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Daniela Colamedici - Andrea Masini - Gioia Roccioletti

 

La medicina della mente

Storia e metodo della psicoterapia di gruppo

 

2011

 

L'Asino d'oro edizioni, Roma

 

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Daniela Colamedici - Andrea Masini - Gioia Roccioletti: "La medicina della mente - Storia e metodo della psicoterapia di gruppo", L'Asino d'oro edizioni, Roma, 2011.

 

Il gruppo che tenta di ridare umanità al tempo

 

Daniela Colamedici - Andrea Masini - Gioia Roccioletti: "La medicina della mente - Storia e metodo della psicoterapia di gruppo", L'Asino d'oro edizioni, Roma, 2011.

La copertina del libro,

con un disegno di Massimo Fagioli.

Introduzione

 

di Daniela Colamedici, Andrea Masini, Gioia Roccioletti

 

Questo libro nasce dalla ricerca di un grande gruppo di psichiatri e psicologi che si avvalgono della teoria e della prassi dello psichiatra Massimo Fagioli. Solo alcuni hanno scritto, ma tutti hanno contribuito con un vivace dibattito seguendo gli incontri sulla psicoterapia di gruppo tenuti all’Università di Chieti nel 2009 e nel 20101 e, soprattutto, portando avanti il loro lavoro di terapeuti di gruppo, sia nel pubblico che nel privato.

 

Ci siamo formati insieme nell’Analisi collettiva, un incredibile movimento di persone che partecipa alla psicoterapia di gruppo condotta da Fagioli, ormai da trentasei anni. Un’immagine indefinita e irrazionale di psicoterapia, per molti incomprensibile: quattro sedute settimanali nelle quali si fa l’interpretazione dei sogni per curare la realtà psichica caduta nella malattia e, contemporaneamente, si fa ricerca sul pensiero senza coscienza. In questa prassi noi tutti abbiamo trovato una teoria e un metodo nuovi, radicalmente separati da altri orientamenti (organicismo, fenomenologia, psicoanalisi) che negano, anche se in modo diverso, la malattia mentale non proponendo la cura, o da altri approcci psicoterapeutici (comportamentismo, cognitivismo, terapia sistemica) che considerano solo lo stato cosciente della mente e il suo funzionamento razionale. Queste psicoterapie, come per altro anche la psicofarmacologia, si rivolgono all’alterazione della coscienza, cercando di ridurre i sintomi e di modificare il comportamento; paradossalmente tentano di curare la realtà materiale dell’uomo guidata e protetta dalla ragione, non la realtà psichica. Esse diventano così assistenza, sostegno, consolazione, ovvero palliativi, perché non hanno voluto o potuto comprendere ‘un ignoto’ che distrugge il pensiero. Anzi: rendono l’‘ignoto’ inconoscibile e, da questa impossibilità di conoscenza, inesistente.

 

Una storia diversa è cominciata quaranta, cinquanta anni fa, o forse ancora prima2, quando lo psichiatra dell’Analisi collettiva non si è rassegnato all’impotenza della psichiatria di comprendere la mente e ha rifiutato il fallimento di una cultura millenaria che ha legato l’identità umana alla ragione. Aveva scritto tre libri, che comunicavano le sue scoperte, ma ha accettato di metterle tra parentesi, per verificarle giorno per giorno nel confronto con coloro che erano venuti da lui per l’originalità del suo pensiero, nascondendo una violenza invisibile che non era amore. Non ha imposto la sua teoria e ha accettato lo scontro con la negazione, quel pensiero falso e bugiardo che si manifesta quando la coscienza non sa di mentire. Ha avuto il coraggio di affrontare l’inconscio malato, con il rifiuto continuo di ciò che non è la verità dell’essere umano e rende alterato il suo rapporto con il mondo. Da questa realizzazione, l’Analisi collettiva, è nata una nuova identità psichiatrica.

 

Avendo vissuto questa irripetibile esperienza, abbiamo scritto le nostre riflessioni sulla psicoterapia e vorremmo destinarle a quei lettori che dimostrino un interesse per la nostra ricerca.

 

Psichiatria, psicoterapia, gruppo

 

Con il titolo del nostro libro proponiamo due nessi che ci permettono di legare tre parole che non sono mai state insieme: psichiatria, psicoterapia e gruppo.

 

Il primo nesso tra psichiatria e psicoterapia è di per sé rivoluzionario, perché nella storia questi due percorsi di ricerca sulla cura hanno seguito direzioni diverse e opposte, l’organicismo e la psicodinamica. Ma se vogliamo ritrovare il senso originario del termine psichiatria, che unisce un concetto medico alla psiche, al movimento invisibile del pensiero, dobbiamo scoprirne la realizzazione nella psicoterapia, la sola medicina di quella realtà psichica che non è identificabile e sovrapponibile con l’organo cervello. Si tratta, infatti, di portare la metodologia medica, basata su diagnosi, prognosi e terapia, alla cura della mente; anzi, più esattamente, alla mente senza coscienza, a quella realtà chiamata storicamente inconscio, sostenendo l’idea che la malattia mentale non è una malattia del corpo, ma della psiche.

 

Psiche: è questa la parola ‘forte’ e illuminante che unisce psichiatria e psicoterapia e sulla quale la ricerca dell’uomo ha sempre fallito. Nonostante si sia cercato e intuìto qualcosa al di là della realtà fisica, si è rimasti a vagare nel buio, afflitti da una irrimediabile cecità, incapaci di sostenere lo scontro con la scissione, il gigante di argilla costruito dal pensiero razionale: bios e psychè, due mondi opposti e inconciliabili. Visibile e invisibile, razionale e irrazionale, cosciente e inconscio, di volta in volta questi aggettivi hanno cercato di dimostrare un’insanabile frattura in un essere umano dilaniato dalla lotta tra il bene e il male, la luce e le tenebre, la veglia e il sonno.

 

Avvicinarsi alla psiche è stato quel punto di svolta nel quale si poteva finire accecati da due terribili Sfingi, che chiedevano di risolvere il ‘grande enigma’ della nascita. E per il ribelle, che aveva violato il tabù della conoscenza, si apriva un profondo abisso, che poteva costargli la morte e la pazzia. La tragedia di Nietzsche ammonisce; le vicende di Tausk, Ferenczi, Reich tristemente testimoniano l’impossibilità di una rivolta al padre. Ora non è più così e questo libro cerca di dimostrarlo.

 

Il secondo nesso tra psichiatria e gruppo è estremamente trasgressivo nel chiedere di superare il tradizionale metodo della medicina ufficiale basato sul rapporto duale medico-paziente, essendo la malattia organica un fatto personale e privato: mettere le mani sul corpo dell’altro è un atto che non ammette condivisioni. Un medico solo con più pazienti è un’immagine insolita, che rompe gli schemi tradizionali della medicina e costringe la psichiatria a uscire da una cornice consolidata e rassicurante, per assumere una dimensione pubblica e sociale, molto più corrispondente alle implicazioni e alle dinamiche che la malattia mentale comporta. Se un infarto colpisce il cuore di un cardiopatico e resta un evento personale che il cardiologo deve risolvere con una adeguata terapia, una depressione grave, che esprime la sua violenza invisibile nei rapporti interumani, non rimane mai un fatto privato perché ha ricadute sociali significative che lo psichiatra deve considerare.

 

Nella psicoterapia individuale, che protegge il rapporto dagli occhi indiscreti degli estranei, è implicito un divieto di conoscenza, che non permette ad alcuno di osservare l’operazione del medico: l’errore o l’esattezza nella diagnosi, nell’interpretazione, nel rapporto di transfert e controtransfert. Nella psicoterapia di gruppo, al contrario, tutti possono verificare i movimenti del terapeuta e ognuno, nella dialettica, può conoscere e modificare la propria realtà interiore, sviluppando poi una proposizione di ricerca sulla cura.

 

Lo psicoterapeuta di gruppo elimina dalla scena psichiatrica il neuroscienziato organicista alla ricerca di lesioni cerebrali, neurotrasmettitori e farmaci, ma anche il fenomenologo che, nell’assunto teorico del verstehen (comprendere), denuncia il suo limite conoscitivo di fronte all’incomprensibile psicopatologico. Si contrappone totalmente alla classica rappresentazione freudiana dell’analista erede dell’ipnotizzatore che, nella sua invisibilità e nel suo imperativo di neutralità, non percepisce i suoni e i colori del rapporto: nel migliore dei casi, può diventare il padre buono che deve educare il paziente ad adattarsi alla realtà, per quella che è.

 

Lo psicoanalista, del resto, non ha alcuna legittimità a definirsi psicoterapeuta ed essere, come il medico, autorizzato dalla società a intervenire sull’uomo nel momento in cui riduce il rapporto terapeutico a una conversazione tra due cultori di psicoanalisi3. E, se di fronte alla malattia non ha il fine di cura e propone solo empatia e benevola comprensione, il suo intervento diventa violento e ingiustificabile, perché distrugge nel paziente la speranza e l’immagine di un medico che possa curarlo.

 

Abbandonando la struttura formale dell’analisi individuale dietro il lettino, presentandosi di fronte a tutto il gruppo, lo psicoterapeuta propone un’immagine di sé e un rapporto con il paziente più reali, mette in crisi il suo ruolo e la sua identità professionale in una prassi che definiamo rivoluzionaria, perché cerca la cura e la trasformazione dell’essere umano.

 

La psicoterapia di gruppo mantiene inoltre un legame con le origini della medicina, con quella ‘guarigione primitiva’ nella quale la crisi del singolo veniva affrontata alla presenza di tutta la tribù, ma soprattutto ricrea l’interpretazione dei sogni nell’antica Grecia, quando pubblicamente, negli angoli del Foro o negli Asclepiei, si ascoltavano i racconti delle immagini notturne misteriose che dicevano di un pensiero diverso, ma altrettanto reale di quello della veglia.

 

[...]

 

(pp IX – XIII).

 

[1] Negli anni accademici 2008-2009 e 2009-2010, presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Chieti, sono stati organizzati dalla cattedra di Psicologia dinamica alcuni incontri sulla psicoterapia di gruppo, ai quali ha partecipato un folto pubblico: studenti, colleghi, operatori nel campo della salute mentale.

[2] Massimo Fagioli nel 1970 scrive Istinto di morte e conoscenza, esponendo la sua teoria della nascita. Nel 1962 aveva pubblicato un articolo sulla percezione delirante ― Alcune note sulla percezione delirante paranoicale e schizofrenica ― nel quale c’era l’intuizione di un pensiero senza coscienza.

[3] Questo concetto è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza (VI Sezione penale) n. 14408, depositata l’11 aprile 2011. Chi svolge attività psicoterapeutica compie un atto medico e non può prescindere dall’iscrizione all’Albo dei medici e degli psicologi e dall’elenco speciale degli psicoterapeuti. I giudici della Corte, seguendo una logica giuridica ineccepibile, considerano la psicoterapia come un’attività diretta alla cura e alla guarigione di vere e proprie malattie e quindi da inquadrare nella professione medica. Questa precisazione della Cassazione ha un enorme significato da un punto di vista culturale, perché non solo sconfessa la posizione della psicoanalisi, spesso condotta per esplicito consiglio di Freud da non medici, ma si oppone anche alle idee dell’esistenzialismo e dell’antipsichiatria, che hanno demolito il concetto di malattia mentale e conseguentemente quello di cura.

 

dal capitolo 7, La psicoterapia di gruppo nell’istituzione:

 

7.3 / Il gruppo come strumento diagnostico per gli esordi

 

di Mariapia Albrizio

 

[...]

Nelle pagine che seguono affrontiamo la terapia di gruppo per giovani pazienti; le considerazioni metodologiche proposte derivano da un’attività pluriennale svolta in un’unità di ricovero per stati psicotici all’esordio. Occorre chiarire che il termine ‘esordio’ definisce in modo sommario tutte quelle situazioni psicopatologiche nelle quali, all’inizio del trattamento, sia trascorso meno di un anno dalla comparsa della sintomatologia clinica manifesta: una definizione che nulla dice né dell’eziologia né tanto meno della diagnosi.

 

La psichiatria pubblica attuale concentra il proprio intervento sul contenimento dei sintomi tramite i farmaci e sulla prassi assistenziale volta alla gestione socio-familiare dell’acuzie, fonte di allarme sociale. E nell’istituzione, una volta di più, si propone la scissione tra la somministrazione di farmaci, compito dei medici, e l’assistenza demandata agli psicologi; così i gruppi nei servizi psichiatrici, per lo più tenuti da psicologi clinici, rischiano di diventare “opzioni di approccio psicologico non a fini terapeutici”1.

 

Lo psichiatra deriva dal suo percorso di studi un’identità medica, ancorché relativa alle patologie del corpo, grazie alla quale individua e distingue la sanità, la malattia, la diagnosi e l’eziopatogenesi ed è in grado di mettere a punto una cura per la guarigione; si tratta di un metodo medico che lo psicologo clinico, laureato in psicologia, deve acquisire attraverso una formazione personale e che, ben lungi dall’essere una banale ibridazione2 con l’identità medica, è fondamentale per assumere a pieno l’abilitazione alla professione di psicoterapeuta che la legge 56/1989 conferisce. Operare nell’istituzione psichiatrica richiede, quindi, una severa e precisa riflessione sul metodo d’intervento che è opposizione e rifiuto delle dimensioni psichiche patologiche, come avviene in medicina, ma senza perdere di vista l’essere umano nel suo insieme perché, se il medico del corpo cerca e interviene su ciò che il paziente ha, differentemente in psichiatria si cerca e si interviene su ciò che il paziente è3.

 

La storia ci ha consegnato un eterno oscillare tra l’assistenza, che presuppone l’immutabilità della condizione altrui, e la repressione del pedagogo-custode che plasma e frena, dimensioni entrambe violente con cui si è sempre affrontata la realtà psichica umana; fermare il comportamento non è curare, e impostare una terapia farmacologica, come avviare al servizio territoriale, non è sufficiente. Occorre, allora, fondare l’intervento psicoterapeutico sulla proposizione forte di cura per la guarigione, intento reso possibile dalla fondazione di una psichiatria che individua con precisione l’eziologia della malattia mentale che è reazione a una noxa esterna, ‘virus invisibili’ insediatisi nel rapporto interumano. Svincolata dal paradigma biologico e da quello sociogenetico, la malattia mentale diventa trattabile con la psicoterapia che affronta e trasforma la dimensione non cosciente. In questo modo il contesto materiale o i vincoli istituzionali potranno portare a prassi diverse da quelle possibili nello studio privato, mai però con contenuto e intenti scissi: assistenziale nell’istituzione, terapeutico nelle stanze private degli studi professionali.

 

7.3.1 / L’intervento precoce nelle psicosi

 

Negli anni Novanta del Novecento si è affermata un’attenzione nuova per le fasi precoci della malattia mentale. Questa si articola sia sul piano della ricerca volta a individuare strumenti concettuali, valutativi e interventi di prevenzione primaria finalizzati a un’individuazione precoce di popolazioni ad alto rischio di sviluppo di psicosi, sia nel mettere a punto programmi efficaci di intervento nell’esordio psicotico e di prevenzione secondaria. La ricerca ha messo in luce le necessità specifiche dei giovani pazienti con psicosi all’esordio e gli effetti iatrogeni delle terapie e dei trattamenti tradizionali. I cardini su cui si sviluppa l’intervento precoce e l’incremento della prevenzione secondaria sono: riconoscimento tempestivo di nuovi casi, riduzione del ritardo nel mettere in atto un trattamento efficace, possibilità di ricevere un trattamento ottimale e prolungato nel periodo critico identificato nei primi anni di malattia. Ciò comporta una sostanziale riduzione della morbilità (incidenza dei nuovi casi di malattia sulla popolazione in generale), una prognosi migliore, un processo di guarigione più rapido, una migliore qualità della vita per i pazienti e per le loro famiglie.

 

Secondo l’impostazione più diffusa, il ‘paradigma dell’intervento precoce’ per i giovani alle prime crisi comprende il trattamento farmacologico tempestivo, la terapia cognitivo-comportamentale, gli interventi di psicoeducazione per veicolare informazioni, il supporto alle famiglie, la riabilitazione nelle capacità relazionali (social skills). Qui intravediamo chiaramente il limite di una psichiatria che, pur con il lodevole intento di incidere profondamente sugli esordi giovanili, riduce il suo intervento al solo livello cognitivo-comportamentale.

 

Per i giovani alle prime crisi, in particolari situazioni cliniche, può rendersi necessaria l’ospedalizzazione, che deve però inserirsi come fase di un progetto terapeutico complessivo che proseguirà, o che dovrebbe proseguire, nelle strutture territoriali. Le motivazioni che comportano il ricovero di un paziente giovane sono essenzialmente il rischio di recare danno a sé e agli altri con gesti autolesivi e aggressioni, il rischio di suicidio, l’abuso di sostanze sempre più frequente nella popolazione giovanile, un livello di crisi troppo accentuato per essere gestito dalla famiglia. Il ricovero inoltre interrompe, seppur momentaneamente, circuiti disfunzionali con la famiglia e con altri contesti sociali che possano essersi stabiliti già nel periodo precedente l’esordio4.

 

Teatro dell’esperienza di terapia di gruppo qui narrata è un reparto, in una clinica privata convenzionata, progettato sia strutturalmente sia organizzativamente sulla traccia delle linee guida internazionali per la psichiatria della prevenzione e dell’intervento precoce nelle psicosi (Early Psychosis Prevention and Intervention), secondo cui “gli interventi devono focalizzarsi non solo sui sintomi, ma anche in rapporto agli ambiti psicosociali e psicologici”5. Il reparto è significativamente diverso da altri, ha un numero relativamente basso di degenti ed è realizzato in modo da separare i pazienti al primo ricovero dai ‘veterani’, in una fase più cronicizzata della malattia. È stato creato un ambiente in cui il giovane paziente possa essere seguito nel modo più personalizzato possibile, seppure inserito in attività di gruppo. La logica organizzativa, pur necessaria, non deve prevaricare eccessivamente sull’attenzione al singolo e dunque l’individuo viene prima delle regole; l’ambiente di ricovero è sufficientemente amichevole e rassicurante per far sì che risulti il meno traumatizzante possibile, per proporre stimoli adeguati, proporzionati alle condizioni cliniche anche di chi abbia sviluppato uno stile di vita disfunzionale; vengono fornite chiare informazioni sulle procedure di ricovero e di terapia; si privilegia il rapporto nella gestione delle situazioni di agitazione e di acting out.

 

7.3.2 / Il senso del ricovero

 

La decisione di ricovero si verifica nella quasi totalità dei casi in situazioni drammatiche, senza la collaborazione dell’interessato o addirittura contro la sua volontà: il giovane paziente vi approda senza consapevolezza di malattia né richiesta di cura, chiuso in un mondo che, smarriti i confini e a volte il senso, lo spaventa, lo angoscia e lo perde, tingendosi di significati persecutori. Il paziente ricoverato, ancorché giovane e alla prima crisi, presenta una situazione grave di malattia conclamata in cui il comportamento e il pensiero cosciente denunciano lo sconfinamento nella patologia. Ma noi sappiamo che il disturbo del comportamento e del linguaggio articolato cela “un’alterazione distruttiva dell’immagine interna di sé stessi”6. Ci è chiaro, cioè, che il disturbo del pensiero manifesto e del comportamento è “solo un sintomo, cioè alterazione visualizzabile ma conseguente ad altra, un’alterazione invisibile”7 del pensiero senza coscienza.

 

All’esordio e nelle fasi iniziali il decorso della psicosi si presenta più tempestoso e solo successivamente diventa più stabile. La sintomatologia manifestata nel comportamento e nella coscienza è imponente, la malattia è più ‘estrema’ che nell’adulto, più frequenti sono gli acting out, più evidente è il disagio e mostra una grande variabilità e reattività, “una realtà fluida e mutevole”8 con atteggiamenti opposti di ribellione e accentuata dipendenza; tutto questo perché la patologia insorge in pazienti che attraversano una fase complessa della vita, l’adolescenza, nella quale occorre affrontare la trasformazione dell’identità, la comparsa della sessualità e l’accettazione della socialità.

 

In un reparto che accoglie giovani alla prima crisi, il quesito diagnostico maggiormente rilevante è se ci si trovi di fronte a un esordio schizofrenico, anche perché la sintomatologia così eclatante spesso induce falsi positivi. Nei pazienti giovani “l’insorgenza tumultuosa dei sintomi è connessa all’intensità e ricchezza del loro manifestarsi”9, ma non sempre la realtà sintomatologica è la verità mentale del paziente stesso: “Sintomi con elevata affidabilità, deliri, allucinazioni, risultano non specifici, secondari per porre diagnosi di schizofrenia, mentre fenomeni più globali, quali l’autismo, sembrano più specifici”10 e disegnano prognosi meno favorevoli.

 

Il ricovero di un ragazzo, anche se per un tempo breve, è comunque un evento drammatico, con un vissuto a volte catastrofico. Occorre allora che il ricovero, perché non rappresenti solo costrizione e temporanea perdita di ‘libertà’, si possa iscrivere in una cornice più ampia, possa rappresentare non una cesura ma un evento che rimetta in moto il prima e il dopo delle storie individuali e che sia l’aggancio, o l’inizio, per qualcos’altro che può essere solo una cura possibile.

 

La terapia di gruppo si colloca all’interno delle attività e degli strumenti operativi di cui si è dotato il reparto stesso. Questa attività è molto mutata nel corso degli anni: inizialmente era quotidiana e veniva condotta a turno da professionisti diversi, con impostazioni teoriche e metodologiche anch’esse diverse. Attualmente la conduzione del gruppo è affidata solo allo psicologo clinico.

 

Il gruppo di reparto individua uno spazio e un tempo speciali e si costituisce in un particolare assetto definito anche da fattori materiali (le sedie in circolo, la regola di non fumare durante lo svolgimento, stare seduti per tutto il tempo): il setting della terapia di gruppo si deve configurare come ‘zona franca’ di una socialità possibile. Tale situazione è immediatamente colta dai pazienti e lo stare insieme acquista uno spessore diverso dal tempo speso, pure insieme, in altri momenti del ricovero. Nel setting il terapeuta non insegna e non educa, ma in virtù della sua formazione personale affronta in un rapporto diretto la realtà pulsionale dei malati e fa sì che il gruppo non diventi un contenitore, uno sfogo di angosce reciproche, teatro per i più violenti, una socialità ‘vuota’ per passare il tempo e, in fondo, l’ennesimo annullamento dello stato di malattia. Il gruppo crea invece uno spazio-tempo circoscritto ma non chiuso, sufficientemente protetto ma non oppressivo, in cui lo stare insieme permette di ritrovare i propri confini e le proprie differenze, e ciò per i giovani pazienti, le cui identità hanno bruscamente smarrito il fisiologico evolversi e definirsi, diventa attraente nel senso letterale del termine.

 

Un atteggiamento attivo nella conduzione del gruppo risulta necessario per sviluppare un clima terapeutico, per dare uno spazio e coinvolgere i singoli pazienti, per creare connessioni e sottolineare nessi, per riportare il gruppo al ‘qui e ora’. La conduzione è quindi direttiva e propone con maggior nettezza l’identità del terapeuta, una realtà umana oltre il camice bianco, certezza della possibilità di trasformazione della situazione attuale.

 

Il senso dell’attività del gruppo di reparto si costituisce a partire da elementi che sono intrinsecamente connessi alla specificità di questi pazienti e al percorso virtuoso che il ragazzo o la ragazza debbono affrontare nel ricovero stesso. Individua inizialmente obiettivi che definiremmo operativi: favorisce una compliance con il ricovero, aumenta o crea una consapevolezza di malattia, coinvolge il paziente nel processo diagnostico e terapeutico, preparandolo alla prosecuzione del trattamento dopo il ricovero. Il gruppo di reparto inoltre può incidere sull’isolamento perché aiuta a condividere qualcosa con gli altri, anche semplicemente lo spazio fisico, contribuendo ad alleviare il timore e lo spaesamento provocati dal ricovero, che peraltro spesso rappresenta la prima separazione dall’ambiente familiare. Favorisce altresì un sentimento di appartenenza perché il gruppo di reparto ha una sua identità precisa, costituita nel tempo, una sua storia e una sua evoluzione, avvertita con esattezza dai pazienti che se ne sentono partecipi.

 

Nella fase adolescenziale il gruppo dei pari11 rappresenta un importante fattore fisiologico per l’individuazione del singolo: nel gruppo il ragazzo si sente più libero, sperimenta nuove modalità di relazione, si confronta. Per i nostri pazienti spesso questa esperienza è stata assente o fallimentare. Ritrovarsi tra coetanei, maschi e femmine, in ambiente protetto, sperimentare nel gruppo un modo nuovo di stare in rapporto con gli altri, ascoltare ed essere ascoltati, può arrivare a fondare una diversa percezione di sé. Permette, inoltre, di affrontare la paura e l’angoscia per ciò che accade in reparto, il comportamento bizzarro e terrorizzante di altri pazienti o le crisi violente che, di colpo, svelano il lato malato di qualcuno di loro.

 

È noto che, sia nei pazienti che nelle loro famiglie, la tendenza prevalente è la negazione della patologia che ha portato alla crisi manifesta, e che in psichiatria la mancanza di consapevolezza di malattia è indice di gravità e lo è ancor di più se questa consapevolezza non si sviluppa nel tempo. Il gruppo di reparto può dunque contribuire in maniera importante alla comparsa della consapevolezza di malattia nel momento in cui il paziente coglie in sé o in un altro la possibilità di una reversibilità dello stato attuale. Si può evidenziare allora la malattia come reazione non cosciente al rapporto, reazione patologica che assume forme diverse: il gruppo fa emergere quelle comunanze e ripetizioni che sempre si manifestano con la malattia e che non sono un modo personale di essere. D’altra parte, il non sentirsi soli e unici, è riconosciuto da vari autori12 come uno dei fattori terapeutici del gruppo e frantuma il pensiero onnipotente, sempre rintracciabile nei pazienti, di essere il caso unico e quindi incurabile. Il sintomo diventa così riconoscibile, affrontabile e, se è inteso come reazione a un rapporto, non è più strutturale, non è modificazione biochimica, c’è un inizio e una fine, non è un destino ineluttabile.

 

La psichiatria dell’intervento precoce individua vari stadi di sviluppo della psicosi e sottolinea l’importanza del trattamento nel periodo critico13, collocabile nei primi cinque anni di psicosi in cui molti pazienti vanno incontro a un sostanziale deterioramento cognitivo e sociale e sono esposti al rischio del suicidio. Infatti, dopo la prima crisi psicotica, episodio con remissione completa dei sintomi, vi è una fase caratterizzata da frequenti ricadute14 che, se ben trattata, può concludere la vicenda patologica del soggetto senza approdare alla cronicità che a tutt’oggi connota la psicosi. Appare chiaro, quindi, che il mandato di chi accoglie il paziente al primo ricovero è anche quello di costruire l’adesione del giovane e della sua famiglia a un progetto terapeutico successivo, pena l’avvio di quella dolorosa serie di ricoveri nota come revolving door. Ma la cultura prevalente ha un’idea ‘pessimista’ della malattia mentale, risentendo in questo non solo di disinformazione o cattiva informazione, ma essendo ancora pesantemente intrisa di quel pensiero religioso che confonde la malattia con il male e individua nel suo insorgere l’annuncio di un destino, di un’incurabilità che si evolverà nella cronicità. Una conferma di questo è che il tasso di abbandono dell’iter terapeutico nei pazienti alla prima crisi è molto alto durante tutto il primo anno di insorgenza.

 

Il gruppo di reparto che costruisce l’adesione a un progetto terapeutico coinvolge il paziente nel suo percorso terapeutico, veicolando la possibilità di rendersi responsabile e protagonista, e può costituire la prima introduzione alla psicoterapia; rappresenta un’occasione di conoscenza sulla malattia di rapporto, non è soltanto informativo e opera su un piano più profondo di quello meramente cognitivo, anche se la verbalizzazione rimane al livello di lettura del percepibile, del comportamento visibile e cosciente; individua i problemi, certo non arriva all’elaborazione, ma può aiutare a identificare le reazioni patologiche e i pensieri sottostanti.

 

Il gruppo di reparto ‘propedeutico’ alla psicoterapia arriva a proporre una speranza che per alcuni si spegne con il tempo del ricovero, per altri può proseguire con un percorso terapeutico vero e proprio: dall’essere portati a curarsi, passivi e recalcitranti, a cercare per sé una cura.

 

7.3.3 / Il significato terapeutico

 

Il clinico stabilisce nel gruppo un rapporto diverso, più diretto, senza mediazioni istituzionali, più intuitivo, meno razionale. Questa caratteristica che si è andata affermando nel tempo, deriva sia da una definizione del gruppo stesso che poggia su una storia, sia da una maggiore confidenza e sicurezza dello psicoterapeuta con lo strumento-gruppo, per cui sempre meno incidono il turnover, legato ai nuovi ingressi e alle dimissioni, la diversa tipologia di pazienti o ancora quelle situazioni tipiche nel reparto per cui si fondano sottogruppi e alleanze spesso patologiche. Così l’eterogeneità dei pazienti, pur modificando di volta in volta il gruppo, non ne altera i fondamenti.

 

Nel gruppo la frustrazione, anche se implicita, è opposizione all’assenza, alla frequente ricerca di ‘anestesia affettiva’ che connota tutti i pazienti: fermare il movimento distruttivo verso sé stessi e gli altri è già un atto terapeutico, perché propone la presenza e l’attività del terapeuta, basata sulla possibilità di riconoscere le dinamiche patologiche. È tale pensiero che permette l’attività di scontro con ciò che è distruttivo, quella violenza non comportamentale, invisibile, fatta di vuoti e assenze, che è alterazione del pensiero. Il rapporto umano concreto può incrinare tale onnipotenza.

 

Il giovane, ammalatosi in una storia di rapporti deludenti, di assenze e mancate risposte, propone una realtà psicotica, “non riesce a stabilire un rapporto”15, rimanendo imprigionato in un essere senza divenire. Nella condizione di malattia il tempo umano si altera, si blocca, si ripete rimanendo uguale a sé stesso, rallenta e perde la realtà, perde quel movimento verso, il cui motore è la speranza-certezza che qualcuno risponderà, per soddisfare le esigenze che fanno sì che l’identità evolva e si trasformi. Nel gruppo, anche se il comportamento è fermo, la presenza e il pensiero sono sollecitati dal fatto stesso di ‘essere nel gruppo’. Il terapeuta propone nel rapporto il senso del divenire che si oppone al tempo fermo o sospeso della malattia e distingue ciò che è annullamento assoluto, per cui ogni gruppo è un ‘atto senza domani’, dalla negazione, per cui qualcosa è intuìto, ma alterato; propone nel rapporto un pensiero non scisso che si oppone al pensiero sconnesso, scucito, frammentato dei pazienti stessi. Con ciò il gruppo tenta di ridare umanità al tempo.

 

7.3.4 / La diagnosi

 

Fare diagnosi in psichiatria e su ragazzi giovani presenta indubbiamente delle criticità. Tra gli obiettivi istituzionali del reparto vi è quello di mettere in atto un processo il più possibile accurato di assessment focalizzato sia sugli aspetti diagnostici che su quelli prognostico-terapeutici. Nel tempo il gruppo ha evidenziato che esiste un aspetto del processo diagnostico che si rivela peculiare di tale attività e che si aggiunge, forse completandola, alla diagnosi nosologico-descrittiva, la diagnosi psichiatrica propriamente intesa, soprattutto in una popolazione, come quella di giovani alla prima crisi, in cui la diagnosi di stato è per definizione ‘provvisoria’, dato che uno dei criteri rimane ancora la durata. In una metodologia di intervento volta ad affrontare la malattia per curarla, i criteri nosografici basati su un elenco di sintomi, sganciati dal loro divenire temporale e dal loro mutare nel momento intersoggettivo, rischiano di essere uno strumento ‘stretto’ e insufficiente. La condizione clinica, i quadri sintomatologici dei pazienti fanno cimentare la professionalità del clinico nella diagnosi differenziale tra un disturbo schizofrenico o affettivo o una psicosi acuta breve.

 

Nel gruppo il terapeuta può cogliere e comprendere suoni sinora silenti o inavvertiti. “In psichiatria bisogna sempre mantenere l’osservazione clinica perché non c’è nessuna radiografia [...] che possa farci vedere una negazione, una pulsione o un’immagine mentale. La devi scoprire soltanto con il senso clinico”16. Nel gruppo il terapeuta propone un movimento umano, il riavvio dell’inerzia, e ciò mobilita e amplifica i fenomeni affettivi, sia gli affetti negativi e distruttivi che quelli, più rari, positivi ed evolutivi. Il gruppo di reparto, rendendo cioè evidenti aspetti del paziente fino ad allora in ombra, non visibili in altre situazioni, costruisce la diagnosi ‘come reazione a’.

 

Il sintomo spesso è un’illusione di movimento in una vita arrivata a essere troppo vuota e ferma. Certi acting out in cui i muscoli legati agli affetti muovono il corpo nello spazio lasciando ferma la mente, certi deliri floridi mai molto strutturati, sono la finzione di un pensiero sul mondo e sugli altri, laddove il pensiero si è perso. Certe noie apparentemente legate al ricovero, in verità imprigionano i giovani pazienti in un’eterna ricerca di qualcuno (un amico) o, nel peggiore dei casi, di qualcosa che li riempia (da cui l’abuso di sostanze frequente in questa tipologia di pazienti).

 

La situazione gruppale permette non solo una diagnosi, altrimenti impossibile, ma ammettendo, come ormai dimostrato, la possibilità di decorsi ed esiti tra i più svariati, costruisce un’ipotesi sufficientemente attendibile sulla prognosi, perché permette una diagnosi più precisa dello ‘stare in rapporto’, come anche l’evidenziazione di potenzialità altrimenti latenti, di lati liberi da malattia. Lo stare insieme nel gruppo riesce a svelare l’umano anche quando è nascosto sotto una sintomatologia florida o dietro apparenti deficit cognitivi.

 

Solo rimane, chiuso nella stanza della torre, murato nella sua ‘testarda inattività’, lo schizofrenico: per lui, “autista manierato”17, il gruppo semplicemente non esiste. Entra nella stanza e si mette a fumare; si siede sulla sedia e si mette a parlare; se portato rimane come statua immobile, convitato di pietra in una situazione umana che non lo sfiora. Dalla prassi clinica di questi anni si evidenzia che è l’unica tipologia di paziente per il quale, nel tempo breve del ricovero, l’esperienza del gruppo rimane inaccessibile, vuota, inutile.

 

Perché la cura sia possibile, occorre invece che il paziente ritrovi in sé una possibilità di rapporto oggettuale, ritrovi le possibilità libidiche. Su questa dimensione smarrita si dovrebbe intervenire all’interno del setting del gruppo di reparto, mentre non si può operare a livello trasformativo sulla perdita dell’identità umana. La terapia di gruppo in un reparto ospedaliero per giovani ha un forte impatto sulla dimensione della vitalità, permette di ritrovare, o per lo meno fa intravedere, un lampo di movimento verso, e fa riapparire così quel sufficiente rapporto oggettuale che porterà il ragazzo o la ragazza all’appuntamento con il proprio psicoterapeuta.

 

(pp 280 – 291)

 

 

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[1] M. Dario, Che cos’è l’istituzione, in Un incontro sulla psicoterapia di gruppo nelle istituzioni, ne “Il sogno della farfalla”, 1, 2010, pp 41-44.

 

[2] Dissentiamo con forza da Renzo Carli quando afferma: “Per integrare realtà diverse, è importante che la diversità venga accettata e ribadita con forza; quando le diversità sfumano, sino a confondersi in processi di ambigua ibridazione, all’integrazione si sostituisce un movimento di mortificante subordinazione”: R. Carli cit. ne La psicologia nella crisi psichiatrica, a cura di M. Sparvoli, S. Di Massimo, Alpes Italia, Roma 2008, p. 28.

 

[3] Marcella Fagioli, L. Fagioli, La diagnosi psichiatrica: il ruolo del medico in medicina generale, ne “Il sogno della farfalla”, 3, 2010, pp 24-34.

 

[4] R. M. Menichincheri, Il ricovero nelle psicosi all’esordio, in Percorsi innovativi in salute mentale, a cura di A. Balbi et al., Alpes Italia, Roma 2006.

 

[5] J. Edwards, P. McGorry, Intervento precoce nelle psicosi, Centro Scientifico, Torino 2004, p. 157.

 

[6] Marcella Fagioli, Premessa, in G. Zilboorg, G. W. Henry, Storia della psichiatria, ed. it. a cura di Marcella Fagioli, Nuove Edizioni Romane, Roma 2001, p. VIII.

 

[7] Ibidem.

 

[8] M. Ammaniti, a cura di, Manuale di psicopatologia dell’adolescenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 14.

 

[9] P. Sarteschi, C. Maggini, Manuale di psichiatria, SBM, Parma 1982, p. 548.

 

[10] A. Ballerini, Psicopatologia fenomenologica: percorsi di lettura, CIC edizioni internazionali, Roma 2002, p. 38.

 

[11] La peer education è una strategia educativa, particolarmente utilizzata per la prevenzione e la promozione della salute, che vuole favorire la comunicazione tra adolescenti riattivando un processo naturale di passaggio di conoscenze, emozioni, esperienze interne al gruppo di pari (e con ‘pari’ si intende chi condivide uno stesso gruppo sociale come riferimento identitario). Tale approccio prevede una stretta integrazione tra adulti e ragazzi, tra informazione verticale e orizzontale.

 

[12] I. D. Yalom, M. Leszcz, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

 

[13] M. Birchwood et al., Early intervention in psychosis: the critical period hypothesis, in “The British Journal of Psychiatry”, 172(33), 1998, pp 53-59.

 

[14] Nei primi cinque anni di malattia si verifica una ricaduta nell’80% dei pazienti; cfr. J. Edwards, P. McGorry, Intervento precoce nelle psicosi cit., p. 13.

 

[15] Massimo Fagioli, Storia di una ricerca – Lezioni 2002, Nuove Edizioni Romane, Roma 2007, p. 47.

 

[16] Ivi, p. 56.

 

[17] Id., Problemi di psicoterapia nel 1962-1963: un dibattito, ne “Il sogno della farfalla”, 1, 2001, pp 25-99.

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Daniela Colamedici, Andrea Masini, Gioia Roccioletti

Massimo Fagioli, Andrea Masini, Daniela Colamedici e Gioia Roccioletti alla presentazione de "La medicina della mente", il 4 novembre 2011, nella libreria Feltrinelli Orlando di Roma. Fotografia di Sandro Righetti tratta dall'album di Segnalazioni).

Massimo Fagioli, Andrea Masini, Daniela Colamedici e Gioia Roccioletti alla presentazione de La medicina della mente,

il 4 novembre 2011, nella libreria Feltrinelli Orlando di Roma. Fotografia di Sandro Righetti tratta dall’album di Segnalazioni).

 

Daniela Colamedici

 

Daniela Colamedici è medico, psicologo clinico e psicoterapeuta. Professore a contratto di Teoria e tecnica delle dinamiche di gruppo presso l’Università di Chieti, è autrice di diverse pubblicazioni sull’origine biologica della mente e sulla psicoterapia. Svolge attività professionale nella psicoterapia individuale e di gruppo.

 

Andrea Masini

 

Andrea Masini è medico psichiatra e psicoterapeuta. Professore a contratto di Psicologia dinamica presso l’Università di Chieti, è direttore della rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla e autore di numerose pubblicazioni. Lavora nei servizi psichiatrici pubblici svolgendo psicoterapia individuale e di gruppo.

 

Gioia Roccioletti

 

Gioia Roccioletti è medico psichiatra, psicoterapeuta e professore associato di Psicologia dinamica presso l’Università di Chieti. Autrice di numerose pubblicazioni nell’ambito della psicoterapia e della psicopatologia, svolge attività professionale nella psicoterapia individuale e di gruppo.
 

dalla quarta di copertina de La medicina della mente

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