
Lei
tornò a guardarlo.
“Quanti
anni hai?”
“Quattordici.”
“Gli
dirai... Gli dirai che sarebbe una pazzia. Digli di non venire.
Sorvegliano troppo. Ma se verrà, digli che io lo attendo...”
“Verrà,”
disse Janek.
“Ma
tu gli dirai di non venire.”
“Glielo
dirò.”
Lei
andò in cucina e tornò con del pane e del sale, che avvolse in un pezzo
di giornale. Lui prese il pacchetto e se lo mise sotto la giacca, sul
petto. Non se ne andava. Se ne stava lì a guardare la ragazza... Lei
attendeva che lui dicesse ciò che voleva dirle.
“Suonate,”
disse Janek infine.
La
ragazza non disse niente e si avvicinò al pianoforte. Non sembrava né
sorpresa né curiosa. Sedette al piano e incominciò a suonare... Janek
non sapeva da quanto tempo stesse suonando. Non sapeva. Non aveva mai
sentito nulla di simile. A un certo punto la ragazza si girò.
“Chopin,”
disse. “Era un polacco.” Allora vide che il ragazzo piangeva. Nemmeno questo parve meravigliarla né commuoverla, come se avesse trovato del tutto naturale che quella musica lo facesse piangere. Quando finì di suonare, si accorse che Janek se ne era andato.
(dal
capitolo 6)
Una notte, mentre stava così fantasticando, un’idea che poco a poco divenne certezza colpì Janek con tale evidenza che si rizzò sul pagliericcio sorridendo e col cuore che batteva forte: il misterioso partigiano Nadejda doveva essere suo padre! Ecco perché ogni volta che parlava di lui e chiedeva notizie sulla sua sorte, i “verdi” si facevano silenziosi e lo guardavano in quel modo strano, con simpatia e anche con rispetto. Questa speranza, di cui non parlò mai a nessuno, restò a lungo in lui. Era sicuro d’avere ragione, e quando il dubbio lo sfiorava sapeva che era solo perché aveva freddo, o fame, o perché era stanco. Sapeva già che la verità è qualcosa che si riconosce negli slanci calorosi del cuore e raramente nella freddezza della ragione.
(dal
capitolo 7)
Pan
Jozef era seccato. Quel Czerw non aveva detto niente di concreto. Doveva
essere un falso, un ipocrita. Non ci si poteva fidare, nessuno capiva
quello che aveva in mente.
È
il tipo d’uomo, rifletteva pan Jozef, che ti stringe la mano, ti guarda
dritto negli occhi e il giorno dopo spedisce un partigiano ad ammazzarti
all’angolo d’una strada. Rabbrividì. La vita diventava sempre più
difficile. Nessuno pagava più i propri debiti, gli affari erano diventati
pericolosi, il vincitore d’oggi poteva essere il vinto di domani. Non si
sapeva più a quale santo votarsi. Eppure i suoi antenati avevano ben
saputo conservare, attraverso le generazioni, la pelle e le proprietà,
contro venti e maree, tartari e svedesi, russi e tedeschi. Non li avevano
mai trattati da invasori, ma da clienti. Chiunque è il benvenuto in un
albergo: questo era il loro motto. Questione di sangue freddo, di fiuto,
d’inchini fatti al momento giusto... Pan
Jozef sospirò. Nei
loro comunicati i tedeschi dicevano di aver occupato i sobborghi di
Stalingrado: ciò significava che la città resisteva. Era sempre più
difficile prevedere l’avvenire.
Gli
altri occupanti del carro non pensavano a niente. Loro non avevano
opinioni: avevano solo debiti. Seguivano con rassegnazione pan Jozef.
II
carro si avvicinava al villaggio.
“Fai
il giro,” ordinò pan Jozef al carrettiere. “Non voglio che ci vedano
venire dalla foresta.”
Entrarono
a Piaski dalla strada di Vilna. Il carro si fermò davanti all’antico
municipio, sulla cui facciata ora sventolava la bandiera dalla croce
uncinata e vi era un cartello con la parola Kommandantur, scritta a
grosse lettere gotiche.
Sulla
scala pan Jozef fu accolto con un inchino da un giovanotto dai capelli
biondi e radi che mostrava perpetuamente i denti in un sorriso frettoloso.
Era un polacco che aveva accettato di servire da guida alle autorità
tedesche e che, per precauzione, si faceva vedere raramente da solo per
strada dopo il tramonto del sole. Il giovanotto fece e rifece le sue
riverenze fregandosi le mani.
“Vi
aspettavamo, panie Jozef, vi aspettavamo,” disse.
E
gli tese la mano. Pan Jozef si guardò attorno girando gli occhi, e non
prese la mano. Seguì il giovanotto biondiccio nell’atrio e qui, al
riparo dagli sguardi indiscreti, gliela strinse molto effusivamente.
“Scusatemi,
panie Romualdzie, se non vi ho dato la mano in pubblico.”
“Non
ne parliamo nemmeno, panie Jozefie, capisco benissimo.”
“Non
eravamo soli e, capite, in questi momenti...”
Erano
in piedi, al centro dell’atrio, si stringevano calorosamente la mano e
si guardavano negli occhi con sincerità.
“Capisco,
capisco,” ripeteva pan Romuald mettendo in mostra i denti.
E
continuavano a stringersi la mano e a guardarsi negli occhi.
“Non
è che io abbia la benché minima obiezione a stringervi la mano,” volle
precisare pan Jozef. “Al contrario, mi sento onorato, onoratissimo...”
“Amico
carissimo!” esclamò pan Romuald.
“Nessuno
meglio di me può apprezzare la delicatezza della vostra posizione e la
nobiltà, il coraggio che vi occorrono per giocare... per accettare di
giocare...”
Si
ingarbugliava un po’.
“Grazie,
mille volte grazie,” si affrettò a dire pan Romuald.
“Voglio
dire, per caricarvi sulle spalle questo peso ingrato, ma necessario...”
Pan
Jozef tossì.
“Lo
sapremo solo domani quante vite avete salvato... Chissà? Forse, anch’io
vi debbo la mia.”
“Non
occorre parlarne, non occorre parlarne,” fece modestamente il
giovanotto. “Pani Frania sta bene?”
II
taverniere era sposato con una delle più belle donne della regione e ne
era gelosissimo.
“Sta
benissimo,” rispose seccamente.
Si
volse ai contadini.
“Panie
Witku,” ordinò, “fate pure scaricare quel sacco di provviste che
abbiamo portato per pan Romuald.”
“Herr
Gauleiter vi attende,” annunciò allora il giovanotto.
La
delegazione fu introdotta. Pan Jozef si mise la mano sul cuore e aprì la
bocca...
“So,
so!” tagliò corto il funzionario tedesco spazientito. “Tutti dicono
la stessa cosa...
È
il marito?”
“Jawohl...”
“Che
cosa ci porta?” “Uova, lardo, formaggio fresco,” disse pan Romuald, mostrando i canini.
(dai
capitoli 9 e 10)
La
giovane donna mise un disco sul fonografo.
“La
Polonaise di Chopin,” annunciò.
Per
più di un’ora i partigiani, alcuni dei quali avevano marciato per dieci
chilometri per raggiungere il rifugio, ascoltarono la voce, quel che c’è
di migliore nell’essere umano, come per rassicurarsi. Per più di
un’ora degli uomini stanchi, feriti, affamati, perseguitati celebrarono
così la loro fede, confidando in una dignità che nessuna bruttura,
nessun crimine potevano intaccare. Janek non avrebbe mai dimenticato quel
momento: i volti duri e virili, il piccolo fonografo in una buca di nuda
terra, le mitragliette e i fucili posati sulle ginocchia, la ragazza con
gli occhi chiusi e lo studente dal baschetto bianco e lo sguardo fiero che
le teneva la mano; la stranezza di quegli istanti, la speranza, la musica,
l’infinito.
Poi
un partigiano di nome Hromada prese la fisarmonica e ancora una volta
delle voci umane si unirono in coro, così come ci si stringe gli uni agli
altri per darsi coraggio o, forse, per cullarsi di illusioni.
Dobranski
estrasse un quaderno da sotto la giubba.
“Comincio,”
annunciò.
II
partigiano con la testa bendata disse gravemente:
“Saremo
severi, ma giusti.”
Dobranski
apri il quaderno.
“S’intitola:
Semplice racconto dei colli.”
“Kipling!”
urlò trionfante Pech. “È un racconto per i marmocchi europei, un racconto di fate.”
(dal
capitolo 13)
Quando
giunsero nella foresta era notte. Janek li condusse fino allo stagno del
Vecchio Mulino.
“Aspettate
qui.”
Li
lasciò li. Nella buca degli studenti trovò Tadek e Dobranski chini sugli
scacchi. Il fuoco si stava spegnendo. Pech russava, nascosto da qualche
parte sotto un monte di stracci sporchi.
“II
padre del compagno,” disse Janek, “è qui. Vuole vederlo. L’ho
lasciato presso lo stagno.”
“Non
c’è che da spingerlo dentro,” disse Tadek. “Se arrocco, perdo il
mio cavallo. Ma se non arrocco... Perciò, naturalmente, arrocco.”
“II
tuo cavallo non ci rimetterà niente ad aspettare un po’. Del resto, a
me non interessa. Scacco al re e alla regina.”
“Psia
noga!” bestemmiò malinconicamente Tadek. “Non ho fortuna al
gioco.”
Volse
lo sguardo febbricitante a Janek.
“II
compagno e stato imprudente. La prossima volta mio padre verrà qui con i
tedeschi... Credo, Adam, che ci converrà cercare un’altra foresta.”
“Vai
a vederlo,” disse Dobranski, mettendo a posto gli scacchi. “Dopo
tutto, è il marito di tua madre... Pech, ehi Pech?”
“Che?
Andatevene al diavolo!”
“Ci
andremo. Occupati del fuoco.”
La
luna brillava. Era una notte blu, pura.
Videro
da lontano le due sagome sulla riva dello stagno. Chmura si avvicinò al
figlio e lo guardò. Poi si tolse bruscamente la pelliccia.
“Mettitela.”
“Tenetevela,
con tutto il resto. Non voglio niente da voi. Voi avete le mani
sporche.”
“Panie
Tadku,” cercò di intromettersi Walenty, “come si può, così...”
“Ascolta,
ragazzo,” tagliò corto Chmura, “io non sono venuto qui per
difendermi. Comunque, ti dirò questo: il contadino polacco sta dalla mia
parte, non dalla tua. Che cosa avete fatto voi, per lui? Niente. Le vostre
prodezze sono servite a farlo fucilare, a fargli confiscare il raccolto e
a far radere al suolo il suo villaggio. Se ha potuto conservare una parte
del grano o delle patate, non lo deve a voi, ma a me. Perché io non
faccio saltare i ponti, bado, semplicemente, che i miei contadini non
crepino di fame. Io mi sono messo tra loro e i tedeschi, risparmio loro di
venire affamati o di venir cacciati verso ovest come branchi di bestie
pidocchiose. Non ci sarà uno stato polacco? E con ciò? Sarà sempre
meglio di uno stato polacco popolato da cadaveri dove ogni cittadino avrà
l’aria d’un sopravvissuto.
È
molto bella la lotta
disperata, ma il destino di una razza è sopravvivere e non morire in
bellezza...”
Pestò
il piede.
“Se
mi mostrassero dieci bambini polacchi e mi dicessero che per salvarli
dovrei leccare gli stivali a dieci soldati tedeschi, io direi: “Eccomi
pronto, servo vostro!”“
“Sarebbe
press’a poco come se io volessi diventare complice della tubercolosi,”
disse Tadek. “Come se mi diceste: “Non lottare contro la tubercolosi,
Tadek. Sii astuto. Mettiti d’accordo con lei. Cerca di fartela amica.
Cara, volete i miei polmoni? Ma come no? Prendeteli, dunque, sono vostri,
mia cara amica! Entrate, accomodatevi, fate come a casa vostra.” Dopo di
che, certo potrei dormire tranquillo: la tubercolosi avrà la delicatezza
di risparmiarmi.”
”Rany
boskie!” sbigottiva Walenty.
“Simili
spropositi...”
Chmura
si rivolse a Dobranski:
“Voi
avete rovinato la vita di mio figlio,” disse. “Voi vivete rintanati
nella foresta, in attesa che la tempesta sia passata: voi non sapete
nemmeno che cosa sia lo sguardo d’un tedesco. Vi è facile giocare a
fare i Robin Hood. Ma mio figlio è tubercolotico. Ci lascerà
semplicemente, stupidamente la pelle. Ciò che gli occorre è la montagna,
il sole. Voi rimproverate ai tedeschi di fare degli ostaggi, ma che
cos’altro avete fatto voi se non prendere in ostaggio mio figlio?
Rinunciate ad aiutare i tedeschi, dite, e vi si renderà vostro figlio. Io
voglio salvare mio figlio. Io voglio salvarlo. Forse è già tardi...”
“Padrone!”
urlò Walenty, atterrito. “Simili parole... Pfu, pfu, pfu!” sputò.
“Sila nieczysta! Potenza diabolica!”
Chmura
guardò per un momento il figlio.
“Torna,”
disse.
“Quanto
avete guadagnato con le forniture di grano per le truppe tedesche?”
“Panie
Tadku!” gemette Walenty.
“Se
non avessi venduto il grano ai tedeschi, me lo avrebbero preso, e i miei
contadini non avrebbero visto nemmeno il becco d’un quattrino...”
“Potevate
bruciare il raccolto.”
“Allora,”
disse freddamente Chmura, “i miei contadini sarebbero stati fucilati e i
loro villaggi sarebbero stati incendiati... Viva la rivolta, signor
figlio!”
Abbassò
un po’ la voce.
“Non
voglio più, nelle mie terre, villaggi rasi al suolo, miserie senza nome.
Tu, fai pure come vuoi.”
E
aggiunse con amarezza:
“Tale
padre, tale figlio... Nie daleko pada jablko ed jabloni. La mela
non cade mai lontano dal melo... Se hai il coraggio di lasciarti morire
per le tue idee, io posso bene accettare di perdere un figlio per le
mie.”
“Padrone!”
urlò Walenty. “E il cuore, il cuore che cosa vi dice?”
“Fai
come senti, Tadek. Ricordati che oggi, in ogni paese europeo, gli uomini
maturi la pensano come me, mentre i loro figli si fanno fucilare per il
piacere di scrivere “Viva la Libertà” sui muri delle latrine. In
ognuno di quei paesi, le persone vecchie difendono la loro razza. La sanno
lunga. Ciò che conta è la carne, e il sangue, il sudore e il seno
materno, e non una bandiera, una frontiera, un governo. Ricordati: i
cadaveri non cantano Jeszcze Polska nie zginela!”
Buttò
là:
“Ora
me ne vado. Vuoi venire con me? Ti manderò in Svizzera domani stesso.”
“Janek,
mostragli la strada!”
Chmura
gli volse le spalle e prese a camminare rapidamente, senza girarsi una
sola volta. Il vecchio Walenty gli correva dietro a piccoli passi e ogni
tanto si fermava, si voltava verso Tadek, faceva grandi gesti disperati.
“Padrone,
non potete lasciarlo qui!... Gesù, il piccolo é malato! Mi si spezza il
cuore!”
Chmura
si fermò.
“Basta!”
ordinò. “Non c’è niente da fare. Tu credi che io sia un cane, che
non senta nulla? Io ti dico soltanto: non c’è niente da fare. Lui sa
quello che vuole.
È
testardo. È della
mia stessa carne e del mio stesso sangue. Andrà fino in fondo. E,
dopotutto, ti dico, meglio avere un figlio morto, ma della tua carne e del
tuo sangue, che una nidiata di bastardi viventi...”
La
pazienza del vecchio domestico parve esaurirsi tutta d’un colpo.
“Assassino!”
si mise a gridare all’improvviso, in falsetto. “Non ti vergogni? Tuo
padre, se fosse vivo, ti sputerebbe in faccia. Tua madre ti ha certo
concepito da un palafreniere ubriaco!”
“Tu
puoi rimanere con lui,” disse Chmura a denti stretti.
”Zeby
ci sie krew zalalà!
Che
il sangue ti affoghi! Credi che non sarei restato con lui, se avessi
cinquant’anni di meno? Da molto tempo ti avrei sputato sui piedi... Osi
parlare cosi a me! E troppo tempo che non ti batto, paskudo, sacco
d’immondizia!” I giovani sentirono a lungo la sua voce che gridava ingiurie allontanandosi nella notte.
(dal
capitolo 17)
Dobranski
aveva prestato qualche libro a Janek: Gogol, Selma Lagerlöf.
Qualche volta Janek leggeva a voce alta per Zosia.
Poi
domandava:
“Ti
piace?” “Mi piace la tua voce.”
(dal
capitolo 18)
Ogni
tanto Czerw mandava Janek a Vilna, da un vecchio ciabattino che lavorava
in uno scantinato della Zawalna. Era un uomo grande e cupo, con i lunghi
baffi all’ingiù come gli szlachcic, i nobili dei tempi passati.
“Digli
che io sto bene,” diceva Czenv.
Ogni
volta che entrava nello scantinato, il ciabattino gli gettava uno sguardo
rapido e subito si rimetteva a lavorare. All’inizio Janek era a disagio
a causa di questa accoglienza, ma poi aveva finito per abituarsi. Scendeva
nella bottega, si toglieva il berretto, diceva:
“Lui
sta bene.”
II
ciabattino non gli rispondeva, e Janek se ne andava. Alla fine si decise a
domandare a Czerw:
“Ma
chi è?”
“È
mio padre.”
Al
ritorno da una di queste strane visite, Janek si trovò a passare dalla
Pohulanka. Davanti alla casa in cui aveva abitato panna Jadwiga, si
fermò. Guardò un momento il portone e, senza riflettere, entrò,
attraversò il cortile, salì al primo piano... Ebbe paura. Il cuore gli
batteva con violenza. Gli venne voglia di fuggire. Dietro alla porta
suonavano il piano. Janek riconobbe la musica. Era Chopin: quello stesso
pezzo che panna Jadwiga aveva suonato tante volte per lui... Janek si calmò
e se ne stette lì a lungo, in ascolto, nascosto nell’ombra, ma non
appena cessò la musica si sentì riprendere dalla paura e fuggì via. Non
disse niente a nessuno, nella foresta; ma era a disagio, irrequieto.
“Cosa
c’è?” gli domandò Zosia.
“Niente.”
II
giorno dopo ritornò a Vilna, alla stessa ora. Si mise in ascolto...
Questa volta non era la musica di Chopin, ma era una melodia bella, molto
bella... Janek non aveva più paura. Da allora, ogni volta che andava in
città a trovare il vecchio ciabattino, prese l’abitudine di passare, al
ritorno, dalla Pohulanka, e di fermarsi sul pianerottolo buio ad ascoltare
il musicista invisibile.
“Suona
bene, sai,” diceva qualche volta a Zosia, con un sospiro. “A me piace
tanto la musica...”
“Ti
piace più di me?”
Janek
la baciava.
“No.”
Una
mattina Zosia scomparve e tornò la sera, tutta sorridente.
“Ho
un bel regalo per te.”
“Che
cos’é?”
“Ti
piacerà.”
Zosia
rise.
“Chiudi
gli occhi.”
Janek
obbedì. Prima sentì uno stridore, un orribile scricchiolio, poi una voce
fessa e volgare che urlava:
Czy
pani Marta
Jest
grzechu warta...
Gli
scricchiolii, lo stridore, gli urli si succedevano senza fine.
“Musica!”
disse fieramente Zosia. “Per te!”
Janek
apri gli occhi. La ragazza sorrideva, felice del piacere che credeva di
procurargli.
“Me
lo ha trovato Yankel, da un ebreo della foresta...”
Janek
avrebbe voluto scagliarsi sul fonografo, spaccare il disco. Ma si dominò.
Non voleva dare un dispiacere a Zosia. Perciò soffrì in silenzio.
“Bello,
non è vero?”
La
ragazza ricaricò il fonografo.
Czy
pani Marta...
Dolcemente,
Janek fermò l’apparecchio. Poi prese la pistola, la nascose sotto la
giacca. Disse:
“Andiamo.”
La
ragazza si alzò. Non fece domande. Lo seguì. Uscirono dalla tana. Il
crepuscolo scendeva sulla foresta, l’aria era calma e ghiacciata, la
neve scricchiolava sotto i passi. Non parlavano. Solo una volta la ragazza
domandò:
“Andiamo
a Vilna?”
“Sì.”
Vi
giunsero di notte. Le vie erano deserte. Janek attraversò il cortile, salì
la scala. Zosia lo seguiva. Lui le prese la mano, la strinse nella sua.
“Ascolta.”
Da
dentro si sentiva il piano. Janek tirò fuori la pistola. Zosia disse
solo:
“Non
è prudente.”
Janek
bussò alla porta. La musica tacque. Si sentì un rumore di ciabatte, la
chiave girò nella serratura e la porta si aprì. L’uomo reggeva in mano
una lampada col paralume giallo. Janek guardò per un secondo, un solo
secondo, le risaie, le pagode e gli uccelli neri... Poi il suo sguardo,
carico di odio, si fissò sull’uomo. Era un uomo maturo, con i capelli
grigi. Aveva il naso lungo e rosso, e gli occhiali cerchiati di nichel vi
stavano aggrappati sopra, sul punto di cadere. Guardava Janek al di sopra
degli occhiali, la testa leggermente piegata di lato. Indossava una
vecchia vestaglia d’un verde stinto e portava una grossa sciarpa intorno
al collo. Pareva raffreddato. Disse in polacco, con un forte accento:
“Che
cosa vo...”
Lo
sguardo gli si fermò sulla pistola. Alzò una mano e si riassestò gli
occhiali sul naso. Non pareva spaventato, nemmeno sorpreso. Aprì del
tutto la porta. Disse:
“Entrate.”
Zosia
richiuse la porta. Il vecchio starnutì, si soffiò rumorosamente il naso,
sospirò e disse:
“Poveri
ragazzi!”
Janek
teneva la pistola con mano ferma. Non aveva paura. Sapeva che non avrebbe
avuto alcuna pietà per il vecchio. Ricordava panna Jadwiga... Non
avrebbe avuto alcuna pietà.
“II
denaro è nella mia giacca. Arrivi proprio giusto, ragazzo mio. Ho appena
avuto il mio stipendio di capitano.”
E
l’uomo rise.
“È
tuo.”
Janek
guardava le pagode, le risaie e gli uccelli sul paralume giallo. Gli si
stringeva il cuore.
“Non
dirò niente a nessuno,” disse l’uomo in tono amichevole. “Non
voglio che tu sia fucilato, ragazzo mio. Ne fucilano già troppa di gente
come te.”
Prese
il portafoglio dalla tasca della giacca, glielo tese. Janek non lo prese.
L’uomo parve stupito.
“Hai
fame? In cucina c’è ancora...”
“Non
ho fame.”
L’uomo
impallidì visibilmente. Disse con voce rauca:
“Capisco.
Tu vivevi qui, prima. Capisco. Ma io non c’entro per niente. Questo
alloggio mi è stato assegnato, io non lo avevo chiesto. Sono stato
contento, certo, per il pianoforte. Ma non ho scacciato la tua famiglia da
qui, ragazzo.”
La
lampada gli tremava in mano. Le pagode, le risaie e gli uccelli creavano
ombre immense sui muri.
“Forse
i tuoi sono stati uccisi? Io non sapevo. Non avrei accettato questo
alloggio...”
“Suonate!”
ordinò Janek.
L’uomo
non capì.
“Mettetevi
al piano e suonate!”
L’uomo
posò la lampada sul piano, sedette. Gli tremavano le mani.
“Che
cosa devo suonare?
Qui
c’è Schubert, e qui...”
“Suonate.”
L’uomo
cominciò a suonare. Ma le mani gli tremavano troppo.
“Suonate
un po’ meglio!” gridò Janek.
“Abbassa
la pistola, ragazzo. Non è incoraggiante sentirsela sulla schiena.”
Si
mise a suonare. Suonava bene.
Sì,
pensava Janek con tristezza, sa suonare. Prese una mano di Zosia.
“Ascolta.
Questa è musica.”
Zosia
gli si strinse vicina.
“Ora,
Chopin,” disse Janek.
...Quando
tornò sulla terra, Janek vide l’uomo, in piedi davanti al piano, che lo
guardava.
“Ragazzo,
avrei potuto disarmarti. Avevi dimenticato tutto.”
Janek
corrugò la fronte.
“Vai,”
disse a Zosia.
“E
tu?”
“Io
rimarrò qui perché lui non possa chiamare...”
“Non
chiamerò nessuno,” disse l’uomo.
“Vai.
Non aver paura. Ti ritroverò nella foresta.”
La
ragazza obbedì.
“Vuoi
che suoni ancora?” domandò il tedesco.
“Sì.”
L’uomo
suonò dei pezzi di Mozart. Suonò per quasi un’ora, a memoria. Quando
ebbe finito domandò:
“Ti
piace molto la musica?”
“Sì.”
“Puoi
tornare quando vuoi. Non devi aver paura. Sarò ben contento di suonare
per te, ragazzo mio. Vuoi fermarti a cena con me?”
“No.”
“Come
vuoi. Io mi chiamo Schröder,
Augustus Schröder.
Fabbricavo giocattoli musicali, da borghese.”
Sospirò.
“Io
amo molto i miei giocattoli musicali. Li preferisco agli uomini. Amo anche
i bambini. Non amo la guerra. Ma mio figlio, che ha la tua età, lui ama
molto la guerra...”
Diede
un’alzata di spalle.
“Perciò,
ho dovuto scegliere tra partire o perdere mio figlio. Ma io sono
nell’Intendenza e non possiedo nemmeno un fucile. Noi, ragazzo mio,
possiamo diventare amici.”
“No,”
disse Janek.
Esitò.
“Ma
tornerò,” aggiunse Janek.
“Sarò
sempre contento di suonare per te.”
Janek
se ne andò. Zosia lo aspettava nella tana.
“Avevo
paura per te.”
“E
allora?” fece Janek. “Era bello, vero?”
La
ragazza chinò la testa con aria colpevole. Cominciò a piangere.
“Zosia!”
Lei
singhiozzava disperatamente, come un bambino che le ha prese.
“Zosia,”
implorava Janek. “Zosienka... Cosa c’è?”
“Io
non ho trovato che fosse bello,” singhiozzò la ragazza. “Per niente,
per niente...”
“Zosia...”
Janek
la strinse tra le braccia, l’attrasse a sé.
“Ora
che te l’ho detto, tu non mi amerai più.”
“Oh
sì, ti amo, oh sì... Non piangere, Zosienka.”
“E
tu ami quella musica più di me... Oh mio Dio, come sono disgraziata!”
Janek
non sapeva più che cosa dirle. Se la stringeva al petto. Le accarezzava i
capelli. Le ripeteva: “Zosia, Zosienka...”
(dal
capitolo 20)
Janek
uscì. Ma c’era troppo vento, troppa neve per strada: decise di
attendere un po’ prima di tornare nella foresta. Si rifugiò sotto un
portone, si accosciò e cominciò a mangiare le patate fredde, tirandole
fuori una a una da sotto il cappotto. Le mangiava con la buccia e
rimpiangeva di non aver preso anche un po’ di sale. All’improvviso si
sentì osservato. Continuò a mangiare, senza voltarsi
― poteva
essere un poliziotto tedesco
― e cercò
di guardarsi intorno senza muovere la testa. Vide un ragazzino di circa
dodici anni, vestito di un sacco: il sacco aveva un buco per la testa e
due per le braccia. Al posto delle scarpe, aveva avvolto i piedi in
stracci informi, uno più grosso dell’altro. In testa aveva un berretto
ancora in buono stato, ma troppo grande, con la visiera all’indietro, in
modo da proteggere la nuca dalla neve. Il ragazzo non guardava Janek.
Sembrava che per lui non esistesse nemmeno. Guardava le patate. Non gli
toglieva lo sguardo di dosso. Ne era affascinato. Ogni volta che Janek
tirava fuori da sotto il cappotto una patata, lo sguardo del ragazzo si
illuminava, seguiva la patata nel suo viaggio verso la bocca, e ogni volta
che Janek mordeva, lo sguardo esprimeva un’acuta ansia: quest’ansia si
trasformava in disperazione allorché Janek inghiottiva l’ultimo
boccone. Il ragazzo si agitava nervosamente, inghiottiva la saliva e
guardava il cappotto di Janek con aria indagatrice. C’erano o non
c’erano altre patate? Questo era l’importante. Freddamente, Janek
continuava a rimpinzarsi. Il ragazzo se ne stava lì, con gli occhi fissi
sulle patate. Solo, ogni tanto, sospirava e inghiottiva la saliva. Poi,
improvvisamente, guardò Janek: per la prima volta forse considerava
l’aspetto umano del problema. Rifletté un secondo, poi si tolse
l’enorme berretto, lo esaminò, sputò con ammirazione e disse:
“Un
bel berretto, kurwa pies. Nuovo.”
Janek
continuò a mordere la patata, senza voltare la testa.
“L’ho
fregato a uno che passava. E un signor berretto.”
Vide
Janek frugarsi sotto il cappotto. Il ragazzo lo adocchiò ansioso
― forse le
patate erano finite? Osservò sollevato venire fuori un’altra patata e
disse rapidamente:
“Lo
venderei per una dozzina di patate. Non per meno!”
Janek
non rispose.
“Mezza
dozzina,” propose ansiosamente il ragazzo. E vedendo che l’offerta non
aveva successo, le labbra gli tremarono e il viso cominciò a contrarsi.
Stava per piangere.
“Ora
non frignare,” disse Janek. “Mai frignare. Prima andava bene. Ora non
più.”
Gli
gettò una patata, e il ragazzo la divorò istantaneamente. Gliene gettò
un’altra.
“Avresti
dovuto prendere un coltello e saltarmi addosso,” disse Janek. “Così
bisogna fare ora. Avresti potuto prendere tutte le mie patate.”
“Non
ce l’ho il coltello,” disse il ragazzo.
“Comunque,
non me l’avresti fatta,” lo rassicurò Janek sprezzante. “Avevo
subito sentito che eri lì. Io gli uomini li sento subito. Questo si
impara nella foresta...”
L’altro
mangiava la patata. La succhiava, la leccava, la rosicchiava prima di
mangiarla. Cercava di farla durare quanto più poteva. La sbucciava con le
unghie, e quando aveva finito la patata, mangiava la buccia.
“Tu
sei della foresta?”
Janek
non rispose. Allora il ragazzo cercò qualcosa per impressionarlo. Disse,
fregando negligentemente il suolo con un piede:
“Mio
padre era maestro di scuola.”
“Mio
padre era medico,” disse Janek.
“Mio
padre,” disse il ragazzo, “ha ucciso un tedesco.”
E
aggiunse fieramente:
“È
stato impiccato!”
Attese
fiducioso l’effetto di quella dichiarazione.
“Sciocchezze,”
disse Janek tranquillamente. “Buone per chiedere l’elemosina alle
donnette all’uscita della chiesa... Con me non attacca.”
II
ragazzo giurò solennemente:
“Jak
Boga kocham.
È
stato impiccato. L’hanno impiccato davanti al Teatro Grande e l’hanno
lasciato lì per due giorni. Chiunque te lo può dire. Non hai che da
domandare. Io ho portato tutti i miei compagni a vederlo. Mia madre è
impazzita, l’hanno rinchiusa. Tuo padre però non è mica stato
impiccato, vero?”
Pregò
rapidamente, cercando di sfruttare quello che credeva fosse un successo
decisivo:
“Dammi
un’altra patata.”
“Mio
padre,” disse Janek in tono altezzoso, “ha ucciso centinaia di
tedeschi. Ma non era tanto bestia come il tuo da lasciarsi
acciuffare...”
Scrollò
le spalle.
“Se
ogni volta che si uccide un tedesco si dovesse finire impiccati...”
II
ragazzo lo guardò con rispetto.
“Dov’è
tuo padre?”
“Combatte
contro i tedeschi.”
“Dove?”
“A
Stalingrado.”
“Nooo...”
“Sì.”
“È
ufficiale?”
“Generale!”
Janek
si vergognò di questa menzogna. Dove era suo padre? Come poteva parlarne
con tanta leggerezza? Seccato, tirò fuori le ultime patate e le gettò al
ragazzo. Lui le prese al volo e se le mise in tasca.
“Per
la mia donna,” disse.
“Hai
una donna?”
“Sì.
Lavora per me. Siamo in diversi addosso a lei: Maniek Zagorski, Joziek
Meka e, naturalmente, Zbych Kurzawa... Ma io sono il suo preferito.”
Disse,
con aria di importanza:
“È
una buona ragazza. I soldati tedeschi le danno viveri in scatola. E lei li
porta a casa. Qualche volta le danno anche soldi. E lei porta a casa anche
i soldi.”
Sputò.
“Non
si vive male. Non ci si lagna. Quello che manca è il tabacco.”
“Siete
in molti?”
“Oh,
ci sono parecchie bande. Io sono con quella di Zbych Kurzawa. E un byczy
facet, un tipo meraviglioso! Tutti gli obbediscono e lui ha diritto su
tutte le ragazze.
È
fortunato: ieri è
tornato a casa con tre sacchi di provviste. Ha assalito tre donne in
mezz’ora, da solo. È
quasi grande come te. E gli piace godersela, gli piace spassarsela. Una
volta ha trovato, non so dove, un moccioso ebreo, un wunderkind, un
ragazzo prodigio, sai, che suona il violino. I suoi genitori sono stati
fucilati, o deportati, o qualcosa di simile. Zbych lo ha portato da noi e,
quando ne ha voglia, gli fa suonare il violino e balliamo. A me però quel
moccioso non piace, è uno zydparch...”
Sputò.
“A
me non piacciono i giudei. Ma ce lo teniamo per suonare il violino per
strada, quando chiediamo l’elemosina. E poi quello è impagabile.
L’altro giorno Zbych era di cattivo umore, e trovò che il pavimento era
sporco, e allora sai che cosa ha fatto?”
“No.”
“Ha
preso Wunderkind per il collo e gli ha fatto leccare il pavimento da muro
a muro. Bisognava essere Zbych per pensare una cosa simile.”
“Proprio,”
disse Janek, “bisognava proprio essere Zbych.”
“Si
chiama Moniek, o qualcosa così, ma tutti lo chiamano Wunderkind.
“Ehi,
Wunderkind! Vai a
cercare un po’ di legna! Suona il violino! Balla, canta, cammina a
quattro zampe!” Lui fa tutto ciò che gli si dice di fare. È impagabile,
ti dico.”
“Molto
impagabile,” disse Janek tra i denti. “Lo si può vedere?”
“Si
può,” disse il ragazzo, “se hai ancora qualche patata...”
“Qui
non ne ho più. Ma ve ne potrei portare un sacco, un’altra volta.”
II
ragazzo restò a bocca aperta. Sentì un nodo alla gola e balbettò:
“Un
sacco?”
“Forse.
Se ci mettiamo d’accordo.”
“Vieni,”
disse il ragazzo. Si avviarono.
“Tutti
mi chiamano Pestka,” disse il moccioso strada facendo. “E tu, come ti
chiami?”
“Jan
Twardowski.”
Percorsero
la Pohulanka sino alla Zawalna e girarono a sinistra.
“È
qui,” disse Pestka.
L’edificio
doveva essere stato una fabbrica. Ma i muri erano anneriti e in parte
crollati; solo la ciminiera era rimasta in piedi, intatta, in mezzo al
cortile.
“Non
ci viene mai nessuno, qui dentro,” disse Pestka, “perché è
pericoloso. I muri potrebbero crollare, dicono. Ma noi ce ne freghiamo.”
Mostrò
la strada a Janek. Scesero una scala in rovina e ingombra di sporcizia,
che portava in cantina. Era buio, si inciampava sulle pietre cadute, il
locale puzzava di marcio, di escrementi. Udirono un violino e una voce
tremante che cantava, con forte accento ebraico:
Siedziala
na debie
I
dlubala w zebie,
A
ludziska glupie
Mysleli
ze w dupie!
II
violino tacque e si udirono voci che chiedevano:
“Ancora!
Ancora! Tytyna!”
“Tytyna!”
reclamarono altre voci, tra cui alcune acute, di ragazzine.
II
violino riprese e la voce infantile cantò:
Tytyna
byla chora
I
poszla do doktora,
A
doktor jej powiedzial
Ze
na niej chlopiec siedzial!
“Zbych
Kurzawa è di buon umore,” disse Pestka con apprensione.
Per
una buona metà la cantina era ostruita da pietre: il soffitto era
crollato. Nella parte libera vi era un fuoco, intorno al quale ragazzi e
ragazze erano seduti su sacchi, casse e pagliericci marci. Il maggiore non
doveva avere più di quindici anni.
“Zbych
Kurzawa,” disse Pestka, in tono di profondo rispetto.
Una
faccia da tisico, sotto una zazzera bionda, con le narici
straordinariamente dilatate, come se non riuscissero mai ad aspirare
abbastanza aria. Un petto incavato, due spalle strette. La bocca era
contratta e gli occhi avevano un’espressione cattiva.
“Ancora,
Wunderkind! Tytyna!”
Al
centro del gruppo stava, in piedi, un monello di circa dodici anni. Era
brutto: capelli rossi, bocca e naso carnosi e occhi senza ciglia, con le
palpebre arrossate. Teneva un violino sotto il mento. Gli tremarono le
labbra e cominciò a cantare, accompagnandosi col violino:
Lezala
pod kaktusem,
Jebala
sie z hindusem...
“Che
cos’è che sai fare, Wunderkind?” strillò una ragazzina.
“Canto,
suono il violino, ballo e faccio il bello,” rispose subito il ragazzo.
E
continuò a cantare:
Lezala
pod cyprysem,
Jebala
sie z tygrysem...
Pestka
avanzò e presentò Janek. Zbych Kurzawa lo accolse con un’occhiata
inquieta: si capiva che detestava e temeva i ragazzi più forti di lui.
Pestka gli parlò all’orecchio.
“Che
cosa vuoi per le patate?” domandò Zbych.
“Ne
parleremo poi.”
“Io
me ne frego,” disse Zbych. “Ne ho abbastanza da mangiare.
È
per gli altri.”
Si
volse a Wunderkind:
“Chiudi
il culo e vai a scaldare un po’ d’acqua.”
II
ragazzo scomparve dietro i mucchi di pietre.
“Posso
parlargli?” domandò Janek.
Zbych
Kurzawa lo guardò fisso.
“È
per questo che sei venuto, no?”
“Sì.”
“Bene.
Vacci pure. Non costa niente.”
Janek
trovò il ragazzo chino su un fuoco di legna. Faceva bollire l’acqua e
piangeva silenziosamente.
“Come
ti chiami?”
II
piccolo sobbalzò, girò verso Janek la faccia spaventata.
“Wunderkind,
Wunderkind,” ripeté rapidamente come un automa. “Canto, suono il
violino, ballo e faccio il bello. Non mi picchiare!”
“Non
ti picchio mica. Nessuno ti picchierà più, se sai suonare il
violino...”
Wunderkind
gli gettò un’occhiata incerta. Il violino era appoggiato al muro. Janek
allungò la mano.
“Non
lo toccare!” urlò il piccolo. “Zbych Kurzawa ti sgozza se lo
tocchi!”
“Non
volevo toccarlo. E non ho paura di Zbych Kurzawa.”
“Non
è vero. Tutti hanno paura di lui.”
“Sai
suonare il violino, o no?”
II
piccolo lo guardò con attenzione.
“Ti
piace la musica?”
“Molto.”
“Allora
non mi batterai. Non potresti amare la musica e battermi... Non lo dirai a
nessuno?”
“A
nessuno.”
“Allora,
senti...”
Prese
il violino. In piedi in mezzo alla cantina puzzolente, vestito di stracci
sporchi, il ragazzo ebreo i cui genitori erano stati massacrati in un
ghetto riabilitava il mondo e gli uomini, riabilitava Dio. Suonava. Il suo
viso non era più brutto, il suo corpo goffo non era più ridicolo, e
nella sua piccola mano l’archetto era diventato una bacchetta magica. La
testa all’indietro alla maniera dei vincitori, le labbra socchiuse in un
sorriso di trionfo, suonava. Il mondo era uscito dal caos, aveva assunto
una forma armoniosa e pura. Al principio era morto l’odio, dopo i primi
accordi la fame, il disprezzo e la bruttezza erano svaniti, come oscure
larve accecate e uccise dalla luce. In tutti i cuori regnava il calore
dell’amore. Tutte le mani erano tese, tutti i petti erano fratelli...
Ogni tanto il ragazzo si fermava e gettava a Janek uno sguardo di trionfo.
“Ancora,”
mormorava Janek.
II
piccolo continuava. E alla fine Janek ebbe paura, paura della morte. Una
pallottola tedesca, il freddo, la fame, e lui sarebbe scomparso senza aver
prima abbeverato l’anima al Graal umano, creato nella peste e
nell’odio, nei massacri e nel disprezzo, col sudore della fronte e al
prezzo di lacrime di sangue, nella grande sofferenza del corpo e dello
spirito, nella collera e nell’indifferenza del cielo, il lavoro
impareggiabile di queste formiche umane che hanno saputo, in pochi anni di
vita miserabile, creare bellezza per millenni.
“E
loro mi battono,” disse il piccolo ebreo con voce amara. “E loro mi
fanno pulire il pavimento con la lingua...”
“Come
ti chiami?” mormorò Janek.
“Moniek
Stern,” disse il ragazzo. “Mio padre diceva che sarei diventato un
grande musicista. Come Yacha Heifetz o Jehudi Menuhin. Ma mio padre è
morto, e quelli mi battono.”
“Vuoi
venire con me?”
“Dove?”
“Nella
foresta. Dai partigiani.”
“Verrò,
non m’importa dove, basta che possa uscire di qui. Ma quelli non mi
lasceranno andare. Io sono il loro ebreo, il loro zimbello. Senza di me,
si ammazzeranno tra loro.” “Vedremo,” disse Janek tra i denti.
(dal
capitolo 26) |
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Romain Gary (pseudonimo di Romain Kacev) nacque nel 1914 in Lituania, figlio naturale di un’attrice, ebrea russa fuggita dalla rivoluzione, e di Ivan Mosjoukine, la più celebre vedette, insieme a Rodolfo Valentino, del cinema muto.
A trent’anni, Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d’honneur), scrive un romanzo, Education européenne, gli si aprono le porte della diplomazia.
Nel 1956, vince il Goncourt con Les racines du ciel. Nel 1960 pubblica uno dei suoi capolavori, La promessa dell’alba. Nel 1962 sposa Jean Seberg, l’attrice americana di Bonjour tristesse, l’interprete di A bout de souffle. Nel 1975 pubblica, con lo pseudonimo di Emile Ajar (identificato all’inizio come Paul Pavlovitch, nipote reale di Romain Gary), La vita davanti a sé, che nello stesso anno vince il premio Goncourt.
Il pomeriggio del 3 dicembre del 1980, Gary si uccide, nella sua casa di place Vendôme a Parigi, con un colpo di pistola alla testa.
(dal risvolto di copertina) |
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