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Joel Bakan

 

Assalto all’Infanzia

Come le corporation stanno trasformando i nostri Figli in consumatori sfrenati

 

prefazione di Chiara Saraceno - traduzione di Stefano Valenti

2012

 

Feltrinelli, Milano

 

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Sul medesimo argomento, su ScuolAnticoli, Alice Miller, La persecuzione dei bambini

 

 

Joel Bakan, "Assalto all'Infanzia - come le corporation stanno trasformando i nostri figli in consumatori sfrenati", Feltrinelli, Milano, 2012.

 

Soprattutto contro i Bambini, qui e ora, è il crimine contro l’Umanità

 

Joel Bakan, "Assalto all'Infanzia - come le corporation stanno trasformando i nostri figli in consumatori sfrenati", Feltrinelli, Milano, 2012.

La copertina del libro.

 

La copertina originale.

La copertina originale.

 

Soprattutto contro i Bambini, qui e ora, è il crimine contro l’Umanità

di Luigi Scialanca

 

Assalto all’Infanzia è il titolo perfetto di un libro bello e impressionante. Come le corporation stanno trasformando i nostri figli in consumatori sfrenati, invece, è un sottotitolo fuorviante, perché dà l’impressione che gli aggressori dell’Infanzia, per l’autore, siano le industrie produttrici di beni di consumo. Non è così, e Bakan non lo sostiene. Anzi: leggendolo, ci si rende conto che la trasformazione dei bambini in consumatori sfrenati è l’ultima delle sue preoccupazioni.

Chi sono, allora, i veri nemici dei nostri figli? Industrie, aziende e agenzie ideologiche che prendono di mira le loro menti. E le nostre, poiché gli aggressori ben sanno che quanto più disarmano mentalmente noi ― gli adulti, i genitori, gli insegnanti, i medici, i politici ― tanto più potranno esser certi che i bambini non saranno difesi.

Ancor più fuorviante è la copertina dell’edizione italiana: alludendo a un dono “peccaminoso”, come se le corporation volessero condurre i nostri figli sulla via del male (il rappresentante della grande industria ha la coda e offre loro una mela!) induce a supporre che il libro fuoriesca da quella “cultura”, di destra e fondamentalista religiosa, che in quasi ogni prodotto della modernità vede un pericolo per le anime dei bambini. (Tanto che non mi stupirei se un sondaggio dopinione dimostrasse che molti potenziali lettori di questo libro sono stati indotti dalla copertina a non acquistarlo...).

Assalto all’Infanzia, invece, non accusa mai le corporation di indurre i bambini a comportarsi male. Anche nelle prime pagine, che denunciano certi giochi Internet pieni di violenza (soprattutto contro le donne), ciò che l’autore rimprovera a chi li crea e li vende non è di indurre i piccoli fruitori ad imitarli, ma soprattutto di condividere con loro il disprezzo per l’essere umano che li ispira; e, in secondo luogo ― ma questo vale per tutto l’entertainment virtuale, anche il più “innocente” ― di indurli allassuefazione e alla dipendenza con tecniche non meno raffinate che subdole (lo schema di evitamento).

Il vero Assalto all’Infanzia, dunque, per l’autore come per chiunque ha occhi per vedere e cuore per sentire, è la multiforme e coordinata aggressione con cui si tenta di smantellare: nel bambino, il rispetto per sé stesso; negli adulti, il rispetto per il bambino e il sapere che tale rispetto e la sua intransigente difesa sono conditio sine qua non anche del rispetto per sé stessi; nella società, le leggi e le istituzioni che al rispetto per il bambino si ispirano e che al contempo lo tutelano. E i veri aggressori dell’infanzia sono le corporation non perché materialmente ricche e potenti, quanto soprattutto perché esercitano un potere ideologico sui sentimenti di rispetto per il bambino e usano tale potere per indebolirli.

Ma perché si vuol estirpare dai nostri cuori il rispetto per i bambini? Perché su di esso si fonda il rispetto per gli esseri umani. Perché i bambini sono i padri e le madri degli uomini e delle donne; e perché, dunque, se i bambini tornassero a essere nessuno, tutti noi torneremmo figli di nessuno. E ci farebbero schiavi i profittatori, oggi trattenuti non dalle leggi e le Costituzioni, non da polizie e magistrature, ma solo dalla resistenza, nelle menti, dell’idea che vale anche chi non profitta.

Il vero aggressore dell’infanzia, dunque, prim’ancora dell’industria che avvelena l’aria e l’acqua e il cibo ― che avvelena la vita stessa dei bambini ― è l’ideologia che convince i padroni e i lavoratori dell’industria che nessuno invece viene avvelenato perché nessuno c’è, in realtà, fuori del luogo ove si profitta, neanche loro stessi. L’ideologia, cioè, che nelle nostre menti rende noi, esseri umani, (e in primo luogo i bambini) così inesistenti, che neanche percepire coi sensi gli altri e noi stessi riesce più a smentirla.

Il vero aggressore dell’infanzia, poi, è chi tramite i media induce nel bambino l’idea che egli non abbia alcun valore se non possiede oggetti; o che almeno, se non può permettersi di acquistarne, che egli non abbia alcun valore se non ingurgita alimenti. Il che significa che non il consumo in sé è distruttivo, e nemmeno gli alimenti iponutritivi e ipercalorici studiati per non saziare mai, ma l’idea che li accompagna e li impone (e che le agenzie pubblicitarie rendono sacra con il supremo potere, di cui sono investite, di interrompere qualsiasi altro programma) che solo appropriandosene mentalmente e fisicamente, solo profittando (e facendo profittare), il bambino acquisti valore e diventi meritevole di rispetto.

Il vero aggressore dell’infanzia, poi, è l’industria farmaceutica, e con essa lo pischiatra che la serve e il medico che le si vende, non perché producono psicofarmaci e accumulano immense ricchezze vendendoli, ma perché inducono nei bambini e nei genitori l’idea che ogni bambino sia, in quanto tale ― in quanto individuo, cioè, che in natura non profitta e non fa profittare ― sospetto di essere un malato di mente; e che sia sano, invece, solo il bambino (lui sì malato) da cui si può trarre e che da sé può trarre il maggior profitto perché annulla con tale violenza la vitalità, da non sembrar mai disattento e iperattivo.

Il vero aggressore dell’infanzia, poi, è la scuola privata: non perché privata, ma perché si permette e le si permette di indurre nei bambini e nei genitori l’idea che un rapporto coi bambini si possa anche fare per profitto (religioso o ideologico o economico) senza che sia, per ciò stesso, un rapporto malato. E con la scuola privata il vero aggressore dell’infanzia è allora chiunque diffonda l’idea insensata che ogni attività umana, pubblica o privata, si faccia per profitto (religioso o ideologico o economico) e debba di conseguenza garantire tale profitto perché le sia riconosciuto un valore e il diritto di sussistere. Quando tutti in realtà, finché sani, sanno l’opposto: che niente si fa se non per piacere, che il massimo piacere è interumano, e che senza almeno la speranza di esso non c’è attività che non sia insopportabile.

Solo un aggressore manca, nell’appassionata e abile requisitoria di Joel Bakan contro i nemici dell’Infanzia e dell’Umanità. Uno solo ma, purtroppo, il peggiore. La più malata delle corporation antiumane e, benché non la più ricca, certo la più potente in quanto padrona, in tutto o in parte, di centinaia di milioni di menti: la corporation religiosa, cioè ― ogni confessione inclusa, anche le più individuali e “anticlericali” ― che per prima diffonde l’idea insensata che nessuno, nemmeno i bambini, abbia valore quanto basta a graziarlo dell’inferno, se non è di alcun profitto al disegno divino.

 

(P.s.: Sarà una novità per nessuno che l’assalto all’infanzia, oltre che dalle centrali religiose e ideologiche globali, parte da un Paese più che da ogni altro: gli Stati Uniti. Ma quanti si son resi conto che la presidenza Obama, da questo punto di vista, ha cambiato poco o niente rispetto alla presidenza Bush?)

 

Joel Bakan

Assalto all’Infanzia

 

Il mio obiettivo non è fornire conoscenze enciclopediche ma analizzare e illustrare nel modo più ampio possibile un aspetto fondamentale del rapporto tra infanzia e società: la rinuncia da parte dei governi al compito di difendere i bambini dai danni prodotti dalle corporation ― una resa che ha avuto inizio circa trent’anni fa (come dimostra il primo capitolo) ― e che corrisponde alla volontà sempre più diffusa della società nel suo insieme di trascurare le necessità dell’infanzia, di esporla al rischio di sfruttamento tradendo in questo modo quello che noi come individui abbiamo di più caro al mondo.

(...)

Come ha detto una volta Nelson Mandela: “Non ci può essere rivelazione più vera dell’anima di una società del modo in cui tratta i suoi figli”.

 

(dalla Introduzione, pp 23 - 24).

 

 

 

Nonostante limiti e imperfezioni, le riforme del secolo del fanciullo furono notevoli sia nella loro portata, sia nel loro impatto. A metà del Novecento nessuno poteva più dubitare che la società fosse vincolata alla protezione dei bambini, a investire nel loro futuro, ad aiutarli a crescere, curarsi e prosperare. Ma verso la fine del secolo ― nel 1980 per essere esatti ― lo slancio progressista subì un arresto improvviso. Quell’anno, secondo lo storico e politologo David Harvey, ha segnato “un punto di svolta rivoluzionario nella storia sociale ed economica del mondo... [una trasformazione] dell’immagine del mondo intorno a noi”. Ronald Reagan e Margaret Thatcher andarono al potere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e una nuova ideologia politica, definita “neoliberismo”, fu catapultata dalle aule universitarie al ponte di comando della politica1. L’idea centrale della nuova ideologia ― che il libero mercato sia il modo migliore per fare il bene dell’individuo e della società ― contraddiceva apertamente le riforme del secolo del fanciullo. La società non doveva avere l’autorità di interferire con la vita degli individui e aveva scarse responsabilità nei loro confronti. Nemmeno l’infanzia aveva il diritto di essere coccolata da quello che Margaret Thatcher definiva l’onnipresente nanny state, lo Stato balia. Famiglie e altri attori privati, tra cui le corporation, dovevano essere lasciati liberi di operare le proprie scelte e prendere le proprie decisioni. “Non esiste una cosa chiamata società, esistono soltanto individui e famiglie”, dichiarò la Thatcher catturando l’essenza della nuova ideologia.

 

(1. Il secolo del bambino, p. 27).

 

 

 

Come afferma il guru del game design, John Hopson, nel suo influente articolo Behavioral Game Design, uno strumento efficace “per far giocare il giocatore per sempre” è lo “schema di evitamento”. Mettete un topo in una gabbia che contenga una piccola leva. Scaricate una scossa elettrica sul topo attraverso il pavimento in metallo della gabbia. Interrompete l’emissione elettrica per trenta secondi se il topo preme la leva. Ed ecco che il topo apprenderà a premere la leva a intervalli che gli consentano di impedire le scosse. Come il topo, anche il giocatore, sostiene Hopson, sarà incentivato a giocare se subirà conseguenze emotive dolorose quando cesserà di giocare. Lo “schema di evitamento è il principio operativo di siti per bambini come Webkinz e Club Penguin, dove, come dicevamo, accadono cose orribili agli amati animaletti nel caso in cui i bambini smettano di giocare, non giochino abbastanza o non si abbonino. Una strategia desiderabile nella prospettiva del game designer, dice Hopson, in quanto “relativamente economica, dato che non prevede l’elargizione all’utente di giocattoli o premi”.

Lo “schema di evitamento” è, secondo Hopson, uno dei “modelli fondamentali alla base della modalità di risposta del giocatore alle nostre richieste”, modelli “rintracciabili in tutte le specie, dagli uccelli agli esseri umani”. Lo stratagemma del game design di successo, dice Hopson, è manipolare queste tendenze evolutive universali in modo da risvegliare il comportamento compulsivo e dipendente del giocatore. Dunque, la constatazione che uno scimpanzè eseguirà volontariamente un compito in cambio di una lattuga, ma che dopo aver ricevuto dell’uva rifiuterà la lattuga restituendola allo sperimentatore è un ammonimento a non ridurre i livelli di rinforzo, un’indicazione di cui i game designer terranno conto. Si tratta di “un elemento punitivo nei confronti del giocatore e può incentivare la rinuncia al gioco”, dice Hopson. Un piccione cui era stata negata una ricompensa in cibo dopo che l’aveva ricevuta a intervalli regolari di trenta secondi per un’ora, ha attaccato l’altro piccione presente nella gabbia nonostante fosse legato e non interferisse con l’erogazione di cibo al primo. “La frustrazione è irrazionale ma nondimeno reale”: secondo Hopson si tratta di un’importante lezione per il game designer: sospendere una ricompensa genererà rabbia nei confronti del gioco e invoglierà il giocatore a smettere di giocare.

Infine, dice Hopson, la lezione che i game designer apprendono dalle migliaia di studi comportamentali fatti nel corso degli anni su topi, piccioni, scimpanzè e un’arca di Noè di altri animali, tra cui gli esseri umani, è che per convincere il giocatore a giocare sempre di più e a continuare a farlo è necessario ricompensarlo in base a una tabella frequente benché variabile (creando una “costante probabilità di ricompensa in modo che il giocatore abbia sempre una ragione per compiere l’azione successiva”) e/o punirlo se smette di giocare o di farlo con intensità (“schema di evitamento”).

(...)

Kristian Segerstrale, che ricorda con trasporto l’infanzia trascorsa nei boschi finlandesi (“Penso che tutti i bambini dovrebbero averne una simile”), è tuttavia consapevole che è più facile ricavare soldi dai piccoli che trascorrono l’infanzia in un mondo virtuale, come quello che ha creato assieme alla sua società in Pet Society, da lui definito “il nostro gioco più ossessivo”. Parte del successo del gioco è dovuta all’assetto (tipico dei siti di animali virtuali) a “schema di evitamento” ― i bambini non vogliono abbandonare il proprio animaletto virtuale e continuano a collegarsi nel tentativo di renderlo felice.

Ma a rendere il gioco più “appiccicoso” anche del più appiccicoso dei suoi rivali ― nel 2008, solo tre mesi dopo essere stato messo online, ha fatto registrare 2 milioni di giocatori, 2 miliardi di minuti giocati al mese e ha attualmente 12 milioni di utilizzatori attivi al mese ― è il fatto di essere social. I giocatori giocano con gli amici di Facebook. “La vera sostanza del gioco in Pet Society è che gli amici del mondo reale vivono nello stesso villaggio dei vostri animali, dunque gli animali diventano una rappresentazione virtuale di voi stessi”, dice Segerstrale. “Il gioco è la rappresentazione di quanto accade tra voi e i vostri amici nel mondo reale”. Ed è quello “status da mondo reale”, dice Segerstrale ― il fatto che il gioco abbia conseguenze nella vita reale dei giocatori ― a rendere Pet Society e altri social games così irresistibili. Occuparsi dell’animale virtuale di un amico, comprargli regali (con moneta virtuale venduta sul sito), abbracciare, baciare, coccolare l’animale incide con la relazione con l’amico nella vita reale. “In questo modo le persone giocano a un livello completamente diverso” rispetto a un game non-social, dice Segerstrale. “Emozioni come l’amore, l’amicizia, la competizione e l’invidia tra amici sono molto più potenti di quelle risvegliate in un semplice gioco”.

Andando a incidere nelle emozioni e nelle relazioni reali delle persone, il social game aggiunge una nuova ed eccitante dimensione al videogioco. Mafia Wars, un gioco molto popolare offerto su Facebook dalla Zynga, società concorrente della Playfish, ne è un ulteriore esempio. Mentre nello spettro emotivo di Lindstrom Pet Society rappresenta l’amore, Mafia Wars è saldamente confinato alla rappresentazione della paura. I giocatori “danno vita a una famiglia mafiosa insieme agli amici, gestiscono un impero criminale e combattono per diventare il clan più potente”, in un gioco fatto di pestaggi, agguati, furti, rapine e brutali aggressioni. L’avvertenza della presenza di “sesso, uso di droghe, violenza e di altri temi che qualche genitore potrebbe considerare inappropriati per un pubblico minorenne” probabilmente non fa invogliare preadolescenti e adolescenti.

Anche in questo caso è la possibilità dei giocatori di giocare con reali amici di Facebook ― creando con loro cosche criminali, combattendo contro altre “famiglie” composte da altri amici, pianificando rapine insieme e così via ― a rendere il gioco così avvincente. Esiste infatti una continua interazione tra rapporti di amicizia, rancori e alleanze dei giocatori nella vita reale e quanto accade nel gioco. Come afferma orgogliosa la Zynga nella sua pagina web, il suo gioco consente ai giocatori di “esprimersi e dare forma a profonde relazioni sociali con gli amici”.

Sia Pet Society sia Mafia Wars raccolgono denaro vendendo merci virtuali ai giocatori e allettandoli con denaro virtuale di inserzionisti terzi (che pagano a loro volta la Playfish e la Zynga per ogni visita del giocatore). È un modello di monetizzazione altamente lucrativo. “Non ha il costo che avrebbe produrre armi né costi di immobilizzo scorte”, si compiace Scott Koenigsberg, general manager della Zynga, riferendosi ai soldi facili guadagnati vendendo merci virtuali. “L’unico limite sono il nostro cervello e quello che la gente ritiene eccitante2. Come ha detto un protagonista dell’industria, l’obiettivo del social game è “attirare l’utente facendolo giocare gratuitamente e monetizzando il più possibile la sua presenza, una volta agganciato”. Dato che gli utenti in questione sono bambini, anche un mafioso vero troverebbe questo comportamento disdicevole. Segerstrale, che ha recentemente venduto la Playfish al gigante del videogioco Electronic Arts per 300 milioni di dollari, dice di avere in mente nuovi social games perfino più coinvolgenti, appiccicosi e capaci di generare dipendenza di quelli attualmente disponibili e che penetreranno ancora più in profondità nella vita emotiva e sociale dei bambini. “La più eccitante area di innovazione”, dice, “è quella in cui un giocatore può utilizzare dati di un amico come parte del gioco, pubblicandone per esempio nome e fotografie, anche se quell’amico non sta giocando”. Friends for Sale (in italiano, Vendesi Amici) è la prima incursione di Segerstrale in questo nuovo campo. Nel gioco, che nel 2009 aveva un milione di utilizzatori al giorno, il giocatore partecipa a un’asta offrendo denaro, acquistato dal sito con soldi veri, per comprare e possedere amici di Facebook (“Potrete acquistare persone e trasformarle nei vostri beniamini”, proclama il sito, “farle scontrare tra loro, farvi fare regali o semplicemente chieder loro di mettersi in mostra per voi”3). Gli amici non sanno di essere stati acquistati o venduti, a meno che non siano stati informati da uno dei giocatori, ma per il giocatore coinvolto, dice Segerstrale, il comprare e vendere l’amico “ha valore, significa qualcosa nel mondo reale”.

“Abbiamo solo grattato la superficie delle possibilità offerte da questo tipo di gioco”, dice il game designer. Quello che si trova sotto la superficie sarà anche eccitante per Segerstrale e per i suoi amici dell’industria del videogioco, ma dovrebbe preoccupare i genitori.

Una sera, al nostro rientro a casa, trovammo nostra figlia di tredici anni piuttosto agitata. Le chiedemmo che cosa avesse e dopo qualche insistenza ammise che un amico su Facebook aveva fatto commenti sgradevoli su di lei per mesi, in modo anonimo, in una applicazione chiamata Honesty Box.

Inaugurato nel 2007, e attualmente usato da milioni di utenti, Honesty Box consente di inviare, ricevere e rispondere a messaggi anonimi di amici su Facebook. “Flirta con chi ami”, promette l’applicazione, “scopri quello che la gente pensa davvero di te”. L’anonimato è garantito e gli utenti sono avvertiti che, una volta inviato, il messaggio non potrà più essere rimosso. Il sito, secondo il suo programmatore Dan Peguine, “è estremamente appiccicoso” ed è rapidamente diventato, aggiunge, uno dei pochi siti che, come Facebook stesso, la gente si sente costretta a consultare tutte le mattine e a tornarci durante il giorno4.

Gli insulti su Honesty Box erano stati particolarmente dolorosi per nostra figlia quel giorno e niente lasciava pensare, disse, che quella molestia virtuale sarebbe cessata in breve tempo. Le consigliammo di cancellare immediatamente l’applicazione dalla sua pagina di Facebook, ma questo contribuì solo ad avvilirla ulteriormente: “Devo essere su Honesty Box”, disse, “altrimenti non saprò quello che la gente dice di me”. Honesty Box guadagna denaro sfruttando in modo brillante, e diabolico, la turbolenza emotiva di adolescenti ossessionati da quello che gli altri pensano di loro. Gli utenti sono invitati a scoprire chi abbia parlato di loro in modo anonimo, ma per farlo devono pagare. “Usa i punti Honesty Box per ‘corrompere’ i tuoi amici” e scoprire chi sono, dichiara il sito. “Più punti significano più potere di negoziazione”. I punti Honesty Box possono essere acquistati online per undici centesimi ciascuno in rotoli da 110, 183, 455 e 911, con carte di credito, conti PayPal, numeri di cellulare (i costi solitamente appaiono sugli estratti conto mensili dei genitori) e possono essere guadagnati cliccando su siti di inserzionisti terzi (che pagano Honesty Box per ogni singolo accesso al sito).

Honesty Box, tuttavia, non è l’unica attività che nostra figlia, e la maggioranza degli adolescenti del mondo, svolge su Facebook, diventato il perno centrale della vita sociale della maggior parte degli adolescenti, e luogo in cui tutti i giorni trascorrono ore a chattare, flirtare, chiacchierare e a guardare fotografie e video condivisi. Con oltre cinquecento milioni di membri nel mondo5, tra cui un terzo della popolazione mondiale di lingua inglese, e oltre la metà degli adolescenti degli Stati Uniti, Facebook è il leader della crescente rete di social network ― alcuni sponsorizzati dai marchi (iCoke, per esempio), altri specifici di regioni, lingue e modelli demografici particolari, e altri ancora, come YouTube e Flikr, dedicati al media sharing ― che sta radicalmente modificando il modo in cui bambini e adolescenti si relazionano con i media.

A differenza dei media tradizionali ― tv, cinema e perfino giochi tradizionali e mondi virtuali ― in cui il contenuto è fatto di altre vite e altri paesaggi (sia di finzione, sia reali), i social network come Facebook trasformano i bambini nelle star e nelle storie dello spettacolo. I loro amici, gli amori, i pettegolezzi, le idee, la rabbia, le fotografie e i video, tutto è trasformato in “contenuti” avvincenti, in un mix di vita reale e di inebriante e coinvolgente intrattenimento ― il non plus ultra dei reality show ― irresistibile per una popolazione ormai ossessionata dai propri pari, dalle celebrità e da sé stessa.

La rapida crescita dei social media suggerisce, come si sono accorti i kid marketer, che il contenuto più “appiccicoso” di tutti sono le vite stesse e i drammi dei bambini.

Il Panopticon (parola greca che significa “che fa vedere tutto”) è il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. La sua struttura, radiocentrica, un posto di osservazione centrale con celle e aree comuni nella periferia, era stata pensata per assicurare ai guardiani la possibilità di osservare i prigionieri senza essere visti. I prigionieri in questo modo erano convinti che i guardiani potessero vederli in qualunque momento e questo, secondo Bentham, li costringeva a comportarsi come se fossero osservati di continuo. Il Panopticon, grazie alla sua struttura, creava dunque l’effetto di sorveglianza totale consentendo che la sorveglianza reale fosse intermittente, o perfino assente.

Il Panopticon non fu mai costruito6, ma l’idea di Bentham fu ripresa da Foucault due secoli più tardi per illustrare quello che definiva “il potere perfetto”. Secondo il filosofo francese il potere all’interno del Panopticon era perfetto perché non doveva essere esercitato da guardiani e da autorità carcerarie. “I detenuti stessi [diventavano] i supporti del potere” all’interno di una struttura che aveva l’effetto di “creare e sostenere una relazione di potere indipendente dalla persona che la esercita”.

Il Panopticon aiuta a capire il nuovo potere e le possibilità offerte ai kid marketer dai social media. Nei social media “la gente influenza la gente”, secondo Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore delegato di Facebook. “Non più solo attraverso messaggi... inviati dalle compagnie, ma sempre più tramite l’informazione... condivisa tra amici”. In altre parole gli amici vendono merci gli uni agli altri, in una tattica virale (conosciuta anche con il nome di “passa parola” o di buzz marketing) intrecciando continuamente nella loro comunicazione marchi e messaggi commerciali.

Gli utenti diventano fan e “amici” dei marchi e invitano gli amici a fare lo stesso; attraverso le loro reti di comunicazione si scambiano prove, questionari, giochi, applicazioni e altre “bazzecole” (miniapp trasformate dal potere virale nella massima espressione fin qui del marketing online post-era pubblicitaria); creano campagne video, canzoni, storie, poemi e fotografie sponsorizzate da marchi distribuendoli in modo virale agli amici. Questi sono solo alcuni degli infiniti e sempre più diffusi elementi di strategia virale.

Il marketing in quanto tale scompare all’interno delle reti virali delle piattaforme dei social media. E con esso scompare il confine tra venditore e bambino (dal momento che sono i bambini a vendere agli altri); tra contenuto e pubblicità (visto che la pubblicità adesso non interrompe più il contenuto ma confluisce in esso); e tra vite dei bambini e intrattenimento (dal momento che le loro vite diventano il contenuto dell’intrattenimento). Siamo davvero in presenza della “perfezione del potere [degli addetti al marketing]”. I bambini, come i prigionieri del Panopticon, sono adesso loro stessi supporto del marketing, e i venditori, come i guardiani del Panopticon, scompaiono dal campo visivo, essendo il loro potere ormai inconscio e di immediata applicazione, tanto più efficace quanto invisibile.

 

(2. Whack Your Soul Mate e Boneless Girl, pp 44 – 52)

 

 

 

Nel 1981 il presidente Ronald Reagan pose Mark Fowler, un rappresentante dell’industria televisiva e suo finanziatore, alla guida della Federal Communications Commission. Per Fowler la televisione era “solo un’altra applicazione, un tostapane con le immagini”. La missione principale delle corporation televisive, come quella dei produttori di tostapane, riteneva, era “determinare le necessità del pubblico attraverso normali meccanismi di mercato”. Erano uomini d’affari, non “amministratori pubblici”, nessuna possibilità dunque di imporre loro restrizioni e condizioni speciali di interesse collettivo.

Fowler sfruttò il suo incarico di capo della Federal Communications Commission per imporre la deregolamentazione dei programmi televisivi per bambini. Lui e la sua commissione abolirono l’obbligo per le emittenti televisive di trasmettere programmi “educativi e informativi” e la limitazione degli spazi pubblicitari all’interno dei programmi per bambini. La Federal Communications Commission sottrasse alla Federal Trade Commission l’autorità di regolare la pubblicità ingannevole (in un’epoca in cui la commissione riteneva “ingannevole” qualunque pubblicità rivolta ai bambini, e su quella base la proibiva) e fece in modo che il termine normativo di “pubblico interesse” diventasse un sinonimo di “successo commerciale”, e per andare incontro a quello standard aprì la strada a programmi imperniati sui giocattoli (come Teenage Mutant Ninja Turtles e Mighty Morphin Power Rangers, per esempio).

 

(3, Il nuovo “curriculum dell’infanzia, pp 56 – 57).

 

 

 

Mentre i bambini sono sempre più immersi in una cultura che opera per separarli da noi genitori, noi diventiamo sempre meno capaci di rinsaldare il legame, il rispetto, l’autorità e la credibilità necessari a difenderli, mantenerli in buona salute e felici nel lungo periodo.

 

(Ibidem, p. 58).

 

 

 

Un danno grave prodotto dal marketing rivolto all’infanzia è peculiare delle scuole. Negli ultimi tre decenni il marketing e la pubblicità, soprattutto di prodotti del settore alimentare dannosi per la salute, sono infatti, in forme diverse, onnipresenti nelle scuole. Le società ricoprono di pubblicità, marchi e messaggi le classi, le mense, le palestre, le copertine dei libri, gli schermi dei computer, le bacheche, i tabelloni segnapunti, i pulmini scolastici e i tetti degli istituti. E in cambio di finanziamenti alle scuole ottengono il diritto di vendita esclusivo del loro prodotto (bevande gasate in particolare); il diritto di sponsorizzare materiale scolastico (manuali, siti web e dispense); il diritto di organizzare eventi e campagne di raccolta fondi in cui presentano e vendono prodotti.

 

(Ibidem, p. 69).

 

 

 

Un giorno nostra figlia, che aveva difficoltà in matematica, annunciò di soffrire di una “sindrome da deficit di attenzione e iperattività”. E nostro figlio, descrivendo la ragione dei problemi scolastici di un compagno di classe, disse che dipendevano dal fatto che “aveva dimenticato di prendere la medicina”. Il disturbo mentale e gli psicofarmaci sono entrati a far parte della quotidianità dell’infanzia. Quando un bambino ha difficoltà, quando ha comportamenti dissonanti, volubili o insolenti, o dimostra uno scarso impegno scolastico, sempre più genitori lo portano di volata da un medico che, a sua volta, è sempre più propenso a diagnosticare disturbi mentali e a prescrivere farmaci psicotropi. Il risultato: un numero crescente di bambini, alcuni molto piccoli, sono etichettati come malati mentali e sottoposti a regime farmaceutico.

Kyle Warren era uno di questi. Gli era stato prescritto il farmaco antipsicotico Risperdal a diciotto mesi, dopo che una visita di cinque minuti era stata sufficiente al medico per stilare una diagnosi di autismo. Un neurologo lo riesaminò e stabilì che soffriva di problemi comportamentali associati (del più frequente tra questi, quello definito “disturbo oppositivo provocatorio”). Uno psichiatra fece propria la diagnosi del neurologo e stabilì che il paziente soffriva di disturbo bipolare. All’epoca Kyle aveva tre anni e prendeva Risperdal, Prozac e due sonniferi. Era sovrappeso, sedato e sbavava, tutti effetti secondari dei farmaci. Era un “bambino anestetizzato”, secondo la madre, Brandy Warren. “Mio figlio non esisteva più. Il suo sguardo era assente... Il suo involucro era lì, ma lui no”.

Per fortuna di Kyle e di sua madre, il bambino fu infine affidato alle cure della psichiatra per l’infanzia Mary Gleason che lo liberò dai farmaci, affiancò la famiglia Warren e chiese l’intervento dei servizi di assistenza sociale e di salute mentale. Una volta abbandonati i farmaci, Kyle perse peso, il suo comportamento migliorò e a sei anni era un florido bambino che frequentava la scuola materna. Secondo la dottoressa Gleason il caso di Kyle è “allarmante” perché dal suo punto di vista non esistevano ragioni valide per dare al bambino (o a qualunque altro fanciullo di due anni) farmaci antipsicotici.

La storia di Kyle, ormai niente affatto atipica, sarebbe stata inimmaginabile trent’anni fa. All’epoca era praticamente ignorata la possibilità che a un bambino fosse diagnosticato un disturbo mentale e che fosse curato con dei farmaci. Ma le cose cominciarono a cambiare nel 1980, l’anno in cui la sindrome da deficit di attenzione (Add), ridenominata sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd), divenne una diagnosi psichiatrica ufficiale. Nel 1990 le diagnosi di deficit di attenzione e iperattività erano aumentate in modo esponenziale e nel corso del decennio successivo il numero di bambini cui erano prescritti farmaci per curare questo disturbo, il Ritalin principalmente, quintuplicò. Nel frattempo negli anni novanta e duemila nuovi disturbi mentali (come il disordine bipolare pediatrico) facevano la loro comparsa nella psichiatria infantile insieme con nuovi potenti farmaci (principalmente gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina ― Ssri).

La conseguente esplosione di diagnosi e trattamenti farmaceutici dei disordini mentali infantili ― un balzo da un valore vicino allo zero nel 1980 a dieci milioni di bambini diagnosticati e trattati oggi ― è abitualmente attribuito a due cause: un numero superiore di bambini che si ammalano del disturbo mentale e metodi più sofisticati per scoprire e diagnosticare la malattia mentale infantile. Esiste tuttavia un terzo fattore, con un impatto probabilmente pari agli altri due: la crescente influenza esercitata dall’industria farmaceutica sulla scienza e sulla pratica medica. Nel corso degli ultimi tre decenni le società farmaceutiche hanno strategicamente allargato ed esteso la loro influenza allo scopo di ampliare la sfera e la portata dei disordini mentali pediatrici, promuovere farmaci psicotropi e minimizzare gli effetti collaterali pericolosi di questi stessi farmaci. La psichiatria infantile è diventata un’impresa redditizia. Ma ci sono stati costi alti, come insegna la storia di Kyle Warren. E alcune altre tragedie.

Il 13 dicembre 2006, in risposta a una chiamata d’emergenza, la polizia di Hull, in Massachusetts, si recò in una abitazione dove, nella stanza dei genitori, trovò il cadavere di una bambina di quattro anni, Rebecca Riley, riverso su un orsacchiotto di peluche. L’autopsia rivelò che la piccola era morta di overdose da farmaci. Il medicinale responsabile del decesso, la clonidina, faceva parte di un trio di farmaci prescritti da uno psichiatra dell’infanzia un anno prima, quando la madre della bambina, Carolyn Riley, si era lamentata delle difficoltà della figlia a dormire e della sua iperattività. Lo psichiatra, fra le altre cose, diagnosticò a Rebecca un disturbo bipolare.

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Lo psichiatra ha indubbiamente avuto un ruolo centrale nella tragica morte di Rebecca. Ma un’altra persona era responsabile di quella morte secondo Lawrence Diller, un medico specializzato in problemi del comportamento e dello sviluppo infantile: Joseph Biederman, lo psichiatra dell’infanzia di Harvard, l’inventore della diagnosi di disordine bipolare pediatrico. Nei primi anni novanta Biederman aveva sfidato la consolidata idea diffusa tra gli psichiatri secondo cui il disturbo bipolare colpiva esclusivamente gli adulti, un’idea fondata sul dato diagnostico in base al quale raramente un bambino presentava il sintomo chiave dell’euforia. Biederman sosteneva che l’eccesso di energia e l’irritabilità nei bambini poteva essere considerato un parallelo diagnostico dell’euforia negli adulti e che dunque era lecito affermare che il disturbo aveva un equivalente pediatrico. L’establishment psichiatrico si accodò immediatamente a Biederman, che in molti ritengono il più autorevole psichiatra dell’infanzia al mondo. (“Se Biederman pronuncia il nome di un farmaco in una conferenza, migliaia di bambini lo assumeranno; qualunque cosa Biederman pubblichi finirà, per gentile intercessione della case farmaceutiche, sulla scrivania di qualunque medico abbia in qualche modo a che fare con l’infanzia”, dice Diller).

Quando le sue scoperte furono rese pubbliche, diagnosi e cure del disordine bipolare pediatrico crebbero rapidamente con un drammatico aumento di quaranta volte nel corso del decennio successivo. Oggi molti esperti ritengono che il disturbo, che solo pochi anni fa non esisteva ufficialmente, affligga un bambino su cento. Ma altri, e Diller è uno di loro, sostengono che questo disturbo sia stato troppo facilmente e troppo frequentemente diagnosticato ai bambini. Di conseguenza, ritengono che farmaci pericolosi siano stati loro prescritti senza necessità e che altre possibili cause delle difficoltà ― famiglie disfunzionali, abusi, difficoltà di apprendimento, problemi scolastici e ambientali, carenze nutritive, allergie o una varietà infinita di altri disturbi come la dislessia, il ritardo della parola o l’autismo ― siano state trascurate. “La diagnosi viene fatta senza conoscere il contesto in cui vivono i pazienti”, secondo un eminente psichiatra. “Le conseguenze sono devastanti cure mediche che condannano i piccoli a una vita da paziente psichiatrico”7.

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Biederman sostiene di avere “influenzato positivamente il campo della psichiatria dell’infanzia grazie alle diagnosi e alle cure del disordine bipolare pediatrico”, e difende il proprio lavoro definendolo “di forte impatto grazie alla forza delle tesi scientifiche”. Tuttavia, le tesi scientifiche di Biederman sono state recentemente screditate a causa dei suoi forti legami con l’industria farmaceutica. Tra il 2000 e il 2007 Biederman ha ricevuto 1,8 milioni di dollari dalle società farmaceutiche Eli Lilly, Johnson & Johnson e Janssen, intascando circa 3000 dollari al giorno per consulenze e conferenze in favore dei loro prodotti. Ma secondo quanto si è saputo da notizie di stampa, la maggior parte di quelle entrate (1,6 milioni di dollari) sarebbe inadeguatamente frutto di collaborazioni con l’università, in evidente spregio delle leggi sul conflitto di interesse che regolano l’attività di istituzioni federali e universitarie.

 

(4, La ricetta del profitto, pp 91 – 96).

 

 

 

L’inquietante lezione da trarre dalla vicenda Oxy-Contin, insieme con le altre numerose storie di crimine e corruzione dell’industria farmaceutica, è che le società che gestiscono la ricerca e la pratica medica nel campo della psichiatria infantile sono a tal punto fuorviate dalla loro propensione al profitto da infrangere ripetutamente la legge pur di perseguirlo. In generale, i medici, e il corpus di conoscenze su cui possono contare per curare bambini con problemi emotivi e comportamentali, sono attualmente sotto l’influenza di corporation calcolatrici, di frequente prive di scrupoli e a volte criminali, interessate soprattutto a creare mercati per i loro prodotti e non necessariamente a scoprire la verità scientifica e a promuovere la salute dei bambini.

Senza dubbio, le vite di alcuni bambini si sono avvantaggiate dalle cure dei disturbi emotivi e mentali con farmaci psicotropi. Ma questo non esclude che la sovradiagnosi e il sovratrattamento rappresentino una minaccia consistente, tangibile e crescente alla salute e al benessere dei bambini. L’influenza dell’industria farmaceutica sulla scienza e la pratica della cura mentale pediatrica è alla radice di quella minaccia, come ho indicato.

 

(5, Pillole e ragazze pon pon, p. 122).

 

 

 

Le argomentazioni contro il lavoro minorile sono le stesse di un secolo fa. Il lavoro infantile “è una violazione dei diritti umani fondamentali e, come è stato dimostrato, impedisce lo sviluppo del bambino causando potenziali danni fisici e psicologici permanenti”, ha stabilito recentemente l’Organizzazione internazionale del lavoro (ilo). Questo avviene, continua l’organizzazione, perché il lavoro infantile usa e sfrutta il bambino senza adeguata considerazione del suo interesse. Lo costringe a lavori pericolosi e dannosi, che interferiscono e negano il percorso scolastico, gli impediscono di occuparsi in attività ricreative e di trascorrere tempo in famiglia e con gli amici, e appesantiscono, rendendole faticose, le ore di studio. Il lavoro minorile è “inaccettabile”, stabilisce l’organizzazione, “perché il bambino coinvolto è troppo giovane, e dovrebbe essere a scuola, o perché, sebbene abbia raggiunto l’età minima per l’ammissione all’impiego, il lavoro che fa non è adatto a un minore di diciotto anni”.

Il lavoro infantile può essere debellato. Sono necessarie leggi migliori, in linea con la Convenzione ilo, è necessaria l’applicazione del limite di quindici anni di età per lavorare e altre limitazioni e concessioni, così come sono necessarie punizioni più forti e meccanismi di applicazione più efficaci in caso di violazioni. Ma sono anche necessarie riforme di vasta portata. Il lavoro infantile nasce quasi sempre dalla povertà e sarà impossibile eliminarlo fin quando i bambini avranno la necessità di lavorare per sopravvivere. L’eliminazione del lavoro infantile dunque rende necessario il sostegno alle famiglie povere e, più in generale, l’assunzione di misure per eliminare la povertà stessa. Non è sufficiente, in altre parole, negare ai datori di lavoro il diritto di dare lavoro ai bambini. È anche necessario liberare il bambino dalla necessità di lavorare.

(...)

Eppure, nonostante tutto, una forma di ostinata cecità incoraggia la convinzione che questo problema sia solo dei Paesi in via di sviluppo. Gli Stati Uniti, per esempio, nel 2009 hanno contribuito agli sforzi dell’ilo di sradicare il lavoro minorile nel mondo in via di sviluppo con 26 milioni di dollari ― un contributo più elevato di tutti gli altri messi insieme ― mentre le loro leggi interne promuovono attivamente alcune delle peggiori forme di lavoro infantile del pianeta. È importante domandarsi quale sia il significato di una simile indifferenza nei confronti del fenomeno in casa nostra. Stiamo forse andando incontro a una diffusa accettazione e facilitazione del lavoro minorile in Nord America? O le leggi lassiste e le deboli misure di applicazione delle stesse rappresentano una momentanea eccezione in una crescente intolleranza nei confronti di questa pratica?

Le risposte che sapremo dare a queste domande nei prossimi anni dipenderanno dalle nostre convinzioni e dall’atteggiamento che terremo nei confronti del lavoro minorile. Dal mio punto di vista, come credo sia ormai ben chiaro, nessun bambino dovrebbe fare lavori pericolosi, insalubri e che compromettono la sua istruzione. I cosiddetti “benefici” per il mondo degli affari offerti dal bambino ― la sua docilità e la sua ingenuità ― dovrebbero essere un motivo in più per proteggerlo, e non il contrario. La linea di condotta a questo proposito dovrebbe concentrarsi sul principio che per una società non solo è sbagliato consentire il lavoro infantile, ma altrettanto sbagliato è consentire l’esistenza delle condizioni che lo rendono possibile. Inoltre, c’è un punto su cui insistevano i riformatori del secolo del bambino: togliere il piccolo dal luogo di lavoro non è sufficiente. Dovrà anche essere collocato in una scuola. Il movimento per lo sradicamento del lavoro infantile è, ed è sempre stato, collegato alla richiesta di istruzione generale. “Questa equazione è diretta”, secondo l’ilo. “Non elimineremo il lavoro infantile senza l’istruzione universale e, al contempo, non assicureremo a ogni bambino l’istruzione se non metteremo fine al lavoro infantile”. L’idea che il lavoro infantile dilapida il potenziale umano del bambino va di pari passo con la convinzione che l’istruzione aiuta a realizzarlo. L’istruzione pubblica coltiva la mente del bambino, la sua immaginazione e la sua sensibilità morale; rispetta le sue necessità e, in senso più ampio, quelle della società.

Ma che cosa succede se l’istruzione è talmente legata alle richieste di forza lavoro da dilapidare, invece che realizzare, le potenzialità del bambino?

 

(8, Nel nostro orticello, pp 168 – 170).

 

 

 

Ma che cosa succede se l’istruzione è talmente legata alle richieste di forza lavoro da dilapidare, invece che realizzare, le potenzialità del bambino?...

Erano le tre di pomeriggio del 24 settembre 2009, una grigia giornata autunnale a Chicago, e gli studenti si riversavano nelle tormentate strade del quartiere The Ville dal vecchio edificio in mattoni in cui ha sede la Christian Fenger Academy High School. Tra la folla, Derrion Albert, un sedicenne che viveva nel quartiere, e Montrell Truitt, diciassettenne di Altgeld Gardens, un complesso di edifici a una decina di chilometri a sud-est. Truitt era stato trasferito di recente a Fenger insieme ad altri studenti quando la scuola di quartiere era stata chiusa. Albert e Truitt, entrambi studenti modello, non si conoscevano, ma il loro destino ben presto si sarebbe incrociato.

Albert di solito andava direttamente a casa dopo scuola. Era basso per la sua età, un secchione e un tipo pantofolaio, secondo la famiglia. Quella volta tuttavia aveva programmato di uscire con gli amici e si era incamminato verso l’Agape Community Center a circa un chilometro dalla scuola. Nel frattempo Truitt e il fratellino di undici anni avevano cominciato a camminare verso la fermata dell’autobus nei pressi della scuola dove avrebbero iniziato il lungo viaggio verso casa. Ma, mentre si avvicinavano alla fermata, temuta dai ragazzi di Altgeld Gardens, decisero di non correre rischi e di recarsi a una fermata più sicura vicino all’Agape Community Center. Costretti alla convivenza, i ragazzi di Altgeld Gardens e quelli di The Ville avevano formato gang in lotta tra loro. I ragazzi di The Ville, leali al loro quartiere ― “è il posto in cui siamo nati, da cui proveniamo, che ci ha formati, in cui siamo stati educati”, dice uno di loro ― risentivano dell’influsso dei ragazzi di Altgeld Gardens. Le tensioni fra gang crebbero, le risse nei corridoi della scuola non si contavano e ben presto scoppiarono scontri in strada. Il territorio di Altgeld Gardens iniziava appena oltre i vecchi binari arrugginiti nei pressi dell’Agape Community Center. Il confine ufficioso del territorio di The Ville.

Mentre Truitt e il fratello si avvicinavano ai binari, alle loro spalle cominciò a formarsi un gruppo di ragazzi di The Ville. I due affrettarono il passo. “Pensavo solo: ‘Va bene, stiamo arrivando alla ferrovia, dovranno tornare indietro’”, disse in seguito Truitt. Ma i ragazzi di The Ville non si fermarono. Numerose macchine cariche di ragazzi di Altgeld Gardens li stavano aspettando vicino ai binari. I due gruppi erano pronti allo scontro. Dopo avere attraversato i binari, essere entrato in un terreno abbandonato nei pressi dell’Agape Community Center, Truitt venne colpito duro sulla schiena con una vecchia traversina della ferrovia. Cadde, si rialzò e si preparò a combattere.

Albert nel frattempo stava camminando sul marciapiede di fianco al terreno abbandonato, con la testa fra le nuvole (lui, come Truitt, non era allineato né con la fazione di The Ville né con quella di Altgeld Gardens). Due membri del gruppo di The Ville lo avvicinarono, uno lo colpì alla testa con una traversina di legno e l’altro lo colpì in faccia. Cadde, sembrò perdere conoscenza per un attimo e si trascinò allontanandosi dagli assalitori nel tentativo di rialzarsi. Allora lo colpirono di nuovo e, una volta a terra, uno dei ragazzi cominciò a saltargli ripetutamente sulla testa. Truitt, coinvolto negli scontri, non era tra gli assalitori di Albert e riuscì ad andarsene, per quanto acciaccato. Albert non fu altrettanto fortunato. Quando tutto finì, giaceva immobile in una pozza di sangue. Un operaio lo trascinò nell’Agape Community Center e chiese aiuto. Morì poco dopo. Nel luogo in cui il ragazzo era caduto fu immediatamente eretto un memoriale di fortuna. Due giorni dopo fu abbattuto.

Nel mese in cui fu ucciso Albert, cinque adolescenti furono uccisi a Chicago. Il numero di ragazzi morti nelle strade di Chicago era costantemente in aumento dal 2006, l’anno in cui il sindaco della città, il democratico Richard Daley, e il suo assessore all’educazione, Arne Duncan, iniziarono a chiudere decine di scuole come previsto dal piano di riforma scolastica Renaissance 2010. La violenza era causata dal risentimento territoriale per il numero sempre maggiore di studenti costretti dalle chiusure a recarsi in scuole di quartieri lontani. “Per recarsi in classe”, raccontava il Chicago Tribune, “gli studenti devono attraversare quartieri contesi dalle bande, attendere autobus presso fermate caotiche cercando di tenersi al riparo da aree particolarmente pericolose [...]. Gang, armi e droga accendono la violenza con una tale frequenza che molti dei 116.000 studenti delle superiori ne sono ormai ossessionati”.

Diane Latiker, residente a The Ville, ha un memoriale su un muro di casa in cui ricorda ogni giovane di Chicago morto in modo violento. Per ogni morto attacca al muro una lapide di carta. Quando è morto Albert, non c’era più posto sulla parete. “Abbiamo centosessantatré lapidi in questo momento, ma siamo venti, ventuno lapidi indietro”, ha detto.

I leader della comunità avevano avvisato sindaco e assessore dei rischi cui andava incontro la sua strategia di chiusura delle scuole, ma quando è stato chiesto loro se l’omicidio di Albert avesse a che fa re con quella politica, hanno negato in modo deciso8.

Nella primavera del 2008 si tenne a Chicago un simposio esclusivo del Mid-American Club per celebrare i primi tre anni dell’operazione Renaissance 2010. Il titolo del simposio, “Liberi di scegliere, liberi di avere successo: Il nuovo mercato dell’istruzione pubblica”, raccoglieva l’accalorata idea che la scuola pubblica dovesse essere governata da valori e da obiettivi del settore privato. Arne Duncan, la star del simposio, deliziò il pubblico ― composto principalmente da rappresentanti delle corporation e delle fondazioni della destra oltre che da sostenitori delle privatizzazioni e gruppi d’appoggio ― con il suo messaggio tutto incentrato sul profitto: “Stiamo cercando di cancellare la linea che separa pubblico e privato”, disse loro. “Io non sono il dirigente di seicento scuole. Sono il gestore del portfolio di seicento scuole e cerco di incrementare il portfolio”. Avrebbe potuto aggiungere, come prova ulteriore delle sue credenziali commerciali, di non essere un sovrintendente scolastico ma un amministratore delegato, il titolo ufficiale di cui era investito come responsabile del sistema scolastico pubblico di Chicago.

Renaissance 2010 era una creazione dell’élite affaristica della città rappresentata dal Commercial Club di Chicago. Il deliberato ed evidente obiettivo del club era quello di riformare il sistema scolastico in modo che ricordasse il più possibile un’impresa commerciale. A questo scopo aveva commissionato alla A.T.Kearney, una società di top management, la dettagliata stesura di un piano: “Nel fare affidamento sulla nostra qualifica di project management e sulla conoscenza delle migliori pratiche usate nell’industria”, avrebbe fatto sapere in seguito A. T. Kearney a proposito del suo lavoro a Chicago, “abbiamo fornito una prospettiva privata alle sfide [...] della trasformazione dell’istruzione urbana”.

Il nucleo centrale della “prospettiva privata” di Renaissance 2010 erano tre idee fondamentali. La prima, che le scuole fallimentari, come qualunque altra industria nelle stesse condizioni, andassero chiuse; la seconda, che la misura del fallimento (o del successo) dovesse essere stabilita sulla base di performance degli studenti misurate per mezzo di test standardizzati; la terza, che le nuove scuole dovessero essere guidate da organizzazioni private ― e corporation ― e non da istituzioni pubbliche9. A differenza delle scuole che sostituivano, nessuna aveva organizzazioni sindacali al suo interno. L’élite industriale di Chicago, ancora una volta grazie agli auspici del Commercial Club, fu determinante nella raccolta dei fondi necessari alla trasformazione, così come nel decidere quali scuole dovessero essere chiuse, quali organizzazioni dovessero sviluppare e gestire i nuovi istituti e come andassero misurate responsabilità e performance dei nuovi istituti10.

Renaissance 2010 trasformò un’istituzione essenziale ― la scuola pubblica ― in una partnership commerciale orientata al mercato. Il risultato fu l’eliminazione delle organizzazioni sindacali, l’invito alle corporation a svolgere un ruolo preminente all’interno delle scuole e la destabilizzazione, a volte con effetti tragici sulle vite di studenti, insegnanti e genitori, come hanno dimostrato le violenze costate la vita ad Albert. Eppure, nonostante ciò, Renaissance 2010 ha contribuito ben poco a migliorare l’istruzione pubblica di Chicago. I pochi esempi brillanti (anch’essi contestati) erano controbilanciati dagli insuccessi, e la performance aggregata delle nuove scuole non risultò migliore di quella degli istituti sostituiti. “In sostanza il panorama scolastico non cambiò come molti avevano creduto”, secondo Barbara Radford, responsabile del De Paul University’s Center for Urban Education. “In un certo senso questa riforma si è dimostrata più dannosa che utile, perché tutte le attenzioni, tutti i finanziamenti, tutte le speranze sono stati concentrati su Renaissance 2010 a spese di altre strategie efficaci che le scuole di Chicago stavano mettendo in atto.

Eppure Renaissance 2010, riforma orientata al mercato, è diventata il modello per l’intera nazione. La nuova proposta politica federale per l’istruzione del presidente Obama, il programma Race to the Top, ne incorpora molti elementi. E il suo nuovo segretario all’Istruzione, guarda caso, è Arne Duncan.

(...)

Le scuole americane sono tutt’altro che perfette. Il sistema ― o quanto meno molte parti di esso, soprattutto nelle comunità delle minoranze povere ― si dibatte fra mille problemi. Sono necessari molti miglioramenti. Le riforme sono urgenti. Ma l’attuale movimento di riforma, accecato dal miraggio del mercato, si ostina a ignorare il devastante effetto di una profonda povertà sull’abilità dei docenti di insegnare e degli studenti di imparare11.

 

(9, La corsa nel vuoto, pp 171 – 175).

 

 

 

Per la mia amata zia Ally, insegnante provetta nel sistema delle scuole pubbliche di Chicago fin quando è andata in pensione nei primi anni novanta, l’insegnamento era una passione. Amata dai colleghi e adorata dagli studenti ― la sua grande bravura le valse un articolo sul New York Post ― incise profondamente sulle vite dei suoi alunni, la maggior parte dei quali proveniva dalle aree povere abitate da minoranze. Aiutò molti studenti a non abbandonare la scuola, a iscriversi al college e a trovare speranze in situazioni difficili. Aprì ad alcuni di loro le porte di Princeton e Yale e ne guidò molti altri a scelte positive in momenti importanti delle loro vite (un autista d’autobus l’ha recentemente ringraziata per averlo convinto a portare a termine il percorso scolastico).

(...)

La zia cominciò a insegnare alla leggendaria Erasmus Hall High School nel 1958 (la storia della scuola, la prima scuola pubblica degli Stati Uniti, inizia nel 1786). Gli anni settanta furono un’epoca difficile per il quartiere di Flatbush, e la Erasmus cominciò a perdere colpi. Insegnare diventava sempre più difficile perché gli studenti “venivano a scuola carichi dei problemi che vivevano in famiglia. La disciplina era un problema”, mi diceva la zia. “Capitava di incontrare ragazzi che vagavano nei corridoi. E chi voleva far bene era vittima di soprusi, picchiato e aggredito. Sempre più energie andavano nel contenere il malessere dei ragazzi”.

Le sfide risvegliavano la sua determinazione. “La povertà, che conoscevo bene per averla vissuta, mi permetteva di identificarmi con loro. Ricordo che tua nonna mi diceva: ‘Sono così orgogliosa che tu insegni a dei poveri bambini neri’”, mi raccontava la zia. “Erano queste le cose di cui andavamo fieri a casa nostra, non di fare milioni, ma di aiutare dei ragazzini a crescere”.

(...)

Qual era, chiesi a mia zia Ally, la chiave del suo successo come insegnante? Come riusciva ad arrivare ai ragazzi, a farli interessare ai temi che trattava, storia americana ed economia, in una delle scuole più difficili di New York? “Devi farli sentire importanti”, mi diceva. “Devi dedicarti a loro e farli sentire esseri umani. Far sentire loro che ce la possono fare, che possono far bene, che possono aspirare al college, che tu sei dalla loro parte”. I successi dei suoi studenti la inorgoglivano, mi diceva. “La stragrande maggioranza dei bambini vogliono essere trattati come individui e sentire che sei lì per loro.

Volevo sapere che cosa pensava dell’insegnamento ai giorni nostri. “Quello che succede oggi”, mi diceva, cercando di descrivere gli effetti sul sistema scolastico delle riforme orientate al mercato che imperversano nel distretto di New York e nell’intera nazione, “è che si parla poco di relazione umana con i ragazzi. L’umanesimo non è più di moda”.

Ben poco della odierna Erasmus risulterebbe familiare a zia Ally. L’entrata principale dell’edificio gotico è barrata, l’elegante cortile è diventato un parcheggio. Gli studenti entrano nell’edificio da ingressi secondari dove sono scandagliati da metal detector. Nel 2002 la scuola, entrata a fare parte del movimento cittadino tendente a sostituire le grandi scuole con sedi più piccole, è stata smembrata in tre istituti. Le tre sedi sono state tuttavia chiuse nel 2007 a causa degli scarsi risultati ottenuti e al loro posto sono state aperte cinque nuove scuole. Ma anche queste ottenevano pessimi risultati, avevano tassi elevati di abbandono, problemi disciplinari, problemi con i docenti ed erano minacciate di chiusura.

Le cinque nuove scuole della Erasmus hanno ognuna un particolare orientamento professionale. La Academy of Hospitality and Tourism è una di queste “accademie della carriera”, nome con cui sono conosciute le scuole per la loro attenzione particolare alla formazione degli studenti in aree professionali specifiche. Questa scuola, come altre nel paese, è sostenuta e associata alla National Academy Foundation, un’organizzazione in parte finanziata dalla Fondazione Gates, che opera “per sostenere una rete nazionale di accademie della carriera” e promuovere la “competenza reale per un mondo reale” che queste scuole dovrebbero fornire allo studente. La Fondazione Gates ha incanalato milioni di dollari nel progetto dell’ex cancelliere Joel Klein di sostituire le vecchie scuole superiori come la Erasmus con istituti più piccoli. L’opinione pubblica non si è ancora pronunciata sull’efficacia di questo programma. Uno studio effettuato nel 2009, tuttavia, non ha verificato una riduzione nei tassi d’abbandono scolastico né un significativo aumento del rendimento rispetto al sistema precedente. Un risultato comunque il movimento per la riduzione delle dimensioni delle scuole lo ha indubbiamente ottenuto: ha incrementato il numero delle “accademie della carriera” e dunque dell’addestramento professionale rappresentato da queste scuole.

Lo scrittore e insegnante Jonathan Kozol racconta la storia di una ragazzina di quinta elementare, Timeka, del South Bronx, intenzionata a iscriversi a una di queste accademie, la Paul Robeson School for Medical Careers and Health Professions. Nella brochure di presentazione la scuola prometteva “una conoscenza e un approfondimento della scienza medica e delle professioni del settore sanitario”, e Timeka aveva deciso di iscriversi perché, diceva, “è una scuola di medicina. E io voglio fare il dottore”. Ma il programma scolastico non era pensato per formare medici, bensì infermieri e assistenti sanitari, un domani lavoratori a basso livello salariale. Timeka si trasferì allora in un liceo simile, la cui brochure presentava una generica formazione nel settore sanitario e prometteva agli studenti la possibilità di “uno sviluppo permanente dell’apprendimento e una eccellente formazione nel campo sanitario’’. Solo il 20 per cento degli studenti della scuola arrivavano al diploma. Timeka abbandonò in seconda.

Le accademie della carriera sono invariabilmente situate in quartieri a basso reddito e, nonostante nomi e presentazioni roboanti, programmate per preparare a lavori non qualificati e a basso livello salariale. Chiedono ai ragazzi di fare scelte di carriera a dieci anni impedendo loro, in termini di apprendimento e di immaginazione, possibilità più ampie di quelle offerte dai programmi limitati di queste scuole. Le accademie della carriera, dice Kozol, negano ai bambini poveri le stesse opportunità della loro controparte più ricca e rappresentano quindi una forma di apartheid nel campo della formazione. “Certo, le necessità economiche di una società si riflettono inevitabilmente nelle politiche e nei propositi delle scuole pubbliche”, dice. “Ma anche così la maggioranza di noi inclina a chiedersi se non esista qualcosa di più nella vita di un bambino di sei anni o di dieci, o di un adolescente, che preoccuparsi di una “efficace competizione globale”. L’infanzia non è la semplice preparazione di base a una funzionale età adulta. Dovrebbe invece essere più misericordiosa verso il sé, non in funzione di un futuro valore economico all’interno di società competitive ma per il valore presente e deteriorabile della vita stessa”.

Quel “qualcosa di più” di cui parla Kozol è contenuto nell’idea, e nell’ideale, dell’educazione liberale, una delle principali eredità delle riforme del secolo del bambino. Una nozione che esprime il valore dell’educazione, che dev’essere ricca e multidimensionale; che deve preparare il bambino a una vita di cittadino colto, informato e dotato di raziocinio, e non solo a quella di lavoratore qualificato; e che deve coltivare il suo potenziale di essere umano, non solo di risorsa lavorativa12. Le scuole, nel fornire questa istruzione liberale, dovranno assicurarsi che gli studenti comprendano il mondo in cui vivono, sappiano apprezzare quel che gli individui e la società son capaci di fare in campo scientifico, politico, artistico e umanitario e sviluppino la capacità di pensare criticamente e di condividere i princìpi essenziali della cittadinanza democratica. “Una persona ben istruita ha una mente ben allenata, formata dalla lettura e dalla riflessione su temi come la storia, la scienza, la letteratura, le arti, la politica”, dice Diane Ravitch. “La persona ben istruita sa esprimere idee e ascolta con rispetto quelle degli altri”.

L’istruzione dovrebbe anche, naturalmente, insegnare le conoscenze e le capacità di base necessarie al cittadino per essere un membro produttivo della società anche in campo professionale. Quando tuttavia questo scopo educativo diventa esclusivo o primario, allora l’istruzione nega le proprie radici e i propri ideali. È questo il problema delle “accademie della carriera” e in generale, purtroppo, dell’intero movimento di riforma dell’istruzione orientato al mercato.

 

(9, La corsa nel vuoto, pp 178 – 183).

 

 

 

Il “senso di responsabilità” è un concetto affascinante e come ogni altro concetto affascinante ― “franchezza”, “assennatezza”, “buonsenso, per esempio ― attira il consenso generale. E critiche nei confronti di chi non si dimostra all’altezza. Chi può dubitare, come ribadisce il movimento di riforma orientata al mercato, che il senso di responsabilità nel mondo della scuola sia importante e necessario, e che si debba rimediare alla sua apparente mancanza? Ma provate a grattare la superficie di quella generica affermazione e salteranno agli occhi tre questioni dirimenti: senso di responsabilità nei confronti di chi, di che cosa e in base a quale valutazione?

La richiesta di senso di responsabilità da parte dei riformatori, così come viene presentata nel programma Race to the Top del presidente Obama, presuppone una serie particolare di risposte a queste domande. Gli insegnanti (insieme a presidi e scuole) dovrebbero rendere conto a studenti, genitori e distretti scolastici della loro capacità di garantire ottimi rendimenti misurabili in test standardizzati. Questa logica è espressa in modo compiuto in un recente editoriale del Daily News che celebra Race to the Top:

“Gli standard devono essere innalzati e non si deve arretrare davanti al principio di responsabilità di presidi e insegnanti nel raggiungimento dei risultati in modo che gli studenti diplomati dalle scuole superiori siano preparati per l’università o per il mondo del lavoro [...]. L’istruzione è diventata compiacente con la mediocrità, quando non con il fallimento, e si è ridotta a proteggere gli interessi degli adulti invece di quelli dei ragazzi [...]. I sindacati degli insegnanti si sono battuti per garantire la tutela anche degli incompetenti [...]. Per la prima volta con Race to the Top gli insegnanti saranno valutati in base alla capacità di innalzare il rendimento degli studenti. E gli incompetenti tra loro saranno lasciati a casa. Esiste adesso la convinzione condivisa che gli insegnanti debbano produrre risultati misurabili”.

Race to the Top ha di certo rappresentato un trionfo per il movimento di riforma orientata al mercato e il suo particolare concetto di responsabilità. Il programma presta una speciale attenzione al “miglioramento dell’efficienza di insegnanti e presidi misurabile in base al rendimento”, e allo scopo di raggiungere l’obiettivo invita gli stati a premiare “insegnanti e presidi altamente efficienti” con “retribuzioni aggiuntive”. E, implicitamente, a sanzionare insegnanti e presidi ― “gli incompetenti saranno lasciati a casa”, come dice il Daily News ― non all’altezza. Ecco spiegato perché il presidente Obama ha di recente applaudito la decisione dello Stato del Rhode Island di licenziare l’intero corpo insegnante di una scuola superiore in difficoltà. Per non essere da meno, Washington D.C. ha da poco licenziato duecento insegnanti classificati agli ultimi posti del suo sistema di valutazione, mentre lo stato di New York ha messo nero su bianco che gli insegnanti con prestazioni scarse saranno lasciati a casa13. In tutti questi casi il messaggio è quello di usare le maniere forti. E non è un caso che Rhode Island, Washington D.C. e New York siano tra i nove Stati vincitori dei fondi stanziati da Race to the Top nell’agosto 2010. Chiudere le scuole è un’ulteriore misura di responsabilità prescritta dal nuovo piano che tende a premiare gli Stati il cui programma preveda la chiusura, la trasformazione, la conversione o la ridefinizione di “scuole che abbiano fatto registrare risultati insufficienti”.

Incolpare insegnanti, presidi e scuole delle difficoltà e degli insuccessi dell’istruzione ― renderli responsabili ― è l’idea centrale dietro le riforme orientate al mercato. È un’idea apparentemente attraente e funzionale all’accettazione di queste riforme da parte del pubblico. Ma a un’analisi più approfondita si rivela inappropriata e rischia di favorire politiche sbagliate e decisioni ingiuste perché eccessivamente includenti e al contempo escludenti nei termini di chi debba essere considerato responsabile.

Questa idea è eccessivamente includente perché punta il dito contro individui e istituzioni che spesso hanno poco o nessun controllo sulle circostanze che contribuiscono alle difficoltà e agli insuccessi scolastici. Il sottofinanziamento cronico determina il sovraffollamento scolastico, il deterioramento degli edifici e delle strutture, il sottodimensionamento del corpo insegnante, la scarsità di testi e materiale. La povertà e i suoi effetti deflagranti su violenza, crimine, abuso di droga e alcol, fame, abitazioni inadeguate, mancanza di riferimenti parentali e famiglie disgregate o violente sono per gli studenti causa di distrazione, depressione, problemi di salute, rabbia e mancanza di motivazioni, energia e autostima14. Quando le scuole operano in queste condizioni può essere impossibile, o estremamente difficile per i docenti insegnare e per gli studenti apprendere. Ritenere insegnanti e presidi gli unici o i principali responsabili del rendimento scolastico può non avere senso.

E nello stesso tempo ― e in questo caso si dimostra un’idea eccessivamente escludente ― coloro che andrebbero incolpati delle difficoltà della scuola non lo sono. In questo gruppo andrebbero annoverati responsabili distrettuali, comunali, statali, federali e i governi, con i loro sostenitori e amici, che chiedono, creano e mantengono politiche fiscali ed economiche che stanziano fondi insufficienti per le scuole inasprendo in modo irreparabile la povertà nelle comunità urbane. La vera responsabilità, in altre parole, dovrebbe includere gli individui e le organizzazioni colpevoli di incrementare politiche che trascurano scuole e quartieri contribuendo in questo modo alle difficoltà delle scuole.

Non c’è dubbio che esistano insegnanti e dirigenti migliori di altri. Alcuni possono contribuire al fallimento, mentre altri, come mia zia Ally, rappresentano una risorsa straordinaria. Il punto non è la responsabilità individuale di insegnanti e dirigenti, ma il fatto cheque sta responsabilità non possa essere attribuita completamente e sempre a loro, né che lo possa essere nella maggioranza dei casi e delle volte. Il movimento di responsabilità, con la sua enfasi esclusivamente posta su insegnanti e amministratori, ha finito inevitabilmente con il colpire individui e istituzioni che hanno, in molti casi, scarso controllo sul destino delle scuole, ignorando al contempo quelli che hanno invece voce in capitolo. Una responsabilità, in questo caso, capovolta. Il movimento sostenitore del “senso di responsabilità” non esce dunque con un punteggio alto dal test su chi sia responsabile. E non migliora il proprio punteggio rispondendo alla domanda su come la responsabilità vada misurata.

I test standardizzati dovrebbero favorire il senso di responsabilità fornendo misurazioni condivise e oggettive del rendimento e offrire un metro con cui misurare studenti, insegnanti, presidi e scuole. Questi test sono adesso al centro del sistema educativo americano, risultato questo di politiche come No Child Left Behind e Race to the Top. Il mandato precedente prevedeva che gli studenti dalla terza elementare alla terza media fossero sottoposti a test standardizzati ogni anno in matematica, lettura e scienze, e che gli studenti liceali fossero sottoposti almeno a uno di questi test nel corso dei loro studi. L’attuale mandato prevede che gli Stati sviluppino in gruppi significativi “valutazioni collettive di elevata qualità” che siano allineate con “contenuti standard comuni [...] sostanzialmente identici”.

Per le aziende pagate dai governi degli Stati e dai distretti per creare e classificare test standardizzati, l’obiettivo è il profitto e non la responsabilità15. La chiave del profitto è tenere bassi i costi di gestione e abbordabili i costi del prodotto per gli Stati a corto di fondi. I test composti da domande a risposta multipla sono ideali perché possono essere giudicati meccanicamente e dunque in modo economico. Verso la metà degli anni duemila molti Stati hanno iniziato ad affidarsi in modo consistente a questi test ―  alcuni, come Kansas e Mississippi, in modo esclusivo ― così da conformarsi, nei limiti dei loro budget ridotti, alle richieste di No Child Left Behind. Hanno cominciato allora a piovere critiche contro l’abbassamento del livello culturale e di conseguenza dell’istruzione. “Non venite a raccontarci che l’unico modo di insegnare a un bambino sia fargli trascorrere gran parte dell’anno a prepararsi per rispondere a delle domandine in un test standardizzato”, rimproverava un Barack Obama all’epoca in corsa per la presidenza. Una volta diventato presidente, e responsabile della riforma dell’istruzione, Obama cercò di mantenere la parola. Race to the Top si segnala per un’inversione di tendenza rispetto al test meccanico e chiede test che, per quanto standardizzati, “misurino la conoscenza, la comprensione e l’abilità di applicare concetti critici attraverso l’uso di una varietà di tipologie di elementi e formati (per esempio, aperti e basati sull’esecuzione di compiti)”.

Ma il miglioramento della qualità dei test con domande ricche e non meccaniche non fa che aumentare il dilemma. Meno le domande sono meccaniche, più sono costose da valutare, e dal momento che gli Stati non possono permettersi costi più elevati, e le aziende di test si rifiutano di rinunciare al loro profitto, l’unico modo che hanno le aziende di offrire test “abbordabili” è quello di mantenere basso il costo di produzione ― basso quanto il costo dei test a domanda multipla e correzione meccanica. Le aziende devono quindi spremere al massimo gli impiegati pagandoli il meno possibile. Ed è quello che fanno, cosa che, naturalmente, è fonte di altri problemi.

Secondo Todd Fairley, che ha trascorso quindici anni a lavorare per alcune delle più importanti aziende di test degli Stati Uniti, arrivando a occupare posizioni di supervisore e istruttore, “i test vengono valutati ogni anno da una ciurma eterogenea di lavoratori temporanei non qualificati e a basso livello salariale”. Alcuni di loro sono impiegati coscienziosi, dice, ma “molti sono finiti lì solo perché non hanno trovato niente di meglio, e nel corso degli anni ho lavorato con balordi, alcolizzati e dilettanti”. La pressione dovuta a tempi di consegna vincolanti non fa che peggiorare il problema. “Il numero di test da leggere e valutare ogni anno è talmente elevato che viene presa in considerazione ogni plausibile scorciatoia per portare a casa il lavoro”, secondo Fairley. “L’industria dei test lavora con tempi molto stretti per rispettare le consegne e mettere il punteggio sui test, ma non sempre lo fa in modo corretto. Quando ero supervisore e incaricato della gestione di cento persone, l’ultima cosa di cui mi preoccupavo era che facessero un’analisi accurata e meticolosa delle risposte degli studenti. Quello di cui avevo davvero bisogno era che facessero in fretta”.

La gravità delle affermazioni di Fairley dimostra che l’industria dei test imbroglia sulla qualifica degli impiegati e sull’affidabilità e la validità dei risultati. “Sono anch’io responsabile e nel corso degli anni ho raffazzonato dati come tutti gli altri. Le dabbenaggini statistiche e le castronerie industriali sono il marchio di fabbrica della mia carriera di valutatore di test. Non ne sono fiero, ma è così”.

Infine, Fairley sembra dirci che gli insegnanti sono tutto sommato più affidabili nella valutazione di uno studente dell’industria dei test. “Benché il senso di responsabilità nel campo dell’istruzione possa essere un obiettivo importante”, dice, “non è un’impresa facile stabilire la correttezza di un giudizio. La lezione che ho tratto dalla mia carriera è che fidarsi di grandi corporation che prendono decisioni sulle scuole del Paese in funzione dell’utile netto di bilancio è ben diverso dal riporre fiducia in quegli uomini e quelle donne che trascorrono le giornate in una classe”.16

La domanda importante da fare sui test standardizzati, tuttavia, al di là dei problemi della valutazione e dei suoi costi, è se, anche affidandosi a test più sofisticati e affidabili, la totale fiducia riposta nei test scolastici sia compatibile con l’offerta di una buona istruzione.

“Quando definiamo quello che conta in una buona istruzione solo in base a elementi misurabili”, secondo Diane Ravitch, “tendiamo a dimenticarci che le scuole sono responsabili della formazione del carattere, dello sviluppo di una mente sana in un corpo sano (mens sana in corpore sano) e di formare cittadini per la nostra democrazia, e non solo di formare dei professionisti”. Il vero significato di “buona educazione” sfugge, secondo la Ravitch, mentre il risultato dei test diventa la cosa più importante. Inoltre, quando facciamo affidamento su questi risultati “con tutti i loro limiti, licenziando educatori, distribuendo bonus e chiudendo scuole, travisiamo del tutto lo scopo dell’insegnamento”.

Come diceva zia Ally: “Credo che con questa esasperazione del test standardizzato qualcosa vada perso”. Per lei ― e credo che questo sia vero per la maggioranza degli insegnanti ― insegnare a bambini e adolescenti era qualcosa di più della semplice trasmissione di una serie di abilità standardizzate e di una conoscenza finalizzata al superamento di un test. Risvegliare la curiosità, stimolare il pensiero, incentivare la comprensione del mondo, costruire fiducia, essere una guida morale e un modello ― sono queste le impalpabili ambizioni di un insegnante. Quando chiedevo a mia zia Ally che cosa volesse realizzare nel corso della sua lunga carriera di insegnante, era di questi elementi intangibili che parlava e non di test ― delle cerimonie che organizzava in occasione della consegna dei diplomi (“entravano portando candele, indossando fiori; facevano uni spettacolo a cui erano invitati i genitori; erano distribuiti i diplomi e si avvertiva un senso d’orgoglio”); il palpabile risveglio della coscienza civile dei ragazzi quando insegnava loro storia; gli incontri con i genitori che la ringraziavano per avere risvegliato nei loro figli il desiderio di apprendere e di frequentare la scuola. “Può sembrare sdolcinato”, diceva, “ma quel che ricevi in cambio è meraviglioso”. Quando le chiesi quale fosse stato il momento più bello da insegnante, mi raccontò di un ragazzo che andò all’università diplomandosi con il massimo dei voti e tenendo il discorso di commiato. “Era minuto, tranquillo, parlava a bassa voce, era molto intelligente”, mi disse. “E nel suo discorso finale disse alla classe, ‘voglio che vi alziate’, e gli altri gli obbedirono, e poi disse, ‘voglio che diciate grazie padre, grazie madre, grazie insegnanti’”; e a quel punto la zia Ally si fermava, commossa: “Oh, scusami Joel, questa parte mi fa piangere...”. Era stato bello, perché si erano alzati e avevano ringraziato genitori e insegnanti come lui aveva detto loro di fare”.

Quando esperti in uffici governativi o aziendali misurano il successo scolastico sulla base di test standardizzati che creano e valutano, agli insegnanti non resta che diventare esaminatori produttivi. Degradati da professionisti della pedagogia a tecnici di test di conoscenza, alienati dagli aspetti umani e creativi del loro lavoro e scollegati dalla loro funzione di esseri pensanti e premurosi e dai loro studenti17. Misurandola con test standardizzati, la conoscenza stessa diventa una merce, poco più di un credito numerico da incassare come ricompensa tangibile. Quello che si perde sono le altre dimensioni dell’apprendimento ― intelletto, curiosità, ragione, critica, bellezza, compassione: tutte cose che contribuiscono a definire quello che siamo e quello a cui aspiriamo. La conoscenza finisce per essere consegnata invece che insegnata.

Le ragioni che si nascondono dietro la crescente standardizzazione e la presa di distanza dall’istruzione liberale sono varie e complesse. Una tuttavia non può essere ignorata, ed è il fatto che le nuove riforme orientate al mercato producono ricchezza per il grande business.

Diversi anni fa, in un’intervista per il mio libro The Corporation, Benno Schmidt Jr., ex rettore della Yale University e poi della Edison School, una società di gestione in appalto delle scuole pubbliche, descriveva come “incredibilmente vasto” il potenziale di crescita dell’industria dell’educazione. “L’istruzione è un settore più grande della difesa, più grande dell’industria nazionale dell’automobile”, disse. “Solo la sanità in America occupa un segmento di mercato più ampio”. In un’altra intervista Michael Moe, imprenditore scolastico, faceva notare che “la classica opportunità di investimento è laddove esiste un problema. Più grande è il problema, più grande l’opportunità. E non esiste problema più grande di come istruire la popolazione”.

L’industria dei test standardizzati è fiorente e in crescita. No Child Left Behind ha creato una domanda di 45 milioni di test da produrre e valutare ogni anno, che incide per un terzo sui 3 milioni di introiti generati dall’industria dei test nel 2009. L’industria del test standardizzato ha continuato a crescere negli ultimi anni e crescerà sempre più insieme alla corsa degli Stati a conformarsi alle richieste di Race to the Top.

Non solo le aziende di test esercitano pressioni per accedere ai nuovi mercati dell’istruzione. A beneficiarne sono anche le Education Management Organization (EMO), ditte come la Edison, che gestiscono nuove scuole o prendono in appalto dai distretti scolastici scuole esistenti. Nel 2003, il Government Accountability Office ha osservato che “le disposizioni contenute nel No Child Left Behind Act potrebbero incentivare ulteriormente la gestione delle scuole inefficienti da parte di società private, dal momento che sono numerosi gli istituti scolastici che non raggiungono i parametri stabiliti dallo Stato e sono infine soggetti a ristrutturazioni che possono anche includere la cessione a un’azienda privata”.

Questa dichiarazione è stata preveggente. Le EMO sono pronte ad acquisire enormi vantaggi, mentre le scuole del Paese rischiano di perdere i finanziamenti, chiudere ed essere soggette a severi programmi di “aggiustamento” a causa di prestazioni insufficienti valutate in base a misurazioni con test standardizzati: una tendenza incentivata sia da No Child Left Behind sia da Race to the Top.

La crescita nel settore delle EMO è stata rapida. Tra il 1998 e il 2003 il numero di scuole pubbliche gestite da privati è triplicato, con 50 aziende che gestivano 400 scuole. Poi, negli anni compresi tra il 2003 e il 2009, sono raddoppiate (un aumento di sei volte dal 1998) con circa 100 ditte che gestivano quasi 800 scuole. La grande maggioranza di scuole gestite da EMO (oltre il 90%) sono charter schools, letteralmente scuole a noleggio, finanziate dallo Stato ma gestite dai privati. Nelle scuole che gestiscono, le EMO sono in genere responsabili dell’intera conduzione, comprese l’assunzione e la remunerazione degli insegnanti (la maggior parte delle charter schools non ha sindacati al suo interno), la programmazione, la gestione degli impianti e della sicurezza.

Race to the Top incoraggia in modo esplicito gli Stati a incrementare il numero di charter schools e a facilitarne la nascita (evitando di mettere limitazioni al numero di scuole di questo tipo), un ulteriore stimolo alla crescita e all’espansione dell’industria delle EMO. La maggioranza degli Stati si sta adeguando. Lo stato di New York, per esempio, in cambio dei finanziamenti ricevuti, di recente ha portato il numero di charter schools da 200 a 460 e ha creato un fondo statale per aiutare gli operatori di charter schools particolarmente efficienti a edificare nuovi impianti.

Non esistono prove concrete che le EMO mantengano la promessa di gestire meglio le scuole, e a costi minori, rispetto alle istituzioni pubbliche. Le brochure patinate e i report annuali che pubblicizzano migliori rendimenti accademici (misurati con test standardizzati) e insegnanti più motivati (premiati con bonus nel caso in cui gli studenti ottengano punteggi migliori nei test), sono smentiti da studi secondo cui le scuole EMO non fanno meglio di quelle tradizionali, oltre che da una serie di scandali che riguardano la manipolazione e l’alterazione dei dati dei test e delle valutazioni dei risultati da parte di alcune delle principali EMO. Una cosa è chiara, tuttavia, sulle scuole gestite dalle EMO. Nel complesso tendono ad accantonare i princìpi dell’istruzione liberale e ad abbracciare approcci e programmi più utilitaristici, privilegiando test, programmi standardizzati, disciplina rigida, controllo centralizzato, lezioni preparate e orari più estesi”. In genere accettano l’idea che il compito principale dell’istruzione sia strettamente utilitaristico e votato alla preparazione dei ragazzi al mondo del lavoro, e che i test standardizzati siano la misurazione appropriata del rendimento.

“L’istruzione non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco”, ha scritto il poeta William Yeats. Accendere quel fuoco, creare individui e cittadini pensanti, informati, ispirati, realizzati, è lo scopo dell’istruzione liberale. Questo ideale è stato abbracciato dalle società democratiche nel secolo scorso non solo per aiutare gli individui a raggiungere il loro potenziale, ma anche la democrazia a sopravvivere e prosperare. La democrazia ha bisogno di cittadini informati e pensanti tanto quanto gli individui hanno bisogno di essere informati e critici18. L’istruzione non è, in altre parole, solo ciò che noi offriamo ai nostri figli, ma anche quello che i nostri figli son disposti a offrire al mondo. I modi in cui noi provvediamo alla loro istruzione, in cui coltiviamo le loro menti, in cui guidiamo il loro sviluppo sociale e morale, rappresentano passaggi basilari non solo della loro crescita come individui, ma anche del modo in cui noi, come società, creiamo il nostro futuro e il nostro destino collettivo. Sarà un luogo comune ma è anche una verità che la gioventù è il nostro futuro: “Sui nostri figli ― su come vengono formati ― si fonda il destino o la fortuna del mondo futuro”, ha detto Forbes, il fondatore dell’omonima rivista.

Nel Ventesimo secolo la specie umana ha conosciuto qualcosa di completamente nuovo: la capacità di autodistruggersi. Ha inventato l’arma nucleare, che può cancellare intere città dalla faccia della Terra, sostanze chi miche sintetiche in grado di avvelenare il corpo e l’ambiente, e macchine che bruciano carburante fossile inquinando e surriscaldando pericolosamente il pianeta. Da sole o in combinazione, queste nuove condizioni possono annullare o mettere a dura prova (e in parte lo hanno già fatto) la capacità della Terra di sostenere la vita. Soprattutto alla luce di questi nuovi pericoli, la questione di come educare la gioventù è di stringente attualità.

L’istruzione è un progetto più importante che non preparare l’infanzia ad aver successo nell’economia globale. Un progetto che deve insegnare loro a comprendere questa economia globale, a metterne in discussione e a valutarne le virtù e le debolezze, ad avere e perseguire ideali e a impegnarsi contro la tendenza della nostra società all’autodistruzione.

Sono questi i compiti principali dell’istruzione.

(10, Menti ristrette, pp 184 – 195).

 

Sul medesimo argomento, su ScuolAnticoli, Alice Miller, La persecuzione dei bambini

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[1] David Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, New York 2005, pp 1 ss [trad. it. Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007].

 

[2] Pet Society al momento vende 90 milioni di merci virtuali al giorno, l’equivalente di 32,85 miliardi di dollari l’anno, secondo il cofondatore della Playfish Sebastian de Galleux, attuale vicepresidente della EA Interactive. Secondo recenti analisi, il social gaming sarà la prossima grande opportunità di trasformare le merci virtuali in importanti fonti di guadagno (come da tempo accade in Asia). Una approfondita analisi della “appiccicosità” dei social games si trova in Eric von Coellen, How Big Social Games Maintain Their Sticky Factors, Insidesocialgames.com, 4 novembre 2009. Come stabilito da un’altra analisi, la “appiccicosità” delle social applications risiede nella loro connessione con lo status sociale e con la necessità di essere riconosciuti ― due fattori di rilevante importanza per preadolescenti e adolescenti: “Il contenuto più appiccicoso per il consumatore è quello che gli conferisce visibilità sociale, consentendogli di apparire più intelligente, più connesso, più vincente rispetto ad amici e conoscenti. Il game-based-marketing è fondato sulla nozione che un efficace sistema di lealtà e di ricompensa nasca nel XXI secolo dallo status sociale: Facebook, Twitter e altri enfatizzano il desiderio individuale dell’utente di essere riconosciuto.

 

[3] Le seguenti domande e risposte provenienti dalla sezione “basic information” su Facebook.com/friendsforsale forniscono ulteriori indicazioni sulla natura del gioco:

Domanda: come posso fare per valere più soldi?

Risposta: ogni volta che qualcuno ti compra il tuo valore aumenta e ti fa guadagnare più soldi nella categoria “Valore”. Più la gente ti compra, più vali.

Domanda: come faccio a guadagnare soldi con Friends For Sale?

Risposta: quando compri un beniamino e lo rivendi, fai un profitto. Quando compri un animale da compagnia, il suo valore aumenta. Quando lo vendi, il prezzo di vendita rappresenta il suo incremento di valore. Più animali da compagnia acquisti e vendi, più soldi guadagni. Semplice! Inoltre puoi guadagnare soldi cliccando su Bonus Money nella parte superiore del tuo profilo ed esplorare le offerte e le opzioni shopping bonus.

Domanda: un estraneo mi ha appena comprato. Che cosa faccio?

Risposta: quando qualcuno ti compra devi sentirti onorato! Quando qualcuno ti compra il tuo valore aumenta e quando compro qualcuno e lo rivendi hai la possibilità di guadagnare. Più giochi, più guadagni!

 

[4] Come spiega una presentazione indipendente su Honesty Box, la chiave del sito è tormentare il prossimo. “Il dramma su Internet è meno interessante del dramma nella vita reale. Ma questo non deve impedirvi di tormentare le persone. Qui di seguito troverete alcune dimostrazioni. È breve, è semplice, è offensivo. Perfetto!

 

[5] Oggi novecento milioni. Un quarto dei quali, tuttavia, non sarebbero persone reali. (Nota di ScuolAnticoli).

 

[6] Alcune prigioni ne hanno in parte adottato le caratteristiche, come lo State Penitentiary a Stateville, Illinois, costruito nel 1925. (In realtà il Panopticon fu realizzato, e immediatamente dopo la sua ideazione: tra il 1792 e il 1795, per ordine di Ferdinando IV di Borbone e su progetto dell'architetto Francesco Carpi, fu costruito sull’isolotto di Santo Stefano (vicino a Ventotene, nelle isole Ponziane) un carcere che riproduceva fedelmente il progetto di Bentham. Vedi http://it.wikipedia.org/wiki/File:Santostefcarcere.JPG . Nota di ScuolAnticoli).

 

[7] Bessel van der Kolk, professore di psichiatria alla Boston University, citato in Benedict Carey, Debate over Children and Psychiatric Drugs, “The New York Times”, 15 febbraio 2007.

 

[8] Al contrario, è storicamente provato che la nascita dell’Istruzione pubblica, in Europa e in particolare in Italia dopo la fine del Medioevo, ha avuto tra le sue cause principali l’esigenza, sempre più avvertita dalla popolazione e dalle autorità comunali, di porre un freno alle violenze perpetrate dalle bande di ragazzi abbandonati di ogni età che imperversavano nei centri urbani grandi e piccoli e nelle campagne. Laddove il termine abbandono è da intendersi sia in senso proprio ― bambini e ragazzi senza famiglia ― sia nel senso lato in cui si tende a leggerlo oggi nelle nazioni (ex) “più sviluppate”: bambini e ragazzi le cui esigenze di bambini e di ragazzi non sono riconosciute da nessuno. (Nota di ScuolAnticoli).

 

[9] Renaissance 2010 promise che ci sarebbero state “scelte più ampie e concorrenza, e che tutte le famiglie avrebbero avuto opzioni educative di alta qualità”.

 

[10] Alcune scuole, invece di essere chiuse, furono oggetto di “aggiustamenti”, di frequente offerti da corporation, che si esaurivano nel licenziamento e nella sostituzione dell’intero corpo insegnante (come accadde nel 2009 alla Fenger, quando l’intero staff fu licenziato e sostituito dopo che la Gates Foundation tolse il finanziamento a seguito di una serie di tentativi falliti di riformare la scuola.

 

[11] Come affermano Giroux e Saltman in Obama’s Betrayal of Public Education?, (“Truthout”, 17 dicembre 2008), “la più grave minaccia ai nostri bambini non proviene dall’abbassamento degli standard, dall’assenza di soluzioni privatistiche o dalla mancanza di rigide misurazioni con i test che danno un’aura di responsabilità. Al contrario, proviene da una società che rifiuta di vedere i bambini come un investimento sociale, costringe 13 milioni di loro a vivere in povertà, riduce l’apprendimento critico a intensi programmi di test, vara politiche che eliminano servizi pubblici e sanitari e promuove un rozzo individualismo attraverso la degradante celebrazione della cultura delle armi, degli sport estremi e di spettacoli violenti che permea l'industria dei media controllata dal sistema delle corporation.

 

[12] Le accademie della carriera, secondo Kozol, “tolgono all’istruzione infantile troppe opportunità di riflessione culturale e critica, senza le quali il cittadino diventa un ricettacolo di ideologie altrui e acquisisce un modo di guardare il mondo che manca di spirito indipendente”. “A partire dai primi anni ottanta e proseguendo senza sostanziali cambiamenti fino ai nostri giorni”, dice Kozol, “la nozione di produrre prodotti che produrranno in seguito ulteriore ricchezza per la società è stata abbracciata da molti politici e, sempre più, dai presidi che hanno sviluppato strette affiliazioni con rappresentanti delle grandi corporation. [...] L’infanzia, in questo contesto, è considerata un investimento, un asset, una unità produttiva ― o, all’opposto, un deficit, una classe di età di scarso valore che minaccia la nostra capacità competitiva. [...] Questo modo di considerare l’infanzia, diffuso all’inizio del secolo scorso, è riemerso negli ultimi due decenni nelle intenzioni di leader industriali, importanti educatori e uomini politici”.

 

[13] In base alle recenti riforme, nello Stato di New York il 40% delle valutazioni degli insegnanti è adesso basato sui risultati dei test standardizzati.

 

[14] Problemi come questi sono aggravati dal sistema di finanziamento scolastico (tipico di queste scuole degli Stati Uniti) che fa affidamento principalmente sulle tasse locali. In media, le tasse locali incidono per circa la metà delle entrate scolastiche, mentre il resto proviene da fondi statali e federali. Il risultato è che le comunità più povere, dove le tasse di proprietà sono inferiori e le condizioni delle scuole precarie, tendono ad avere minori finanziamenti scolastici: una dinamica accentuata dal programma No Child Left Behind, che concede o distoglie fondi in funzione delle performance delle scuole.

 

[15] Le aziende di test operano in segretezza e di fatto senza la prevista supervisione, suggerisce Robert Shaeffer, un esperto del National Center for Fair and Open Testing, il quale osserva che “non esiste nessuna responsabilità per le corporation che preparano questi test”. Il risultato, dice, è che “le aziende promettono l’impossibile e mantengono solo in parte gli impegni presi, e gli Stati, in particolare negli ultimi anni a causa della crisi economica, assegnano la commessa a chi chiede di meno indipendentemente dal curriculum dell’azienda”. Sono numerosi i casi di correzioni errate, consegne ritardate e prestazioni insufficienti da parte delle aziende a cui gli Stati si affidano per la compilazione dei test. E negli ultimi anni questi problemi sono aumentati, soprattutto in seguito all’ampia diffusione dell’uso dei test. Il Florida Department of Education, per esempio, ha recentemente corrisposto alla NCS Pearson 254 milioni di dollari, per progettare e valutare i Comprehensive Assestment Tests, nonostante fosse a tal punto oberato di debiti da essere costretto a tagliare posti di lavoro e attività. La Pearson si è aggiudicata il lucrativo contratto presentando un’offerta d’appalto più conveniente della sua concorrente, la CTB McGraw-Hill, che si era assicurata il contratto precedente. Ma la NCS Pearson non è riuscita a consegnare in tempo i risultati dei test, compromettendone la validità.

 

[16] Ulteriori problemi sorgono quando le autorità scolastiche, disperate per la mancanza di miglioramenti nei test, e timorose di non ricevere ulteriori finanziamenti, manipolano i risultati. L’enorme aumento del numero di studenti con valutazioni positive in matematica e inglese a New York tra il 2006 e il 2009 non era il risultato di una buona capacità degli studenti, ma della decisione di abbassare dal 60 al 44% gli standard valutativi. Un risultato simile a Chicago tra il 2004 e il 2008 era dovuto a ragioni analoghe. A questo proposito, uno studio commissionato dal Commercial Club of Chicago ha stabilito che “il grande aumento del rendimento nelle scuole della città riflette il cambiamento delle procedure e non un reale miglioramento degli studenti”.

 

[17] Anche a causa dello scarso successo ottenuto, esistono numerosi dubbi sulla funzionalità dei test standardizzati. Secondo la Ravitch, “i distretti scolastici hanno investito centinaia di milioni di dollari nella programmazione di test e nella preparazione degli studenti a domande specifiche presenti nei test di Stato. Per settimane o anche mesi prima del test, i bambini si esercitano quotidianamente rispondendo a domande che dovrebbero trovare nei test. La conseguenza di questo esercizio è che gli studenti potrebbero passare il test di Stato ed essere tuttavia incapaci di superarne un altro, su cui non si sono preparati, anche se fosse sullo stesso argomento. In altre parole, padroneggiano i metodi con cui si supera il test (quel particolare test) ma non la materia del test. Nel nuovo mondo della “responsabilità” l’acquisizione da parte degli studenti delle conoscenze e delle capacità di cui avranno bisogno per proseguire nel loro cammino di apprendimento e nel futuro lavoro sono secondarie. Quello che più conta per la scuola, il distretto scolastico, lo Stato, è poter affermare che un numero maggiore di studenti ha superato le prove. Questa modalità di comportamento si configura come una frode: ignora l’interesse degli studenti promuovendo l’interesse degli adulti che acquisiscono meriti per miglioramenti inesistenti”.

 

[18] Come afferma Erik Erikson nel suo Childhood and Society, “lo sforzo che può mantenere in salute un Paese è quello di chiamare a raccolta il potenziale d’intelligenza della giovane generazione”. Il grande ostacolo su questa strada è l’addestramento della gioventù a essere “come delle macchine, degli orologi [...] standardizzati”, e a essere ossequiosi davanti al potere. Questo addestramento, dice, impedisce di coltivare il naturale idealismo e lo scetticismo nei confronti del potere, necessari per la salute e la sopravvivenza sia degli individui sia della democrazia. “Gli ideali politici fanno parte dell’evoluzione della struttura della coscienza; che, se ignorata, porterà alla malattia”, dice. “La coscienza politica non può regredire senza conseguenze catastrofiche”. Le società che optano per l’etica meccanica invece che per quella umanistica sono nei guai. “Se un uomo permette che la sua etica dipenda dai meccanismi a cui ha dato vita"” avverte Erikson, “può ritrovarsi imbrigliato, oltre che in un progetto di produzione totale, in una distruzione totale”.

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Joel Bakan

Joel Bakan

 

Joel Bakan

 

Joel Conrad Bakan (nato nel 1959) è uno scrittore canadese, un musicista jazz, un regista e un docente della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università della British Columbia.

Nato a Lansing, nel Michigan, ha trascorso quasi tutta l’infanzia nella vicina East Lansing, dove i suoi genitori, Paul e Rita Bakan, insegnavano nella Facoltà di Psicologia della Michigan State University.

Nel 1971 si trasferì con i suoi a Vancouver, nella British Columbia. Compì i suoi studi alla Simon Fraser University (BA, 1981), allUniversità di Oxford (BA in Legge, 1983) e alla Dalhousie University (LLB, 1984), specializzandosi poi presso la Harvard Law School.

Dopo la laurea ritornò in Canada, dove ha insegnato legge alla Osgoode Hall Law School dellUniversità di York e presso la Facoltà di Legge dellUniversità della British Columbia, dove dal 1990 è Associate Professor di Diritto costituzionale.

Bakan ha un figlio avuto dalla sua prima moglie, Marlee Gayle Kline, anche lei studentessa e poi docente della Facoltà di Giurisprudenza dellUniversità della British Columbia. Ma la professoressa Kline morì di leucemia nel 2001, dopo una lunga lotta con la malattia durante la quale Bakan, che stava scrivendo il suo primo libro, The Corporation, le fu sempre vicino. Le Marlee Kline Memorial Lectures in Social Justice, da lui istituite, commemorano da allora gli importanti contributi di Marlee Kline alla legislazione canadese, e in particolare alle teorie legali di ispirazione femminista.

Bakan è attualmente sposato con l’attrice e cantante canadese Rebecca Jenkins.

Il primo libro di Joel Bakan, Le Corporation: la bramosia patologica di profitto e di potere, analizza la storia recente e l’attuale comportamento della grandi corporation da un punto di vista severamente critico. Pubblicato nel 2004, lo stesso anno ha ispirato un film che ha vinto 25 premi in tutto il mondo.

Assalto all’Infanzia è apparso nell’agosto del 2011.

Nel 2007, Bakan e sua moglie Rebecca Jenkins hanno realizzato un album di musica jazz intitolato Blue Skies.

 

da Wikipedia

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