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Lydia Cacho

 

Schiave del potere

Una mappa della tratta delle donne e delle bambine nel mondo

 

2010

 

traduzione di Andrea Grechi e Fiamma Lolli

 

Fandango libri, Roma

 

Il sito di Lydia Cacho

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Lydia Cacho: "Schiave del potere - Una mappa della tratta delle donne e delle bambine nel mondo", traduzione di Andrea Grechi e Fiamma Lolli, Fandango libri, Roma, 2010.

 

Non c’è una “sana e libera” separazione di un corpo umano dalla sua umanità

 

Lydia Cacho: "Schiave del potere - Una mappa della tratta delle donne e delle bambine nel mondo", traduzione di Andrea Grechi e Fiamma Lolli, Fandango libri, Roma, 2010.

La copertina del libro

Non c’è una “sana e libera” separazione

di un corpo umano dalla sua umanità

di Luigi Scialanca

 

Il Partito democratico, i suoi dirigenti, i militanti, gli elettori, sanno o non sanno che l’idea che si possa comprare e vendere un essere umano è idea malata, sintomo di malattia mentale? E che l’idea che in un essere umano si possano separare, per poter venderli e comprarli, il corpo dagli affetti, il corpo dalla mente, il corpo dalla storia dell’essere umano ― in una parola: il corpo dalla sua umanità ― è idea non meno malata e sintomo di malattia mentale non meno grave?

 

Forse non lo sanno più, cioè sono malati essi stessi, ed è per questo che non vedono malattia nell’idea della senatrice Maria Spilabotte e del Partito democratico (con l’autorevole sostegno di Alessandra Mussolini) di presentare un disegno di legge (sedicente) di Regolamentazione del fenomeno della prostituzione (in realtà di Depenalizzazione del favoreggiamento della prostituzione) che propone “due strategie: la decriminalizzazione dell’adescamento e del favoreggiamento, da un lato, l’individuazione [dall’altro] di regole minime che indichino dove si può e dove non si può esercitare” e, naturalmente, una “autorizzazione” statale all’esercizio della prostituzione “sia in forma individuale (comprendendola nelle attività di cui al titolo III del libro V del codice civile ― lavoro autonomo) che in forma cooperativa” al costo semestrale “di euro 6.000 per l’attività full time e 3.000 per la part time: un giusto costo, considerando che su centocinquanta giorni lavorativi si pagherebbero circa 20 euro al giorno, che è già meno del prezzo medio per prestazione stabilito in almeno 30 euro”. Il tutto purché, è ovvio, “le persone autorizzate si assoggettino ai regimi fiscali e previdenziali previsti dalle normative vigenti”.

 

Una delle due: o la senatrice Spilabotte e il Pd non sanno che ciò che chiamano “esercizio della prostituzione” è in realtà, sempre, esercizio di violenza. O lo sanno, ma non sanno... quel che fanno.

 

Scrive così, nel suo disegno di legge, la senatrice Spilabotte: “Una regolamentazione è necessaria, perché non regolamentare o, peggio, proibire, produrrebbe solo una sostanziale indifferenziazione tra libere scelte di autodeterminazione e prostituzione coatta, sfruttata e gestita dalle organizzazioni criminali di tutto il mondo che nel nostro Paese gestiscono la tratta delle donne, soprattutto minori, sfruttandole, soggiogandole, sottoponendole a violenze indicibili attraverso l’impiego della minaccia. [...] Paradossalmente, alcune norme volte a scoraggiare lo sfruttamento della prostituzione [...] si stanno rivelando, a distanza di tempo, costrittive per chi liberamente vuole esercitarla, con maggiore attenzione alle proprie salute e sicurezza. Si pensi in particolare al reato di adescamento e al reato di favoreggiamento che la legge Merlin prevede per chi mette a disposizione locali nei quali è esercitata la prostituzione. All’effetto desiderato di porre fine allo sfruttamento della prostituzione nelle case chiuse se ne sono aggiunti altri non voluti, come l’impossibilità di esercitare volontariamente la prostituzione al chiuso, nelle abitazioni, da parte di più donne che così facendo potrebbero condividere le spese ed effettuare una sorta di mutuo aiuto, o il dilagare della prostituzione di strada, con le note conseguenze negative per la salute e per la sicurezza o in termini di consenso da parte di cittadini. Bisogna distinguere tra chi decide più o meno liberamente di prostituirsi, magari nel suo appartamento, dalle ragazze, spesso minorenni, e dalle donne che vengono fatte arrivare in Italia con l’inganno e la forza”.

 

Ma sanno o non sanno, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che non c’è modo di distinguere una “libera” (o “libero”) professionista del sesso (disumanizzato) da una giovane donna o da un giovane uomo che fin da bambini, sistematicamente, furono ingannati e fatti impazzire, sedotti e fatti impazzire, abbandonati e fatti impazzire, drogati e fatti impazzire, stuprati e fatti impazzire? E che loro stessi, tra non molto, cominceranno a fare altrettanto ad altre bambine e bambini? E che la legalizzazione della prostituzione entra a far parte, sotto forma di propaganda commerciale, del circuito d’inganni, seduzione, abbandono, droga e stupro che ne farà impazzire moltissimi altri?

 

Sanno o non sanno, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che la prostituzione legalizzata e la tratta delle schiave e degli schiavi (anche e soprattutto bambine e bambini) sono fittamente interconnesse in tutto il mondo? E che nessuna (nessuna) bambina e nessun (nessun) bambino al mondo diventerebbero schiavi sessuali se non vi fossero “libere” (o “liberi”) “professioniste” (o “professionisti”) che a ciò “sapientemente” li spingono e li conducono approfittando della loro miseria, della loro solitudine, della loro ingenua fiducia e della loro speranza? E che le “libere” (o “liberi”) “professioniste” (o “professionisti”), messi in rete da potenti industriali del sesso disumanizzato, concorrono alla costituzione degli ingenti capitali che finanziano la tratta globale delle schiave e degli schiavi?

 

Sanno o non sanno, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che prostituirsi non è possibile senza drogarsi (pesantemente) per “superare” il disgusto che certi “clienti” suscitano? E che “scegliere” i clienti (ammesso e non concesso che a talune/i sia possibile) è “privilegio” di pochissime/i? E che la tossicodipendenza, oltre che minare la salute, rende anche le più “libere” (o “liberi”) “professioniste” (o “professionisti”) complici di criminali e delinquenti e ricattate da poliziotti corrotti?

 

Sanno o non sanno, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che i “liberi” clienti delle “libere professioniste” e dei “liberi professionisti” del sesso disumanizzato sono uomini (e talora donne) malati, e che la “libera” disponibilità di corpi in vendita patologicamente separati dalla propria umanità rende i “clienti” sempre più malati e, quindi, sempre più pericolosi per sé e per gli altri?

 

Sanno o non sanno, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che i criminali violentatori di bambine e di bambini che sciamano per il mondo in cerca di sempre nuove vittime provengono, tutti, dalle fila della clientela delle prostitute e dei prostituti cosiddetti “liberi” (anche se di essi, evidentemente, non sono soddisfatti e non si accontentano)? O forse credono, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che gli stupratori pedofili escano dalle fila dei clienti dei librai?

 

Sanno o non sanno, le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini, che le televisioni italiane, berlusciste e non, da un quarto di secolo tentano di indurre le bambine e le ragazze a credersi niente di più che oggetti sessuali? E che in tal modo hanno fornito e forniscono un potentissimo aiuto alle piccole e grandi imprese del sesso disumanizzato (alcune delle quali, come i processi hanno dimostrato, al diretto servizio dei proprietari di quelle televisioni) i cui agenti battono sistematicamente il Paese e il mondo alla ricerca di giovani e giovanissime da avviare a “professioni” che della prostituzione sono la diretta anticamera? E che ognuna di quelle ragazze, una volta “avviate”, sarebbero pronte a giurare, e in buona fede, di aver fatto sempre e soltanto quel che “volevano” fare?

 

Se le “onorevoli” piddin-exfasciste Spilabotte e Mussolini niente sanno di tutto ciò, mi permetto di invitarle a leggere Schiave del potere ― Una mappa della tratta delle donne e delle bambine nel mondo, di Lydia Cacho (o almeno, se di leggere un intero libro non son capaci, le dieci paginette di estratti che seguono). E se invece sanno tutto, e magari anche di più, be’, allora mi permetto di domandare loro che effetto faccia aver conseguito il potere di sostenere per mezzo di leggi della Repubblica italiana (consapevolmente? inconsapevolmente?) le miliardarie tirannie globali della disumanizzazione sessuale che vogliono la cancellazione dei reati di adescamento e favoreggiamento perché la prostituzione sembri ancor più “normale” alle bambine e ai bambini sui quali vogliono mettere le mani. Che effetto faccia aver conseguito il potere di sostenere per mezzo di leggi della Repubblica italiana (consapevolmente? inconsapevolmente?) i violentatori pedofili che, camuffati da “liberi professionisti”, in tutto il mondo si dedicano alla disumanizzazione delle bambine e dei bambini abbandonati. E che effetto faccia, infine, aver conseguito il potere di tramutare per mezzo di leggi la Repubblica italiana in una maîtresse, in una ruffiana, in una sfruttatrice della prostituzione attraverso le tasse; e, con la Repubblica, di tramutare in lenoni anche tutti i cittadini che dei proventi di tale sfruttamento fruirebbero attraverso i pubblici servizi.

 

Lydia Cacho

 

Schiave del potere

Una mappa della tratta delle donne e delle bambine nel mondo

 

(i numeri tra parentesi sono quelli delle pagine da cui sono stati tratti i brani citati)

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Soggiogate da un’economia di mercato disumanizzante, che ci è stata imposta come destino ineluttabile, milioni di persone considerano la prostituzione un male minore e scelgono di ignorare lo sfruttamento e i maltrattamenti che comporta, insieme a un sempre maggior potere del crimine organizzato, dove più dove meno, nel mondo intero.

(10).

 

La sofisticazione dell’industria sessuale a livello mondiale ha creato un mercato che molto presto supererà il numero di esseri umani venduti all’epoca della schiavitù africana, dal XVI al XIX secolo.

(12).

 

Sebbene tutte le forme che assume la tratta di esseri umani rispondano a una ricerca del potere economico, quella sessuale alimenta, rigenera e rafforza una cultura di normalizzazione della schiavitù come risposta possibile alla povertà e alla mancanza di accesso all’educazione per milioni di donne, bambine e bambini. Il potere dell’industria internazionale del sesso si basa sulla mercificazione del corpo umano, visto come un bene passibile di sfruttamento, acquisto e vendita senza il consenso della sua proprietaria. Steve Harper, che del mercato e dell’industria del sesso è uno fra i maggiori protagonisti e promotori, in un’intervista rilasciata in occasione della fiera mondiale del sesso Sexpo 2009 ha dichiarato: “Non facciamo confusione. Tutto questo ha a che vedere con i soldi, non con le persone”. “Make no mistake. This is all about money, not people” è lo slogan che Harper utilizza nei corsi di formazione per imprenditori del sesso. I milioni che questi investitori spendono annualmente per creare una lobby politica a favore della normalizzazione della schiavitù potrebbero salvare dalla fame un’intera nazione.

Prima di intraprendere questo viaggio, un generale in congedo dell’esercito messicano mi disse che per un trasporto illegale di kalashnikov AK-47 bastano un imballaggio adeguato, un acquirente, un intermediario statale corrotto e un venditore. Una schiava, invece, deve essere convinta che la sua vita non abbia alcun valore, tranne che per il suo acquirente e il suo venditore. Il potere dei trafficanti si basa sulla cancellazione di qualsiasi possibilità di vita libera e dignitosa per le potenziali vittime. Nel mondo la povertà non è solo terreno fertile, ma motore di sviluppo della schiavitù di donne e uomini. E la complicità degli apparati governativi è innegabile.

(16).

 

Fintanto che la prostituzione sarà avallata o regolata dai governi, qualsiasi politica pubblica volta a stabilire una distinzione tra vittime e “professioniste” non produrrà risultati.

(26).

 

Un fenomeno che ho ritrovato ovunque nel mondo: funzionari pubblici dei ministeri degli Esteri, così come consoli e addirittura alcuni ambasciatori, si prestano a emettere passaporti autentici partendo da certificati falsi. Il mio intervistato evoca le complessità nell’individuazione di una schiava sessuale qualora i documenti siano legali: se gli agenti dell’immigrazione si basassero sulle apparenze o sui semplici sospetti, le frontiere diventerebbero un caos.

(32).

 

Secondo i rapporti di Save the Children, là dove la prostituzione delle adulte è legalizzata, molti pedofili chiedono asilo e diventano una clientela fedele che incrementa il mercato dello sfruttamento sessuale dell’infanzia.

(33).

 

“Non si poteva scappare, perché in Turchia i bordelli sono legali. I clienti migliori erano poliziotti e politici; tenevano talmente da conto la padrona, che mandavano le loro infermiere a visitarci, perché si presumeva che fossimo le prostitute più sane e obbedienti di tutta la Turchia”. Ci vollero anni prima che Ulla ammettesse con sé stessa che una delle donne del postribolo l’aveva resa dipendente dall’oppio e che fu grazie a quella dipendenza che poté superare il terrore di vivere rinchiusa, costretta a prostituirsi e a essere stuprata ogni giorno da dieci o dodici uomini: “L’oppio”, mi spiega, “mi permetteva di volare, di non sentire, di non stare lì, di non essere me stessa”.

[...] La storia di Matilde Manukyan, la grande maîtresse turca, è un esempio perfetto di come alcune ruffiane diventino trafficanti di schiave sessuali. Non solo lavorano con il sistema alleandosi con polizia e governo, ma si spingono a mettere in piedi attività lecite in modo riconosciuto e addirittura stimato all’interno di determinati gruppi sociali, incluse le élite aristocratiche e politiche. Una volta inserita nel sistema della prostituzione legale, Manukyan si fece strada nell’ambito del traffico di minori. In seguito trasformò il denaro ricavato dal traffico di donne e bambine in solidi investimenti, arrivando a possedere, prima di morire, tre alberghi a cinque stelle, 120 appartamenti in varie località turistiche della Turchia, una ditta di esportazioni e un’impresa di autonoleggio con autista con un parco macchine di oltre 300 modelli di gran marca. [...] Costruì anche un albergo in Germania e possedeva un megayacht di lusso su cui ospitava i suoi potentissimi amici.

Il caso di Matilde mi aiuta a cogliere la complessità necessaria ad analizzare [...] la differenza tra prostituzione e sfruttamento sessuale a fini commerciali. In quale momento una donna coinvolta nella prostituzione legale decide di rendere schiave adolescenti e bambine? Quante ruffiane come Matilde esistono nel mondo, che in questo preciso momento stanno compiendo scelte decisive per la vita e il futuro di una bambina o di un’adolescente in nome del principio “se va bene per me, va bene per chiunque”? Che cosa succede quando prostituzione e tratta si incrociano? Quando la persona che gestisce le prostitute ha potere economico e politico, allora nulla si può fare per disarticolare la rete della schiavitù interna al sistema legale.

(37-38).

 

Lo schiavismo richiede l’esistenza della prostituzione legale perché sia sempre più difficile distinguere che cosa sia lecito e che cosa no. [...] Ecco perché ci sono tante persone interessate a fare pressione per regolamentare la prostituzione.

(44).

 

L’alterità gioca un ruolo centrale: quanto più un paese, o un gruppo sociale, è conservatore e religioso, tanto più chiude un occhio sullo sfruttamento sessuale di bambine, bambini e donne appartenenti ad altre etnie, confessioni religiose o nazionalità.

(49).

 

Le tecniche di “approvvigionamento” dei trafficanti sono sempre le stesse, in qualsiasi paese: in molti casi bambine e adolescenti sono vendute dai familiari o da persone conosciute nella comunità, i bordelli sono diretti da donne e gli schiavisti minacciano le vittime, bambine o donne che siano, mostrando loro le fotografie pornografiche scattate durante gli stupri iniziatici cui sono sottomesse.

(53).

 

Se siete in cerca di spiegazioni semplici, in queste pagine non ne troverete. La cosa più difficile è intuire le forme assunte dai confini tra ciò che è lecito e ciò che è illecito all’interno di un’economia globale. In ambito criminale, come in ambito politico, i confini sono invisibili, flessibili e permeabili.

(65).

 

L’industria del sesso, per via della sua natura ambigua al confine tra lecito e illecito, prevale su tutte. Non genera ancora gli stessi introiti del traffico di stupefacenti o di armi, ma si è conquistata un posto nelle reti commerciali globali con abilità esemplare. Il suo segreto risiede forse nell’ingente quantità di mafiosi che dalle province sono riusciti a raggiungere i governi centrali, rafforzando così ciò che Misha Glenny, autore di McMafia: droga, armi, esseri umani. Viaggio attraverso il nuovo crimine organizzato globale ha chiamato “nessi politico-criminali”, cioè relazioni profondamente corrotte fra soggetti di grande potenza economica e capi di partiti politici. Che si tratti di Chen Kai nella provincia di Fujian, in Cina, di Kamel Nacif nello stato di Quintana Roo, in Messico, o di Michel Galardi nel Nevada, negli Stati Uniti, non fa differenza. I magnati che si sono arricchiti con attività opache, per usare un eufemismo, riescono a ripulire il denaro sporco investendo in campagne politiche, comprano candidati come comprerebbero oggetti di lusso e donne, impongono leggi a loro favorevoli e conquistano così l’impunità. Nei paesi in via di sviluppo l’impatto sociale delle mafie sulle comunità in cui agiscono è più evidente. Sono i cartelli a costruire scuole, pavimentare strade e tirar sù ospedali e chiese. È difficile trovare un mafioso di alto livello che non sia entrato nel mercato globale diversificando la propria offerta e i rapporti criminali e politici. Le due aree d’azione che preferisce sono i casinò e i postriboli: potere, denaro, piacere.

(108-109).

 

La sua voce ha un tono involontariamente cinico, come quella dei milioni e milioni di uomini che, in ogni angolo del mondo, ripetono fino alla nausea la solita solfa: che sono le schiave a mettersi in condizioni di schiavitù...

(135).

 

 

Io non lo so se una è pazza perché non le piace ubbidire...

(dal capitolo “Arely, riscattata dalla morte”)

 

Arely, diciannove anni, è una venezuelana biondo platino. Seduta in una poltrona del rifugio del Ciam (Centro Integral de Apoyo a la Mujer), abbraccia un coniglietto di pezza; a volte si esprime come una seduttrice, altre sembra una bambina spaventata. Sul collo ha ancora i segni delle mani maschili che hanno tentato di strangolarla; sulla sinistra si distinguono nettamente le chiazze violacee delle grosse dita del suo aggressore. Parla senza fermarsi, gesticolo e ricaccia indietro le lacrime.

[...] Il suo racconto presenta una notevole similitudine con le storie di bambine e ragazze di altri paesi. Nelle case in cui vengono alloggiate le vittime si fa largo uso di pornografia e film erotici per creare una cultura di accettazione e normalizzazione dello sfruttamento. Gli schiavisti convincono le donne che il sogno di diventare pornostar sia per loro naturale e realizzabile. Così le portano a credere che lo sfruttamento sarà solo temporaneo e che presto potranno diventare donne famose e libere nell’industria del sesso, che per loro è l’unica scelta possibile. I trafficanti giurano e spergiurano di addestrarle a diventare le migliori e che, una volta raggiunta una posizione di potere, saranno in grado di scegliere.

Le tecniche di induzione sono simili in tutto il mondo, soprattutto ai livelli più alti, come quelli dedicati alla promozione di escort, massaggiatrici e ballerine destinate a imprenditori e uomini di potere in generale. Quei soggetti non vogliono ritrovarsi con una donna che sembri una prostituta, né tanto meno con una che li faccia sentire costretti a pagare per fare sesso, bensì con una giovane bella e docile che reciti la parte dell’innamorata o della loro “amica speciale”. Per questo Arely imparò molto presto a chiamare i clienti “amore mio”, “vita mia”, “tesoro”, “papi”, “cucciolo mio” o “mia delizia”, nomignoli che simulano un affetto e facilitano la percezione dello sfruttamento come transazione commerciale onesta e da pari a pari.

[...] “Sì, mi sentivo una pazza. Mi dicevano: «Che razza di ingrata che sei, che pezzente». Loro mi avevano salvata dalla miseria in Venezuela ed ecco come li ripagavo, facendo la ribelle. E io pensavo, sarò mica pazza? A me non piace questa cosa che mi fanno fare sesso con la forza, a volte mi fanno schifo, sono stanca, puzzano. Non mi piacciono gli ubriachi. «Ma questo è un lavoro come un altro» mi diceva la signora che mandava avanti la villa. Io volevo solo ballare e fine. Io non lo so se una è pazza perché non le piace ubbidire”.

[...] Le psicologhe del rifugio mi raccontano le sue condizioni quando la trovarono: “Sapevamo che Arely non era pazza. Come migliaia di altre donne vittime della violenza e della tratta a fini di sfruttamento sessuale, anche lei si dimostrava disperata di fronte a una situazione delirante. I padroni dei locali notturni di Monterrey l’avevano mandata a lavorare sulla piazza di Cancùn, e lei moriva dalla voglia di uscire da quella forma di schiavitù, ben sapendo che il tentativo sarebbe potuto costarle la vita. Eppure lo ha fatto. Per due giorni interi vomitò qualsiasi cosa ingerisse; eravamo praticamente certe che l’avessero resa dipendente da qualche droga ma lei, nonostante mostrasse tutti i sintomi dell’astinenza, ripeteva di no. Alla fine riuscimmo a capire che quei sintomi non derivavano da una tossicodipendenza, bensì dalla consapevolezza opprimente del modo in cui era stata ridotta a vittima, unita allo stress post-traumatico e al dosaggio massiccio di sedativi iniettatole irresponsabilmente dal medico del carcere”.

[...] In una jeep dai cristalli oscurati la responsabile della sicurezza del rifugio, una psicologa e io accompagnammo la ragazza alla sede dell’Istituto nazionale per l’immigrazione; i capelli coperti da un cappello e un paio di lenti scure a nasconderle gli occhi, Arely scese insieme alla psicologa, mentre io andai a chiedere un colloquio col capo del dipartimento. Non appena se li trovò davanti li riconobbe, chiamandoli per nome uno a uno. Fu un’esperienza impressionante: tutti, compresi i più alti in grado, erano coinvolti, alcuni come clienti e altri come “protettori” delle fasi di arrivo e partenza in aeroporto.

[...] La maggior parte dei casi non si conclude con altrettanto successo. Il 60% delle donne indotte alla prostituzione non è accolto con gioia quando torna a casa. Ciò può dipendere da pregiudizi familiari, ma anche dal fatto che, molto spesso, il complice del raggiro grazie al quale le giovani finiscono per essere vendute è proprio un membro della famiglia. D’altra parte è anche vero che alcune vittime si sono abituate a un tipo di vita diversa e nelle proprie case si sentono giudicate o represse. Sono state ormai condizionate a vendere il proprio corpo, purtroppo, e credono che la prostituzione sia l’unica strada per guadagnarsi da vivere.

Dopo essere state sfruttate sessualmente, molte donne, al ritorno nei propri paesi, diventano paria della società; in Asia e in Europa, ad esempio, molto spesso si vedono costrette a rientrare nel giro della prostituzione locale. Alcune di loro mi hanno detto che in quell’ambiente, se non altro, non si sentono giudicate e si trovano accanto alle altre paria del mondo, schiave di un potere che le ha educate a diffidare di tutti e a considerarsi oggetti in vendita. Appartengono a una categoria sociale diversa, quella che l’antropologa femminista Rita Laura Segato ha definito le altre: le donne consumabili.

[...] La mia unica speranza è che questo libro finisca nelle mani di qualcuno a cui importi sinceramente qualcosa delle vite di queste donne e di queste bambine; nelle mani di uomini che si fermino a guardarsi e scoprano, nella propria umanità, figlie, sorelle, cugine, nipoti ― in una parola: donne ― e si rendano conto che tutte le protagoniste delle storie che racconto avrebbero meritato una vita sicura, degna, felice, e che se non l’hanno avuta è perché al mondo non ci sono abbastanza persone preoccupate per la schiavitù sessuale e impegnate a impedirla.

(149-163).

 

Ma come fa un cliente a sapere se quella donna è là di propria volontà o se invece è schiava di una rete di trafficanti che la controlla con debiti non restituibili, minacce e isolamento? Non c’è modo. Poiché chi gestisce il giro in questione, dopo l’arresto dei propri capi, si è reso conto che se voleva continuare a far circolare le donne nei circuiti del sesso a pagamento doveva cavalcare l’onda della prostituzione “consentita”. [...] E una delle strategie è quella di mescolare adulte, adolescenti e bambine nei giri della prostituzione volontaria e coatta.

(165-166).

 

Che cosa succederebbe se mi avvicinassi a una delle piccole e le domandassi se le piacerebbe avere una vita diversa? Forse scoppierei a piangere, se mi rispondesse che sua madre è là dentro e che quella è la vita, che va bene così, o se mi dicesse che suo padre, seduto a una decina di metri, le ha detto di volerle più bene quando porta un po’ di soldi a casa. E lei, come chiunque, vuole che i genitori le vogliano bene. È stata esattamente questa la risposta che mi hanno dato alcune bambine con indosso vestitini di terital rosa e medagliette appese al collo sulle quali spiccava l’immagine protettrice delle vergine Maria.

(173).

 

Agli inizi del primo decennio di questo secolo cominciarono a uscire libri, serie televisive e inchieste giornalistiche sulla schiavitù femminile e sulle tecniche dei trafficanti. Il giornalista canadese Victor Malarek, nel libro The Natashas: Inside the New Global Sex Trade, illustrò dettagliatamente le strategie dei trafficanti e degli schiavisti che facevano entrare negli Stati Uniti donne russe e di altri paesi limitrofi. Fu in quel momento che i trafficanti di tutto il mondo, che operano nell’ambito di reti di protezione interconnesse, modificarono le loro tecniche: capirono che era indispensabile seguire l’onda della modernizzazione. Così trafficanti e protettori di vari paesi presero in prestito gli stessi argomenti usati da accademici e femministe, che difendevano il lavoro sessuale come una vera forma di emancipazione della sessualità femminile nell’economia capitalista. Non era più necessario drogare le donne, maltrattarle o mantenerle in uno stato di terrore assoluto: bastava rafforzare la cultura sessista, mascherata con charme e ricchezza apparenti.

Occorre educare le donne con un sistema di premi e punizioni, mi disse una schiavista filippina in Cambogia: piegarle alla banalizzazione dello sfruttamento sessuale attraverso l’esposizione sistematica alla pornografia; convincerle che sono loro a scegliere quello che stanno facendo e ricordare loro costantemente che la loro vita non ha alcun valore e che, se infrangono le regole del gioco, sono destinate a perderla.

Difficult choices are still choices (“Ogni scelta, anche se difficile, è pur sempre una scelta”) disse quella schiavista, che si fa chiamare “madrina” dalle bambine che controlla nel suo bordello. Questo è uno dei presupposti fondamentali nel dibattito mondiale sulla prostituzione: c’è un determinato momento nel quale le donne dai diciotto anni in sù scelgono “liberamente” di entrare, rimanere e vivere nell’ambito della prostituzione. Le mafie si alimentano e traggono persino motivo di divertimento dalla rendita che è loro offerta da questa discussione tra intellettuali e attivisti anti-prostituzione. La speculazione filosofica sul significato della libertà, della scelta e dell’istigazione è diventata parte integrante delle argomentazioni usate dalle reti di trafficanti. Ho avuto modo di ascoltare questi discorsi dalle loro stesse bocche.

La controargomentazione opposta dagli abolizionisti di basa, giustamente, sull’essenza filosofica del concetto di libertà e sulla capacità delle donne di prendere decisioni in un contesto culturale di sottomissione e disuguaglianza profonde. Quasi il 60% di chi è entrato nell’ambiente della prostituzione lo ha fatto tra i quindici e i ventuno anni attraverso inganni, minacce e costrizione. È importante mettere in chiaro che l’industria dello sfruttamento sessuale ha saputo nutrirsi di questo dibattito filosofico, intellettuale, economico e perfino religioso. Il segreto sta nel capire che la criminalità organizzata che compra e vende schiave sessuali non è costituita da gruppi isolati, dispersi e nascosti sottoterra; no, lo ripeto, sono membri attivi di un’industria, e come tali vanno studiati. Non bisogna cercarli sotto le pietre, bensì tra avvocati, proprietari di locali, centri per massaggi, bar e ristoranti, così come bisogna indagare tra impresari di case produttrici di pornografia, proprietari di casinò, maquiladoras e alberghi. Tutte queste persone pagano le tasse: complessivamente quella del sesso è una delle industrie che ― tra permessi, licenze e attrazione del turismo, nonché come gettito fiscale ― genera più introiti. Tuttavia è anche il settore in cui si ricicla la maggior quantità di denaro sporco, proveniente dal traffico di armi e stupefacenti. [...] E, come altri tipi di industria, la schiavitù si è potenziata grazie alle liberalizzazioni e alla globalizzazione.

(182-184).

 

Dove stanno quegli uomini? Sanno quale ruolo ricoprono in questa tragedia di dimensioni mondiali. La risposta è semplice. Stanno nelle loro case con le loro mogli e i loro figli, con le loro fidanzate o con i loro compagni dello stesso sesso; nelle loro aziende rispettabili e nelle chiese, officiando o assistendo alla santa messa. Fanno politica nei congressi e nelle assemblee parlamentari locali e nazionali. Celebrano procedimenti giudiziari nelle aule dei tribunali e svolgono inchieste per i giornali più famosi. I clienti della prostituzione, coloro che alimentano la crescente richiesta di schiave sessuali, lavorano nelle scuole e nelle università, sono programmatori di siti web e calciatori, sono ovunque. Si vantano delle loro prodezze sessuali con gli amici, alla luce del sole, e le descrivono in centinaia di forum online in oltre venti lingue.

(189).

 

È evidente che gli eserciti svolgono un ruolo importante nella formazione dei soldati, nel rafforzamento dei valori sessisti e nella spersonalizzazione del prossimo, ma c’è un altro fattore quasi sempre ignorato: il ruolo di ciascun individuo nello scegliere la violenza sessuale come parte della propria personalità. Le statistiche dei soldati consumatori di sesso mercenario parlano da sole. Dopo la guerra, lontani dal campo di battaglia, seguitano a scegliere di accompagnarsi a donne in condizioni di vulnerabilità, in rapporti nei quali comandano e controllano la situazione pagando per ottenere ubbidienza e sottomissione.

(210).

 

Gli appellativi padrote e madrota implicano una sorta di padre o madre alternativa che “educa e protegge” le donne, adulte e bambine, che si prostituiscono.

[...] I padrotes non si innamorano, ma le donne sì: credono che ci sia una relazione affettiva, mentre ai padrotes interessa unicamente la relazione di sfruttamento.

[...] I protettori hanno sviluppato meccanismi di innamoramento provenienti da consuetudini della cultura tradizionale, adattate a proprio beneficio come strategie di reclutamento delle donne da sfruttare sessualmente.

[...] Bisogna avere carisma, buona presenza e soprattutto usare un linguaggio che permetta al maschio di “far innamorare le donne”. Fra i protettori messicani questo modo di trattare le donne è detto “sapersi imporre con le parole”, cioè la capacità di sedurre verbalmente le ragazzine. Ciò si accompagna all’ostentazione di automobili di ultimo modello con le quali i protettori setacciano scuole, parchi, fabbriche o luoghi dove le giovani sono solite passeggiare. Quando la ragazza “dà spazio” al protettore, quest’ultimo fa ricorso a tutte le proprie conoscenze per convincerla ad allacciare una relazione sentimentale. Una volta che il padrote è riuscito a farla innamorare, la sua capacità è messa alla prova, perché “un buon padrote [...] non deve metterci più di due settimane a convincere la ragazzina a lavorare come prostituta”. L’opera di persuasione deve durare il meno possibile, in modo che la donna non abbia il tempo di conoscere il vero lavoro del suo nuovo partner, né le sue intenzioni su di lei.

(230-236).

 

Dopo aver studiato centinaia di sfruttatori e clienti della prostituzione, Victor Malarek conclude: “Se davvero vogliamo fare qualcosa riguardo alla prostituzione dobbiamo capire a fondo il ruolo dei clienti, e questi ultimi devono assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Se la prostituzione è una questione di opportunità e decisioni, le opportunità sono sempre quelle del cliente che sceglie di pagare una donna per avere un rapporto sessuale. I clienti scelgono di andare con una lavoratrice del sesso, anziché investire in una relazione interpersonale; scelgono di viaggiare nelle località del turismo sessuale nei paesi poveri perché sono delusi o intimoriti dalle donne occidentali; decidono di chiudere gli occhi di fronte alla dolorosa realtà di donne e bambine costrette a mettere in vendita i loro corpi, e impongono la propria volontà a donne estremamente vulnerabili. Sono i clienti ad avere realmente la possibilità di scegliere, e sono loro a guadagnarci se la prostituzione viene legalizzata [...]. La società deve confrontarsi con il logoramento della maschilità e con il carattere distruttivo assunto dal comportamento maschile. La prostituzione limita seriamente la possibilità di creare relazioni caratterizzate da uguaglianza, rispetto e correttezza tra uomini e donne in ogni aspetto delle loro vite. Educa uomini e bambini a credere che le donne e le bambine siano oggetti sessuali da utilizzare, anziché esseri umani uguali a loro”.

[...] La prostituzione istituzionalizza i presupposti di fondo del dominio maschile. Il processo di socializzazione degli uomini è costruito sulla certezza che il loro sesso attribuisca loro il diritto di disporre dell’ambiente che li circonda, dello spazio e del tempo degli altri e, in primo luogo, delle altre. Questo diritto si estende anche al corpo e alla sessualità delle donne; di qui la considerazione che, trattandosi di un diritto, sia legittimo ottenerlo e preservarlo, sia pure con la violenza. È proprio questo che la prostituzione istituzionalizza, giacché il cliente ottiene dalla persona che si prostituisce qualcosa che non potrebbe ottenere in altro modo, se non con la violenza. Il cliente (e con lui la società) nasconde a sé stesso il dato tangibile della violenza, interponendo un’infrastruttura (gestita dai protettori) e il denaro.

(242-244).

 

La gente, in realtà, non può ― o non vuole ― vedere il legame tra la prostituzione e la tratta. I mercanti dell’industria del commercio sessuale sono i grandi vincitori di questa confusione e dell’inerzia della società: finché la gente seguiterà a difendere la prostituzione ricorrendo ai princìpi della filosofia liberista, senza sviscerare il fenomeno della tratta, loro, i padroni delle schiave, continueranno a guadagnare milioni di dollari ogni anno.

(246).

 

Le mafie cercheranno sempre di convincerci che siamo liberi, quando schiavizziamo altre persone per soddisfare i nostri bisogni, e che le donne sono libere perché possono scegliere di essere schiave dei loro clienti. Ad accettare questo discorso non sono soltanto la sinistra e le femministe postmoderne: anche la destra, che sotto il crocifisso e la tonaca gode della prostituzione più raffinata, ne rimane sedotta.

[...] La globalizzazione è una chimera che permette ai mafiosi di nascondersi nelle pieghe della sua apparenza, e ha convinto le classi medie e illuminate che viviamo in un mondo interconnesso nel quale possiamo condividere interessi comuni. Finché prevarrà questa falsa percezione, sarà impossibile smascherare l’ostinato razzismo, classismo e sessismo che le politiche neoliberiste hanno determinato da molti anni a questa parte. Le mafie lo hanno capito perfettamente: si alimentano delle profonde iniquità e delle lacune legislative e informative generate dall’ideologia capitalista.

(255-256).

 

La Germania, dove la prostituzione è legalizzata, e l’Olanda sono i paesi da dove partono per il mondo il maggior numero di pedofili.

(265).

 

È imperativa una nuova rivoluzione maschile. Una nuova generazione di uomini, non guerrieri, non armati, non violenti, che non minaccino punizioni celesti, bensì possessori di una solida idea di equità e progresso. Negli ultimi anni ne ho incontrati molti. Il potere maschile deve reinventarsi, prima che le mafie e una società globale irresponsabilmente indifferente riescano a convincere tutte le bambine che essere schiave sia l’unica via per studiare, mangiare, ottenere beni e servizi; prima che un’altra generazione creda che comprare schiavi sia qualcosa di progressista e moderno.

(272-273).

 

Mafiosi grandi e piccoli approfittano della confusione generata dal dibattito sulla prostituzione, e in molte circostanze la alimentano esercitando azioni di lobbying sulla politica e sulla società per banalizzare la schiavitù delle persone in nome di una visione capitalistica disumanizzante.

(281).

 

Qual è il metro di giudizio per valutare se una donna o un’adolescente, un bambino o un ragazzo, sono vittime della tratta, e in che modo misurare tale fenomeno? In una ventina di casi universalmente noti, le vittime di violenze sessuali sistematiche hanno difeso i loro aguzzini davanti ai giudici. [...] Molte di loro, a forza di maltrattamenti, hanno assimilato la violenza psicologica e sessuale come qualcosa di naturale e meritato in virtù della propria condizione di genere, etnia, nazionalità o classe (in certi casi tutte assieme).

Le storie personali si rivelano fondamentali per misurare la dimensione del fenomeno sociale e criminale. Dobbiamo capire a fondo come interiorizzi a livello psichico ed emotivo la propria sofferenza e il proprio essere sopravvissuta una bambina salvadoregna che è stata soggetta ogni giorno a diversi episodi di violenza sessuale in un bordello; nella stessa maniera, occorre comprendere come interiorizzi la paura una piccola brasiliana di sei anni che è stata sfruttata per la pornografia infantile sin da quando aveva quattro anni e, sebbene non le piaccia quello che le hanno fatto, crede che sia una cosa normale perché così le hanno detto i suoi violentatori. Analogamente, dobbiamo riflettere su come vive e cosa dice l’uomo d’affari o il sacerdote che paga per vedere quei video in Messico, Spagna o Stati Uniti, eludendo completamente l’idea che dietro quella bambina ci sia una rete criminale che la schiavizza. Allo stesso modo, dobbiamo ascoltare la trafficante filippina che prima argomenta con concetti liberali sulla prostituzione e poi, chiacchierando serenamente, arriva a raccontare di come sia stata abusata sessualmente durante l’infanzia, ancor prima di aver messo piede in un bordello per turisti coreani nel suo paese natale. Il fatto di aver normalizzato l’abuso fino al punto di non sentirsi più vittima le consente di rendere altre bambine e ragazze le proprie vittime senza provare alcun senso di colpa.

Solo così potremo risolvere l’enigma e capire che il problema più serio nella banalizzazione della violenza è che riesce a renderla invisibile fino al punto di privare le sue vittime della possibilità di rivendicare il diritto di vivere fuori da un contesto di aggressione. Tutt’a un tratto, come mi hanno detto varie prostitute organizzate, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, considerarsi una vittima diventa quasi un insulto perfino più grave dell’umiliazione causata dai colpi inferti da un cliente ubriaco o da una violenza anale. È questo il risultato a cui si giunge quando la violenza sessuale viene osservata da una prospettiva liberista, come se fosse qualcosa a sé stante. È per questo motivo che una prostituta spagnola di Barcellona può dire: “Io non vendo il mio corpo, vendo un atto sessuale concreto, come una segretaria vende la sua conoscenza per scrivere una lettera”.

[...] Per quella donna, vendere un atto sessuale può essere l’equivalente di preparare e vendere un panino in un bar. Ma per un cliente, penetrare un corpo, sottometterlo e trattarlo come un oggetto non rappresenta certamente la stessa cosa che mangiare un panino. Quest’ultimo è un atto di nutrizione meccanico, mentre la vendita dell’atto sessuale riveste un significato socioculturale che sottende il diritto di comprare persone e maltrattarle con il denaro.

Un altro fatto che dobbiamo tenere in considerazione è che se conteggiassimo tutte le donne che nel mondo fanno parte di collettivi di prostitute (o lavoratrici del sesso, come alcune si autodefiniscono) non arriveremmo neppure a mezzo milione di persone. Ciò significa forse che non abbiano diritti per il fatto di appartenere a una minoranza? Va da sé che ne hanno. Ma il problema si fa più complesso quando esaminiamo la validità della rivendicazione dei diritti da parte di una minoranza alla luce del fatto che la sua conseguenza è la promozione di valori socioculturali e di reati concreti che colpiscono la maggioranza.

Carmela, una ex prostituta messicana che si occupa di prevenzione della violenza a Miami, evidenzia che: “Prima, noi donne dicevamo «mio marito mi picchia perché mi ama», perché fin da bambine ci avevano insegnato che l’amore è quello; poi abbiamo capito che è l’esatto contrario. Ora, a quanto pare, dovremmo dire: «I clienti mi violentano e mi umiliano perché sono libera». È una stupidaggine enorme! Essere sessualmente libere significa decidere di non essere sfruttate e fare sesso con chi desideri, ma non per portare benefici a un’industria che promuove l’abiezione femminile, la violenza come normalità”.

[...] Un filosofo che da un’università elitaria della Gran Bretagna pontifica sulla libertà di prostituirsi è quasi sempre incapace di capire le conseguenze delle sue teorie sulle persone reali che nelle reti della prostituzione patiscono grandi violenze, non solo sessuali ma anche razziste e di genere. Si tratta di una violenza strutturale, le cui radici sono profondamente misogine e i cui risultati hanno effetti individuali e collettivi.

All’estremo opposto, lo stesso discorso è applicabile a una religiosa cattolica o cristiana che riscatta giovani donne che si prostituiscono. Generalmente, lei e le sue sorelle hanno seri problemi ad accettare la sua sessualità come qualcosa di sano. La loro rabbiosa prospettiva abolizionista si fonda su pregiudizi, paure e valori dogmatici che non lasciano alcuno spazio al dialogo, neppure con le stesse vittime, alle quali quasi sempre impongono idee religiose categoriche, finendo per occultare la complessità dell’ipersessualizzazione vissuta dalle vittime in un contesto di profonda sindrome da stress post-traumatico.

(281-285).

 

Catharine MacKinnon: “In passato il movimento delle donne sapeva che la scelta di essere maltrattata da un uomo in cambio della sopravvivenza economica non era una vera scelta, a dispetto delle apparenze facilitate dal vincolo matrimoniale con il quale la donna accedeva liberamente a quel tipo di relazione violenta. Oggi si ritiene che in nome del femminismo dovremmo credere che la scelta di essere abusata sessualmente da centinaia di uomini per sopravvivere economicamente debba essere riaffermata come una scelta vera. E che, se la donna firma un contratto per diventare «modella», non ci sia coercizione alcuna”.

(290).

 

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Lydia Cacho

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Lydia Cacho

 

Lydia Cacho (Città del Messico, 1963) è una giornalista messicana che è stata imprigionata e torturata dopo la pubblicazione del suo libro sulla pedopornografia nel suo paese, Los Demonios del Edén: el poder que protege a la pornografia infantil, nel quale denunciava la stretta relazione fra lo sfruttamento pornografico minorile e una rete criminale che legava numerosi pubblici funzionari del governo, politici, imprenditori e trafficanti di droga. Il 29 novembre 2007 la Corte Suprema del Messico sentenziò che il suo arresto era ingiustificato.

 

Lydia Cacho ha raccontato la tremenda esperienza della sua persecuzione giudiziaria e della detenzione nel libro Memorias de una infamia (2008).

 

Lydia Cacho ha vinto il Premio Francisco Ojeda al Valor Periodistico. Dal 2006 è impegnata in prima persona nelle indagini e nella soluzione dei casi, ripetuti e numerosi, di omicidi e abusi su donne a Ciudad Juàrez. Nel 2007 Amnesty International le ha assegnato il Ginetta Sagan Award for Women and Children’s Rights, e nel 2008 ha ricevuto l’UNESCO/Guillermo Cano World Press Freedom Prize.
 

(dal risvolto di copertina di Schiave del potere)

 

Il sito di Lydia Cacho

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