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Carlo Levi

 

Cristo si è fermato a Eboli

 

1945, 1963, 1975 e 1990, Giulio Einaudi Editore - Torino

2003, Edizione speciale per La Repubblica

 

 

Carlo Levi, "Cristo si è fermato a Eboli", 1945 - 1990, Giulio Einaudi editore; 2003, La Biblioteca di Repubblica - L’Espresso.

 

L’odio fascista, ovunque scorga l’indomabile umano profondo

 

Carlo Levi, "Cristo si è fermato a Eboli", 1945 - 1990, Giulio Einaudi editore; 2003, La Biblioteca di Repubblica - L’Espresso.

La copertina del libro.

Introduzione

di Luigi Scialanca

 

Perché sono così odiati, i contadini di Gagliano, da fascisti e “signori”? E oggi che i contadini di Gagliano non ci sono più, oggi che nessuno in Italia è contadino, forse non è più possibile quell’odio? Non possono né potranno più esserci fascisti e “signori”?

Della Lucania di Carlo Levi, del mondo contadino di Cristo si è fermato a Eboli ― come del mondo magico lucano di Ernesto De Martino ― è luogo comune dirlo un mondo scomparso, che non c’è più né potrà più esserci. Ma il luogo comune dice il falso, come tutti i luoghi comuni che pullulano dalla nostra mediocrità: se è vero, e lo è, che i “signori” esistono ancora, se i fascisti, in Italia e ovunque, sono ancora capaci, come in ogni altra epoca e contrada, di quell’odio di bestie feroci contro il povero gregge contadino di cui è piena fino all’orrore ogni pagina di Cristo si è fermato a Eboli, significa che i contadini e il loro magico misero mondo sono ancora qui a suscitarlo, quell’odio, a Gagliano e in Italia e ovunque. Solo che (in Italia) i contadini non sono più contadini. Solo che forse ― se Cristo si è fermato a Eboli è opera d’arte, e certo lo è ― contadini “veri” non sono mai stati.

L’odio dei fascisti e dei “signori”, infatti, ieri come oggi ― l’odio che la fede, con il suo corteo di filosofie e ideologie, induce in quanti si lasciano dalle sue stregonerie tramutare in fascisti e “signori” ― non è contro i contadini in quanto tali (né, in quanto tali, contro le classi oppresse, i poveri, le “razze” chiamate “inferiori”, gli stranieri, i migranti) ma contro l’indomabile umano profondo che al fascista e al “signore” dentro sé stessi incute orrore e terrore. Contro l’indomabile umano profondo che il fascista e il “signore” dentro sé stessi straziano per sottometterlo alla fede, alla “morale”, alla “cultura”.

Contro l’indomabile umano profondo che nel “contadino”, invece (in “virtù” dell’abbandono subìto, del non essere considerato veramente umano, che tutto gli toglie, certo, ma che gli risparmia “educazione” e “istruzione” e religione) agli occhi del fascista e del “signore” sembra ignaro ed esente da ogni vincolo e pregiudizio, possente, incontrollabile, irrefrenabile, libero di erompere e, invadendo e conquistando la Società e l’Umanità, aggredire e dissolvere qualcosa di ancor più importante delle proprietà, delle ricchezze, del potere: la “moralità” del fascista e del “signore”, il loro dominio di sé, la tirannia da cui il fascista e il “signore” in ogni epoca e contrada temono come la morte di liberarsi poiché fin dalla nascita sono stati odiati, disprezzati e temuti fino a chiamarsi mostri e a incarcerarsi da sé soli.

Quella tirannia su di sé che però, contro gli inermi, si converte in prepotenza e sopraffazione che anziché smantellarla la rafforzano consentendo al fascista e al “signore” continue, orribili licenze d’ogni sorta. Quella tirannia su di sé la cui inesistenza o debolezza nel “contadino” lo rende invece buono, solidale, generoso, inetto all’ingiustizia. Poiché è proprio la tirannia della fede, non l’indomabile umano profondo, a mutare in bruttura tutto quel che tocca riempiendo Gagliano, l’Italia e il mondo di cosiddetto “male”.

Poi, talvolta, non è vero. Poi, talvolta, il “contadino” si rivela anch’egli fascista e “signore” (Carlo Levi lo sa, e per questo ci racconta i suoi contadini, diacronicamente, anche come briganti e sanfedisti che non possono essere difesi, che da un punto di vista liberale e “progressista” vanno spietatamente stroncati come un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile).

Ma ciò, agli occhi di chi li odia, non li non li rende meno atti a rappresentare l’indomabile umano profondo. Per fare da capri espiatori ― per prendere su di sé tutte le colpe di un Sistema anaffettivo e razionale che a dispetto di ogni proprio sforzo non riesce a distruggere una volta per sempre l’umanità dell’essere umano ― non importa che le vittime dell’odio fascista e “signorile” siano davvero buone, né davvero povere, né che davvero vengano da lontano recando usi e costumi diversi, né che davvero si sottraggano alla “vera fede” per farsi atee o all’opposto per serbarsi leali a superstizioni e magie remote: basta che siano state abbandonate, escluse, annullate, basta che qualche contingenza storica, o anche solo non aver mai posseduto un libro o un televisore, le abbia sottratte (o sembri averle sottratte) alla spaventosa uniformità collettiva in cui traspare e si rivela, dietro le maschere mortuarie composte sui volti, il giogo interiore comune: basta questo, inducendo in fascisti e “signori” il sospetto che l’indomabile umano profondo sia in esse non ancora spento, a “giustificare” l’odio e la violenza.

Basta talmente “poco”, invero, che i primi “contadini” di Gagliano sono, in ogni epoca e contrada, i bambini e le donne. Basta venire alla luce, in effetti, perché fascisti e “signori” delirino di vedere, nell’essere umano, il “peccato originale”.

Carlo Levi, "La fucilazione", 1944, monotipo, 31 x 41 cm (dal catalogo della mostra <Carlo Levi, “Siamo liberati”, Cinquanta opere dalla Resistenza alla Repubblica>, Napoli, 29 settembre - 29 ottobre 2005, edito dalla Fondazione Carlo Levi e da Donzelli editore)

 

Carlo Levi, La fucilazione, 1944, monotipo, 31 x 41 cm

(dal catalogo della mostra Carlo Levi, “Siamo liberati”, Cinquanta opere dalla Resistenza alla Repubblica,

Napoli, 29 settembre - 29 ottobre 2005, edito dalla Fondazione Carlo Levi e da Donzelli editore)

Odio di bestie feroci contro il povero gregge contadino

 

Anche Gibilisco, come Milillo, ci tiene a mostrarmi la sua sapienza. Ma mi accorgo presto che la sua ignoranza è molto peggiore di quella del vecchio. Egli non sa assolutamente nulla, e parla a caso. Una sola cosa egli sa, che i contadini esistono unicamente perché Gibilisco li visiti, e si faccia dare denaro e cibo per le visite; e quelli che gli capitano sotto devono pagarla per gli altri che gli sfuggono. L’arte medica per lui non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni; e perché i poveri pazienti si sottraggono volentieri a questo jus necationis, un continuo furore, un odio di bestia feroce contro il povero gregge contadino. Se le conseguenze non sono spesso mortali, non è certo mancanza di buone intenzioni, ma soltanto il fatto che, per uccidere con arte un cristiano, ci vuol pure una qualche briciola di scienza. Usare questa o quella medicina gli è indifferente: egli non ne conosce e non si cura di conoscerne nessuna, esse sono per lui null’altro che le armi del suo diritto: un guerriero può cingersi, per farsi rispettare, a suo solo arbitrio, di archi o di spadoni o di scimitarre o di pistolacci o magari di kriss malesi. Il diritto di Gibilisco è ereditario: suo padre era medico, suo nonno anche. Suo fratello, morto l’anno prima, era, naturalmente, farmacista. La farmacia non ha trovato successori e avrebbe dovuto esser chiusa; ma è stato ottenuto attraverso qualche amico alla Prefettura di Matera che essa possa continuare a funzionare, per il bene della popolazione, fino a esaurimento delle scorte, ad opera delle due figlie del farmacista, che non hanno fatto studi e non potrebbero perciò essere autorizzate alla vendita dei veleni. Le scorte, naturalmente, non finiranno mai; un po’ di qualche polvere indifferente viene messa nei barattoli mezzi vuoti: così si diminuisce il pericolo degli errori nelle pesate. Ma i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza.

(pp 17 – 18)

 

 

Quando il disprezzo di sé arriva all’autodistruzione: storia d’Italia

 

“Questo è dunque un paese di galantuomini!” pensavo attendendo la cena nella casa della vedova. Il fuoco era acceso sotto la pentola, perché la buona donna aveva immaginato che io fossi stanco del viaggio e che mi abbisognasse qualcosa di caldo. Di solito non si fa fuoco, la sera, neppure nelle case dei ricchi, dove bastano gli avanzi del mattino, un po’ di pane e formaggio, qualche oliva, e i soliti fichi secchi. Quanto ai poveri, essi mangiano pan solo, tutto l’anno, condito qualche volta con un pomodoro crudo spiaccicato con cura, o con un po’ d’aglio e olio, o con un peperone spagnolo, di quelli che bruciano, un diavolesco. “Questo è un paese di galantuomini!” Non potevo ancora precisare le mie impressioni, né penetrare ancora tutti i segreti della politica e delle passioni paesane; ma mi avevano colpito il sussiego, le maniere dei signori sulla piazza, e più ancora il tono generale di astio, disprezzo e diffidenza reciproca nella conversazione a cui avevo assistito, la facilità con cui si manifestavano degli odî elementari, senza il naturale ritegno verso un forestiero appena arrivato, che aveva fatto sì che io fossi messo subito al corrente da ciascuno dei vizi o delle debolezze degli altri. Per quanto non potessi ancora determinarlo con esattezza, era chiaro che anche qui, come a Grassano, gli odî reciproci di tutti contro tutti si cristallizzavano in due partiti. Qui, come a Grassano, come in tutti gli altri paesi della Lucania, dove i galantuomini che non hanno potuto, per incapacità o povertà, o matrimoni precoci, o interessi da tutelare, o per una qualunque necessità del destino, emigrare ai paradisi di Napoli o di Roma, trasformano la propria delusione e la propria noia mortale in un furore generico, in un odio senza soste, in un perenne risorgere di sentimenti antichi, e in una lotta continua per afférmare, contro tutti, il loro potere nel piccolo angolo di terra dove sono costretti a vivere. Gagliano è un piccolissimo paese, e lontano dalle strade e dagli uomini: le passioni vi sono perciò più elementari, più semplici, ma non meno intense che altrove; e non sarà difficile, immaginavo, averne presto la chiave.

Grassano è invece piuttosto grande, su una via di passaggio, non lontano dal capoluogo della provincia: non c’è, come qui, il contatto continuo di tutti con tutti; le passioni possono perciò essere più nascoste, prendere una forma più mediata, vestirsi di aspetti più complessi. I segreti di Grassano mi erano stati rivelati fin dai primi giorni del mio arrivo da uno dei loro più appassionati protagonisti. Quelli di Gagliano, come li conoscerò? A Gagliano dovrò passare tre anni, un tempo infinito. Il mondo è chiuso: gli odî e le guerre dei signori sono il solo avvenimento quotidiano: e ho già visto sui loro volti come esse siano radicate e violente, miserabili ma intense come quelle di una tragedia greca. Bisognerà pure che, come un eroe di Stendhal, io faccia i miei piani, e non commetta errori. A Grassano, il mio informatore era stato il capo della Milizia, il tenente Decunto. Chi lo sarà quaggiù?

Quando il tenente Decunto, capo della Milizia di Grassano, mi aveva mandato a chiamare con un ordine perentorio, il giorno dopo il mio arrivo da Regina Coeli, quando non mi ero ancora ambientato, né avevo ancora saputo precisamente che cosa capitasse nel mondo, né che umori ci fossero in paese per la prossima guerra d’Africa, avevo temuto qualche nuova noia. Avevo invece trovato, in una stanzetta che gli serviva di ufficio, un piccolo giovane biondo, gentile, con una bocca amara e degli occhietti azzurrochiari, sfuggenti, dagli sguardi che si posavano di fianco alle cose, ritrosi, più che per paura, per una specie di vergogna o di ribrezzo. Mi aveva chiamato perché io ero ufficiale in congedo, e lo era anche lui, e voleva fare la mia conoscenza. Ci teneva subito a dirmi che lui comandava la Milizia, ma non aveva nulla a che fare né con la questura, né coi carabinieri, né con il podestà, né con il segretario del fascio. Quest’ultimo, soprattutto, era un delinquente; e tutti gli altri, una banda degna di lui. La vita a Grassano era impossibile, e non c’era rimedio. Tutti ambiziosi, ladri, disonesti, violenti. Egli doveva assolutamente togliersi di qui: si moriva. Perciò aveva fatto domanda di andare volontario in Africa; e pazienza se tutto andrà in rovina. C’è poco da rimpiangere. ― Giochiamo il tutto per il tutto, ― mi disse, guardando lontano di fianco a me. ― Questa è la fine, mi capisce? La fine. Se vincessimo, forse si potrà cambiare qualcosa, chissà? Ma l’Inghilterra non lo permetterà. Ci spaccheremo la testa. Questa è la nostra ultima carta. E se ci va male... ― E qui un gesto, come a dire: è la fine del mondo. ― Andrà male, vedrà. Ma non importa. Così non si può più continuare. Lei resterà qui qualche tempo. Lei è straniero alle nostre questioni, e potrà giudicare. Quando avrà visto che cos’è la vita in questo paese, mi dirà che avevo ragione ―. Io tacevo, perché diffidavo. Ma dovevo poi riconoscere, nei giorni seguenti, che il tenente Decunto, anche se forse mi sorvegliava, era tuttavia sincero, e il suo pessimismo non era una finzione. Mi aveva preso in simpatia perché ero forestiero, e con me poteva sfogare i suoi risentimenti. Ogni volta che io salivo alla chiesa, in cima al paese, e mi fermavo, nel vento, a contemplare il paesaggio desolato, me lo vedevo comparire vicino, biondo e grigiastro come uno spettro, e senza guardarmi, mi parlava. Egli non era che l’ultimo anello di una catena di odî che risalivano per le generazioni: cent’anni, di più, duecento, chissà, forse sempre. Egli partecipava di questa passione ereditaria. Non c’era nulla da fare, e se ne rodeva. Si erano odiati per secoli qui, e sempre si odieranno, fra queste stesse case, davanti agli stessi sassi bianchi del Basento e alle stesse grotte di Irsina. Oggi erano tutti fascisti, si sa. Ma questo non voleva dir nulla. Prima erano nittiani o salandrini, e risalendo nel tempo, giolittiani o antigiolittiani, della Destra o della Sinistra, per i briganti o contro i briganti, borbonici o liberali, e prima ancora, chissà. Ma questa era la vera origine: c’erano i galantuomini e c’erano i briganti, i figli dei galantuomini e i figli dei briganti. Il fascismo non aveva cambiato le cose. Anzi, prima, con i partiti, la gente per bene poteva stare tutta da una parte, sotto una bandiera particolare, e distinguersi dagli altri e lottare sotto una veste politica. Ora non ci resta che le lettere anonime, e le pressioni e le corruzioni in Prefettura. Perché nel fascismo ci stanno tutti. ― Io, vede, sono di una famiglia di liberali. I miei bisnonni sono stati in prigione, sotto i Borboni. Ma il segretario del fascio, sa chi é? È il figlio di un brigante. Proprio il figlio di un brigante. E tutti gli altri che gli tengono bordone, e che adesso comandano il paese, sono tutti della stessa risma. E a Matera è la stessa cosa. Il consigliere nazionale N., di qui, è di una famiglia che teneva mano ai briganti. Anche il barone di Collefusco, il padrone di tutte le terre qui attorno, il proprietario del palazzo sulla piazza, chi è? Lui sta a Napoli, si sa, e da queste parti non ci viene mai. Non lo conosce? I baroni di Collefusco sono stati, di nascosto, i veri capi del brigantaggio, nel ‘60, da queste parti. Erano loro che li pagavano, che li armavano ―. Gli occhietti azzurri scintillavano d’odio. ― Lei spesso si siede, l’ho visto tante volte, sulla panchina di pietra che è davanti al palazzo del barone. Cent’anni fa, anzi più di cent’anni fa, su quella stessa panchina si sedeva ogni sera, come fa ora lei, a prendere il fresco, il bisnonno del barone di adesso, e usava tenere in bracco un suo bambino di pochi anni. Proprio quel bambino fu poi il nonno del barone, e deputato, e manutengolo dei briganti. Su quella panchina il vecchio fu ammazzato, da un parente dei miei bisnonni. Era un farmacista, fratello di un dottore, Palese. Noi Decunto, qui a Grassano, siamo della stessa famiglia. A Potenza ci sono ancora parecchi nipoti del dottore. Ecco come fu. C’era in quel tempo, qui da noi, una vendita carbonara, e ne facevano parte i due fratelli Palese, un Lasala, degli stessi Lasala del falegname che lei conosce, un Ruggiero, un Bonelli, e molti altri; e con loro c’era anche il barone di Collefusco, che faceva il liberale. Ma il barone era una spia; ci si era messo in mezzo per denunciarli tutti. Infatti un bel giorno fanno una seduta, per non so quale azione da farsi di lì a poco. Appena finita, il barone va al palazzo, chiama un suo servitore fidato, gli fa sellare il miglior cavallo, e gli dà un biglietto, con l’elenco di tutti i cospiratori, da portare al Governatore di Potenza. Ma la partenza del servo non passa inosservata. Si aveva già qualche sospetto: che cosa andava a fare quel servo sulla strada di Potenza, a quell’ora, col miglior cavallo del paese? Non bisognava perder tempo; inseguirlo, fermarlo, appurare il tradimento. Quattro carbonari partono a cavallo: ma il cavallo del barone era migliore dei loro, ed era in vantaggio di un’ora. I quattro si buttano per le scorciatoie e i sentieri, e tanto corrono tutta la notte che riescono a raggiungere il servo proprio alle porte di Potenza, sul margine d’un bosco. Tirano da lontano, galoppando, sul cavallo, e il cavallo cade; prendono il servo, lo legano a un albero, lo frugano e gli trovano il biglietto del barone. Lo lasciano là legato, senza ucciderlo; e tornano a briglia sciolta a Grassano. Bisogna punire il traditore: i carbonari si radunano e tirano a sorte chi debba uccidere il barone. Tocca al dottor Palese, ma suo fratello il farmacista è miglior tiratore, è scapolo, e chiede e ottiene di sostituirlo. Allora, di fronte al palazzo, non c’erano case come ora, ma cominciava la campagna e c’era una grossa quercia. Era sera. Il farmacista si nascose col suo fucile dietro la quercia, e aspettò che il barone uscisse a prendere il fresco. C’era la luna piena. Il barone uscì, ma aveva in braccio il bambino, e si sedette sulla panchina di pietra a farlo saltare sulle ginocchia. Il farmacista aspettò a tirare, non voleva colpire l’innocente: ma poiché quello non accennava a rimandare il ragazzo, dovette decidersi. Era un ottimo tiratore, e non sbagliò. Lo colse in mezzo alla fronte, proprio mentre il bambino lo abbracciava. Naturalmente tutti i liberali si nascosero, ma furono arrestati e condannati. Il farmacista mori in prigione a Potenza; il dottore ci restò molti anni, e sarebbe morto anche lui, se non fosse avvenuto che la moglie del Governatore, che aveva un parto difficile, non riusciva a sgravarsi e correva pericolo di vita. Nessuno dei medici di Potenza era capace di giovarle, quando a qualcuno venne in mente di chiamare il dottore che era in prigione. Egli venne, e salvò la Governatrice, che ebbe un bel bambino, e che, appena rimessa, corse a Napoli e si buttò ai piedi della Regina. Il dottore ebbe la grazia, ma non tornò più a Grassano. Rimase a Potenza, e i suoi discendenti ci sono ancora. Quel ragazzo, che il farmacista risparmiò con tanta cura, fu poi come le ho detto, il primo deputato di Grassano al parlamento italiano, e faceva il liberale, ma nello stesso tempo era lui che teneva mano ai briganti; e il nipote, quello di adesso, qui non si vede mai, ma sotto sotto è lui che protegge da Roma la banda che comanda in paese: tutti figli di briganti ―. Non ho mai potuto appurare se fossero veri tutti i particolari di questa storia, che nobilita in certo qual modo gli odî reciproci dei signori di Grassano, trasportandoli in un tempo lontano, e legandoli a motivi almeno in parte ideali. Ma la cosa non ha importanza. La lotta dei signori tra loro non ha nulla a che fare con una “vendetta” tramandata di padre in figlio; né si tratta di una lotta politica reale, fra conservatori e progressisti, anche quando, per caso, prende quest’ultima forma. Naturalmente ciascuno dei due partiti accusa l’altro dei peggiori delitti: e gli stessi racconti del tenente Decunto, ma rovesciati come tono sentimentale, mi venivano fatti dai membri del gruppo attualmente al potere. La verità è che questa continua guerra dei signori si trova, nelle stesse forme, in tutti i paesi della Lucania. La piccola borghesia non ha mezzi sufficienti per vivere col decoro necessario, per fare la vita del galantuomo. Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. I più avventurati vanno in America, come i cafoni; gli altri a Napoli o a Roma; e in paese non tornano più. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l’avidità li rendono malvagi. Questa classe degenerata deve, per vivere (i piccoli poderi non rendono quasi nulla), poter dominare i contadini, e assicurarsi, in paese, i posti remunerati di maestro, di farmacista, di prete, di maresciallo dei carabinieri, e così via È dunque questione di vita o di morte avere personalmente in mano il potere; essere noi o i nostri parenti o compari ai posti di comando. Di qui la lotta continua per arraffare il potere tanto necessario e desiderato, e toglierlo agli altri; lotta che la ristrettezza dell’ambiente, l’ozio, l’associarsi di motivi privati o politici rende continua e feroce. Ogni giorno partono da tutti i paesi di Lucania lettere anonime alla Prefettura. E la Prefettura non ne è malcontenta, anche se affetta il contrario. ― A Matera fanno finta di voler appianare le nostre liti, ― mi diceva il tenente Decunto, ― ma in verità fanno il possibile per fomentarle. Hanno istruzioni in questo senso da Roma. Così tengono in mano tutti, con la minaccia o la speranza. Ma che abbiamo da sperare? ― e qui il gesto caratteristico della mano, che vuol dire: niente. ― Qui non si può vivere. Bisogna andarsene. Ora andiamo in Africa. È la nostra ultima carta.

Il viso del tenente della Milizia si faceva grigio, quando così mi parlava, e gli occhi sfuggenti gli si sbiancavano di impotente furore, disperati e cattivi. Egli apparteneva tutto a quella gente, a quegli odî, a quelle passioni; era uno dei loro, e se ne rodeva. Un principio di coscienza e di vergogna era in lui. Credeva anche lui, come tutti gli altri, all’impresa d’Africa, allo “spazio vitale” necessario a una piccola borghesia degenerata, ma nello stesso tempo si rendeva conto, sia pure in modo rudimentale e puramente sentimentale, di questa degenerazione e miseria, e la guerra diventava una fuga, la fuga in un mondo di distruzione. In fondo, quello che lo attraeva di più nell’impresa, era proprio l’eventualità della sconfitta e dell’annientamento. Lo si vedeva dal tono con cui ripeteva: ― È la nostra ultima carta ―. Il piccolo lume di coscienza che era in lui, e che lo differenziava dai suoi concittadini, non si manifestava altrimenti che con un profondo, vergognoso disprezzo di sé. All’odio reciproco dei signori egli aggiungeva l’odio di sé: e questo lo rendeva, era chiaro a chi l’osservasse, ancora più maligno e amaro degli altri, capace di ogni azione malvagia. Egli avrebbe potuto, senza contraddire il suo ingenuo semplicismo di giovane ragazzo di buona famiglia, uccidere, rubare, fare la spia, e forse anche morire come un eroe, per la sua elementare disperazione. Tutto questo era per lui la guerra d’Africa. Se andava male, che cosa importava? Il mondo intero poteva andare in rovina per seppellire anche il ricordo di Grassano, bianco sul colle e immutabile, con i signori e i briganti.

(pp 22 – 29)

 

 

Devozione e ferocia

 

Una notte, era già tardi, ed io ero già a letto, sentii il rombo inabituale di una motocicletta, e mi vidi capitare in camera il motociclista, con il casco coperto di polvere. Era il barone Nicola Rotunno, di Avellino, uno dei più ricchi proprietari della provincia. Possedeva, con un suo fratello avvocato, terre sconfinate a Grassano, a Tricarico, a Grottole, in non so quanti altri comuni del Materese, e girava in motocicletta per raccogliere dai fattori i denari dei raccolti, ed esigere dai contadini il pagamento dei debiti, di quei debiti che essi contraggono nel corso dell’anno per poter campare, e che di solito, superando l’intero guadagno dell’annata, si accumulano ad inghiottire ogni speranza di stagione benigna. Il barone, un giovane magro, sbarbato, con gli occhiali a pince-nez, aveva fama, a Grassano, di essere, come suo fratello, particolarmente spietato nei suoi interessi, capace di cacciare un contadino per un debito di poche lire, astuto negli affari e poco chiaro, abile nello scegliere dei fattori devoti al suo interesse, durissimo con tutti. Era un uomo di chiesa, e portava all’occhiello della giacchetta, invece del solito distintivo fascista, quello rotondo dell’Azione Cattolica. Con me fu gentilissimo. Saputo che io, suo vicino di letto, ero un confinato, si offerse subito di farmi liberare, cosa per lui facilissima, mi disse, perché era amico di un’amica carissima del Senatore Bocchini, Capo della Polizia; una signora, come lui, di Avellino, e come lui particolarmente devota a una Madonna che si adora in un celebre santuario nei dintorni di quella città. Il discorso cadde così sui santuari e sui santi, e sul san Rocco di Tolve, un santo di cui io stesso ho potuto conoscere, per prove e favori personali, la particolare virtù. Tolve è un villaggio vicino a Potenza, e c’era stato in quei giorni un pellegrinaggio, come tutti gli anni, al principio di agosto. Uomini, donne e bambini vi concorrono da tutte le province circostanti, a piedi, o sugli asini, camminando il giorno e la notte. San Rocco li aspetta, librato nell’aria, sopra la chiesa. “Tolve è mia, e io la proteggo”, dice san Rocco nella stampa popolare che lo rappresenta, vestito di marrone, con la sua aureola d’oro, nel cielo azzurro del paese.

Ma anche il santo di Grassano è un buon santo: un san Maurizio splendente di colori, laggiù nella chiesa, armato di tutto punto, un glorioso guerriero di cartapesta, di quelli che si fanno ancora oggi, con tanta arte, a Bari. Da san Maurizio passammo al suo compagno di guerra e di beatitudine, e ad altri santi, e a sant’Agostino, e alla Città di Dio, e a discorsi sui Vangeli. Il barone mostrava di essere stupito e compiaciuto della mia competenza su questo argomento, che non supponeva che io potessi conoscere. S’era così fatto molto tardi, gli occhi mi si chiudevano dal sonno, quando vidi il barone rizzarsi improvvisamente sul letto, prendere gli occhiali di sul comodino e inforcarli sul naso, balzare in terra con un salto, e avvicinarsi silenzioso al mio letto, avvolto, come uno spettro, in una lunga camicia da notte bianca, che gli scendeva quasi ai piedi nudi. Quando mi fu vicino, fece con la mano un grande segno di croce su di me e disse, con voce solenne e commossa: ― Ti benedico, in nome di Gesù Bambino, buona notte ―. Replicato il segno di croce, tornò fra le lenzuola e spense il lume. Protetto dalla inattesa benedizione del barone possidente, non tardai ad addormentarmi, per risvegliarmi, come sempre all’alba, al suono angelico delle campanelle dei greggi che partivano per i campi, e ai clamori diabolici di Prisco, che, come ogni mattina, chiamava con voci stentoree i figli insonnoliti.

(pp 33 – 34)

 

 

Mai nessuno dalla loro parte

 

Questa strana e scoscesa configurazione del terreno fa di Gagliano una specie di fortezza naturale, da cui non si esce che per vie obbligate. Di questo approfittava il podestà, in quei giorni di cosiddetta passione nazionale, per aver maggior folla alle adunate che gli piaceva di indire per sostenere, come egli diceva, il morale della popolazione, o per fare ascoltare, alla radio, i discorsi dei nostri governanti che preparavano la guerra d’Africa. Quando don Luigino aveva deciso di fare un’adunata, mandava, la sera, per le vie del paese, il vecchio banditore e becchino con il tamburo e la tromba; e si sentiva quella voce antica gridare cento volte, davanti a tutte le case, su una sola nota alta e astratta: ― Domattina alle dieci, tutti nella piazza, davanti al municipio, per sentire la radio. Nessuno deve mancare. ― Domattina dovremo alzarci due ore prima dell’alba, ― dicevano i contadini, che non volevano perdere una giornata di lavoro, e che sapevano che don Luigino avrebbe messo, alle prime luci del giorno, i suoi avanguardisti e i carabinieri sulle strade, agli sbocchi del paese, con l’ordine di non lasciar uscire nessuno. La maggior parte riusciva a partire pei campi, nel buio, prima che arrivassero i sorveglianti; ma i ritardatari dovevano rassegnarsi ad andare, con le donne e i ragazzi della scuola, sulla piazza, sotto il balcone da cui scendeva l’eloquenza entusiastica ed uterina di Magalone. Stavano là, col cappello in capo, neri e diffidenti, e i discorsi passavano su di loro senza lasciar traccia.

I signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei pochi, come il dottor Milillo, che la pensavano diversamente, soltanto perché il Partito era il Governo, era lo Stato, era il Potere, ed essi si sentivano naturalmente partecipi di questo potere. Nessuno dei contadini, per la ragione opposta, era iscritto, come del resto non sarebbero stati iscritti a nessun altro partito politico che potesse, per avventura, esistere. Non erano fascisti, come non sarebbero stati liberali o socialisti o che so io, perché queste faccende non li riguardavano, appartenevano a un altro mondo, e non avevano senso. Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono “quelli di Roma”, e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Perciò essi, com’è giusto, non si rendono affatto conto di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma. Non importa ad essi di sapere quali siano le opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiù: ma li guardano benigni, e li considerano come propri fratelli, perché sono anch’essi, per motivi misteriosi, vittime del loro stesso destino. Quando, nei primi giorni, mi capitava d’incontrare sul sentiero, fuori del paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi, e mi chiedeva: ― Chi sei? Addò vades? (Chi sei? Dove vai?) ― Passeggio, ― rispondevo, ― sono un confinato. ― Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). ― Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male ―. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.

Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.

― Peccato! Qualcuno ti ha voluto male ―. Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso malvagio, portato qua e là per opera ostile di magia. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione. Non c’è ragione né cause ed effetti, ma soltanto un cattivo Destino, una Volontà che vuole il male, che è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue. La vita non può essere, verso la sorte, che pazienza e silenzio. A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.

Corazzati dunque di silenzio e di pazienza, taciturni e impenetrabili, quei pochi contadini che non erano riusciti a fuggire nei campi stavano sulla piazza, all’adunata; ed era come se non udissero le fanfare ottimistiche della radio, che venivano di troppo lontano, da un paese di attiva facilità e di progresso, che aveva dimenticato la morte, al punto di evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede.

(pp 72 – 75)

 

 

Carlo Levi, Contadina calabrese, 1953, olio su tela, 76 x 36,5 cm

(dal catalogo della mostra Carlo Levi, “Siamo liberati”, Cinquanta opere dalla Resistenza alla Repubblica,

Napoli, 29 settembre - 29 ottobre 2005, edito dalla Fondazione Carlo Levi e da Donzelli editore)

 

 

Forza potentissima della natura, e tale che nessuna volontà è in grado di opporvisi

 

Ma io vivevo solo, non avevo con me né moglie né madre né sorella; e nessuna donna poteva perciò entrare, da sola, in casa mia. Lo impediva il costume, antichissimo e assoluto, che è a fondamento del rapporto fra i sessi. L’amore, l’attrattiva sessuale, è considerata dai contadini come una forza della natura, potentissima, e tale che nessuna volontà è in grado di opporvisi. Se un uomo e una donna si trovano insieme al riparo e senza testimoni, nulla può impedire che essi si abbraccino: né propositi contrari, né castità, né alcun’altra difficoltà può vietarlo; e se per caso effettivamente essi non lo fanno, è tuttavia come se lo avessero fatto: trovarsi assieme è fare all’amore. L’onnipotenza di questo dio è tale, e così semplice è l’impulso naturale, che non può esistere una vera morale sessuale, e neanche una vera riprovazione sociale per gli amori illeciti. Moltissime sono le ragazze madri, ed esse non sono affatto messe al bando o additate al disprezzo pubblico: tutt’al più troveranno qualche maggior difficoltà a sposarsi in paese, e dovranno accasarsi nei paesi circostanti, o accontentarsi di un marito un po’ zoppo o con qualche altro difetto corporale. Se però non può esistere un freno morale contro la libera violenza del desiderio, interviene il costume a rendere difficile l’occasione. Nessuna donna può frequentare un uomo se non in presenza d’altri, soprattutto se l’uomo non ha moglie: e il divieto è rigidissimo: infrangerlo anche nel modo più innocente equivale ad aver peccato. La regola riguarda tutte le donne, perché l’amore non conosce età.

Avevo curato una nonna, una vecchia contadina di settantacinque anni, Maria Rosano, dagli occhi azzurri chiari nel viso pieno di bontà. Aveva una malattia di cuore, dai sintomi gravi e preoccupanti, e si sentiva molto male. ― Non mi alzerò più da questo letto, dottore. È arrivata la mia ora, ― mi diceva. Ma io, che mi sentivo aiutato dalla fortuna, l’assicuravo del contrario. Un giorno, per farle coraggio, le dissi: ― Guarirai, sta’ sicura. Da questo letto scenderai, senza bisogno di aiuto. Tra un mese starai bene, e verrai da sola, fino a casa mia, in fondo al paese, a salutarmi ―. La vecchia si rimise davvero in salute, e, dopo un mese, sentii battere alla mia porta. Era Maria, che si era ricordata delle mie parole, e veniva a ringraziarmi e a benedirmi, con le braccia cariche di regali, fichi secchi, e salami, e focacce dolci fatte con le sue mani. Era una donna molto simpatica, piena di buon senso e di tenerezza materna, saggia nel parlare e con un certo ottimismo paziente e comprensivo nell’antica faccia rugosa. Io la ringraziai dei suoi doni e la trattenni a conversare; ma mi accorgevo che la contadina stava sempre più a disagio, ritta ora su un piede ora sull’altro, e lanciava delle occhiate alla porta come se volesse scappare e non osasse. Dapprincipio non ne capivo la ragione: poi mi avvidi che la vecchia era entrata da me da sola, a differenza di tutte le altre donne che venivano a farsi visitare o a chiamarmi, e che arrivavano sempre in due o almeno accompagnate da una bambina, che è un modo di rispettare il costume e di ridurlo insieme a poco più di un simbolo; e sospettai che fosse questa la ragione della sua inquietudine. Lei stessa me lo confermò. Mi considerava il suo benefattore, il suo salvatore miracoloso: si sarebbe buttata nel fuoco per me: non avevo soltanto guarito lei, che aveva un piede nella fossa, ma anche la sua nipotina prediletta, malata di una brutta polmonite. Le avevo detto di venire sola a trovarmi, quando fosse stata bene. Io intendevo che non avrebbe avuto bisogno di nessuno per darle il braccio: ma la buona vecchia aveva presa la cosa alla lettera, e non aveva osato infrangere il mio ordine. Perciò non si era fatta accompagnare; aveva fatto per me davvero un grosso sacrificio; e ora era inquieta perché essere con me, a malgrado dell’evidente innocenza, era tuttavia di per sé una grossa infrazione al costume. Mi misi a ridere, e anche lei rise, ma mi disse che l’uso era più vecchio di lei e di me, e se ne andò contenta.

Non c’è abitudine o regola o legge che resista a una contraria necessità o a un potente desiderio: e anche quest’uso si riduce, praticamente, a una formalità: ma la formalità è rispettata. Tuttavia la campagna è grande, i casi della vita molteplici, e non mancano le vecchie mezzane accompagnatrici né le giovani compiacenti. Le donne, chiuse nei veli, sono come animali selvatici. Non pensano che all’amore fisico, con estrema naturalezza, e ne parlano con una libertà e semplicità di linguaggio che stupisce. Quando passi per la via, ti guardano con i neri occhi scrutatori, chinati obliquamente a pesare la tua virilità, e le odi poi, dietro le tue spalle, mormorare i loro giudizi e le lodi della tua nascosta bellezza. Se ti volti, celano il viso tra le mani e ti guardano attraverso le dita. Nessun sentimento si accompagna a questa atmosfera di desiderio, che esce dagli occhi e pare riempire l’aria del paese, se non forse quello della soggezione a un destino, a una potenza superiore, che non si può eludere. Anche l’amore si accompagna, più che all’entusiasmo o alla speranza, a una sorta di rassegnazione. Se l’occasione è fuggevole, non bisogna lasciarla svanire: le intese sono rapide e senza parole. Quello che si racconta, e che io stesso credevo vero, della severità feroce dei costumi, della gelosia turchesca, del selvaggio senso dell’onore familiare che porta ai delitti e alle vendette, non è che leggenda, quaggiù. Forse era realtà in tempo non molto lontano, e ne resta un residuo nella rigidezza dei formalismi. Ma l’emigrazione ha cambiato tutto. Gli uomini mancano e il paese appartiene alle donne. Una buona parte delle spose hanno il marito in America. Quello scrive il primo anno, scrive ancora il secondo, poi non se ne sa più nulla, forse si fa un’altra famiglia laggiù, certo scompare per sempre e non torna più. La moglie lo aspetta il primo anno, lo aspetta il secondo, poi si presenta un’occasione e nasce un bambino. Gran parte dei figli sono illegittimi: l’autorità delle madri è sovrana. Gagliano ha milleduecento abitanti, in America ci sono duemila gaglianesi. Grassano ne ha cinquemila e un numero quasi uguale di grassanesi sono negli Stati Uniti. In paese ci restano molte più donne che uomini: chi siano i padri non può più avere un’importanza così gelosa: il sentimento d’onore si disgiunge da quello di paternità: il regime è matriarcale. Nelle ore del giorno, che i contadini sono lontani, il paese è abbandonato alle donne, queste regine-uccelli, che regnano sulla turba brulicante dei figli. I bambini sono amati, adorati, vezzeggiati dalle madri, che trepidano per i loro mali, che li allattano per anni e anni, non li lasciano un minuto, li portano con sé, sulla schiena e sulle braccia, avvolti negli scialli neri, mentre, ritte con l’anfora in testa, vengono dalla fontana. Molti ne muoiono, gli altri crescono precoci, poi prendono la malaria, si fanno gialli e melanconici, e diventano uomini, e vanno alla guerra, o in America, o restano in paese a curvare la schiena, come bestie, sotto il sole, ogni giorno dell’anno.

Se i figli illegittimi non sono una reale vergogna per le donne, tanto meno lo sono, naturalmente, per gli uomini. I preti hanno quasi tutti dei figli, e nessuno trova che la cosa porti disdoro al loro sacerdozio. Se Dio non li riprende, da piccoli, li fanno allevare nei collegi di Potenza o di Melfi. Il portalettere di Grassano, un vecchietto arzillo, un po’ zoppicante, con un bel paio di baffi tirati in su, era celebre e onorato in paese, perché si diceva che avesse, come Priamo, cinquanta figli. Di questi, ventidue o ventitré erano i figli delle sue due o tre mogli; gli altri, sparsi per il paese e per le terre vicine, e forse in parte leggendari, gli erano attribuiti, ma egli non se ne curava, e di molti non conosceva l’esistenza. Lo chiamavano ’u Re, non so se per la regalità del suo potere virile, o per i baffi monarchici: e i suoi figli erano detti, in paese, i Principini. Il prevalente rapporto matriarcale, il modo naturale e animalesco dell’amore, lo squilibrio dovuto all’emigrazione devono tuttavia fare i conti con il residuo senso familiare, col sentimento fortissimo della consanguineità, e con gli antichi costumi, che tendono a impedire il contatto degli uomini e delle donne. Avrebbero potuto entrare a casa mia, per farmi i servizi, soltanto quelle donne che fossero, in qualche modo, esentate dal seguire la regola comune; quelle che avessero avuto molti figli di padre incerto, che senza poter essere chiamate prostitute (ché tale mestiere non esiste in paese), facessero tuttavia mostra di una certa libertà di costumi, e si dedicassero insieme alle cose dell’amore e alle pratiche magiche per procacciarlo: le streghe.

(pp 94 – 98)

 

 

Roosevelt e la Madonna di Viggiano

 

Sotto il letto stanno gli animali: lo spazio è così diviso in tre strati: per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell’aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto, quando dovevo ascoltare un malato, o fare una iniezione a una donna che batteva i denti per la febbre e fumava per la malaria; col capo toccavo le culle appese, e tra le gambe mi passavano improvvisi i maiali o le galline spaventate. Ma quello che ogni volta mi colpiva (ed ero stato ormai nella maggior parte delle case) erano gli sguardi fissi su di me, dal muro sopra il letto, dei due inseparabili numi tutelari. Da un lato c’era la faccia negra ed aggrondata e gli occhi larghi e disumani della Madonna di Viggiano: dall’altra, a riscontro, gli occhietti vispi dietro gli occhiali lucidi e la gran chiostra dei denti aperti nella risata cordiale del Presidente Roosevelt, in una stampa colorata. Non ho mai visto, in nessuna casa, altre immagini: né il Re, né il Duce, né tanto meno Garibaldi, o qualche altro grand’uomo nostrano, e neppure nessuno dei santi, che pure avrebbero avuto qualche buona ragione per esserci: ma Roosevelt e la Madonna di Viggiano non mancavano mai. A vederli, uno di fronte all’altra, in quelle stampe popolari, parevano le due facce del potere che si è spartito l’universo: ma le parti erano giustamente invertite: la Madonna era, qui, la feroce, spietata, oscura dea arcaica della terra, la signora saturniana di questo mondo: il Presidente, una specie di Zeus, di Dio benevolo e sorridente, il padrone dell’altro mondo. A volte, una terza immagine formava, con quelle due, una sorta di trinità: un dollaro di carta, l’ultimo di quelli portati di laggiù, o arrivato in una lettera del marito o di un parente, stava attaccato al muro con una puntina sotto alla Madonna o al Presidente o tra l’uno e l’altro, come uno Spirito Santo, o un ambasciatore del cielo nel regno dei morti.

Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico. Napoli potrebbe essere la loro capitale, e lo è davvero, la capitale della miseria, nei visi pallidi, negli occhi febbrili dei suoi abitatori, nei “bassi” dalla porta aperta pel caldo, l’estate, con le donne discinte che dormono a un tavolo, nei gradoni di Toledo; ma a Napoli non ci sta più, da gran tempo, nessun re; e ci si passa soltanto per imbarcarsi. Il Regno è finito: il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America. Anche l’America ha, per i contadini, una doppia natura. È una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco denaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore, e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo, e senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno.

Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una. E lo è, nel solo modo possibile per loro, in un modo mitologico. Per la sua doppia natura, come luogo di lavoro essa è indifferente: ci si vive come si vivrebbe altrove, come bestie legate a un carro, e non importa in che strade lo si debba tirare; come paradiso, Gerusalemme celeste, oh! allora, quella non si può toccare, si può soltanto contemplarla, di là dal mare, senza mescolarvisi. I contadini vanno in America, e rimangono quello che sono: molti vi si fermano, e i loro figli diventano americani: ma gli altri, quelli che ritornano, dopo vent’anni, sono identici a quando erano partiti. In tre mesi le poche parole d’inglese sono dimenticate, le poche superficiali abitudini abbandonate, il contadino è quello di prima, come una pietra su cui sia passata per molto tempo l’acqua di un fiume in piena, e che il primo sole in pochi minuti riasciuga. In America, essi vivono a parte, fra di loro: non partecipano alla vita americana, continuano per anni a mangiare pan solo, come a Gagliano, e risparmiano i pochi dollari: sono vicini al paradiso, ma non pensano neppure ad entrarci. Poi, tornano un giorno in Italia, col proposito di restarci poco, di riposarsi e salutare i compari e i parenti: ma ecco, qualcuno offre loro una piccola terra da comperare, e trovano una ragazza che conoscevano bambina e la sposano, e così passano i sei mesi dopo i quali scade il loro permesso di ritorno laggiù, e devono rimanere in patria. La terra comperata è carissima, hanno dovuto pagarla con tutti i risparmi di tanti anni di lavoro americano, e non è che argilla e sassi, e bisogna pagare le tasse, e il raccolto non vale le spese, e nascono i figli, e la moglie è malata, e in pochissimo tempo è tornata la miseria, la stessa eterna miseria di quando, tanti anni prima, erano partiti. E con la miseria torna la rassegnazione, la pazienza, e tutti i vecchi usi contadini: in breve questi americani non si distinguono più in nulla da tutti gli altri contadini, se non per una maggiore amarezza, il rimpianto, che talvolta affiora, d’un bene perduto. Gagliano è piena di questi emigranti ritornati: il giorno del ritorno è considerato da loro tutti un giorno di disgrazia. Il I929 fu l’anno della sventura, e ne parlano tutti come d’un cataclisma. Era l’anno della crisi americana, il dollaro cadeva, le banche fallivano: ma questo, in generale, non colpiva i nostri emigrati, che avevano l’abitudine di mettere i loro risparmi in banche italiane, e di cambiarli subito in lire. Ma a New York c’era il panico, e c’erano i propagandisti del nostro governo, che, chissà perché, andavano dicendo che in Italia c’era lavoro per tutti e ricchezza e sicurezza, e che dovevano tornare. Così moltissimi, in quell’anno di lutto, si lasciarono convincere, abbandonarono il lavoro, presero il piroscafo, tornarono al paese, e vi restarono invischiati come mosche in una ragnatela. Eccoli di nuovo contadini, con l’asino e la capra, eccoli partire ogni mattina per i lontani borghi di malaria. Altri conservano invece il mestiere che facevano in America; ma qui, al paese, non c’è lavoro, e si fa la fame. ― Maledetto il 1929, e chi mi ha fatto tornare! ― mi diceva Giovanni Pizzilli, il sarto, mentre mi prendeva le misure in pollici, con complicati e originali e moderni sistemi americani per l’abbassamento della spalla, e non so che altro, per un vestito alla cacciatora. Era un artigiano intelligente, abilissimo nel suo mestiere, come se ne trovano pochi nelle più celebrate sartorie di città, e mi fece, per cinquanta lire di fattura, il più bell’abito di velluto che io abbia mai portato. In America guadagnava bene, ora era in miseria, aveva già quattro o cinque figli, non sperava più di risollevarsi, e sul suo viso ancor giovane era scomparsa ogni traccia di energia e di fiducia, per lasciarvi una continua, disperata espressione di angoscia.

― Laggiù, avevo un salone, e quattro lavoranti. Nel ’29 sono venuto per sei mesi, ma ho preso moglie e non sono più partito: e ora son ridotto a questa botteguccia e a combattere con la miseria, ― mi diceva il barbiere, un uomo coi capelli già grigi sulle tempie, con l’aria seria e triste.

(...)

La bottega dell’americano, del parrucchiere dei signori, era l’unica delle tre che sembrasse una vera bottega di barbiere. C’era uno specchio tutto appannato dalle cacche di mosca, c’era qualche seggiola di paglia, e al muro erano attaccati ritagli di giornali americani, con fotografie di Roosevelt, di uomini politici, di attrici, e réclames di cosmetici. Era l’unico resto dello splendido salone in non so più quale strada di New York: il barbiere, ripensandoci, si rattristava e si faceva cupo. Che cosa gli rimaneva della bella vita di laggiù, dove era un signore? Una casetta in cima al paese, con la porta pretensiosamente scolpita e qualche vaso di geranio sul balcone, la moglie malaticcia, e la miseria. ― Non fossi mai tornato! ― Questi americani del I929 si riconoscono tutti all’aria delusa di cani frustati, e ai denti d’oro.

I denti d’oro brillavano anacronistici e lussuosi nella larga bocca contadina di Faccialorda, un uomo grosso, robusto, dall’aspetto testardo ed astuto. Faccialorda, chiamato da tutti con questo soprannome forse per il colore della sua pelle, era invece un vincitore nella lotta dell’emigrazione, e viveva nella sua gloria. Era tornato dall’America con un bel gruzzolo, e anche se l’aveva già in gran parte perduto per comprarsi una terra sterile, ci poteva ancora modestamente campare: ma il vero valore di quel denaro consisteva nel non essere stato guadagnato col lavoro, ma con l’abilità. Faccialorda, la sera, tornato dai campi, sull’uscio di casa sua, o passeggiando per la piazza, amava raccontarmi la sua grande avventura americana, felice per sempre della sua vittoria. Era un contadino, in America faceva il muratore. ― Un giorno mi dànno da svuotare un tubo di ferro, di quelli che servono per le mine, che era pieno di terra. Io ci batto su con una punta; invece di terra, c’era la polvere, e il tubo mi scoppia in mano. Mi sono un po’ sgraffiato qui sul braccio, ma sono rimasto sordo. Si era rotto il timpano. Là in America ci sono le assicurazioni, dovevano pagarmi. Mi fanno una visita, mi dicono di tornare dopo tre mesi. Dopo tre mesi io ci sentivo di nuovo bene, ma avevo avuto l’infortunio, dovevano pagarmi, se c’è la giustizia. Tremila dollari dovevano darmi. Io facevo il sordo: parlavano, sparavano, non sentivo nulla. Mi facevano chiudere gli occhi: io mi dondolavo e mi lasciavo cadere per terra. Quei professori dicevano che non avevo niente, e non volevano darmi l’indennità. Mi fecero un’altra visita, e poi tante altre. lo non sentivo mai nulla, e cadevo per terra: dovevano pur darmi il mio denaro! Siamo andati avanti due anni, che non lavoravo, i professori dicevano di no, io dicevo che non potevo far nulla, che ero rovinato. Poi i professori, i primi professori dell’America si sono convinti, e dopo due anni mi hanno dato i miei tremila dollari. Mi vengono per giustizia. Sono subito tornato a Gagliano, e sto benissimo ―. Faccialorda era fiero di aver combattuto da solo contro tutta la scienza, contro tutta l’America, e di aver vinto, lui, piccolo cafone di Gagliano, i professori americani, armato soltanto di ostinazione e di pazienza. Era, del resto, convinto che la giustizia fosse dalla sua parte, che la sua simulazione fosse un atto legittimo. Se qualcuno gli avesse detto che egli aveva truffato i tremila dollari, si sarebbe sinceramente stupito. Io mi guardavo bene dal dirglielo, perché in fondo non gli davo torto; ed egli mi ripeteva con orgoglio la sua avventura, e si sentiva, nel suo cuore, un poco un eroe della povera gente, premiato da Dio nella sua difesa contro le forze nemiche dello Stato. Mi venivano in mente, quando Faccialorda mi raccontava la sua storia, altri italiani incontrati in giro per il mondo, fieri di essersi battuti contro le potenze organizzate della vita civile, e di aver salvato la propria persona contro la volontà assurda dello Stato. Ricordavo fra gli altri un vecchio, incontrato in Inghilterra, a Stratford sull’Avon, il paese di Shakespeare, con un carrettino di gelati tirato da un poney infiocchettato e scampanellante. Si chiamava Saracino (sul carretto era scritto Saracine, all’inglese), era di Frosinone, portava ancora gli anelli alle orecchie, e parlava male un italiano romanesco. Appena si accorse che ero un italiano mi raccontò subito che egli era fuggito dall’Italia cinquant’anni prima per non fare il soldato, per non servire il Re d’Italia, e che in Italia non era più tornato. Con i gelati aveva fatto fortuna: tutti i carretti della provincia erano suoi. I suoi figli avevano studiato, uno era avvocato, l’altro medico: ma quando venne la guerra, nel ’I4, egli li mandò in Italia perché non servissero il Re d’Inghilterra, e, quando poi, l’anno dopo, anche il Re d’Italia avrebbe potuto prenderli: ― Non abbia paura, ci siamo arrangiati, ma il Re non l’abbiamo servito ―. Anche pel vecchio Saracino, come per Faccialorda, questa non era un’azione vergognosa, ma la gloria della sua vita. Me la raccontò, felice, frustò il cavallino e partì.

Faccialorda aveva vinto, ma anche lui era tornato, e tra poco, malgrado i denti d’oro, non lo si sarebbe più distinto dagli altri contadini. A lui il racconto della sua avventura dava ancora un ricordo preciso, per quanto limitato e particolare, dell’America: ma gli altri in breve la dimenticavano: tornava ad essere per loro quello che era stata prima della partenza, e anche, forse, mentre erano laggiù: il paradiso americano. Qualcuno, più pratico e più americanizzato, forse come quelli che restano laggiù, ne ho visto a Grassano: ma questi non erano contadini, e badavano con ogni cura a non lasciarsi riprendere dalla vita paesana. Uno, a Grassano, stava seduto su una sedia, ogni giorno, sull’uscio di casa, sulla piazza, a veder passare la gente. Era un uomo di mezza età, alto, magro, vigoroso, con un viso di falchetto, il naso aquilino, la pelle scura. Era vestito sempre di nero, e in testa portava un panama a larghe tese. D’oro non aveva soltanto i denti, ma la spilla della cravatta, i bottoni dei polsini, la catena dell’orologio, i ciondoli, i corni portafortuna, gli anelli, il portasigarette. In America aveva fatto fortuna, faceva il sensale e il commerciante; forse, sospetto, un poco il negriero dei contadini poveri; era abituato a comandare, e guardava ormai con distacco e disprezzo i suoi compaesani. Tuttavia tornava al paese, dove aveva una casa, una volta ogni tre o quattro anni, e si compiaceva di fare sfoggio dei suoi dollari, del suo barbaro inglese e del suo più barbaro italiano. Ma stava attento a non lasciarsi invischiare. ― Qui potrei restarci, ― mi diceva, ― denaro ne ho abbastanza. Mi potrebbero fare podestà: ci sarebbe da lavorare, in paese, da rifar tutto, all’americana. Ma sarebbe un fallimento, e si perderebbe tutto. I miei affari mi aspettano ―. Consultava ogni giorno il giornale, e ascoltava la radio, e quando si fu convinto che tra poco sarebbe scoppiata la guerra d’Africa, fece le sue valigie, s’imbarcò sul primo piroscafo, per non rischiare di rimaner bloccato in Italia, e fuggì.

Dopo il ’29, l’anno della disgrazia, ben pochi sono tornati da New York, e ben pochi ci sono andati. I paesi di Lucania, mezzi di qua e mezzi di là dal mare, sono rimasti spezzati in due. Le famiglie si sono separate, le donne sono rimaste sole: per quelli di qui, l’America si è allontanata, e con lei ogni possibile salvezza. Soltanto la posta porta continuamente qualcosa che viene di laggiù, che i compaesani fortunati mandano a regalare ai loro parenti. Don Cosimino aveva un gran da fare con questi pacchi: arrivavano forbici, coltelli, rasoi, strumenti agricoli, falcetti, martelli, tenaglie, tutte le piccole macchine della vita comune. La vita di Gagliano, per quello che riguarda i ferri dei mestieri, è tutta americana, come lo è per le misure: si parla, dai contadini, di pollici e di libbre piuttosto che di centimetri o di chilogrammi. Le donne, che filano la lana su vecchi fusi, tagliano il filo con splendidi forbicioni di Pittsburg: i rasoi del barbiere sono i più perfezionati ch’io abbia mai visto in Italia, e l’acciaio azzurro delle scuri che i contadini portano sempre con sé, è acciaio americano. Essi non sentono alcuna prevenzione contro questi strumenti moderni, né alcuna contraddizione fra di essi e i loro antichi costumi. Prendono volentieri quello che arriva da New York, come prenderebbero volentieri quello che arrivasse da Roma. Ma da Roma non arriva nulla. Non era mai arrivato nulla, se non l’“U. E.”, e i discorsi della radio.

(pp 116 – 125)

 

 

Humilemque vidimus Italiam

 

Di discorsi, in quei giorni, se ne sentivano molti, e don Luigino si affaccendava a convocare le sue adunate. Era ormai ottobre, le nostre truppe passavano il Mareb, la guerra d’Abissinia era cominciata. Popolo italiano, in piedi! e l’America si allontanava sempre più, nelle nebbie dell’Atlantico, come un’isola nel cielo, chissà per quanto tempo, forse per sempre.

Questa guerra non interessava i contadini. La radio tuonava, don Luigino adoperava tutte le ore di scuola che non passava a fumare sulla terrazza, concionando ad altissima voce (lo si sentiva dappertutto) ai ragazzi, e facendogli cantare “Faccetta nera, bella abissina”, e raccontava a tutti, in piazza, che Marconi aveva scoperto dei raggi segreti, e che la flotta inglese sarebbe presto saltata tutta per aria. Dicevano anche, lui e l’altro maggiore maestro di scuola, il suo collega della radio, che quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a seminarla la roba ci cresce da sola. Ahimé, i due maestri parlavano un po’ troppo della grandezza di Roma perché i contadini potessero credere a tutto il resto. Scuotevano il capo diffidenti, silenziosi e rassegnati. Quelli di Roma volevano far la guerra, e l’avrebbero fatta fare a loro. Pazienza! Morire sopra un’amba abissina non è poi molto peggio che morire di malaria nel proprio campo, sulla riva del Sauro. Pare che gli studenti delle scuole, i ragazzi della Gil, i maestri e le maestre di scuola, le dame della Croce Rossa, le Madri e le Vedove dei caduti milanesi, le signore fiorentine, i droghieri, i negozianti, i pensionati, i giornalisti, i poliziotti, gli impiegati dei Ministeri di Roma, insomma tutto quello che si usa chiamare il Popolo italiano, fossero in quei giorni pervasi da un’onda beatificante di entusiasmo e di gloria. Io, a Gagliano, non ero in condizioni di constatarlo. I contadini erano più muti, tristi e cupi del solito. Di quella terra promessa, che bisognava prima togliere a quelli che l’avevano (e istintivamente pareva loro che questo non fosse giusto, e non dovesse portar bene) non si fidavano. Quelli di Roma non avevano l’abitudine di far qualcosa per loro: anche questa impresa, malgrado le chiacchiere, doveva avere qualche altro scopo, che non li riguardava. ― Se quelli di Roma hanno denaro da spendere per la guerra, perché non aggiustano prima il ponte sull’Agri, che è caduto da quattro anni, e nessuno ci pensa a rifarlo? Potrebbero anche arginare il fiume, farci qualche nuova fontana, piantare degli alberi nei boschi invece di tagliare quei pochi che rimangono. Di terra ne abbiamo anche qui: è tutto il resto che ci manca ―. Perciò pensavano alla guerra come a una delle solite disgrazie inevitabili, come alle imposte o alla tassa delle capre. Non avevano paura di dover partire soldati. ― Vivere qui come cani, ― dicevano, ― o morire come cani laggiù, è la stessa cosa ―. Ma nessuno, tranne il marito di donna Caterina, si presentò volontario. Del resto, si capì presto che non soltanto gli scopi, ma anche la condotta della guerra riguardava quell’altra Italia, di là dai monti, e aveva poco a che fare con i contadini. I richiamati erano pochi, due o tre in tutto il paese, più qualche soldato di leva, e un giovanotto, don Nicola, figlio di un prete, allevato dai frati di Melfi, e sottufficiale di carriera, che aveva dovuto partire tra i primi. Qualcuno dei più miserabili, dei contadini senza terra che non avevano nulla da mangiare, allettati dai discorsi di don Luigino e dalla promessa di alti salari, avevano chiesto di andare come operai: ma le loro domande rimasero sempre senza risposta. ― Non sanno che farsene di noi, ― mi dicevano questi poveri cafoni. ― Non ci vogliono nemmeno a lavorare. La guerra è fatta per quelli del nord. Noi dobbiamo crepare di fame in casa nostra. E in America non ci si andrà mai più.

Il 3 ottobre fu dunque una giornata squallida. All’adunata in piazza, una ventina di contadini, racimolati a fatica dai carabinieri e dagli avanguardisti del podestà, ascoltavano imbambolati le parole storiche della radio. Don Luigino aveva fatto imbandierare il municipio, la scuola, le case dei signori: le bandiere tricolori ondeggiavano al vento, nel sole, frammischiate, coi loro colori stranamente vivaci, ai funebri stendardi neri delle case dei contadini. Fecero suonare anche le campane, che il campanaro intonò, al solito, sulla sua lugubre aria di morte. La guerra allegra incominciò, in quella indifferente tristezza. Don Luigino venne al balcone del municipio, e parlò. Disse della grandezza immortale di Roma, dei sette colli, della lupa, delle legioni romane, della civiltà di Roma, dell’Impero di Roma che si sarebbe rinnovato. Disse che tutti ci odiavano per la nostra grandezza, ma che i nemici di Roma avrebbero morso la polvere, e che noi avremmo ripercorso in trionfo le vie consolari di Roma, perché Roma era eterna, invincibile. Disse ancora, con la sua vocetta acuta, molte altre cose di Roma, che non ricordo: poi aprì la bocca e si mise a cantare “Giovinezza”, facendo cenni imperiosi con le mani ai ragazzi della scuola, perché, dalla piazza, lo accompagnassero in coro. Attorno a lui, sul balcone, c’era il brigadiere e i signori, e cantavano tutti, tranne il dottor Milillo che non era d’accordo. In basso, contro il muro, quei pochi contadini ascoltavano in silenzio, parandosi il sole, che batteva loro negli occhi, con la mano, foschi e neri come uccelli notturni. Vicino al podestà, di fianco al balcone, sul muro della facciata del municipio, spiccava bianca la lapide di marmo con i nomi dei morti della grande guerra. Erano molti, per un paese così piccolo: quasi una cinquantina: c’erano tutti i nomi delle famiglie gaglianesi, i Rubilotto, i Carbone, i Guarini, i Bonelli, i Carnovale, i Racioppi, i Guerrini, non ne mancava nessuno. Di certo, o direttamente, o attraverso i fratel-cugini o i compari di San Giovanni, nessuna casa era stata senza un morto; e più erano i feriti, i malati, e quelli che avevano combattuto e se l’erano cavata senza danno. Perché, nelle mie conversazioni con i contadini, nessuno me ne parlava mai, né mai si faceva cenno a quella guerra, né alle imprese allora compiute, né ai paesi visti, né alle fatiche sofferte? Il solo che me ne aveva detto qualcosa era il barbiere cavadenti; e ne aveva accennato soltanto per mostrarmi come e dove avesse imparato la sua arte, quando faceva il portaferiti sul Carso. Anche la grande guerra, così sanguinosa e ancora così vicina, non interessava i contadini: l’avevano subita, e ora era come l’avessero dimenticata. Nessuno usava vantare le proprie glorie, raccontare ai propri figli le battaglie combattute, mostrare le ferite o lagnarsi dei patimenti. Se io li interrogavo, rispondevano brevi e indifferenti. Era stata una grande disgrazia, si era sopportata come le altre. Anche quella era stata una guerra di Roma. Anche allora si seguivano i tre colori, che qui sembrano strani, i colori araldici di un’altra Italia, incomprensibile, volontaria e violenta, quel rosso allegramente sfacciato e quel verde così assurdo quaggiù, dove anche gli alberi sono grigi, e l’erba non cresce sulle argille. Quei colori, e tutti gli altri, sono imprese nobiliari, stanno bene sugli scudi dei signori, o sui gonfaloni delle città. Che cosa hanno a che fare con quelli i contadini? Il loro colore è uno solo, quello stesso dei loro occhi tristi e dei loro vestiti, e non è un colore, ma è l’oscurità della terra e della morte. Neri sono i loro stendardi, come la faccia della Madonna. Le altre bandiere sono i colori variopinti di quell’altra civiltà, spinta al moto e alla conquista, sulle vie della Storia; e di cui essi non fanno parte. Ma poiché essa è più forte, e organizzata, e potente, essi devono subirla: oggi si moriva, non per noi, in Abissinia, come ieri sull’Isonzo o sul Piave, come prima, per secoli e secoli, dietro i più vari colori, in tutte le terre del mondo. Andavo leggendo, in quei giorni, una vecchia storia di Melfi, del Del Zio, trovata frugando tra vecchi libri nella casa del dottor Milillo, dove andavo quasi ogni giorno a prendere il caffè, e a chiacchierare con Margherita e Maria, le due ragazze, sempre più baffute, ingenue e spiritate. Il libro è della seconda metà del secolo scorso, e vi si racconta, fra le glorie locali, che viveva ancora in quegli anni, a Melfi, un vecchio contadino con una gamba di legno. Era stato arruolato nell’esercito di Napoleone, e aveva perduta la sua gamba al passaggio della Beresina. Per più di mezzo secolo, il contadino zoppicò sui selciati di Melfi, portando su di sé, per i suoi concittadini, l’assurdo segno di una civiltà, che l’aveva marcato per sempre, e che egli ignorava. Che cosa importava a un contadino di Melfi della Russia e dell’imperatore dei francesi? La Storia, avrebbe detto baroccamente Victor Hugo, gli aveva preso una gamba, ed egli non sapeva neppure che cosa essa fosse. La Storia, del resto, questa Storia altrui a cui questi paesi si sono sempre dovuti rassegnare, aveva lasciato ai concittadini dello zoppo dei segni anche peggiori: poiché la rovina di Melfi, che era una città fiorente e popolosa, fu dovuta al fatto che un capitano francese, in guerra con gli spagnoli di Carlo V su per quelle montagne, decise a caso di serrarvisi dentro con le sue soldatesche. Gli spagnoli di Pietro Navarro, agli ordini del Lautrec, assediarono Melfi, la presero, ammazzarono tutti i cittadini che trovarono, e che non sapevano neppure che cosa fossero Francia e Spagna, Francesco I e Carlo V, rasero al suolo le case, e regalarono quel poco che rimaneva a Filippo d’Orange, e poco dopo, in compenso delle sue vittorie marinare, al genovese Andrea Doria, che essi conoscevano ancora meno. Il genovese non si scomodò mai a visitare i suoi vassalli, e così fecero i suoi eredi, limitandosi a mandare degli esattori che ne cavassero tutto il denaro possibile. Così, per gli imperscrutabili voleri di una Storia che non li riguardava, i contadini di Melfi caddero, per tutti i secoli che seguirono, nella più nera miseria. Quanta gente, mossa da motivi ignoti, è passata, come i francesi e gli spagnoli, su queste terre? È ben naturale che i contadini dopo migliaia di anni di ripetute, uguali esperienze, non si entusiasmino delle guerre, diffidino di tutte le bandiere, lascino, in silenzio, che don Luigino canti, dal balcone, le glorie di Roma.

Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici.

I contadini di Gagliano non si appassionavano alla conquista dell’Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio. La guerra dei briganti è praticamente finita nel I865; erano dunque passati settant’anni, e soltanto pochi vecchissimi potevano esserci stati, partecipi o testimoni, e in grado di ricordare personalmente quelle imprese. Ma tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di cosa di ieri, con una passione presente e viva. Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualunque fosse l’argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare dei briganti. Tutto li ricorda: non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c’è luogo nascosto che non gli servisse di ritrovo; non c’è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. I luoghi, come la Fossa del Bersagliere, hanno preso nome da loro o dai loro fatti. Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odî che dividono il paese, tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito. Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e “progressista”, quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno ad intenderlo. Del resto, neanche i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del Papa o dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea. Anche il loro aspetto, oggi, richiama l’immagine antica del brigante: oscuri, chiusi, solitari, aggrondati, col cappello nero e il vestito nero, e, d’inverno, il mantello; sempre armati, quando vanno nei campi, con il fucile e la scure. Il loro cuore è mite, e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.

Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente quella più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c’è stata sempre. Humilemque vidimus Italiam: questa era l’umile Italia, come appariva ai conquistatori asiatici, quando sulle navi di Enea doppiavano il capo di Calabria. E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di esterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia, e non conta. Soltanto alcune volte essa si è levata per difendersi da un pericolo mortale, e queste sole, e naturalmente fallite, sono le sue guerre nazionali. La prima di esse è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, e la religione dello Stato. La pietas di Enea non poteva essere capita dagli antichi italiani, che vivevano nei campi con gli animali. E portavano l’esercito, le armi, gli scudi, l’araldica e la guerra. La loro religione era feroce, comportava i sacrifici umani: sulla pira di Pallante, il pio Enea sgozza i prigionieri, come sacrificio ai suoi dèi dello Stato. Ma quegli italiani antichissimi invece, erano contadini, senza religione e senza sacrificio. Quando i troiani furono in Italia, trovarono dunque una irreducibile ostilità negli abitanti della terra, derivante dalla assoluta differenza di civiltà. E difatti, Enea si trovò degli alleati nelle sole popolazioni non contadine, negli etruschi, anch’essi venuti, come lui, dall’oriente, anch’essi forse, come lui, semitici, e anch’essi retti a teocrazia militare. E, con l’aiuto di questi alleati, cominciò la guerra. Da un lato c’era un esercito, con armi splendenti forgiate dagli déi; dall’altro, come le descrive Virgilio, c’erano delle bande di contadini, a cui nessun dio aveva dato delle armi, ma che impugnavano a propria difesa le scuri, le falci e i coltelli del loro lavoro quotidiano. Erano anch’essi dei briganti, pieni di valore, e, ahimé, non potevano vincere. L’Italia fu assoggettata, quell’umile Italia

 

per cui mori la vergine Cammilla

Eurialo e Turno e Niso di ferute.

 

Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino. Anche qui gli italiani dovevano militarmente perdere, ma salvarono tuttavia la loro natura, e non si mescolarono ai vincitori. Dopo questa seconda guerra nazionale, la civiltà contadina, chiusa nell’ordine romano, restò come addormentata nella sua pazienza. La civiltà feudale che, col passare di secoli, di eventi e di genti diverse, seguì, non era certo una civiltà di contadini: ma tuttavia era legata alla terra, ai confini del feudo, e perciò meno contraddittoria al non-Stato rurale. Si può dunque capire perché gli Svevi siano ancora oggi così popolari presso i contadini, che parlano di Corradino come di un loro eroe nazionale, e ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa terra, che allora fioriva, entrò nella più triste rovina.

La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. ― Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, ― disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda.

Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni.

Di veri briganti, di quelli del ‘60, non ce n’è quasi più. Uno ne vive, mi raccontò la Giulia, qui vicino, a Missanello. È un vecchio di novant’anni, con una gran barba bianca, ed è un santo. Era stato un temuto capo di bande. Ora vive nel paese, onorato dai contadini come un patriarca; si ricorre a lui per consigli in tutti i casi difficili della vita. Mi dispiace di non essere mai potuto andare a conoscerlo. Un altro lo incontrai un giorno a Grassano. Ero nella bottega di Antonino Roselli, il mio segretario-barbiere-flautista, e mi facevo radere, quando entrò un vecchio robusto dal viso colorito, dai grossi baffi bianchi e dal portamento fiero, dagli arditi occhi azzurri, vestito di velluto alla cacciatora: non l’avevo mai visto in paese. Rimase, aspettando il suo turno, a fumare la pipa, e mi chiese chi ero. ― Un esiliato? ― mi disse anche lui, come gli altri, quando gli ebbi risposto. ― A Roma non ti vogliono bene ―. Gli chiesi quanti anni avesse: ― Molti, ― mi disse, ― ero giovane al tempo dei briganti. Avevo quindici anni, quando, con mio fratello, ammazzammo il carabiniere. Hai visto quella quercia vecchia, che è sulla strada, un duecento metri prima di arrivare in paese? Fu là che lo incontrammo, e voleva fermarci, e fummo costretti a ucciderlo. Il corpo lo nascondemmo nel fosso: ma lo trovarono presto. Mio fratello lo presero subito, e morì qualche anno dopo, nelle carceri di Napoli. Io mi nascosi in paese. Rimasi, vestito da donna, per sette mesi, proprio qui, nella stanza che è sopra questa bottega di Antonino. Poi mi scoprirono: ma, siccome ero così giovane, me la cavai con quattro anni ―. Il vecchio brigante era contento e in pace con se stesso: quell’antico omicidio non gli pesava sulla coscienza, lo raccontava come un’azione inevitabile e naturale. Era la guerra.

― Vede quel signore che passa ora sulla strada? ― mi diceva il barbiere, mostrandomelo attraverso la porta aperta. ― È don Pasquale, un proprietario. Suo nonno aveva una grossa masseria, e quando vennero i briganti, non volle dar nulla, né grano né bestie. I briganti allora gli bruciarono la casa in campagna; e lui, peggio, si mise con i carabinieri a far la posta. Allora i briganti lo presero, e mandarono a dire a sua moglie che, se lo rivoleva, doveva pagare la taglia, cinquemila lire, entro due giorni. La famiglia non voleva tirar fuori il denaro, speravano di farlo liberare dai soldati. Il terzo giorno, arriva alla moglie una busta. Dentro c’era un orecchio di suo marito.

I briganti tagliavano le orecchie, il naso e la lingua dei signori, per farsi pagare i riscatti. I soldati tagliavano la testa ai briganti che riuscivano ad acciuffare, e le attaccavano su dei pali, nei paesi, perché servissero di esempio. Così continuava questa guerra di distruzione. Il terreno su questi monti d’argilla, è tutto scavato di buche e di grotte naturali. Qui si riparavano i briganti e qui, negli alberi cavi delle foreste, nascondevano i denari delle taglie e quelli rapinati nelle case dei ricchi. Quando le bande furono disperse, e i briganti tutti uccisi o imprigionati, quei tesori nascosti rimasero nella terra e nei boschi. Questo è uno dei punti dove la storia dei briganti diventa leggenda, e si lega a credenze antichissime. I briganti misero dei tesori reali dove la fantasia contadina aveva sempre favoleggiato la loro esistenza: così i briganti divennero tutt’uno con le oscure potenze sotterranee.

(pp 126 – 138)

 

Carlo Levi, "Il figlio della Parroccola", 1936, olio su tela, 61 x 50 cm (da Carlo Levi, "Galleria di Ritratti", volume pubblicato in occasione della mostra "Carlo Levi, Galleria di Ritratti", Roma, Fondazione Carlo Levi, 8 marzo - 26 novembre 2000, Meridiana Libri).

 

Carlo Levi, Il figlio della Parroccola, 1936, olio su tela, 61 x 50 cm

(da Carlo Levi, Galleria di Ritratti, volume pubblicato in occasione della mostra Carlo Levi, Galleria di Ritratti, Roma, Fondazione Carlo Levi, 8 marzo - 26 novembre 2000, Meridiana Libri).

 

 

Non erano considerati, veramente, degli uomini

 

Così nessuno, oltre i malati, e i contadini (che erano liberi di frequentarmi, perché non erano considerati, veramente, degli uomini), osò più venirmi a trovare, tranne il dottor Milillo, che amava gli atteggiamenti indipendenti, e, nella sua qualità di vecchio zio, non aveva nulla da temere dal nipote.

Ero, cosi, libero di me, e del mio tempo. Se non avevo la compagnia dei signori, avevo quella dei bambini. Ce n’erano moltissimi, di tutte le età, e usavano battere al mio uscio ad ogni ora del giorno. Quello che li aveva attratti, dapprincipio, era Barone, questo essere infantile e meraviglioso. Poi li aveva colpiti la mia pittura, e non finivano di stupirsi delle immagini che apparivano, come per incanto, sulla tela, e che erano proprio le case, le colline e i visi dei contadini. Erano diventati miei amici: entravano liberamente in casa, posavano per i miei quadri, orgogliosi di vedersi dipinti. Si informavano di quando sarei andato a dipingere nella campagna; e arrivavano in frotta a prendermi a casa. Ce n’era sempre, allora, una ventina, e tutti consideravano massimo onore portarmi la cassetta, il cavalletto, la tela: e per questo onore si disputavano e si picchiavano, finché io non intervenivo, come un dio inappellabile, a scegliere e giudicare. Il preferito andava con la cassetta, l’oggetto più pesante, e perciò più degno e ambito, fiero e felice come un paladino, con un passo di gloria. Uno, un ragazzo di otto o dieci anni, Giovanni Fanelli, pallido, con dei grandi occhi neri e un collo lungo e sottile, dalla pelle bianca come quella di una donna, si era più di tutti entusiasmato per la pittura. Tutti i bambini mi chiedevano in regalo i vecchi tubi di colore vuoti, e i vecchi pennelli spelati, e se ne servivano per i loro giochi. Giovanni ne ebbe anch’egli la sua parte, ma ne fece tutt’altro uso: senza dirmi nulla, in segreto, si era messo a fare il pittore. Era attentissimo a tutto quello che facevo: mi vedeva preparare la tela con l’imprimitura, tirarla sui telai: queste operazioni, poiché io le facevo, gli parevano tanto essenziali all’arte come il fatto del dipingere. Egli cercò dunque degli stecchi di legno, e riuscì a connetterli insieme: su questi telai asimmetrici e irregolari, tese qualche pezzo di vecchia camicia trovata chissà dove, e ci impiastrò su non so che pappa, a simboleggiare l’imprimitura. Arrivato a questo punto, gli pareva di aver fatto il più. Coi fondi dei tubi vuoti e i rimasugli della mia tavolozza, e i pennelli frusti, dipingeva su quelle sue tele, cercando di imitare la corsa e il modo della mia pennellata. Era un bambino timido, arrossiva facilmente, e non avrebbe osato, per quanto ne avesse un gran desiderio, farmi vedere le sue opere. Avvertito dagli altri, le vidi. Non erano le solite pitture infantili, né delle imitazioni. Erano cose informi, macchie di colore non prive d’incanto. Non so se Giovanni Fanelli sia diventato o potesse diventare un pittore: ma certo non vidi mai in nessuno quella sua fiducia in una rivelazione che dovesse venire da sola, dal lavoro; quel suo credere nella ripetizione della tecnica come di una infallibile formula magica, o come di un lavoro della terra, che, arata e seminata, porta il suo frutto.

Questi ragazzi, gli stessi che a Natale giravano in frotte al suono dei cupicupi, o che si incontravano per le vie, pronti a fuggire, come stormi di uccelli, non avevano un capo, come a Grassano il Capitano. Erano vivaci, intelligenti e tristi. Quasi tutti erano vestiti di cenci malamente rattoppati, con le vecchie giacche dei fratelli maggiori, dalle maniche troppo lunghe rimboccate sui polsi; scalzi o con delle grosse scarpe da uomo bucate. Pallidi tutti, gialli per la malaria, magri, con gli sguardi intenti, neri e vuoti, profondissimi. Ce n’era di tutti i caratteri, ingenui e astuti, candidi e malvagi, ma tutti pieni di movimento, con gli occhi accesi come di febbre: tutti vivi di una vita precoce, che si sarebbe poi spenta con gli anni, nella monotona prigione del tempo. Mobili e silenziosi, me li vedevo comparire attorno da ogni parte, pieni di una muta fedeltà, e di desideri non espressi. Tutto quello che io possedevo o facevo, li riempiva di estatica ammirazione. I più piccoli oggetti che io buttavo, fino alle scatole vuote o ai pezzi di carta, erano per loro tesori che si disputavano in lotte accanite. Correvano a farmi, non richiesti, ogni sorta di servigi: andavano pei campi, e tornavano la sera a portarmi dei mazzetti di asparagi selvatici, o dei funghi del legno, insipidi e tigliosi, che, in mancanza di altri migliori, quaggiù si usano mangiare. Andavano lontano, verso Gaglianello, e mi riportavano i frutti amari dell’arancio selvatico, da una pianta che era laggiù, la sola di tutto il paese, perché li dipingessi. Mi erano amici, ma pieni di pudore, ritrosia e diffidenza, avvezzi naturalmente al silenzio, e a nascondere il loro pensiero; immersi in quel fuggente misterioso mondo animale nel quale vivevano, come piccole capre svelte e fugaci. Uno di essi, Giovannino, un ragazzo bianco e nero, con degli occhi rotondi e un viso stupito sotto il cappello da uomo, figlio di un pastore, non si separava mai da una sua capra fulva, con gli occhi gialli, che lo seguiva dappertutto come un cagnolino. Quando veniva a casa mia con gli altri bambini, anche la capra Nennella entrava nella mia cucina, annusando, desiderosa di sale. Barone aveva imparato a rispettarla: quando si usciva a dipingere, Nennella seguiva saltellando la fila dei ragazzi, mentre il cane correva innanzi abbaiando di felice intrattenibile libertà. Quando ci fermavamo, Giovannino restava a guardarmi lavorare, abbracciando il collo di Nennella, finché la capra si liberava con un balzo e correva lontano a brucare qualche cespuglio di ginestra. Io poi mandavo via i ragazzi, perché non mi infastidissero, e quelli si allontanavano a malincuore, e tornavano verso sera, quando già gli sciami delle zanzare mi fischiavano attorno, e gli ultimi raggi del sole arrivavano lunghi e rosati, per vedere il quadro finito, e riportarlo trionfalmente a casa. Ora che la neve copriva la terra, questi cortei infantili erano finiti: ma i bambini mi venivano a cercare in casa, restavano a scaldarsi al fuoco della cucina, o mi chiedevano di salire a giocare sulla terrazza. Tre o quattro soprattutto mi erano quasi sempre attorno. Il più piccolo era il figlio della Parroccola, che abitava in un tugurio a pochi metri da casa mia. Aveva forse un cinque anni, una grossa testa rotonda, col naso corto e la bocca carnosa, su un corpicino esile. La Parroccola, sua madre, così chiamata perché anch’essa aveva un grosso testone, che la faceva assomigliare al bastone pastorale del parroco, era una delle streghe contadine del paese: la più modesta di tutte, la più brutta e la più bonaria. Quel suo faccione, con il largo naso piatto, le due enormi narici aperte, la boccaccia sgangherata, i capelli radi, la pelle ruvida e giallastra, era davvero mostruoso; e di corpo era piccola e tozza, infagottata negli stracci sotto il velo. Ma era una buona donna. Campava facendo la lavandaia, e non negava, al bisogno, le sue grazie, in un suo letto grande come una piazza, a qualche carabiniere o a qualche giovanotto. La vedevo ogni giorno sull’uscio, di faccia a casa mia; e le dicevo, per scherzo, che mi piaceva, e che speravo non mi avrebbe rifiutato. La Parroccola arrossiva di piacere, per quanto poteva arrossire quella sua pelle spessa come una buccia, e mi diceva: ― Non faccio per te, don Carlo. Io so’ zambra!― La Parroccola era zambra, cioè rozza e contadina; ma, con quel suo viso da orchessa, tuttavia gentile. Il bambino era il solo dei suoi che avesse con sé: gli altri erano morti o lontani; e le somigliava.

Un altro dei miei fedeli era Michelino, un ragazzo di una diecina d’anni, avido, astuto e melanconico, con degli occhi neri e opachi, eredità di antichissimi pianti, che parevano l’immagine vera di quel paese desolato. Ma più di tutti mi cercavano i figli del sarto, specialmente il più piccolo, Tonino, un ragazzino minuto, svelto, arguto e timido, con una piccola testa bruna rasata e degli occhietti vivi come capocchie di spilli. Il padre, che li amava molto, cercava di tenerli un po’ meglio degli altri, per il suo orgoglio di buon artigiano, di sarto di New York. Ma come fare, se egli era tornato in patria, e tutto gli era andato male, e non aveva denaro, più di quello che avessero i contadini? I suoi ragazzi venivano su come gli altri, ed egli pensava con amarezza, tirando la sua gugliata, che non c’era ormai più nessuna speranza di poterne fare dei galantuomini, e neppure i mezzi per curare a dovere le loro tonsille sempre gonfie e le loro vegetazioni adenoidi. E anche Tonino, che pure era vispo come un monachicchio, aveva già in sé un riflesso della delusione paterna.

Tutti questi bambini avevano qualcosa di singolare; avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città, simili in tutti i paesi: i fruschi soli erano i loro compagni. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impenetrabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato. Erano, in generale, molto più intelligenti e precoci dei ragazzi cittadini della loro età: rapidi nell’intuire, pieni di desiderio di apprendere e di ammirazione per le cose ignote del mondo di fuori. Un giorno che mi videro scrivere mi chiesero se avessi potuto insegnarglielo: a scuola non imparavano nulla, col sistema delle bacchette, dei sigari e delle chiacchiere dal balcone, e dei discorsi patriottici. Andavano tutti a scuola, l’istruzione è obbligatoria, ma, con quei maestri, ne uscivano analfabeti. Così presero di loro iniziativa l’abitudine di venire qualche volta la sera a scrivere nella mia cucina. Rimpiango di non aver dato loro, per la mia naturale ripugnanza a tutto ciò che è insegnamento diretto, più tempo e più cura: un buon maestro non avrebbe mai potuto trovare una migliore scolaresca, né più ricca di una quasi incredibile buona volontà.

(pp 202 – 207)

 

 

Un uomo è legittimo se agisce bene

 

Restavo sdraiato lassù, come su un palco aereo. Appesi al muro, tutt’intorno al letto, erano i corpi delle volpi uccise di fresco. Sentivo il loro odore selvatico, vedevo i loro musi arguti all’ondeggiare rossastro delle fiamme, e muovendo appena la mano, toccavo il loro pelame che sapeva di grotta e di bosco. Dalla porta mi giungeva il lamento continuo del moribondo: ― Gesù aiutami, dottore aiutami, Gesù aiutami, dottore aiutami, ― come una litania di angoscia ininterrotta, e il sussurro delle donne in preghiera. Il fuoco del camino oscillava, guardavo le lunghe ombre muoversi come mosse da un vento, e le tre figure nere dei cacciatori, coi cappelli in capo, immobili davanti al focolare. La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l’umiliazione della mia impotenza. Perché allora una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.

Verso l’alba il malato si avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro si cambiarono in un rantolo, e anche quello si affievolì a poco a poco, con lo sforzo di una lotta estrema, e cessò. Non aveva ancor finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d’improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scomposero le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie, e cominciarono a danzare a gran passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte. Ogni tanto si affacciavano alla finestra, gridando in quell’unico tono, come ad annunciare la morte alla campagna e al mondo; poi tornavano nella stanza e riprendevano il ballo e l’ululato, che sarebbe continuato senza riposo per quarantott’ore, fino all’interramento. Era una nota lunga, identica, monotona, straziante. Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola, pareva entrasse nelle viscere. Per non scoppiare a piangere mi congedai in fretta ed uscii, con Barone, alla luce del primo mattino.

(...)

A una svolta mi apparve il brigadiere, che, con un carabiniere, mi veniva incontro, e con loro continuai la strada. Sui cespugli di ginestra saltellavano gli uccelli, dei grossi merli neri, che si levavano in volo al nostro passaggio. ― Vuol tirare, dottore? ― mi disse il brigadiere, e mi passò il suo moschetto. Del merlo che colpii non rimasero che le penne che scesero lente per l’aria; il corpo doveva essere andato in pezzi, a quel colpo a palla, così sproporzionato, e non ci fermammo a cercarlo.

Appena arrivato a Gagliano, mi accorsi, dal viso dei contadini, che qualcosa stava fermentando in paese. Durante la mia assenza, tutti avevano saputo del divieto di esercire, e del tempo perduto, il giorno prima, per poter andare al Pantano. La notizia della morte del contadino era già arrivata, come per non so quale misteriosa telegrafia. Tutti, in paese, conoscevano il morto, e l’amavano. Era il primo e solo morto, in tanti mesi, tra coloro che avevo curati. Tutti pensavano che, se io avessi potuto andar subito, lo avrei certamente salvato: e che la sua fine era dovuta soltanto al ritardo, e alle esitazioni del podestà. Quando io dicevo che probabilmente, anche arrivando qualche ora prima, senza mezzi, senza pratica chirurgica, con scarse possibilità di trasportarlo in tempo non fosse che a Sant’Arcangelo, non avrei potuto far molto, scuotevano la testa increduli: io ero, per loro, un guaritore miracoloso; e nulla mi sarebbe stato impossibile, se fossi giunto in tempo. L’episodio era per loro soltanto una conferma tragica della malvagità che aveva ispirato il divieto che mi avrebbe, d’ora innanzi, impedito di soccorrerli. I contadini avevano dei visi che non avevo ancora mai visto loro: una torva decisione, una disperazione risoluta faceva più neri i loro occhi. Uscivano di casa armati, con i fucili da caccia, e le scuri. ― Noi siamo dei cani, ― mi dicevano. ― Quelli di Roma vogliono che moriamo come cani. Avevamo un cristiano bono, per noi: quelli di Roma ce lo vogliono togliere. Bruceremo il municipio, e ammazzeremo il podestà.

L’aria della rivolta soffiava sul paese. Un profondo senso di giustizia era stato toccato: e quella gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica e alle teorie dei partiti, sentiva rinascere in sé l’anima dei briganti. Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si dànno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.

Se avessi voluto, quel giorno, avrei potuto trovarmi (e per un momento l’idea mi sorrise, ma, nel ’36, non era ancora giunto il tempo) a capo di qualche centinaio di briganti, e tenere il paese o darmi alla campagna. Invece mi sforzai di calmarli; e non ci riuscii che con molta fatica. I fucili e le scuri furono riportati nelle case: ma i visi non si spianarono. Quelli di Roma, lo Stato li aveva colpiti troppo a fondo, aveva fatto morire uno di loro; i contadini avevano sentito col peso della morte la mano lontana di Roma, e non volevano essere schiacciati. Il loro primo impulso era stato la vendetta immediata, sui simboli e sugli emissari di Roma. Se io li dissuadevo dalla vendetta, che altro potevano fare? Ahimé, come sempre, nulla. Niente. Ma a questo eterno niente, questa volta, non si rassegnavano.

Il giorno seguente, sbollita in parte quell’ira e quel desiderio di sangue, i contadini vennero, a gruppi, da me. Si erano trattenuti dallo sterminio: quei momenti di liberazione nell’odio vendicatore, una volta passati senza sfogo, non possono prolungarsi. Ma ora volevano almeno ottenere che io continuassi legittimamente a essere il loro medico, e avevano deciso di fare una petizione, firmata da tutti, a questo scopo. La loro avversità per lo Stato, estraneo e nemico, si accompagna (e la cosa potrà parere strana, e non lo é) a un senso naturale del diritto, a una spontanea intuizione di quello che, per loro, dovrebbe essere veramente lo Stato: una volontà comune, che diventa legge. La parola “legittimo” qui è una delle più usate, ma non nel senso di cosa sanzionata e codificata, ma in quello di vero, di autentico. Un uomo è legittimo se agisce bene; un vino è legittimo se non è fatturato. Una petizione firmata da tutti pareva ad essi davvero legittima, e perciò tale da dover avere anche un potere reale. Avevano ragione: ma dovetti spiegar loro quello che, del resto, sapevano meglio di me: che essi avevano a che fare con una forza del tutto illegittima, che non si poteva combattere con le sue stesse armi; che, se per la violenza essi erano troppo deboli, lo erano ancora di più per un diritto disarmato; che il solo risultato della petizione sarebbe stato di farmi immediatamente trasferire in un altro paese. Facessero dunque la petizione, se lo ritenevano bene, ma non si illudessero di ottenerne null’altro che la mia partenza. Capirono fin troppo bene. ― Finché gli affari del nostro paese, la nostra vita e la nostra morte, saranno in mano a quelli di Roma, saremo dunque sempre come bestie, ― dissero. La petizione fu abbandonata. Ma la cosa stava loro troppo a cuore, perché potesse passare così, senza protesta. E poiché non avevano potuto esprimersi con la violenza, né col diritto, si espressero con l’arte.

(pp 214 – 219)

 

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Carlo Levi

Carlo Levi, "Autoritratto convalescente", 1929, olio su tela, 68 x 55 cm (da Carlo Levi, "Galleria di Ritratti", volume pubblicato in occasione della mostra "Carlo Levi, Galleria di Ritratti", Roma, Fondazione Carlo Levi, 8 marzo - 26 novembre 2000, Meridiana Libri).

Carlo Levi, "Autoritratto con Paola", 1937, olio su tela, 50 x 61,5 cm (da Carlo Levi, "Galleria di Ritratti", volume pubblicato in occasione della mostra "Carlo Levi, Galleria di Ritratti", Roma, Fondazione Carlo Levi, 8 marzo - 26 novembre 2000, Meridiana Libri).

 

Carlo Levi, Autoritratto convalescente, 1929, olio su tela, 68 x 55 cm; Carlo Levi, Autoritratto con Paola, 1937, olio su tela, 50 x 61,5 cm (da Carlo Levi, Galleria di Ritratti, volume pubblicato in occasione della mostra Carlo Levi, Galleria di Ritratti, Roma, Fondazione Carlo Levi, 8 marzo - 26 novembre 2000, Meridiana Libri).

 

Carlo Levi nacque a Torino il 1° novembre 1902 e morì a Roma nel 1975. Laureatosi in medicina, si dedicò assai presto a più larghi interessi culturali. Pittore, si segnalò per la prima volta nel 1923 e sei anni più tardi fece parte del Gruppo dei sei di Torino. Fu uno dei giovani riuniti intorno a Piero Gobetti e aderì più tardi a Giustizia e Libertà. Confinato politico nel 1935-’36, riparò in Francia, a Parigi. Dal 1943 prese parte alla Resistenza e fu direttore di giornale a Firenze e a Roma.

 

In seguito continuò l’opera di giornalista e di pittore (nel 1954 ebbe una sala personale alla Biennale di Venezia). Nel 1963 e nel 1968 fu eletto senatore della Repubblica come indipendente nella lista del Partito comunista.

 

La sua prima opera letteraria, Cristo si è fermato a Eboli (1945), rievoca le sue esperienze durante il periodo del confino, con la scoperta appassionata e lacerante del Sud contadino che resterà il tema fondamentale di quasi tutti gli scritti posteriori. Dopo Paura della libertà (1946), scritto prima della guerra, comparve L’orologio. Sul Sud, e in particolare sulla Sicilia, è imperniato Le parole sono pietre (1955), con l’indimenticabile nodo centrale della visita dell’autore alla madre di un sindacalista ucciso, Salvatore Carnevale. Il futuro ha un cuore antico (1956) e La doppia notte dei tigli (1959) sono dedicati rispettivamente alla descrizione dell’Unione Sovietica e della Germania. Mentre ancora al Sud, questa volta alla Sardegna, si richiama Tutto il miele è finito (1965), che mette in primo piano le figure dei contadini e dei pastori.

 

(dal Dizionario biografico degli Autori Bompiani)

 

 

Carlo Levi, "Donna dormiente", 1933, olio su tela, 52 x 72,5 cm (da Carlo Levi, "I dipinti restaurati (1920 - 1933)", catalogo della mostra organizzata dalla Fondazione Carlo Levi, 2009, Palombi & Partner Srl, Roma)

 

Carlo Levi, Donna dormiente, 1933, olio su tela, 52 x 72,5 cm (da Carlo Levi, i dipinti restaurati (1920 - 1933), catalogo della mostra organizzata dalla Fondazione Carlo Levi, 2009, Palombi & Partner Srl)

 

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Il catalogo della mostra "Carlo Levi. I dipinti restaurati (1920 - 1933)", curato da Guido Sacerdoti e Antonella Lavorgna e pubblicato da Palombi Editori.

Il catalogo della mostra Carlo Levi. I dipinti restaurati (1920 - 1933),

curato da Guido Sacerdoti e Antonella Lavorgna e pubblicato da Palombi Editori.

 

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di Anticoli Corrado alla mostra Carlo Levi, i dipinti restaurati (1920 - 1933), venerdì 12 giugno 2009!

 

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