Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Corriera Immaginaria
di Luigi Scialanca
Questo racconta è un’opere di fantasia: ogni apparente riferimento a esseri umani o ad aziende reali o realmente esistiti è del tutto casuale Home Scarica il testo in formato Word (105 kb, 12 pagine) Scarica il testo in formato pdf (105 kb, 12 pagine) |
Quell’anno, preso atto che l’odio scatenato dal governo contro chiunque campasse senza sfruttare il prossimo mi aveva ridotto in miseria, decisi di andare a lavorare coi mezzi pubblici nella speranza che ciò mi aiutasse a farmi bastare lo stipendio fino alla fine del mese. Non certo un gran sacrificio, lo ammetto... Ma se aggiungo che già da un bel po’ la suddetta banda di avventurieri mi aveva messo nelle condizioni di non poter permettermi che di sopravvivere alla bell’e meglio, e che l’esser costretto ad arrivare a scuola a piedi nel paesello dove insegnavo da tanti anni mi esponeva alla pietà di chi mi stimava e alla malcelata soddisfazione di chi non mi poteva soffrire, sarà più facile, penso, farsi un’idea del perché l’aver dovuto prendere questa decisione mi deprimesse ben più di altre rinunce anche assai gravose, e di quanto essa contribuisse (malgrado il mio amore per la vita e la mia fede nell’Umanità) a intensificare la sensazione sempre meno sopportabile di disfacimento e di squallore che già da alcuni anni traevo da quasi tutto ciò che accadeva intorno a me e dallo spettacolo sempre più avvilente che una parte dei miei simili mi offriva.
Era un tragitto di cinquantacinque chilometri, che le corriere (benché vetuste, cadenti e rumorose) quando non le bloccava qualche acciacco cronico o repentino percorrevano in una quarantina di minuti grazie a una condotta di guida che definire spericolata è fin troppo generoso. E io lo sapevo bene, e da gran tempo (e tale cognizione non mi rese certo più facile il risolvermi ad affidare loro la mia persona) poiché, nei molti anni in cui avevo fatto quella strada in macchina, non erano state né poche né poco memorabili le volte in cui me n’ero vista sbucare una all’improvviso da una curva stretta e venirmi incontro quasi su due ruote, gigantesca e mostruosa, con tutta l’aria di star per capovolgersi su di me... Eppure, quando di quelle corriere smisi di essere un potenziale bersaglio per trasformarmi in una componente della loro forza d’inerzia potenzialmente omicida, fin dal mio primo viaggio dovetti scoprire che le cose stavano ancora peggio di come avevo immaginato: poiché alcuni di coloro che le guidavano non erano dei semplici temerari, no, ma esseri che chissà quale deriva genetica aveva messo al mondo del tutto sprovvisti del senso del pericolo. Non ne conoscevano la possibilità. Non sapevano cosa sia. Mentre io, dotato come sono di una fantasia più sviluppata di quanto in certi frangenti vorrei, di pericoli mortali ero in grado d’immaginarne (e con i particolari più atroci) in agguato a bizzeffe dietro ogni curva, al di là di ogni dosso, in ogni veicolo che ci precedeva, ci seguiva o ci veniva incontro, e perfino in caduta libera dal cielo; e pertanto vivevo quella quarantina di minuti come una moltiplicazione per duemilaquattrocento del singolo istante di tremenda paura che in passato mi colpiva tra capo e collo ogni volta che ne vedevo sbucare una da dietro una curva. Ovvero, sudavo e tremavo e soffrivo per tutto il percorso.
Certi conducenti sembravano considerare i veicoli che guidavano (o, com’è più giusto, esser stati costretti a considerarli da vertici aziendali disumani) degli obici ingovernabili, scagliati nello spazio da giganteschi cannoni, la cui traiettoria solo la forza di gravità o la collisione con oggetti più massicci potevano rallentare o interrompere. Mai e poi mai (se non forse per effetto di un ictus devastante) avrebbero sollevato anche solo di un decimo di millimetro il piede destro dall’acceleratore che pestavano come se fosse la testa del serpente dell’Eden. Dover fermarsi per far salire o scendere qualcuno era per loro doloroso e umiliante come una frustata in pieno viso, lo si capiva dalle smorfie di rabbia che lo specchietto retrovisore interno proiettava su chi glielo imponeva o solidarizzava con il reprobo: così intensa da non poter essere celata, e da comunicarsi anche alla macchina facendola sbuffare con impazienza ― mentre le portiere si schiudevano per pochi secondi e di pochi centimetri come tagliole troppo pesanti per poter essere aperte un po’ di più ― e intanto vibrare e tremare dal muso alla coda come se fosse lì lì per saltare in aria... E poi via!, la corsa riprendeva, si era di nuovo alla massima velocità prima che le portiere finissero di richiudersi, e di nuovo non esistevano né curve né dossi né lavori in corso, non c’erano altri veicoli né tanto meno pedoni, non si rallentava mai, mai, si correva sempre, si superava a ogni costo, ci si piegava da un lato e dall’altro come su un veliero da regata; e la mia povera mente, che l’effimera sosta aveva quasi schiarito, tornava a oscurarsi e a spegnersi intasata da un lugubre ingorgo di prefigurati rischi mortali.
Eppure non erano questi, i conducenti che temevo di più. Poiché costoro, in fondo, in qualche modo mi parevano invulnerabili. Poiché avevo, cioè (nei rari momenti in cui non ero in preda che al panico) la sensazione che la loro forza non potesse che essere proporzionale all’achillea sicurezza ostentata dal loro assoluto disprezzo per qualsiasi cautela. Come se il mondo fosse costretto a cedergli il passo, ad allontanarsi per tempo dal loro percorso, a fuggire dinanzi a loro. Come se un invisibile e infrangibile respingente di fantascientifica energia si protendesse per centinaia di metri davanti ai mezzi da essi guidati e vi facesse il vuoto prima che arrivassero materialmente sul posto. Sapevo bene di illudermi, è ovvio, e tuttavia finivo quasi per crederci, come se l’esposizione ai fumi di quell’incoscienza mi stesse a poco a poco intossicando. E così i conducenti che temevo di più non erano questi, ma quelli che volevano guidare come loro senza averne né la follia né la forza. Quelli che correvano e tremavano, e che perciò a ogni istante frenavano e ripartivano, scartavano di lato come cavalli impauriti, suonavano, strombazzavano, s’impaurivano della loro stessa ombra. Poiché, almeno, se si è trasportati da una palla di cannone che sfreccia insensibile verso il bersaglio, nessuna attività è possibile: si può solo essere atterriti, starsene lì con gli occhi fuori dalla testa senza vedere più nulla, tenersi ai mancorrenti come patelle a uno scoglio (ce n’erano di spezzati, per quanto intensamente i miseri passeggeri vi si avvinghiavano perfino da seduti) e se si credeva in Dio raccomandargli l’anima ormai probabilmente prossima al trapasso. Mentre con i corridori insicuri, invece, ogni pochi minuti veniva fatto di sperare che l’evidenza della loro inettitudine li avesse indotti a più miti consigli, e ci si metteva a leggere, o a chiacchierare con un compagno di sventura, o magari ci si appisolava come delle bestiole... per poi ritrovarsi all’improvviso le budella nell’esofago in un singolo ma indimenticabile istante di puro e parossistico terrore.
E tutto, mentre la pazza corsa si svolgeva e ogni giorno si ripeteva, tutto diventava più brutto, più squallido, più disperante. Tutto, a poco a poco, moriva.
Le macchine, sottoposte a un così rude trattamento da mani sempre diverse, soffrivano come gli asinelli di Collodi sotto i morsi dell’Omino di burro: cigolavano, gemevano, urlavano, non di rado perdevano i pezzi: i mancorrenti per l’appunto si spezzavano, oggetti anche costosi cadevano dai portabagagli e filavano avanti e indietro come relitti nella risacca, dimenticati sul pavimento da proprietari troppo spaventati per protendersi a recuperarli, i finestrini si deformavano e non scorrevano più, le tendine si sdrucivano, i tappetini si logoravano e bucavano. E noi, i passeggeri ― che avremmo dovuto aver cura del veicolo che doveva condurci in salvo e degli arredi che confortavano quegli orrendi tragitti ― al contrario trattavamo ogni cosa con una goffaggine e addirittura un disprezzo direttamente proporzionali all’abbrutimento che quel modo di viaggiare induceva progressivamente in noi. E così erano proprio vetture violentate, quelle misere corriere, letteralmente in ogni senso del funesto participio, al punto che non sempre le macchie che ne insozzavano le tappezzerie erano identificabili senza dover temere di incorrere in conati di vomito: gli autisti non se ne curavano, le prendevano e le lasciavano come ciabatte, non davano alcuna importanza a come le trattavamo. Nessuno vigilava sui ragazzacci disperatamente smaniosi di godere di una pur minima sensazione di esistere che ne imbrattavano o addirittura incidevano le povere ossa di plastica con insensati graffiti. Nessuno tentava di impedire che tutto ciò che poteva essere aggredito da un temperino o dalle nude unghie di mani nevrotiche fosse a poco a poco sbrecciato, consumato e divelto. Nessuno ripristinava quanto cadeva a pezzi e spariva come in un abisso senza fondo. Le misere vetture si deterioravano sempre di più, massacrate in ogni loro parte esterna e interna da chi avrebbe dovuto governarle e da quanti ne erano solo sballottati per il mondo come salme ormai insensibili. E come gli altri passeggeri anch’io mi sentivo, ben oltre il tempo che vi trascorrevo (molto prima nella triste attesa, e molto dopo nello sconfortante ricordo) prigioniero di una sorta di allucinante metafora semovente (e in tutti i sensi accelerata) dell’inesorabile processo di consunzione della vecchiaia. Poiché, contrariamente a quanto sostengono i divulgatori di Einstein, su quelle corriere il tempo non trascorreva affatto più lentamente che sulla terraferma; e io, come tutti, ne smontavo ogni volta invecchiato assai di più di una quarantina di minuti. O almeno così mi sembrava, a giudicare da come mi tremavano le gambe nel discenderne i tre gradini; da come barcollavo ogni volta un po’ più a lungo, mentre tentavo di sgranchirmi le gambe per avviarmi verso il mio paesello adottivo che dal seggio della sua collina non mi guardava più come un padre affettuoso e intenerito, ma come un figlio che con dolore vede il padre cominciare a farsi decrepito; da come soffrivo il freddo ogni volta un po’ di più, mentre arrancavo lungo l’argine del fiume venendo fuori a poco a poco dalla coltre di nebbia che lo copriva. E soprattutto da come ogni cosa, vicino e lontano da me, dalla mia scuoletta un tempo così luminosa e allegra fino all’intera mia esistenza e a tutto ciò che conteneva, ogni giorno diventava più brutta, più uggiosa, più triste. Ogni giorno moriva.
E che dire dei miei disgraziati compagni? Degli altri, intendo, che come me ogni mattina e sera erano portati da quelle corriere verso luoghi e persone che ormai mi raffiguravo altrettanto squallidi di chi vi si dirigeva? Anch’essi, come me, sembravano di volta di volta più stanchi, inebetiti, rassegnati, spenti. Sballottati di qua e di là come i penduli brandelli di tappezzeria o i pezzi di mancorrenti ancora miracolosamente appesi alla carrozzeria per un lacerto o una vite, quegli uomini e donne e bambini, quale che fosse la loro età anagrafica o la condizione fisica, parevan tutti sempre più degli stracci in una furiosa tempesta, ogni volta un po’ più sbrindellati e scoloriti e un po’ meno tollerabili per la vista di chi, come me, tornato a una casa che della corriera iniziava ad assomigliare a una versione pietrificata, cercava di non guardarsi allo specchio (o di guardarsi senza vedersi se ancora dedicava qualche cura al proprio aspetto) per non raccogliere ulteriori indizi di un processo di disfacimento che nessuno di noi poteva più credere limitato a poche decine di persone e di esistenze.
Finché, un bel giorno, non salii per la prima volta sulla corriera immaginaria.
Penso che tra me e me la chiamai così fin dal primo sguardo che le rivolsi. Con qualche inconscia reminiscenza, forse, nel battezzarla così, di vecchi servizi fotografici sui treni speciali che si allestivano un tempo per i re: treni senza uguali che da bambino mi affascinavano, meravigliosi, i cui unici e augusti utenti avevano a loro completa disposizione file di vetture splendidamente arredate, ricolme d’oro e d’ogni ben di Dio, e se ne compiacevano senza rimorso come di un diritto naturalissimo mentre il resto dell’Umanità si ammassava nei carri bestiame senza protestare, accontentandosi di godere con la fantasia del trattamento da esseri umani che tra milioni che lo erano davvero spettava solo a chi aveva rinunciato a esserlo col negare che lo fossero anche loro... Be’, la corriera immaginaria era un po’ come quei treni, con la differenza che poteva accogliere lo stesso numero di passeggeri (una cinquantina) delle corriere normali, e che di conseguenza, rispetto ai treni di cui sopra, era cinquanta volte più democratica.
Mi accorsi che era speciale prim’ancora di salirvi, mentre mi affannavo verso di essa lungo la pensilina del capolinea per timore che il conducente, per un ghiribizzo della sua mente arcigna o del suo orologio guasto, partisse all’improvviso e mi lasciasse lì, sacramentante e boccheggiante, per il divertimento o la commiserazione di quanti erano in attesa di altre linee. Sì, lo ricordo bene: la trovai così speciale, fin dal primo sguardo, che addirittura rallentai un pochino, mentre la inseguivo malgrado fosse ferma, per osservarla meglio.
Non certo perché fosse di un modello diverso, visto che era identica a tutte le altre: stessa linea già un po’ invecchiata a pochi anni dalla progettazione, com’è ovvio che accada per il contemporaneo e ben più rapido evolversi del design automobilistico; stessi colori; stessa grafia, anche se in qualche modo più accurata, dei cartelli che ne indicavano la destinazione... Perfettamente uguale, insomma, alle sue consorelle meno fortunate. Ma questa brillava come una giornata di primavera, metteva allegria, rifletteva l’azzurro dello spazio (poiché quel giorno lo spazio era azzurro, lo rammento bene, e da quel giorno in poi fu azzurro ogni volta che la corriera immaginaria riapparve) come se intorno a essa non vi fosse il solito vecchio terminal reso fatiscente dal vandalismo dei suoi notturni frequentatori, ma per l’appunto solo lo spazio infinito. Come se ogni centimetro quadrato della sua carrozzeria racchiudesse una perla e si fosse dischiuso per mostrarla. Come lo sguardo sorridente di un bambino felice.
Vidi e mi resi conto di tutto ciò nel volgere di pochi istanti, poiché non rallentai poi molto: non potevo mica fidarmi della corriera immaginaria, del suo conducente e della sua prima passeggera, la prima volta che li vidi, come mi sarei fidato di loro da quel giorno in poi! Ma il mio piacevole stupore si tramutò in sbalordimento quando dal finestrino dell’autista fece capolino il viso sorridente di un simpatico giovanotto, una mano che non poteva essere che sua si protese in un gesto non meno rispettoso che rassicurante, e la sua voce pronunciò queste incredibili parole: "Prego, professore, non si affanni: per nulla al mondo partiremmo senza di lei!"
Incredulo, reso addirittura guardingo da una cortesia che esorbitava da qualsiasi mia analoga esperienza precedente, salii dalla porta anteriore (come ero solito fare nella mia qualità di autonominato, ultimo e strenuo difensore del rispetto delle regole) e dovetti subito convincermi che invece il conducente non aveva alcuna intenzione di farsi beffe di me: troppo cordiale e aperto il suo sorriso da ragazzone, troppo limpidi i suoi franchi occhi azzurri, troppo piacevoli e affabili tutto il suo aspetto e il suo atteggiamento, per poter supporre anche solo per un altro istante che fosse capace di divertirsi a prendere in giro un maturo e paterno insegnante!
Altra stranezza: oltre a me e a lui (e che tu sia per sempre benedetto, mio giovane amico, per esser quel giorno uscito di casa, aver messo in moto e accolto su quell’immaginaria corriera colui che con queste righe ti rende grazie!) in quel momento era a bordo una sola persona, una donna, seduta in prima fila sul lato destro come la guida di un pullman turistico.
Una donna? È l’ultima volta che la chiamo così! Da allora in poi, per me e per gli altri ella fu la Donna, con l’articolo pronunciato in modo assai enfatico e la d maiuscola. Così come il conducente fu il Conducente, il pescatore il Pescatore, la guardia la Guardia, e così via... Mentre io, pur non osando dirlo né ad alta né a bassa voce, da quel momento non potei quasi mai resistere alla tentazione di pensare a me stesso come il Professore. O addirittura, ma forse soltanto una notte in sogno, come all’Uomo.
Non era molto giovane, e non era - pur essendo molto graziosa, attraente e seducente - di quelle bellezze che fanno voltare gli uomini per la strada. Ma subito fui certo che io invece sì, mi sarei girato e come!, vedendola passare, in qualsiasi luogo e momento e con chiunque mi trovassi, e come me l’avrebbero fatto molti altri uomini. Tanto che da quel primo istante, pur non sapendo ancora niente di ciò che avrei scoperto in seguito, presi a pensare a lei proprio come a una guida: una di quelle persone che ti rivelano di primo acchito ― per via dell’ammirazione e dell’interesse che suscitano in alcuni e non in altri ― quali siano intorno a lei le persone davvero belle. E degne di lei. Poiché c’era qualcosa, nel suo modo di muoversi (e perfino nei piccoli movimenti che si compiono di tanto in tanto stando seduti) che parlava al mio cuore di un’eleganza interiore e sensuale così ben difesa e coltivata da serbare più di una traccia di quel naturale charme che fa precipitare in un’estasi di tenerezza chi guarda un bambino piccolo. E al contempo era del tutto e pienamente donna, di quelle che ti seducono prim’ancora di guardarti con l’indefinibile aura, emanante da ogni loro gesto, che sempre va dicendo, all’anima d’ogni uomo che ne sia all’altezza, che è bello che egli esista e che sia lì, vicino a lei! Aura che ben poche donne riescono a non lasciarsi sfuggire, dopo l’età del primo amore, e che di certo siamo spesso anche noi uomini ad aiutarle a perdere... Tutte sofisticherie, astrazioni, incomprensibili arzigogoli? Ebbene, in tal caso vi dirò soltanto (e assai più concretamente) che fin dalla prima volta che la vidi mi fece venir voglia di abbracciarla o di cadere in ginocchio dinanzi a lei (né mai riuscii a decidere quale delle due soluzioni fosse la più appropriata) e che presto, per il privilegio d’incrociare il suo sguardo nei momenti in cui era più sbarazzino o per trarre da lei come da un magico strumento una delle sue risatine così gioiose... be’, senza alcun pudore mi sarei tramutato dinanzi a tutti (e perfino davanti ai miei alunni) in uno di quegli "spettacoli d’arte varia" che secondo Paolo Conte nessuno sa improvvisare come "un uomo innamorato di te". E se qualcuno mi domandasse come io abbia potuto vedere e capire così tanto di lei (e dell’imperituro vassallaggio che a lei mi avrebbe legato) nel breve attimo che durai a oltrepassarla e andarmi a sedere al mio solito posto al centro della vettura, io gli risponderei che proprio per questo, tra me e me, fin da quel primo viaggio la chiamai la Donna: poiché le bastò lasciarsi intravedere per ispirarmi certezze di quella fatta e per costringermi a pensare a lei per tutto il tragitto.
Ah! Non lo dimenticherò mai, finché avrò ancora un po’ di fiato in corpo, quel mio primo viaggio sulla corriera immaginaria!... Ho scritto, poc’anzi, che andai a sedermi al mio "solito" posto... Ma è bene precisare che esso era tale soltanto per la sua astratta posizione nello spazio. Mentre, in realtà, tutti i sedili di quel pullman sembravano (e continuarono a sembrare, e forse erano) appena usciti da un mobilificio di lusso, opera di un grande designer e tappezzati con ogni cura da qualcuno che doveva avere estremamente a cuore il benessere posturale dei loro futuri utilizzatori, anche se non li avrebbe mai conosciuti. Ma tutto, in effetti, all’interno della vettura, pareva essere stato concepito da persone che si fossero prefisse di vincere a ogni costo, nell’impedire agli sguardi dei passeggeri di volgersi verso i finestrini, qualsiasi competizione con i più bei paesaggi del pianeta. Benché poi debba aggiungere, se le cose stavano davvero così, che tale battaglia, almeno per quel che concerne lo sguardo mio, le suddette persone la persero non appena il Conducente mise in moto (ah, quel motore silenziosissimo e potente, quella totale assenza di vibrazioni, quell’atmosfera perfetta!) e il viaggio ebbe inizio. E la persero perché il paesaggio che dinanzi ai miei occhi esterrefatti cominciò a sfilare era troppo bello e insolito perch’io potessi con facilità distoglierli da esso. E dire che era il medesimo paesaggio che vedevo tutti i giorni: gli stessi edifici di periferia, lo stesso traffico, la stessa gente... E tuttavia non appariva meno diverso che se ci fossimo avviati per le vie di Eldorado, o di Shangri-La.
Sarà stato anche per la trasparenza dei finestrini pulitissimi, simili più a grandi schermi ad alta definizione che alle usuali lastre di cristallo chiazzate da ogni sorta di liquidi e di vapori, ma quel mattino in ogni centimetro quadrato di quei "soliti" edifici splendeva il sole, in ogni finestra si rifletteva come nello sguardo di un poeta l’azzurro dell’atmosfera e il rosa e il bianco di non so quali invisibili peschi e mandorli in fiore, e il traffico... ah, il traffico sembrava quello di una placida domenica mattina, ed era per di più così riguardoso da far pensare che quel giorno fossero usciti in macchina soltanto amici e parenti molto affezionati gli uni agli altri e diretti a una grande festa collettiva, riguardo alla quale erano già più che certi che niente li avrebbe delusi e che ne sarebbero tornati alle rispettive dimore ancor più felici di quando ne erano usciti!... E tutto questo, badate bene, non era ancora nulla in confronto allo spettacolo che offrivano le facce della gente... Ah, quelle facce!... Ah, le facce che si vedevano dai finestrini della corriera immaginaria e che quel giorno io vidi per la prima volta, ma alle quali fino all’ultimo mi fu sempre impossibile abituarmi! Uomini, donne, anziani, bambini... Non è che sembrassero tutti felici, no; ce n’erano anche di visibilmente pensierosi, o addirittura preoccupati, o perfino malinconici; ma tutti, nessuno escluso, erano evidentemente così consapevoli di far parte di una comunità di persone belle, intelligenti, creative e per bene, che qualsiasi cruccio li turbasse ne era in qualche modo alleviato, e loro stessi rassicurati, resi ottimisti, facilitati nell’immaginarne le possibili soluzioni. E lo si capiva ― oh, era inequivocabile! ― da come si muovevano gli uni rispetto agli altri... Come se tutti quanti stessero serenamente passeggiando? Di più! Come se tutti insieme fossero impegnati in una danza molto discreta, così pacata da risultare quasi impercettibile, così complessa che la mia mente si smarriva nel tentare di concepirla, e nondimeno del tutto evidente per il senso di armonia che se ne sprigionava? Di più!... Sì, molto di più. Poiché da come si muovevano gli uni rispetto agli altri, pur senza conoscersi né salutarsi, a tutti loro era palese quanto ciascuno fosse lieto della presenza d’ogni altro.
Lo saprete senz’altro anche voi: alle volte il mondo appare così quando ci si trova in buona compagnia e con essa si sta tracannando qualche buon bicchiere. Ma è assai difficile che appaia così di lunedì mattina mentre si sta tornando al lavoro, e per di più quando l’estate di San Martino è ormai terminata da un pezzo! Ebbene: dai finestrini della corriera immaginaria il mondo appariva sempre così bello. E senza alterare la realtà: se tirava un gran vento e pioveva come Dio la mandava, da lì parevano stupendi, affettuosi e pieni di calore umano anche la pioggia e il vento. Se gravi accadimenti interni o esteri turbavano la serenità di chiunque ne avesse notizia, be’, guardando fuori da quei finestrini si aveva la certezza che tutto prima o poi si sarebbe risolto. Di più: che ciascuno, là fuori, fosse sinceramente, attivamente impegnato e stesse fornendo un decisivo contributo a far sì che tutto prima o poi si risolvesse. E forse, se era in giro la corriera immaginaria, era proprio così che le cose andavano!...
Talmente bello appariva il mondo, visto da lì, che erano incomparabilmente più piacevoli da contemplare perfino le verdi, intatte colline tra le quali la corriera immaginaria s’inoltrava dopo aver lasciato la città. Che sarebbero state incantevoli anche guardandole da una corriera normale, se i finestrini di una corriera normale fossero trasparenti, ma che da quelli della corriera immaginaria facevano pensare alle colline dell’Eden, percorse da ruscelli di latte e miele e popolate di aggraziate creature.
Eppure, il desiderio di tornare a guardare la Donna, seduta qualche posto dinanzi a me, era così intenso da distogliermi spesso anche da quel meraviglioso spettacolo. Chi è?, mi domandavo. Dove starà andando? Dove scenderà? Come sarebbe bello, se fosse una nuova collega!... Scenderebbe con me, faremmo insieme la strada fino al paese e alla scuola, e sarei io a prepararla e introdurla nel nuovo ambiente! E la mia scuola (sì, lo pensai fin da quel primo viaggio, e ci tengo a dichiararlo a testimonianza del fatto che avevo già compreso, di quel che mi stava capitando, assai di più di quanto credevo) nel momento stesso in cui lei vi fosse entrata avrebbe smesso di essere un umido sottoscala. Certi colleghi avrebbero perduto quell’aria fra l’indifferente e il disilluso che perennemente ne affliggeva e sconciava le sembianze e che così tanto contribuiva a rendere svogliati anche gli alunni migliori. Tutto sarebbe diventato di punto in bianco stupendo, entusiasmante, creativo e felice!
Ahimé! La Donna non sarebbe scesa con me dalla corriera immaginaria, né allora né mai. Il mondo, non appena ne sarei smontato io, sarebbe tornato a essere l’impervio palcoscenico che sempre è. E benché per quaranta minuti mi fossi sentito come in paradiso, con l’unica pena di non avere occhi a sufficienza per ammirare insieme la Donna e il paesaggio, non molto tempo dopo che ne sarei disceso avrei cominciato a ripensare a quell’incredibile avventura con un senso di smarrimento e addirittura di timore... Ma non anticipiamo: per adesso né dubbi né domande né paure mi passavano per l’anticamera del cervello; non avvertivo che un immenso, gioioso stupore, e mentre gli occhi si beavano di quel che vedevano, il resto del mio corpo si godeva le piacevolissime sensazioni suscitate dalla guida del Conducente.
Come descriverle? Ah, se fosse possibile rammentare, anche solo vagamente, quel che provavamo quando le nostre mamme (se erano delle madri come si deve) amorevolmente ci sollevavano da terra liberandoci della maggior parte dei penosi effetti della forza di gravità, e tenendoci stretti stretti al cuore ci facevano volare verso le soavi mete dei loro baci, delle carezze e delle premurose cure con cui erano solite cullarci finché non ci addormentavamo dolcemente! Poiché, se fosse possibile provare di nuovo quelle sensazioni (così intense che la loro pur vaga e per lo più inconscia reminiscenza ci ha fatto sognare di volare per il resto delle nostre vite) io penso che le troveremmo assai simili, per non dire identiche, a quelle che suscitarono in me il moto della corriera immaginaria, rapido, possente e al contempo sereno come quello di un pianeta lungo la propria orbita, e la guida perfetta del suo Conducente.
Così perfetta che non soltanto non mi preoccupò una sola volta, ma al contrario mi procurò un intenso piacere non meno fisico che mentale. Così sicura e distesa, pur senza rinunciare a uno iota della generosa potenza del motore di cui governava lo slancio, che se fossi stato una donna credo che non avrei potuto non domandarmi come mi sarei sentita, se mi fossi trovata sotto quel giovanotto e tra le sue mani al posto della corriera. E resa ancor più ammirevole (e gradevole) dal fatto che tanta perfezione non gli imponeva di concentrarsi fino a dimenticare la nostra presenza, visto che di quando in quando si volgeva a guardarci sorridendo, la Donna e me, come dei cari amici nei cui occhi amasse leggere la soddisfazione che la sua professionalità ci arrecava. Io, ogni volta, non potevo non testimoniargliela rispondendo al suo sorriso, e mi parve, nel cogliere dei movimenti quasi impercettibili della Donna verso di lui, che ella facesse lo stesso. E gli altri guidatori non dovevano provare nei suoi confronti una minore ammirazione, sia in città che in campagna, a giudicare dalla cordiale prontezza e dagli allegri cenni di saluto con cui gli cedevano il passo anche quando non erano tenuti a farlo.
Quanto ai passeggeri, per quel giorno non ne salirono altri: io e la Donna fummo i soli, e lei rimase a bordo quando io scesi. La corriera immaginaria si allontanò, scomparve silenziosamente oltre una curva, accompagnata da un reverente corteo d’altri veicoli, e a me non restò che incamminarmi, già pieno di rimpianto, verso una giornata come tutte le altre.
Ebbene: mi rendo conto che potrà sembrare incredibile, ma tutto questo - tutto ciò che ho appena narrato con accenti che a chi non ha condiviso la mia esperienza appariranno forse più adatti a una descrizione del Paradiso Terrestre - cominciò di lì a non molto a farmi paura.
Per qualche giorno, a dire il vero, ci pensai sempre meno. Il ricordo di quei quaranta minuti divenne come quello di un bel sogno, sbiadendo dapprima nel presentimento e poi nella certezza che non sarebbero mai più tornati. E invece qualche settimana dopo, in un gelido mattino di gennaio, la corriera immaginaria riapparve e il bel sogno si ripeté. Con la differenza che questa volta i passeggeri furono tre ― la Donna, il sottoscritto e un ragazzo che scese alla fermata prima della mia dopo che fra me e me l’avevo battezzato lo Studente ― e che io ne uscii spaventato come se nel bel sogno, oltre a noi e il Conducente, si fosse segretamente insinuata un’invisibile presenza da incubo di cui avessi in qualche modo avvertito l’invidioso influsso.
Per ben tre volte, da quel giorno, fuggii a gambe levate al solo veder apparire la corriera immaginaria all’ingresso del terminal. Senza sapere neanch’io cosa temevo, angosciato come da un fantasma che mi tormentasse senza mai mostrarsi, pieno di malesseri fisici e mentali che attribuivo di volta in volta all’atmosfera che avevo respirato su di essa o all’opposto alla vigliaccheria che mi rodeva il cuore, per mesi e mesi mi nascosi come un ladro e sfuggii la sua luce come Monostatos la bellezza di Pamina. Svolsi perfino delle indagini private che non approdarono ad alcunché, nel miserabile tentativo di confermare i miei inesprimibili sospetti con qualche indizio di malvagi pericoli. E tuttavia non ci fu niente da fare: la quarta volta mi misi a correre per non perderla benché fino a un istante prima fossi assolutamente certo che ormai l’avrei evitata per sempre, salii a bordo con l’aria di un figliol prodigo e mi sedetti in fondo in fondo, umiliato, sì, ma con un sospiro di sollievo per aver constatato che i sorrisi della Donna e del Conducente non erano meno cordiali di quanto lo erano stati prima della mia fuga.
La corriera immaginaria, a partire da quel giorno, fu nella mia vita una presenza costante e sempre più ansiosamente attesa. Ma non frequente, purtroppo! Giacché potevano trascorrere dei mesi, prima che riapparisse, o magari poteva tornare per tre giorni di seguito e poi, quasi si sentisse in colpa per tanta generosità, non farsi più vedere per un’interminabile sequela di uggiose settimane. E fra una volta e l’altra, adesso, era il mondo "normale" (e non soltanto le normali corriere) che mi facevano paura e mi diventavano sempre meno sopportabili.
A ogni viaggio c’era un passeggero in più. Fummo in cinque la quarta volta, in sei la terza, e così via fino all’ultima, quando fummo esattamente cinquanta e tutti i posti vennero occupati. E ogni viaggiatore fu nel suo genere così interessante e gradevole da meritarsi da parte mia, quasi al suo primo apparire, il tacito privilegio della lettera maiuscola (la Madre di Famiglia, il Contadino, la Nonna, lo Studentessa) non meno a buon diritto del Conducente e della Donna. La quale era l’unica che era sempre già a bordo, quando la corriera immaginaria prendeva posto al capolinea (tanto che temetti che fosse un’intima amica del Conducente fino a che non mi resi conto che con ogni probabilità non lo era di nessuno di noi, a giudicare dal fatto che non partecipava alle conversazioni altrimenti che con gli sguardi maliziosi, con qualche squillante risatina ― di quelle che come ho già detto mi facevano desiderare di trasformarmi all’istante nel suo giullare personale ― e soprattutto col fascino che silenziosamente da lei emanava momento per momento, e che faceva sì che fosse impossibile parlare di un qualsiasi argomento senza aver l’impressione di parlare in qualche modo almeno un po’ anche di lei) ed era la sola che occupava sempre lo stesso posto all’altezza del Conducente. Non più come una guida turistica, però, ma bensì (ai miei occhi e, ne sono certo, anche a quelli di tutti gli altri) come una regina alla testa di un corteo di nobili che lei stessa aveva reso tali. Un corteo che per altro non aveva niente di solenne, ma era invece assai festoso e perfino gioioso, anche se nel modo molto calmo e consapevole in cui ci s’immagina che sarebbe stata condotta una processione di ringraziamento nei giorni immediatamente successivi al Diluvio Universale, se in occasione di quell’altro scampato pericolo vi fosse stata in giro abbastanza gente per metterne insieme una.
Ma lei, dicevo, con noi non parlava mai. E verso di noi raramente si volgeva (e anche perciò era una festa per gli occhi e per la mente, ogni qual volta si degnava di farlo) come invece faceva spesso il Conducente per raccogliere i nostri riconoscenti sorrisi o per intervenire nella conversazione con qualche rapido ma sempre appropriato commento. Mentre noi (io e il Direttore della Banda, per esempio, o l’Infermiera e il Vigile, o il Venditore Ambulante e il Medico Condotto, o la Badante e il Cioccolataio, o a gruppi di tre, quattro, sei viaggiatori, o anche tutti insieme, per quanto era silenzioso il potente motore che ci portava tutti) eravamo sempre presi in discussioni appassionate che però non ci distoglievano dall’assaporare di gran gusto, e ogni volta più intensamente, tutti i piaceri fisici e mentali che quello straordinario modo di viaggiare ci offriva a profusione. Avevamo fatto amicizia molto facilmente, ognuno fin dal suo primo viaggio, senza timidezze o ambiguità di sorta, e subito avevamo scoperto che le nostre diverse professioni e le diverse storie che avevamo vissuto non avevano impedito a nessuno di noi di coltivare tutti gli interessi dai quali si ricava la messe di fantasie e conoscenze che rende affascinante un interlocutore quasi comunque la pensi e quasi qualunque cosa faccia nella vita.
Conversavamo di buona cucina e di fisica quantistica, ci appassionavamo alla possibilità che i nostri geni fossero egoisti non meno che a quella che solo l’arte sia davvero altruista, ci illustravamo le nostre convinzioni in politica interna ed estera con lo stesso interesse con cui ci raccontavamo le piccole vicende della nostra infanzia. Insomma: per quaranta minuti eravamo grandi amici, e lo eravamo sempre di più, e ciò faceva sì che ogni nuovo arrivato si trovasse con noi ancor meglio del suo predecessore. E tuttavia nessuno propose mai ad alcuno di dar seguito all’amicizia anche nella vita, e nessuno accennò mai anche solo alla possibilità di farlo. E mi sa, se tutti la pensavano come me, che nessuno l’abbia fatto poiché tutti avevano la sensazione che quella corriera e ciò che essa conteneva fossero troppo speciali, troppo preziosi (miracolosi! avrebbe esclamato il Credente, se tra noi ve ne fosse stato uno) per rischiare di manometterla irreparabilmente col benché minimo intervento o iniziativa. E perciò, per quanto fosse piacevole l’atmosfera che le nostre conversazioni creavano fin dalle prime battute, nessuno osò mai anche solo addentrarsi col pensiero nell’ipotesi di ciò che sarebbe potuto accadere se avessimo tentato di asportare dalla corriera immaginaria anche una sola particella di ciò che la rendeva tale, materiale o non materiale che fosse. (Solo che non è vero, dopo tutto: poiché almeno io ― ma, ne son certo, anche molti altri ― per tutto il viaggio non facevo altro, qualunque cosa stessi al contempo pensando e dicendo, che tenere almeno una parte della mente costantemente impegnata nell’immaginare quanto sarebbe stato bello riuscire a sottrarre alla corriera immaginaria la Donna che ne era la regina...)
Non dico che ci toglievamo le scarpe prima di salire a bordo, no, ma son pronto a giurare che ogni volta era questo che tutti pensavamo che sarebbe stato giusto fare, così come ogni volta mentalmente ci toglievamo il cappello nel dare il buongiorno a lei e al Conducente. Ci vestivamo tutti i giorni meglio che potevamo, per non rischiare di non essere adeguatamente eleganti quando la corriera immaginaria finalmente ricompariva emanando gioia di essere al mondo da ogni centimetro quadrato della sua carrozzeria color del mare. Ci lavavamo con ogni cura, con ogni cura si radeva chi di noi possedeva una barba, e ci profumavamo, e stavamo perfino più attenti alla nostra alimentazione, pur di non mettere a repentaglio la sua fragrante atmosfera interna. E ogni volta che tornava a visitarci, la felicità di viaggiare su di essa era così intensa, e così intensamente si riverberava sulle nostre vite di tutti i giorni, che la volta successiva ne avevamo sempre ancora un po’ per quanto a lungo si fosse fatta attendere.
Un miracolo? Una storia impossibile? Ebbene, lo pensai anch’io. E così resuscitai nel mio cuore le paure dei primi tempi, e nei momenti in cui con quelle paure cercavo di giocare per esorcizzarle, arrivai perfino a pensare che si avvicinasse la morte, per me e per i miei compagni di viaggio; che la nostra bontà nel corso dell’esistenza ci avesse guadagnato il Paradiso; e che quei viaggi fossero il modo che l’Onnipotente aveva scelto per acclimatarci a poco a poco in una felicità che, se ci fosse piombata addosso tutta assieme, sarebbe potuta essere esiziale perfino per dei puri spiriti! Eppure non avevo mai creduto nell’Onnipotente! Ma sapete com’è: le grandi gioie come le grandi disgrazie non sono quel che c’è di meglio, per chi non vuol rischiare che qualche ideuzza superstiziosa gli s’infili di soppiatto nel cervello, magari dopo aver risalito con un brivido tutto il corso del midollo spinale...
E invece l’Onnipotente non c’entrava affatto, come al solito, e tanto meno il Paradiso. Né, per buona sorte, alcuno di noi era prossimo al termine dell’esistenza. E un brutto giorno, così com’era cominciato, tutto finì. La volta precedente eravamo stati finalmente cinquanta, e quella volta - come se il successo che ci aveva appena arriso non contasse un bel niente - ci ritrovammo in quarantanove. Al punto che non ci volevamo credere, ricordo, e che partimmo con quasi mezz’ora di ritardo, e anche allora non ce ne saremmo andati se l’altoparlante del terminal non ci avesse ammonito che dovevamo lasciar libera la pensilina per la corriera successiva. Altrimenti credo che saremmo ancora lì, in attesa, immobili e come sospesi con le nostre bisacce sulle ginocchia. Poiché nemmeno il Conducente, come tutti noi, sarebbe mai voluto salpare verso il vasto mondo senza la Donna a bordo. Col suo posto vuoto. Con quel buco nero proprio là dove fino all’altra volta ella ci aveva indicato la strada come una stella polare.
Nondimeno, fu ciò che dovemmo fare. Da quella volta partimmo sempre senza di lei, viaggiammo senza di lei, e ognuno di noi arrivò a destinazione senza averla veduta. Quale fantasia ci vorrebbe, e quale penna, per immaginare e descrivere la tristezza del Conducente quando tutto solo tornava ogni volta a ricoverare nella sua inconcepibile rimessa quella corriera a mano a mano sempre meno immaginaria!
Il mondo al di là dei finestrini, la calda e gioiosa atmosfera che c’era sempre stata fra noi, e la vettura stessa, presero allora a deteriorarsi. La guida del Conducente assomigliò sempre di più a quella di coloro che fino a poco tempo prima ci saremmo rifiutati di onorare col titolo di suoi Colleghi. Tutto, a poco a poco e senza alcuno strepito, inesorabilmente franò.
Eravamo pur sempre quarantanove perfetti esemplari di esseri umani (ancora cinquanta col Conducente!) e tuttavia non riuscimmo a scongiurare il crollo di ciò che la Donna aveva creato da sola. Ma questo, in fondo, ognuno di noi sotto sotto l’aveva sempre saputo. Mentre quello che più dolorosamente ci sbalordì fu il fatto che ella aveva potuto abbandonarci. Neanche per un attimo ci passò per la mente l’idea di accusarla di qualcosa: la colpa era nostra, non poteva non essere nostra. E anche questo era pacifico. Ma quel che ci domandavamo angosciati, e che non riuscimmo a capire mai (finché avemmo ancora la forza di tener desti il desiderio e la capacità di conversare) era che cosa avessimo mai fatto per deluderla a tal punto.
L’ipotesi più accreditata fu che avremmo dovuto tentare di coinvolgerla nelle nostre discussioni, o addirittura che qualcuno (della metà maschile dei passeggeri) avrebbe dovuto trovare il coraggio di corteggiarla. Ma dove trovarlo, quel coraggio, se ognuno di noi era sempre stato più che certo di non poter permettersi nemmeno di lasciarsi cadere un capello dalla testa, nella perfezione della corriera immaginaria, per timore di turbarla irrimediabilmente! E avremmo dovuto esser capaci di tentare di rapirne la Regina? Ah, esseri umani! Così straordinariamente abili nell’immaginare la perfezione, e così mostruosamente inetti a esserne all’altezza!
È passato molto tempo, da allora. Non ho più visto la corriera immaginaria. Ma non ho dimenticato la Donna. E continuo ― ogni volta che un fervore di luci in lontananza o notizie di grandi e meravigliosi cambiamenti in luoghi remoti mi inducono a pensare che ella sia là a rendere più bello il mondo con la sua presenza ― a recarmi sul posto nella speranza, sempre delusa, di rivederla.
Ora però sono stanco, non ce la faccio più a correre di qua e di là in cerca di lei... E allora scrivo storie come questa, per incontrarla almeno nella fantasia. |