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Così morì un partito
Traduzione di Eugenio Spedicato
1988 - Casa Editrice Marietti
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Il “centrismo” delle Sinistre è una delle cause del fascismo? |
La copertina del libro. |
Era uno specialista in piccole prepotenze... (Come il Brunetta). Se tutto questo finisse, finirebbe la vita stessa... (Come pensiamo noi vedendo prendere a picconate tutto ciò che in due secoli di generosità, d’intelligenza e di lotte è stato costruito a difesa della dignità umana). Padri di famiglia fanno il calcolo di quanto devono spendere per gas, luce, cibo... (Come noi, ridotti ormai quasi alla fame da venti e trent’anni di tirannia dei mercanti). Il Centro è l’ago della bilancia... (Come ragliano anche oggi gli asini della finta “sinistra” per liberarsi della Sinistra vera). Era chiaro solo quale minaccia immediata incombeva... (La stessa “visione ristretta” che affligge anche noi, timorosi di aprire gli occhi sulle mete a cui vogliono condurci le continue aggressioni alla democrazia, alla Costituzione, alla nostra memoria storica). Ma davvero il governo intendeva spingere la situazione fino al limite estremo? Non si potevano invece fare le riforme con il consenso della socialdemocrazia?... (Come supplica anche oggi la finta “sinistra” invocando il “dialogo” e le “riforme condivise”). Con quale diabolica scaltrezza avevano sottratto loro un diritto dopo l’altro, eclissandoli!... Come anche noi rischiamo di capire troppo tardi!
Sembrano scritte oggi in Italia, queste frasi che suonano come campane a morto, e invece sono tratte dall’unico romanzo di un ragazzo di meno di 25 anni assassinato a Dachau nel 1938: Così morì un partito, storia di donne e uomini come noi cui toccò in sorte di vedere la Sinistra austriaca suicidarsi “sotto gli attacchi grotteschi e arroganti di Dollfuss,” così si legge nel risvolto di copertina, “premessa tragica della successiva annessione alla Germania di Hitler”...
Gli attacchi grotteschi e arroganti di Dollfuss... E gli attacchi che l’Italia subisce dal berluscismo da un quarto di secolo? Quanto sono grotteschi? Quanto sono arroganti? Dove ci hanno portato? Dove ci porteranno? |
Lo specialista in piccole prepotenze
L’arte moderna non c’era più niente che la tenesse a freno: minava lo Stato alle fondamenta e, quel che era quasi più grave, minava Zehetner stesso. I giovani, invece di imparare la disciplina nelle caserme, si erano messi a far politica. Le ragazze trascorrevano le vacanze in alloggi in comune con i ragazzi e non restavano nemmeno incinte. I senza-Dio potevano insultare il clero liberamente. Un impiegato con istruzione superiore si doveva lasciar chiamare proletario. Tutto era permesso a tutti. Tutto era possibile in qualsiasi momento. Soltanto una cosa non lo era: mostrare con la bramata franchezza il proprio odio a coloro i quali erano colpevoli di tutto. Invece, si doveva collaborare con loro. Sedevano in qualità di membri del comitato centrale nella direzione generale nello Schwarzenbergplatz. Sedevano, ebrei e spalatori di carbone, ad altezze supreme, vertiginose: perfino nel consiglio di amministrazione. E ciò che più sconcertava in questo scompiglio dell’epoca dopo la sovversione era che non si collaborava con loro semplicemente perché costretti. Non era così, perché in realtà erano necessari? Non erano proprio loro l’argine contro un caos ancora più grande, definitivo? Questo poteva saperlo il diavolo o loro stessi. Erano conservatori o rivoluzionari? I loro giornali lo spiegavano in una lingua che per Zehetner era cinese. I loro sindacati accettavano i tagli sul salario senza batter ciglio ma poi parlavano di economia pianificata socialista. I loro deputati chiudevano gli occhi davanti a drastici provvedimenti del governo ma poi minacciavano la rivoluzione. Periodicamente la confusione spingeva Zehetner quasi verso la mania di persecuzione. Quando in periferia passava accanto alle gigantesche costruzioni comunali che portavano nomi come Karl Marx, Friedrich Engels, Matteotti, Lassalle, non vedeva di fronte a sé case popolari, ma fortilizi della Lega difensiva costruiti in previsione della guerra civile. Gli autocarri comunali per la nettezza urbana erano carri armati, i giardini d’infanzia arsenali d’armi, i campi da gioco piazze d’armi. Avevano fatto di Vienna la fortezza mimetizzata della rivoluzione mondiale. Al posto delle facce portavano maschere e maschere sotto le maschere. Erano incomprensibili e inafferrabili come la stessa epoca dopo la sovversione. Erano essi stessi quest’epoca. Avevano colpa di tutto. Non si poteva fare a meno di loro. Si doveva temerli come il primo giorno. E soltanto chi non poteva farne a meno, chi ne aveva paura, poteva odiarli davvero profondamente. Ma udire quella parola dalla bocca della propria consorte! Zehetner girovagava stravolto. “Sono dunque un proletario?” continuava a domandarle, con le labbra contratte. “Sicché per te sono un proletario?” Invano lei, pentita, cercava di porre rimedio al passo falso. Il marito non le credeva più. Si tormentava parlando dei suoi miseri 195 scellini al mese, dei suoi quattro figli senza una sistemazione, della sua funzione inessenziale nell’ufficio, dov’egli a rigor di termini poteva essere sostituito senza problemi da chicchessia in qualsiasi momento. “Un proletario,” ripeteva, “questo hanno fatto di me.” Per giorni e giorni non vi fu posto per altri pensieri. Compiere in questo periodo il suo servizio come al solito gli riuscì soltanto perché il lavoro equivaleva realmente a quello di una primitiva calcolatrice, con la differenza che quest’ultima avrebbe funzionato con più precisione, perché non afflitta dalle rate non pagate di una giacca d’alpaca e da sentimenti confusi. Ma Zehetner, educato cattolicamente in un paese molto cattolico, e rimasto cattolico, nutriva nei confronti dei sentimenti un rispetto tanto più grande, quanto più erano confusi. Gli avevano insegnato a fiutarvi qualcosa di più elevato. Una frase fatta, cacciata giù una volta con un quartino di Vöslauer al tavolo per i vecchi clienti, risalì improvvisamente alla superficie: “È scoppiata in me la nostalgia,” disse a sé stesso, “la nostalgia dell’Austria, della vera Austria, di quella cristiana, tedesca...” Fu allora che ascoltò le profezie per l’anno a venire, il 1933, annunciate ogni fine d’anno dal Führer di qua e dal Führer di là. A lui, che non si sapeva decidere tra i due, in questo caso il dilemma venne risparmiato. Entrambi dicevano le stesse cose: il 1933 avrebbe portato trasformazioni possenti, risolutorie, epocali. Gli oracoli d’uguale tenore, pronunciati l’anno prima, Zehetner li aveva dimenticati. In silenzio inebriato sedeva accanto all’apparecchio radiofonico, dal quale gli veniva proclamata la grande conferma: ora basta, così non si può andare avanti, qualcosa deve accadere... Sì, lo sentiva anche lui. Quei quattordici anni avevano colmato la misura, e la lancetta della storia universale incalzava finalmente verso l’ora decisiva! Sì, Zehetner era tedesco, ariano, austriaco, cristiano, ma era lo schiavo di Versailles e di Saint-Germain, il bersaglio del terrore marxista e la quercia le cui radici erano rose da Giuda. Anche a lui, il più prudente di tutti, qualcosa finalmente ordinava di mettersi in marcia; soltanto che egli non sapeva ancora se era il richiamo del sangue o la voce del padrone. Comunque fosse, anche lui, Zehetner, si era risvegliato! Nessuno poteva più rinfacciargli d’essere un vigliacco! In questo stato d’animo sovreccitato ricevette dalla direzione l’incarico di ripartire i turni del personale per il servizio intensificato delle feste e, allo stesso tempo, anche un suggerimento senza impegni: se voleva, poteva anche, in questa modesta occasione, far sentire a certa gente tra i dipendenti che i tempi erano cambiati. Dopo la chiusura dell’ufficio, Zehetner si portò a casa le liste dei turni e ci passò sù una mezza nottata. Era uno specialista in piccole prepotenze. Questa volta, però, non avrebbe fatto un lavoretto abborracciato, ma un capolavoro, un’opera da vendicatore. Certi signoroni si sarebbero stupiti di quanto sarebbe stato amaro per loro il servizio di Natale e di Capodanno! E non si sarebbe fermato al personale di riserva, che sempre in questi casi era abbandonato alle sue mani. No: altri, nonostante i turni permanenti, avrebbero ricevuto delle sorprese. Traboccante di gioia, Zehetner sentì in sé quella disposizione a qualsiasi atto di violenza, quella decisione temeraria e priva di scrupoli che, pieno d’invidia, aveva già notato così spesso nei camerati più giovani. Là, in quella lista, molti erano i nomi che il suo pennino, scricchiolando d’odio, ma con una calligrafia resa più pignola dalla paura, aveva sempre collocato nei posti assicurati dall’ordine di servizio e dal contratto collettivo. Ma questa volta furono violentati come nomi comuni, oscuri. Cinque ore di sonno furono assegnate a ciascuno ogni ventiquattro ore. Era una crudele resa dei conti quella che Zehetner stilava. Soltanto davanti a un nome esitò. Non era il macchinista Ferdinand Dworak l’unico in azienda che poteva entrare nell’ufficio del capo senza pulirsi le scarpe? (E il capo aveva l’orecchio così fino per lo stropiccio di prammatica sul tappetino d’ingresso!) Non era a questo Dworak che veniva offerta ogni volta la sigaretta di cortesia quando, nella sua tuta da lavoro tutta sporca d’olio, si sedeva nella bella poltrona di pelle del sancta sanctorum? L’anno 1918, ogni volta che ci si voltava indietro, non aveva la faccia di questo Dworak? Non era stato lui allora il padrone dell’azienda? E non fu proprio lui, allora, nel ’18, dal tetto d’un vagone, dinanzi a una massa scatenata di reduci, a decidere della vita e della morte del signor direttore con quel suo eterno: “Compagni, ora non dobbiamo perdere la testa”? Non era Dworak, nella stazione, a un tempo il pericolosissimo numero uno e la persona di riguardo più apprezzata? Non era tanto degno di rancore quanto indispensabile? Non era... ma a che scopo rivangare tutta la miseria dell’epoca dopo la sovversione? Non era Dworak, per farla breve, il capo del gruppo locale del sindacato libero? Zehetner esitò a lungo, finché vinse ogni timore. Quindi si alzò: un trionfatore.
(pp 17 - 21)
Se tutto questo finisse...
Käte Haider, ventisette anni, camminava tra le file di un quartiere estraneo. Si era attardata nell’asilo per i figli di operai. Avrebbe preferito di gran lunga non prendere parte affatto alla marcia, dal momento che questa volta era stato consigliato di non portarsi dietro i bambini. Ma aveva un appuntamento col suo amico Franz Seidel, e lui, in queste cose, era molto preciso (troppo preciso ― e lei lo sapeva: se non lo disabituo a tanta suscettibilità, poi è troppo tardi, è tempo che lui impari qualcosa per amor mio). Si era, dunque, baloccata nell’asilo troppo a lungo, perché temeva di lasciare i piccoli alla sorveglianza della tredicenne Rosl, e perché Reiterer non arrivava e non arrivava, malgrado la promessa che avrebbe cantato con i bambini e risposto lui di tutto. Finché, naturalmente, si era fatto troppo tardi; e non aveva più incontrato quelli del quartiere nel luogo di concentramento, né più li aveva raggiunti sulla strada verso il Ring. Inutile farsi strada in quella corrente di 200.000 persone, chiedere dove si trovassero. Così, Käte si era infilata in una fila qualsiasi e soltanto più tardi aveva saputo di essere tra quelli di Florisdorf. Volti estranei la circondavano. L’inquietudine per l’asilo non la lasciava. Sentiva la mancanza della schiera dei piccoli, che nei giorni di maggio e di novembre trotterellavano dietro di lei lungo il Ring. Le mancava l’ansia costante di quei giorni: che non siano stanchi? Saranno caldi abbastanza nei loro abitini? E il compito ben difficile di dover spiegare ai più piccoli: questo è il nostro parlamento. Sai che cos’è un parlamento? Come ciascuno di noi, quando manifestavamo sul Ring, aveva intorno a sé la propria quotidianità, con la relativa gente, i relativi pensieri, così Käte aveva bisogno qui dei suoi quaranta bambini. Senza di loro le sembrava d’essere davvero inutile, come se, passando dalla sua propria attività vitale alla calca, si fosse perduta e dovesse aspettare ora che qualcuno si ricordasse di lei e venisse a prenderla, o come se si fosse smarrita in un rione sconosciuto. (...) Käte udì ancora una volta il coro che dominava questa marcia: “Hitler, crepa!” Si domandò: “Perché abbiamo preso dai nazisti questa parola orribile? Non vogliamo lottare con le armi dell’immaginazione?” (...) Käte pensò ancora al luminoso asilo nella casa comunale e al fatto che, in verità, era diventata socialdemocratica perché il comune faceva molto per i bambini. Non era stato facile allora, dieci anni prima. Il padre era un dirigente del sindacato cristiano, era della vecchia guardia di Kunschak, cattolico tutto d’un pezzo e terribilmente amareggiato. L’aveva perfino cacciata di casa; lei ne aveva sofferto molto. La famiglia era stata fino a quel momento tutto il suo mondo. Poi le capitò l’insperato: il partito le dà tutto, le sostituisce tutto, anche la famiglia. “Abbasso il fascismo!” ruggì la massa. Fascismo? ― si domandò improvvisamente Käte. Che significa veramente questa parola? Significa: tutto questo finisce? Tentò di costruirsi su questo pensiero uno scenario: che aspetto avrebbe avuto allora la vita? Tradurre quel pensiero in immagini, rispondere a quella domanda risultò impossibile. Se tutto questo finisse, finirebbe la vita stessa.
(pp 64 - 66)
Hitler? In un anno sarà bell’e spacciato!
“Ma,” concluse Dreher pensoso, “in tutta questa storia io ho un cattivo presentimento, cattivo come non lo avevo da un pezzo.” Dworak ascoltò tutto in silenzio. Vedeva bene la serietà della situazione, tuttavia si sentiva l’animo pieno di felicità, vedeva con occhi nuovi. Nell’anno già trascorso il salario dei ferrovieri era stato pian piano ridotto del 25 per cento, e del pari, un passo dopo l’altro, vari diritti erano andati perduti. Quando Dworak, dopo snervanti trattative, alla fine venne a sapere dal comitato centrale che bisognava accettare un cosiddetto “piccolo sacrificio”, gli si presentò sempre la stessa immagine, sempre più opprimente: egli entra nell’azienda, dozzine di domande lo assalgono; attraversa la sala, incalzato da cento sguardi indagatori; un passare sotto le forche caudine che dura ore; e alla fine ecco l’assemblea aziendale e qui deve far capire ai compagni che ancora una volta ci si appella alla loro comprensione, che questa misura è un compromesso raggiunto con difficoltà, che con la crisi non si può scioperare, che ogni resistenza peggiorerebbe soltanto la situazione, ecc. Ma l’opposizione salta in piedi, in tumulto. Padri di famiglia fanno goffamente, in piena assemblea, il calcolo di quanto devono spendere per gas, luce, cibo. Nessuno pensa che Dworak sopporta gli stessi sacrifici. Lui consola tutti, nessuno consola lui. Così era stato finora. Ma ora gli venivano altre immagini. D’ora in poi sarebbe stato seduto a una scrivania, avrebbe esaminato criticamente le proposte del direttore generale, trattato con tenacia nelle commissioni, predisposto una precisa relazione per il comitato centrale. Pensò: ora avrò una migliore cognizione di questa situazione ingarbugliata. Da un punto d’osservazione più alto. Ma nel suo cervello, in genere sobrio e freddo, sorse ora, per una frazione di secondo, l’immagine di una sala affollata che somigliava maledettamente alla sala delle sedute parlamentari. Il deputato Dworak teneva un discorso infiammato contro la spoliazione dei ferrovieri e ribatteva pronto, con scherno, alle interruzioni della destra. Già a mezzogiorno ne avrebbe letto il resoconto sui giornali. (Nel frattempo la cameriera apparecchiava la tavola e il ragazzo tornava a casa dal politecnico...) Nelle ultime settimane, la paura insorta all’improvviso di invecchiare aveva limitato il suo consumo di sigarette. Ora, appoggiatosi alla spalliera della sedia, se ne accese una senza esitazioni. “Già, i signori credono di potersi permettere tutto. A proposito, che ne dici di Hitler?” Il consigliere nazionale gettò là alcune verità ovvie: “Quello? Quello in un anno sarà bell’e spacciato. Senza dire che già il 5 marzo si romperà le ossa alle elezioni per il Reichstag. Dipende tutto dal Centro. Il Centro è l’ago della bilancia.” Afferrò la pipa: “Lo dico sempre io che...” Qui si arrestò. Anche il movimento della sua mano si arrestò. Da una qualche parte dell’immenso edificio della direzione era giunto debolmente il rumore di una porta che si chiudeva. Per Dreher quel rumore parve avere una grande importanza. Tendendo l’orecchio, guardò per un istante nel vuoto con gli occhi sgranati e sibilò in gran fretta: “Il caposezione!” E già era alla porta, che dimenticò di chiudere, e quindi fuori. Non appena si trovò nel corridoio, compì un movimento perfino grottesco. La mano destra fu sollevata un po’ più sù della spalla e articolata scioltamente più volte: così, giovialmente, ma non senza una certa arrendevole condiscendenza, si saluta a distanza un conoscente. Allo stesso tempo, però, si abbassò di colpo per tutto il busto in un inchino profondo e devoto. E come in una qualsiasi farsa il cameriere, in virtù di una sinuosa ondulazione della spina dorsale, dall’inchino d’un tratto si slancia in sù inarcandosi a croce e, reggendosi sulle punte dei piedi girate all’infuori, si affretta compunto verso il cliente di riguardo, così Dreher schizzò via in direzione sconosciuta. Dworak non poté fare a meno di scoppiare in una sonora risata. Dalle profondità del corridoio giungeva la voce del caposezione, e di nuovo il visitatore ebbe la sensazione di udire un disco girare sul grammofono; questa volta il tono era fortemente nasale e la molla dell’apparecchio si era quasi del tutto scaricata, così che la voce, insopportabilmente ampliata, sembrava voler morire tristemente ad ogni frase: “Guardi... ma va’ là... semplicemente... una complicazione... penosa.” A parte queste frasi compiacenti, non fu possibile capire altro. Dopo alcuni minuti Dreher rientrò e si abbatté sulla poltrona. I tratti carnosi del volto erano paurosamente stravolti, le guance due borse flosce. Per la prima volta si notò che sotto quegli occhi da poppante le sacche lacrimali pendevano tutte grinzose. Nel rossore della pelle erano comparse macchie ceree e irregolari. Come se fosse diventato cieco, Dreher cercava la sua pipa a tastoni; dalle labbra gli veniva fuori un brontolio monotono: “Maledetta furia... maledetta furia... e ancora maledetta... maledetta...” “Ma... cos’è successo?” domandò stupito Dworak. “In tre rate... in tre rate vogliono pagare in marzo salari e pensioni... in tre rate.” Dworak non capiva. “Non è poi tutta questa disgrazia. Se questo pagamento si considera in qualche modo come un credito forzoso nei confronti della direzione ― senza interessi ― da parte del personale, allora la perdita è tutt’al più di un paio di scellini.” Dreher fece cenno di no. “Non è così, Ferdl, non è così. Tu non lo sai. Quello mi ha detto ― confidenzialmente ― che se il sindacato non vota a favore ancora una volta... ancora una volta,” ora parlava in dialetto stretto, “allora se la sbrigano a modo loro! E mo’ che dici?” Dreher protese il pugno, nel quale teneva stretta con tutta la forza la pipa. Dal pugno scattò fuori il pollice; si distese: un tozzo, curvo uno pieno di carne e di sangue: “Per la prima volta!” L’eccitazione di un altro liberava sempre in Dworak una riserva di sangue freddo. Cominciò così a parlare diffusamente di tutto ciò che poteva avere un effetto sedativo: prima di tutto, la notizia poteva non essere autentica; in secondo luogo essa parlava unicamente di un piano, e il coraggio del governo, in questo misero staterello, già più volte era andato a farsi benedire; terzo, si trattava di una violazione eclatante del regolamento, di una violazione che, come Dreher aveva giustamente detto, avveniva per la prima volta con tanta evidenza; ma forse proprio per questo motivo bisognava interpretare la notizia nel senso che si voleva proporre alla discussione del sindacato un nuovo regolamento interno, regolamento con determinati poteri eccezionali per le direzione; quarto, già in passato su questioni pericolose si era trovato un compromesso. Il panciuto genio del compromesso scosse il capo. Dworak tacque. Il silenzio si gonfiò e durò, pesante come un’immensa massa d’acqua. Allora, scricchiolando e cigolando sommessamente, presero la parola i mobili della stanza: orribili, vecchi pezzi di lusso, che da un qualche imperialregio ministero del tempo antico erano stati trapiantati qui, corrosi dal tempo, patrimonio ereditario di molte generazioni di impiegati. Dagli angoli strisciavano le prime ombre del crepuscolo. Il quadro del maestro di scuola e borgomastro Seitz era già immerso nell’oscurità. Ma attraverso le finestre continuavano a penetrare smorzate le voci della grande manifestazione. I due uomini nella stanza tentarono in silenzio di valutare le conseguenze di quanto avevano appreso. Ma era chiaro soltanto quale minaccia immediata incombeva. Il governo, che per anni aveva attaccato gli operai, ora dirigeva il proprio attacco contro l’apparato del partito. Due avversari avevano giocato a carte; era stata una partita carica di eccitazione, ma ci si era seduti al tavolo verde ed erano state osservate le medesime regole. Ed ecco, uno dei due giocatori si alza in piedi e colpisce l’altro in pieno volto. Dworak si schiarì la voce e disse: “Pepi, non c’è bisogno che tu faccia il mio nome al comitato centrale. Resto nell’azienda. A quanto pare, avrete più bisogno di me là. Dobbiamo tranquillizzare i compagni e a parte me nessuno sa farlo nella mia azienda.” Voleva aggiungere ancora qualcosa. Dreher voleva rispondere, tentare ipocritamente di persuadere l’altro, avere soddisfazione. Ma non se ne fece niente. Mentre si guardavano negli occhi l’un l’altro, furono nello stesso tempo colti da un panico agghiacciante. Esso non proveniva da una riflessione cosciente, ma apparteneva a quelle assurde paure, quali talvolta provano gli uomini al primo confine con la vecchiaia. Ciò che si è costruito per tutta la propria vita sembra fragile e privo di valore durante questi attacchi. Ci si vede fragili e privi di valore, ovunque insidiati da malattia e morte. L’amico è falso. Il giorno stesso in cui vi siete conosciuti ti ha venduto. Egli ride di te alle tue spalle. La donna amata ti inganna perché tu non l’hai mai soddisfatta. La causa amata è un inganno perché tu l’hai tradita. E anche te stesso hai sempre ingannato, perché nulla di ciò che ti attribuisci come opera tua regge ad una prova. E tu stesso non hai più un avvenire. Fallirai sempre. Quel che possiedi ti sarà strappato. Quel che tu hai costruito lo butterà giù un alito di vento. Quello cui hai posto mano è sterco. Sterco e legnate: ecco il mondo. E tu sei indifeso. Perché sei vecchio, un uomo vecchio. Si alzarono in piedi contemporaneamente e, senza guardarsi, quasi temessero di scorgere l’uno sul volto dell’altro orribili piaghe, si rinchiusero a forza nei loro soprabiti. Soltanto per strada respirarono un’aria più leggera. Attraversando pian piano lo Schwarzenbergplatz, i due assaporarono con ponderata voluttà l’attesa gioiosa della manifestazione. Comprarono garofani rossi da una ragazzetta dei Falchi e se ne adornarono. Si scambiarono previsioni sulla possibilità che la pioggia alla fine potesse rovinare la marcia. Si avvicinarono sempre più al frastuono, che diventava assordante; dovettero intendersi ad alta voce. Giunti alle spalle del cordone, si misero a osservare per un po’ le bandiere d’assalto, che nel crepuscolo calante passavano oltre, rosse vele su una corrente non ancora visibile. “La terza ora,” disse Dreher. “La marcia dei 200.000,” recitò Dworak. “Una manifestazione di resistenza e di solidarietà,” completò il deputato. Poi cominciarono a farsi strada con abili schivate di spalla tra i corpi ammassati. Ed ecco, già erano più vicini alla prima fila, ai più fortunati; già vedevano passare oltre, marciando e cantando, una compagnia della Lega difensiva. Infine si trovarono sul piano stradale, sentirono attraverso le suole le dolci gobbe di granito del selciato del Ring. Un quartiere sconosciuto sfilava oltre. “Libertà!” gridarono in migliaia. “Libertà!” gridarono Dreher e Dworak, e si infilarono nella fila in marcia.
(pp 75 - 80)
Non solo le offerte di dialogo, neanche la fantasia umana sarebbe più bastata
... E dove avrebbe portato tutto questo? C’era forse in Austria qualcuno che pensava alla dittatura? Dreher era persuaso che in pochi giorni la situazione si sarebbe sbrogliata. In verità questo era stato detto la mattina del 5, dunque tre giorni prima della violazione della Costituzione, avvenuta la notte tra il 7 e l’8. Ma ancora il mattino del 7 l’altro deputato cristiano-sociale, di gran lunga il più importante dei due con cui aveva relazioni personali, tra un goulasch di vitello e una fetta di torta di Linz gli aveva dato press’a poco queste spiegazioni: “Be’, personalmente non sono informato sulle intenzioni del cancelliere in questa penosa faccenda. Non credo che il signor cancelliere stesso... be’... ehm... persegua in qualche modo uno scopo ben definito. Per quel che mi dicono le mie fonti d’informazione, si tratterebbe di un certo ampliamento dei poteri governativi e di una riforma del regolamento che renda possibile eseguire senza tanti attriti determinate misure, soprattutto concernenti il bilancio. Poiché lei sa bene, collega, che il nostro paese, per questo rispetto, non giace su un letto di rose, e che nella prossima sessione del parlamento noi potremo badar poco alla popolarità delle nostre leggi.” Dreher, colpito assai piacevolmente dall’espressione prossima sessione del parlamento, aveva obbiettato che si potevano ottenere tali riforme anche con il consenso della socialdemocrazia. Anche alla socialdemocrazia non mancava il senso per i fatti reali, ecc. (...) Poi Dreher assunse un tono più risoluto. Di buon mattino era stato chiamato a partecipare a una seduta della presidenza del partito. Sapeva che si valutava il pericolo come molto grave, e che ci si era decisi a un linguaggio estremamente aspro. Informò il cristiano-sociale che si stava stampando un proclama con cui si preparava il popolo allo sciopero generale e alla rivoluzione, nel caso che il parlamento non potesse essere più recuperato. A questo punto toccò subito il tasto della giovialità, che era la sua specialità: era veramente necessario tutto ciò? Il governo voleva spingere la situazione al limite estremo? In questo “maledetto, amato paesello” non c’erano altre, comuni preoccupazioni? Né un sì né un no vennero a queste domande, ma espressioni spettralmente vuote. Dinanzi a questo silenzio eloquente, dinanzi alla paura evidente dell’altro, anche Dreher ebbe all’improvviso paura. Proprio in quel momento egli si spaventò realmente per quel che era successo la notte prima. (Fino a quel momento, a causa delle mille, affrettate informazioni, disposizioni e consultazioni, non ne aveva avuto il tempo). Ora, all’improvviso, di fronte a questo flemmatico collega che con i baffi coperti dalla schiuma della birra divorava coratella e Knödel, ora, nel silenzio della saletta riservata, emerse dinanzi a lui, minaccioso, lo spettro di un mondo che al tempo del colpo di stato di Pfrimer era stato immaginato fin nei minimi particolari tra interminabili salve di risate: quel mondo in cui i farmacisti di paese si trasformano in onnipotenti condottieri di lanzichenecchi, i discorsi fatti al tavolo dei vecchi clienti in costituzioni, i fabbricanti in capi operai, i morfinomani, sadici e assassini incendiari in uomini di stato... Ora, per la prima volta, ebbe veramente paura di quanto accadeva in Germania; capì d’un sol colpo che nessun confronto storico ormai, nessuno dei soliti accostamenti politici bastavano più a misurare la dimensione di quegli avvenimenti, e che ben presto anche la fantasia umana non sarebbe più bastata.
(pp 102 - 104)
La solita storia
Poi Erich si rese conto che stava fissando la scacchiera, mentre Panetti dava il suo commento sulla situazione: “Non era una perquisizione in piena regola. Più che per trovare qualcosa, è stata fatta per metterci paura.” Erich udì sé stesso dire: “Forse ci sarebbero pure riusciti, se non fossero stati loro stessi a farsela nei calzoni.” Poi inciampò tra i pezzi di malta sparsi tutt’intorno. A due passi da lui Gstettner, in ginocchio, tentava invano di ricomporre la testa frantumata di Victor Adler e ripeteva in continuazione: “Il tipo ce lo segniamo. Con lui faremo i conti. Non ci scappa!” Erich udì sé stesso dire: “È una porcheria che si debba sopportare una cosa del genere! Lascia stare, Gstettner, quello non lo aggiusti più.” Ciò che poi Erich vide fu Herrmann. Stava sotto la lampada; con la testa rovesciata all’indietro, fissava la luce. Quasi senza muovere le labbra, disse: “Posso soltanto dirvi che mi vergogno. Non so come è per voi, ma io mi vergogno.” La voce di Kaliwoda fece precipitare quella degli altri nell’insensato: “Lo spettacolo è finito, ragazzi. Smettetela di girare qua intorno con l’aria frastornata, mettete insieme i vostri quattro stracci e andate a dormire! E non fatevi venire i capelli bianchi per quello che è successo. Possono andare tutti a farsi... fare quello che ho detto a chi ascoltava mentre si parlava al telefono. Non è lontano il momento in cui gliela faremo pagare!” Quando Erich prese il suo cappotto dal gancio, udì Kaliwoda bisbigliargli da dietro: “Weigel, tu resti qua.” Probabilmente per spazzare via i resti, pensò Erich, sedendosi sulla panca rimasta intatta. Tutti gli altri uscirono dalla stanza e alla fine rimasero soltanto lui, il comandante e Hans. Kaliwoda disse d’aspettare e sparì. Dal soffitto la lampada pendeva finalmente tranquilla. La finestra era aperta. I loro polmoni succhiavano l’aria fresca. I fatti più recenti cominciavano visibilmente a ritirarsi nel passato. Erano già così lontani che si poteva cominciare a fare delle considerazioni. Ma quali considerazioni c’erano da fare? E che cosa si poteva dire oltre che era la solita storia? “È la solita storia,” disse Hans, e lasciò cadere le braccia rassegnato. Erich, che un tempo era stato il suo capo nella Gioventù operaia socialista, lo osservò con curiosità. Quando aveva avuto per l’ultima volta un vero colloquio con Hans? Buoni sei mesi prima, quando erano stati battuti così duramente nell’assemblea del sindacato. Era ancora permesso allora svolgere le bandiere rosse, o no? Era ancora permesso parlare contro l’Italia? Il divieto di sciopero era già in vigore? Dio buono! Così impercettibilmente e con quale diabolica scaltrezza avevano sottratto loro un diritto dopo l’altro, eclissandoli!
(pp 189 - 190) |
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Jura Soyfer nasce a Charkov, nell’Ucraina sud-orientale, l’8 dicembre 1912 da una famiglia di agiati Ebrei russi. Nel 1920, per sfuggire alle conseguenze della rivoluzione, i genitori si trasferiscono nella Vienna postbellica dell’inflazione e della miseria, dove il padre impianta, senza molto successo, un’attività commerciale. Qui, dal 1923, Soyfer frequenta il Bundesreal-gymnasium III (nella Hagenmüllergasse) e impara il tedesco perfettamente.
È dal luglio 1927 che si data l’esemplare impegno politico che segnerà tutta la sua vita, breve ma intensa: dopo lo storico incendio del palazzo di giustizia, dovuto alle partigianerie dei tribunali in favore degli assassini fascisti, e il massacro di decine e decine di militanti socialdemocratici, perpetrato dalla polizia viennese, Soyfer sceglie di entrare nel Verband sozialistischer Mittelschüler (Lega degli studenti medi socialisti), una delle 1.500 organizzazioni dell’arcipelago politico del Partito socialdemocratico operaio (SDAP).
Nel 1930, in Der Schulkampf (la rivista del Verband) e nella prestigiosa Arbeiter-Zeitung, egli pubblica i primi articoli e versi satirici (An alte Professoren). L’anno seguente si iscrive ai corsi universitari di tedesco e di storia, ma non sarà studente assiduo in un ambiente antirepubblicano e nazionalistico, sempre più spesso teatro di aggressioni ai danni di Ebrei e socialisti. Sempre più fitto, invece, si fa il suo impegno di intellettuale militante: nel ’32, sulla rivista Die politische Bühne, Soyfer pubblica scene agit-prop (Christbaum der Menschheit) per il gruppo cabarettistico dei Rote Spieler e agili articoli programmatici (Politisches Theater, Die Tendenzbühne und ihr Publikum) sugli scopi dell’Agitationstheater; è inoltre corrispondente volontario per la Arbeiter-Zeitung da Berlino e dalla Renania, dove assiste all’agonia della repubblica di Weimar e alla progressiva disgregazione di socialdemocratici e comunisti. Se i suoi resoconti per il pubblico, pure intessuti di dati ed episodi drammatici, si chiudono per lo più fiduciosamente nell’attesa di una riscossa futura, le lettere all’amica Helli Ultmann esprimono l’amarezza per l’incapacità e il quietismo dei burocrati di sinistra che non hanno colto in pieno la gravità degli eventi.
Nel ’33, per i 90.000 lettori dell’Arbeiter-Zeitung già firma ben nota della rubrica satirica Zwischenrufe links, egli pubblica anche nella rivista Der Kuckuck numerose Bild-und-Wort-Satiren antinaziste. Ma il febbraio 1934 è una data cruciale: messa fuori legge la SDAP insieme a tutta la stampa socialdemocratica, fallita la disperata insurrezione dello Schutzbund, Soyfer entra nella clandestinità politica e si avvicina al partito comunista. Sotto pseudonimi continua a pubblicare articoli critici nei confronti dello Ständestaat di Dollfuss su giornali moderati come Der Wiener Tag e Das kleine Blatt, ma soprattutto lavora per il cabaret politico viennese. Per il gruppo Literatur am Naschmarkt di Erich Weigel e Rudolf Weys scrive Der Lechner Edi schaut ins Paradies (1936), per l’ABC di Leo Askenasy Der Weltuntergang, Astoria, Vineta e Broadway-Melodie 1492 (1937), rielaborazione del frammento Kolumbus oder die Entdeckung Amerikas di Tucholsky e Hasenclever. Dal ’34 al ’37, inoltre, attende alla stesura del romanzo So starb eine Partei.
Arrestato nell’autunno del ’37 per propaganda comunista, rilasciato nel febbraio 1938 in seguito a un’amnistia, nuovamente arrestato dopo circa un mese mentre cerca di passare il confine con la Svizzera, è internato dal 23 giugno 1938 a Dachau. Trasferito in settembre a Buchenwald, vi muore di “tifo”, secondo la versione ufficiale, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1939.
(dalla Nota bio-bibliografica di Eugenio Spedicato) |
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