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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Dio, cioè lolio di ricino n.3...

 

Religioni, Chiese e preti secondo Sc’vèik

 

di Jaroslav Hašek (1883-1923)

 

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Il cappellano militare, reverendo OttoKatz, mentre fa ubriacare il pio curato con l'aiuto del buon soldato Sc'vèik.

Il cappellano militare, reverendo OttoKatz, mentre fa ubriacare il pio curato con l’aiuto del buon soldato Sc’vèik.

 

Nota di ScuolAnticoli

Il 18 gennaio 2015, pochi giorni dopo il massacro compiuto da fanatici religiosi malati di mente nella redazione di Charlie Hebdo e la successiva esibizione del pugno di papa Bergoglio contro chi offende la religione, il quotidiano La Repubblica ha avuto il coraggio di pubblicare le seguenti parole del suo fondatore, l’ex giovane fascista Eugenio Scalfari: Il pugno dovrebbe essere ― credo io ― una norma che vieti e punisca chi si prende gioco delle religioni. Puoi criticarle, certamente, ma non insultarle. Questo è il pugno. Voltaire non sarebbe daccordo, ma non possiamo chiedere a Francesco di esser volterriano. Disgraziatamente, lo Scalfari si è dimenticato di stabilire dove passi, esattamente, il confine tra critica e insulto, nonché ― e questo è, se possibile, ancor più spiacevole ― chi altri potrebbe stabilirlo se non, a loro esclusivo piacimento, i cosiddetti “offesi”, dal momento che i cosiddetti “offensori”, non sentendo la cosiddetta “offesa”, di quale aiuto potrebbero essere nel determinare tale confine? Ma niente paura, egregio dottor Scalfari: c’è qui ScuolAnticoli, Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca che, per soccorrerla in una così ardua opera di discernimento, pubblicherà le pagine più “offensive” che è riuscita a reperire nelle opere di alcuni grandi o grandissimi scrittori. Si comincia con un paio di capitoli de Il buon soldato Sc’vèik, di Jaroslav Hašek, nei quali, come avranno modo di constatare fin dalle prime righe l’egregio dottor Scalfari e tutti i “figli di... mamma religione” del suo stampo, il confine tra critica e insulto è così sottile che passerebbe entro la cruna del più minuscolo degli aghi senza neppure sfiorarla. Che ne dite, egregio dottor Scalfari e “fratelli” vari, sarà il caso di “vietare e punire” anche Il buon soldato Sc’vèik?... Come?... La domanda è troppo difficile? Può darsi, ma... altrimenti che compito a casa sarebbe?

 

Dio, cioè lolio di ricino n.3

 

di Jaroslav Hašek (1883-1923)

da Il buon soldato Sc’veik, trad. di Renato Poggioli, illustrazioni di Josef Lada, Milano, Feltrinelli, 1961

 

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11. Sc’veik si reca col cappellano a servire la messa al campo

 

Non c’è massacro d’uomini i cui preparativi non abbiano avuto luogo nel nome di Dio o a ogni modo d’un supposto ente supremo che l’umanità ha creato con la sua fantasia.

Prima di decapitare un prigioniero di guerra, gli antichi Fenici celebravano un solenne servizio divino simile a quello celebrato dai loro posteri più giovani di qualche migliaio di anni, prima d’entrare in battaglia e d’annientare i loro nemici col ferro e col fuoco.

Gli antropofagi delle isole della Polinesia e della Nuova Guinea, prima di divorare solennemente i loro prigionieri di guerra o la gente che non serve a niente come i missionari, gli esploratori, i rappresentanti di commercio o dei semplici curiosi, sacrificano ai loro dei eseguendo i più svariati riti liturgici. Poiché il nostro civilissimo costume dei paramenti non è ancora giunto fra loro, essi adornano i propri fianchi con ciuffi di piume d’uccelli selvatici.

La Santa Inquisizione, prima di mandare al rogo le sue vittime, celebrava la più solenne delle cerimonie religiose, vale a dire una gran messa cantata.

All’esecuzione di un criminale assiste ovunque qualche sacerdote che lo tormenta con la sua presenza.

In Prussia è il pastore che guida il poveraccio sotto la scure, nell’Austria è il prete cattolico che lo conduce alla forca, come pure in Francia alla ghigliottina. Allo stesso modo, in America è un sacerdote che l’accompagna alla sedia elettrica, e in Ispagna alla garrota; in Russia è un pope barbuto che presenzia all’esecuzione dei rivoluzionari.

In ogni paese i sacerdoti brandiscono il crocifisso come per dire: “Ti taglieranno la testa, t’impiccheranno, ti faranno attraversare da quindicimila volt, ma non avrai mai sofferto come Lui”.

L’immane scannatoio della guerra mondiale non avrebbe potuto agire senza la benedizione ecclesiastica. I cappellani militari di tutti gli eserciti pregavano e officiavano per la vittoria del paese di cui mangiavano il pane.

Alle esecuzioni dei soldati ammutinati si poteva vedere un sacerdote, che non mancava neanche all’impiccagione dei legionari cèchi caduti in mano agli Austriaci.

Niente era cambiato dall’epoca in cui il bandito Adalberto, che più tardi fu canonizzato, concorse attivamente, con la spada nella destra e il crocifisso nella sinistra, al massacro e all’annientamento degli Slavi baltici.

In tutta Europa gli uomini marciavano come greggi allo scannatoio dove li conducevano, in una con gli imperatori, i re, gli altri potentati e i generali in grembiule da macellaio, i sacerdoti di tutte le confessioni che li benedicevano e li facevano falsamente giurare che “in terra, in mare e in aria”, ecc., ecc...

La messa si celebrava in due occasioni diverse. Prima quando un reparto partiva per il fronte, e poi al fronte stesso, in anticipazione di qualche mischia sanguinosa e di una strage. Mi ricordo che una volta, durante una di queste messe, un aeroplano nemico lasciò cadere una bomba proprio sull’altare da campo, e del povero cappellano non rimasero che dei miseri resti sanguinolenti.

Allora i giornali lo descrissero come un martire, mentre i nostri aeroplani preparavano una fine altrettanto gloriosa al cappellano militare della parte opposta.

Quest’avventura ci rallegrò moltissimo, e sulla croce provvisoria piantata sul luogo dove avevano sepolto i rimasugli del cappellano, apparve nel corso della notte la seguente epigrafe funeraria: “È a te e non a noi che hanno fatto la festa. Ci promettevi il cielo come fosse una pacchia. T’è caduta una tegola del cielo sulla testa. T’ha schiacciato. E non resta di te che questa macchia”.

[...]

L’altare da campo usciva dal laboratorio della ditta ebraica Moritz Mahler di Vienna, che fabbricava ogni specie di oggetti necessari alla messa e articoli di devozione, come rosari e santini.

L’altare si componeva di tre parti, riccamente addobbate d’una falsa doratura, come ogni pompa ecclesiastica.

Senza una buona dose di fantasia era impossibile rendersi conto di che cosa rappresentassero effettivamente le immagini dipinte a trittico sopra l’altare da campo. La verità è che quell’altare avrebbe potuto servire abbastanza bene ai pagani dello Zambesi o agli sciamani dei Buriati e dei Mongoli.

Decorato con colori sgargianti, da lontano aveva tutto l’aspetto di una di quelle tavolette colorate che i medici delle ferrovie adoperano per scoprire gli impiegati affetti da daltonismo.

Nella massa spiccava una sola figura: un uomo nudo con un’aureola, il corpo verdastro come la pelle di un’oca che puzza e che già si trova in istato di avanzata putrefazione.

A quel santo nessuno faceva niente di male. Però accanto a lui si vedevano due creature alate, incaricate di rappresentare due angeli, e lo spettatore aveva l’impressione che il sant’uomo tutto nudo nutrisse un grande spavento riguardo ai due angioli custodi che l’accompagnavano. Infatti le due creature celesti avevan tutta l’aria di mostri favolosi, o meglio d’un qualcosa d’intermedio fra un gatto selvatico fornito di ali e il drago dell’Apocalisse.

Il pannello dirimpetto doveva raffigurare la Santissima Trinità. Per ciò che riguarda la colomba, così all’ingrosso, il pittore aveva poco da perdere. Aveva dipinto un volatile incerto, che poteva essere con altrettanta ragione una colomba che una gallina faraona.

Ma il Padreterno sembrava uno di quei feroci banditi del Far West, che amano presentare al nostro pubblico i sanguinari produttori del film americano.

Il Figliolo era invece un uomo giovane e gaio, con una bella pancia, e indossava un capo di biancheria che aveva tutta l’aria di un paio di mutandine da bagno. L’insieme dava l’impressione di trovarsi dinanzi a uno sportivo, e la sua mano reggeva la croce con la grazia d’una racchetta.

Visto da lontano il complesso si confondeva in una macchia confusa e faceva l’effetto di un treno che arriva alla stazione.

In quanto al terzo pannello, era impossibile raccapezzarsi che cosa volesse rappresentare.

I soldati ne discutevano sempre e facevano l’impossibile per risolvere quel rebus. Ci fu persino un tale che suppose che quello fosse un paesaggio della valle della Sàsava.

Il fatto è che sotto vi si poteva leggere questa iscrizione: Sancta Maria, Mater Dei, miserere nobis.

Sc’vèik caricò con garbo l’altare su una carrozzella, montò a cassetta accanto al vetturino, e il cappellano Katz si mise a sedere coi piedi comodamente appoggiati sulla Santissima Trinità.

Sc’vèik ammazzava il tempo discutendo della guerra col vetturino.

Il vetturino era un sovversivo, e commentava così le vittorie dell’esercito austriaco: “In Serbia ve l’hanno date sode, non c’è che dire” e così via. Quando attraversarono la linea daziaria, l’impiegato domandò se non trasportavano niente da dichiarare.

Sc’vèik rispose:

“La Santissima Trinità e la Madonna col mio cappellano”.

Nel frattempo, lassù in piazza d’armi, le compagnie destinate al fronte aspettavano con impazienza l’inizio della funzione. Ma dovettero attendere ancora per un bel pezzo. Infatti il cappellano e il suo attendente dovettero prima recarsi dal tenente Witinger per la famosa coppa sportiva che doveva fungere da calice, e poi al convento di Brenov per farsi dare l’ostensorio, il ciborio e altri accessori occorrenti alla messa, inclusa una bottiglia di vin santo. Il che dimostra che officiare una messa da campo non è poi la cosa più semplice del mondo.

“È un lavoro alla carlona” disse Sc’vèik al vetturino, e aveva ragione. Quando infatti arrivarono in piazza d’armi e furono giunti accanto al piedistallo di legno destinato a sostenere l’altare, si accorsero che il cappellano s’era dimenticato del chierichetto che serviva la messa.

Di solito gli serviva la messa un soldato di fanteria, che aveva preferito passare al genio telegrafisti e che era stato mandato al fronte.

“Non fa niente, signor cappellano”, disse Sc’vèik, “io posso sostituirlo benissimo”.

“Ma sapete servir messa?”

“Non mi ci sono mai provato”, rispose Sc’vèik, “ma bisogna provarsi a far di tutto. Siamo in guerra, e ora la gente fa delle cose che prima non le sarebbero neppure passate per il capo. Sarò pur capace di ribattere con un et cum spiritu tuo al vostro Dominus vobiscum. E poi quale difficoltà c’è a girare intorno a voi come un gatto intorno a un bel piatto fumante di patate? Oppure lavarvi le mani e versarvi il vino dal calice...”

“Bene”, disse il cappellano, “basta che non mi versiate dell’acqua. È meglio che mi versiate un po’ di vino anche dal secondo calice. Per il resto vi dirò tutto io, se dovrete girare a destra o a sinistra. Se farò adagio un sol fischio, vorrà dire a destra, se ne farò due, a sinistra. In quanto al messale non c’è bisogno che vi diate troppa pena. Tutto il resto è un giochetto. Avete paura?”

“Io non ho paura di niente, signor cappellano, neanche di servir messa”.

Il cappellano Katz aveva ragione a dichiarare che tutto il resto non era che un giochetto.

Tutto filò come per incanto. L’allocuzione del cappellano fu estremamente concisa.

“Soldati! Vi abbiamo radunati qui perché prima di partire per il fronte rivolgiate i vostri cuori a Dio, onde ci dia la vittoria e ci mantenga in salute. Io non voglio trattenervi troppo e vi faccio i miei migliori auguri”.

“Riposo!” comandò il vecchio colonnello del battaglione di sinistra.

La messa da campo si chiama così appunto perché è sottomessa alle leggi della strategia come una campagna di guerra. Durante le lunghe battaglie manovrate della Guerra dei trent’anni, anche le messe da campo durarono in proporzione.

In accordo alla tattica moderna, che vuole rapidi e agili movimenti degli eserciti, anche le messe da campo debbono avere un’agilità e una rapidità equivalenti.

Questa durò dieci minuti esatti, e i soldati che eran vicini all’altare si stupirono grandemente sentendo il cappellano fischiare durante la messa.

Sc’vèik eseguiva rapidamente i segnali, volteggiando ora a destra e ora a sinistra, senza dir altro che et cum spiritu tuo.

Tutto questo armeggio aveva l’aria d’una danza di pellerossa intorno al totem, ma aveva questo di buono, che dissipava la noia ispirata nei soldati da quella triste e polverosa piazza d’armi, mal alberata e piena di gabinetti che sostituivano col loro sentore il mistico aroma d’incenso delle cattedrali gotiche.

Tutti si divertivano come matti. Gli ufficiali che facevan cerchio intorno al colonnello si raccontavano storielle allegre. Tutto procedeva con ordine, e ogni tanto si udiva qualcuno della truppa che diceva: “Fammi tirare una boccata”.

E come il fumo d’un rogo consacrato, salivano sù dalle bocche verso il cielo le nuvole azzurre delle sigarette. Tutti i gradi si erano messi a fumare da quando avevano visto il signor colonnello accendersi un sigaro.

Quando echeggiò il comando “Pregate!”, il polverone turbinò e il pittoresco quadrato delle uniformi si genuflesse dinanzi alla coppa sportiva del sottotenente Witinger, vinta da lui nella corsa da Vienna a Moedling organizzata dal Favorito dello Sport.

Il calice era ricolmo, e il giudizio generale provocato dalla manipolazione del cappellano fu espresso nella seguente frase, che corse sùbito nelle file: “Che garganella!” La manovra fu messa in esecuzione una seconda volta. Al che seguì un altro comando di “Pregate!”, mentre la musica attaccava insieme l’ouverture e il finale del Dio proteggi la patria.

“Raccogliete tutti questi aggeggi”, disse il cappellano a Sc’vèik additando l’altare da campo, “bisogna restituirli a chi ce li ha prestati”.

E così ritornarono col loro vetturino e resero tutto fino all’ultimo oggetto, a eccezione soltanto della bottiglia di vin santo.

Tornati a casa, dopo avere rimandato quel disgraziato di vetturino a farsi pagare dal comando il prezzo della lunghissima corsa, Sc’vèik disse al cappellano: “Signor cappellano, vorrei sapere se chi serve messa dev’essere della stessa confessione di chi la celebra”.

“Perbacco!” rispose il cappellano. “Altrimenti non sarebbe valida”.

“Allora, signor cappellano, è successo un gran brutto affare”, esclamò Sc’vèik, “perché io non appartengo a nessuna confessione. Ho sempre avuto una grande sfortuna!”

Il cappellano Katz guardò un po’ il viso di Sc’vèik, stette un po’ zitto e poi gli batté una mano sulla spalla e gli disse: “Bevetevi il vin santo che è rimasto nella bottiglia, e ritenetevi già riammesso nel grembo della Chiesa”,

 

12. Dibattito religioso

 

Spesso succedeva che Sc’vèik stava giorni interi senza rivedere quel pastore di anime militari. Il cappellano Otto Katz alternava i doveri del suo ufficio con la bisboccia, e ogni tanto faceva ritorno a casa sudicio e non lavato come un gatto in amore che ha fatto le sue escursioni sù per i tetti.

In occasione di questi ritorni, quando era in vena di conversare, prima d’addormentarsi chiacchierava con Sc’vèik di mete elevate e di nobili entusiasmi, e soprattutto delle pure gioie del pensiero.

Qualche volta si provava perfino a parlare in versi e citava Heinrich Heine.

Sc’vèik ebbe l’occasione di servire un’altra messa da campo col cappellano, dinanzi a un reparto di zappatori.

A quella messa era stato invitato per sbaglio un altro cappellano, fin allora insegnante di catechismo, un uomo straordinariamente pio, e che fece le gran meraviglie a vedere che il suo confratello l’invitava a bere un sorso di cognac dal bottiglione ricolmo che Sc’vèik si portava dietro per ogni evenienza in ciascuna si simili cerimonie religiose.

“È un’ottima marca”, disse il cappellano Katz, “bevetene e tornatevene a casa. Io mi sbrigherò da solo, tanto più che mi farà bene prendere un po’ d’aria fresca: anche oggi mi fa un po’ male la testa”.

Il pio cappellano se n’andò scuotendo il capo, e Katz assolse perfettamente, come sempre, alla propria funzione.

Quella volta a trasmutarsi nel sangue del Signore toccò a un vinello frizzante, e la predica durò più a lungo del solito, perché ogni tre parole intercalava un certamente e un eccetera.

E come se non bastasse, il suo certamente eccetera echeggiò anche dall’altare, alternato col nome di Dio e con tutti i santi.

Pieno di entusiasmo e di estro oratorio, il cappellano esaltò fra i santi perfino il principe Eugenio, che avrebbe protetto i soldati del genio mentre costruivano i loro ponti attraverso i fiumi.

Ciò nonostante, la messa terminò senza ulteriori incidenti, fra l’allegria e il divertimento degli zappatori. Gli zappatori se la godettero magnificamente.

Sulla via del ritorno non li volevano far salire sul tram col loro altare smontabile.

“Ti tiro il santissimo in testa” dovette dire Sc’vèik al controllore.

Quando finalmente giunsero a casa, s’accorsero d’aver perduto il tabernacolo per strada.

“Non fa niente”, disse Sc’vèik, “gli antichi cristiani celebravan la messa anche senza tabernacolo. Se noi denunciamo lo smarrimento, l’onest’uomo che lo ritroverà ce lo restituirà certamente.

[...]

La sera essi ricevettero la visita di quel pio cappellano militare che era venuto la mattina a celebrare la messa da campo per gli zappatori. Era un fanatico che voleva accostare a Dio tutte le anime che gli capitavano sotto mano. Quando era stato insegnante di catechismo, ispirava il sentimento religioso nei ragazzi a furia di schiaffi, e di quando in quando se ne dava notizia sulle più svariate pubblicazioni periodiche: “Un bruto in veste di catechizzante”, “Un insegnante di religione schiaffeggiatore”. Costui era convinto che il catechismo si rivela ai fanciulli nel modo migliore col concorso del manganello.

Il cappellano zoppicava da una gamba, in conseguenza della spiegazione che una volta aveva avuto col padre d’un alunno ch’era stato schiaffeggiato per aver espresso dei dubbi a proposito della Santissima Trinità. Il ragazzo s’ebbe tre schiaffi, il primo in nome del Padre, il secondo del Figlio e il terzo dello Spirito Santo.

Costui era venuto dal collega Katz allo scopo di toccargli l’anima e di ricondurlo sul retto cammino, infatti cominciò il proprio discorso con la seguente osservazione: “Mi meraviglio di non vedere il crocifisso in casa vostra. Dove leggete il breviario? Non una sola immagine sacra adorna le pareti della vostra camera. Che cos’è quell’affare che tenete sopra il guanciale?”

Katz sorrise e rispose: “Susanna al bagno, e quella donna nuda lì sotto è una mia vecchia conoscenza. A destra, c’è una stampa giapponese che rappresenta il coito d’un vecchio samurai con una geisha. Molto originale, non vi pare? In quanto al breviario, uso tenerlo in cucina. Sc’vèik, portatemelo qui e apritelo alla pagina 3”.

Sc’vèik uscì, e dalla cucina echeggiò per tre volte di seguito l’esplosione del tappo d’una bottiglia di vino spumante.

Il pio curato restò addirittura di sasso quando scorse sul tavolo le tre bottiglie di vino.

“È un vino da messa molto leggero, mio reverendo collega”, disse Katz, “un vino nostrale di prima qualità. Il suo sapore lo fa quasi sembrare vino della Mosella”.

“Io non ne berrò”, dichiarò austeramente il pio curato, “io son venuto qui per toccarvi l’anima”.

“Allora, reverendo collega, vi si seccherà l’ugola”, osservò Katz. “Bevete pure, ché io vi starò a sentire. Io sono un uomo straordinariamente tollerante e posso dare ascolto anche alle opinioni altrui”.

Il pio curato bevve un sorso e sgranò gli occhi.

“Un vino indiavolato, non è vero, reverendo?

Il fanatico replicò con durezza: “Vi faccio osservare che voi bestemmiate”.

“È un’abitudine”, spiegò Katz. “Qualche volta mi sorprendo io stesso a bestemmiare. Sc’vèik, versatene ancora al signor curato. Per di più vi posso assicurare che dico anche per il Padreterno, Gesù in croce e Sacramento. Ritengo che quando avrete servito nell’esercito quanto me, farete lo stesso anche voi. Non c’è niente di difficile né di complicato, e per noi religiosi è un affare di tutti i giorni: cielo, Dio, croce e santissimi sacramenti; non suona forte e bene in bocca nostra? Ma bevete, reverendo!”

L’ex catechizzatore beveva macchinalmente, si vedeva bene che avrebbe voluto dir qualcosa, ma non era in grado di aprir bocca: stava raccogliendo i propri pensieri.

“Reverendo”, riprese a dire Katz, “sursum corda: non statemi lì così imbronciato come uno che dev’essere impiccato fra cinque minuti. M’hanno raccontato che voi una volta, di venerdì, avete ordinato per sbaglio una costoletta di maiale, poiché credevate che fosse giovedì, e che siete andato in gabinetto per mettervi le dita in gola allo scopo di vomitare, temendo che il Signore v’incenerisse. Io non ho nessun timore né dell’inferno né di mangiare carne nei giorni di digiuno. Bevete ancora, vi prego. Dite un po’: non vi pare di star meglio così? A proposito dell’inferno: voi avete certamente idee progressiste e seguirete senza dubbio lo spirito dei nostri tempi e le opinioni dei riformisti... Laggiù, invece delle solite caldaie piene di zolfo, per i poveri peccatori ci sono delle vere e proprie pentole di paprika, delle caldaie sottomesse alla pressione di molte atmosfere, e i peccatori vi vengono arrostiti alla margarina, li friggono con la corrente elettrica, e per milioni di anni. I dentisti si occupano con macchine speciali del digrignamento dei denti, i gemiti vengono incisi al grammofono e i dischi vengon mandati lassù in paradiso per rallegrare i beati. In paradiso son continuamente in azione dei grandi spolverizzatori d’acqua di Colonia, e la Società filarmonica vi suona tanto e tanto di quel Brahms, da far dare la preferenza all’inferno e al purgatorio. Gli angioletti portano sul di dietro delle eliche d’aeroplano, per non stancar troppo le ali. Bevete, reverendo; e voi, Sc’vèik, versategli un po’ di cognac: non vedete che non sta troppo bene?”

Quando il pio curato si fu un po’ rimesso, mormorò: “La religione non è altro che un problema di ragionamento. Chi non crede all’esistenza della Santissima Trinità...”

“Sc’vèik”, lo interruppe Katz, “versate un altro cognacchino al signor cappellano, per vedere se si rimette. E ditegli qualcosa, Sc’vèik”.

“Le fo umilmente notare, signor cappellano”, disse Sc’vèik, “che nei dintorni di Vlasim c’era un priore a cui era fuggita la vecchia perpetua con il loro ragazzo e i suoi soldi, e che ora teneva soltanto una donna di servizio. E questo priore in vecchiaia si dedicò tutto allo studio di Sant’Agostino, di cui si dice che faccia parte dei Santi Padri, e fu in Sant’Agostino che lesse che chi crede agli antipodi dev’essere senz’altro dannato. Allora chiamò la sua donna di servizio e le disse: «Statemi a sentire: una volta voi mi avete detto che vostro figlio è meccanico e che è emigrato in Australia. Ma allora si troverebbe agli antipodi, e Sant’Agostino ha detto che chiunque crede agli antipodi non può che esser dannato». «Reverendo», gli risponde la donna, «ma dall’Australia mio figlio m’invia lettere e soldi». «Ma è un inganno diabolico», le dice il priore, «secondo Sant’Agostino non esiste affatto un’Australia, e codeste non possono essere altro che tentazioni dell’Anticristo». E la domenica dopo la maledisse pubblicamente e dichiarò dal pubblico che l’Australia non esiste, cosicché lo condussero direttamente dalla chiesa al manicomio. E gente di questa specie ce ne dovrebbero rinchiudere ancora di più. Al convento delle Orsoline conservano una fiala col latte di Maria Vergine, quello con cui allevò il Bambino Gesù, e nell’orfanotrofio di Bénesciov, una volta che vi fecero venire l’acqua di Lourdes, gli orfanelli si beccarono una diarrea quale il mondo non ne ha mai vista”.

Nel frattempo il pio cappellano vedeva formarsi dei grandi cerchi intorno agli occhi, e cercò di tornare in sé con l’aiuto di un altro cognac, che invece fu proprio quello che doveva andargli alla testa.

Sbattendo le palpebre, domandò a Katz: “Voi non credete all’immacolata concezione della Vergine Maria? Voi non credete all’autenticità del dito di San Giovanni Battista conservato nel monastero dei Piaristi? Voi non credete affatto in Domineddio? E se non credete, perché vi siete fatto fare cappellano?”

“Reverendo”, gli rispose il buon Katz battendogli familiarmente le mani sulle spalle, “finché lo Stato riterrà necessario che i soldati che manda a farsi ammazzare in battaglia ricevano a tale scopo la benedizione divina, quella del cappellano militare resterà sempre una professione convenientemente pagata, e neppure eccessivamente faticosa. Per me sarà sempre meglio che scorrazzare in piazza d’armi e dover prendere parte alle grandi manovre... Allora io non facevo che ricevere ordini dai superiori, mentre ora faccio invece quello che mi piace e pare. Rappresento uno che non esiste e recito da me solo la parte di Dio. Quando mi salta in testa di non perdonare a qualcuno i suoi peccati, non glieli perdono neanche se viene a supplicarmi in ginocchio. Del resto, di gente simile se ne trova diabolicamente di rado”.

“Io voglio un gran bene a Domineddio”, esclamò il pio cappellano in mezzo ai singulti, “gli voglio un grandissimo bene. Datemi ancora un po’ di vino”.

“Io lo tengo in gran conto, Domineddio”, riprese a dire, “lo tengo in gran conto e in grandissima stima. Non c’è nessuno che io veneri al pari di lui”.

E tirò un pugno sul tavolo, in modo che le bottiglie tintinnarono. “Dio è una sostanza sublime, qualcosa di sovrumano. È onorabilissimo in tutte le sue relazioni. È come un’apparizione solare, nessuno me lo potrà mai negare. Io ho grande stima di San Giuseppe, e di tutti i santi in genere, eccettuato San Serapione, per il suo nome così ripugnante”.

“Potrebbe fare una petizione perché glielo cambino” osservò Sc’vèik.

“Ho grande stima anche di Santa Ludmilla e di San Bernardo”, riprese a dire l’ex catechizzatore, “colui che ha salvato tanti viandanti sul San Gottardo. Porta al collo una bottiglia di cognac e cerca la gente sepolta sotto la neve”.

La conversazione cambiò improvvisamente di tono. Il pio cappellano faceva d’ogni erba un fascio.

“Io ho grande stima anche degli Innocenti, che hanno il loro giorno festivo in data 28 dicembre. Odio soltanto il re Erode. Se la gallina dorme, non avrete mai un uovo fresco”.

Dopodiché, scoppiò in una gran risata e intonò l’inno Santo Dio, santo, portentoso.

Ma s’interruppe a un tratto, e si rivolse a Katz per domandargli severamente: “Voi forse non credete che il 15 agosto è la festa dell’Annunziata Maria Vergine?”

Lo spasso era giunto al diapason. In tavola apparvero altre bottiglie, e ogni tanto si faceva sentire la voce di Katz che diceva: “Di’ che tu non credi più a Domineddio, altrimenti non ti verso più neanche un goccio di vino”.

Pareva si fosse tornati all’epoca delle persecuzioni dei primi cristiani. L’ex catechizzatore aveva intonato un inno già cantato dai martiri nelle arene romane, e gridava: “Io credo in Domineddio, e non lo rinnegherò. Tienti pure il tuo vino. Posso farmelo comprare per conto mio”.

Finalmente lo misero a letto. Prima d’addormentarsi dichiarò, con la mano alzata come per un giuramento: “Io credo in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Portatemi il mio breviario”.

Sc’vèik gli pose in mano un libro che giaceva sul comodino, e così il pio cappellano s’addormentò col Decamerone di messer Boccaccio sul petto.

 

13. Sc’vèik somministra l’estrema unzione

 

Il cappellano militare Otto Katz stava assorto con aria meditabonda su una circolare che gli avevan recato allora allora dalla caserma. Era una comunicazione confidenziale del ministero della Guerra.

“L’Imperiale e Reale Ministero della Guerra sopprime per tutta la durata del conflitto tutte le prescrizioni concernenti la somministrazione dell’estrema unzione ai soldati dell’esercito, e stabilisce le seguenti norme per tutti i cappellani militari:

1°. Al fronte, l’estrema unzione è abolita.

2°. Ai soldati gravemente feriti o ammalati non è permesso di allontanarsi dalla prima linea allo scopo di farsi somministrare l’estrema unzione. I cappellani militari sono tenuti a denunciare immediatamente simili casi alle autorità competenti per i necessari provvedimenti penali.

3°. Negli ospedali militari delle retrovie è permesso di somministrare l’estrema unzione collettivamente, previo nulla osta dei medici militari, sempre nel caso che la suddetta estrema unzione non rechi alcun nocumento al mantenimento della disciplina.

4°. In casi eccezionali la direzione degli ospedali militari delle retrovie può concedere anche ai singoli la somministrazione dell’estrema unzione.

5°. I cappellani militari, su invito della direzione degli ospedali militari delle retrovie, sono tenuti a somministrare l’estrema unzione agli individui designati dalla suddetta direzione”.

Dopo la circolare il cappellano lesse ancora un allegato, dove gli si comunicava che il giorno seguente doveva recarsi all’ospedale presidiario, in piazza Carlo, per somministrare l’estrema unzione ai feriti gravi.

“Dite un po’, Sc’vèik”, gemé il cappellano, “non è una porcheria? Come se in tutta Praga non ci fossero altri cappellani militari che il sottoscritto! Perché non ci mandano quel pio curato che l’altro ieri passò la notte da noi? Dunque bisogna andarsene a somministrare i sacramenti in piazza Carlo. Io non mi ricordo nemmeno come si fa”.

“Compreremo sùbito un catechismo, signor cappellano: là ci dev’essere”, disse Sc’vèik, “si tratta di una specie di guida turistica per pastori spirituali. Nel monastero di Emmaus lavorava un aiuto giardiniere, e siccome costui voleva raggiungere il grado di frate laico e ottenere una tonaca allo scopo di non consumare i suoi abiti borghesi, così dovette comprarsi un catechismo e imparare in che modo si fa il segno della croce, chi è l’unica creatura scampata dal peccato originale, che cosa vuol dire aver la coscienza pulita e altre bagattelle di questa fatta, dopodiché si mise a vendere di nascosto una buona metà dei pomodori dell’orto conventuale e fu cacciato dal monastero con grande scandalo. Quando lo incontrai, ebbe a dirmi: «Avrei potuto vendere i pomodori anche senza rompermi il capo col catechismo»”.

Quando Sc’vèik ebbe fatto ritorno col suo catechismo acquistato di fresco, il cappellano lo sfogliò un poco e poi disse: “Guarda un po’: l’estrema unzione non può essere somministrata che da un sacerdote, e soltanto con olio consacrato dall’arcivescovo. Voi, Sc’vèik, per esempio, non potrete mai somministrare questo sacramento. Leggetemi un po’ come si deve fare per somministrarlo”.

Sc’vèik lesse: “Si somministra così: il sacerdote unge l’infermo sui singoli sensi mentre prega nel modo seguente: «Che per mezzo di questa santissima unzione e della sua clementissima misericordia, Iddio ti perdoni tutti i peccati che hai commesso con la vista, con l’udito, col gusto, con l’odorato, con la favella, col tatto e con la locomozione»”.

“Mi piacerebbe sapere, caro Sc’vèik”, esclamò il cappellano, “quale peccato si può commettere per mezzo delle mani. Voi me lo sapreste spiegare?”

“Parecchie cosette, signor cappellano: per esempio, ficcarle nelle tasche degli altri, o divertirsi mentre si balla... voi sapete meglio di me come vanno simili cose”.

“E per mezzo della locomozione?”

“Quando si fa finta di zoppicare per impietosire la gente che passa”.

“E per mezzo dell’odorato?”

“Quando si fiuta un sentore che non ci piace”.

“E per mezzo del gusto, Sc’vèik?”

“Quando ci vien voglia di mangiare qualcuno”.

“E per mezzo della favella?”

“Questo è un peccato che va insieme a quello dell’udito, signor cappellano, e la cosa avviene quando qualcuno non fa che ciarlare, e qualcun altro stare in orecchi”.

Dopo queste filosofiche dissertazioni il cappellano rimase zitto per un po’, ma poi prese a dire: “Dunque ci occorre l’olio benedetto dall’arcivescovo. Eccovi dieci corone: compratene una bottiglietta. Nel deposito del commissariato militare non ce ne dev’esser punto”.

Sc’vèik si mise sùbito in cammino alla ricerca dell’olio benedetto dall’arcivescovo. Ma la ricerca di un liquido siffatto è molto più difficile di quella dell’acqua vivificante nelle fiabe.

Si recò nelle più svariate drogherie, ma non finiva di dire: “Vorrei una bottiglietta d’olio benedetto dall’arcivescovo”, che i commessi ridevano a crepapelle o si nascondevano sotto il banco. Eppure Sc’vèik faceva sempre la faccia più compunta possibile.

Alla fine si decise a tentar la sorte nelle farmacie. Nella prima lo fecero cacciar fuori dall’inserviente. Nella seconda furono sul punto di telefonare a un posto di pronto soccorso. Ma il direttore della terza gli disse che non c’era altro che la ditta Polak di via Lunga, grande rivendita di colori e vernici, capace d’aver sicuramente in magazzino l’olio desiderato.

La ditta Polak di via Lunga era davvero una ditta ben organizzata. Non c’era acquirente che essa lasciasse andar via senza averne accontentato i desideri. A chi chiedeva un balsamo di copaiva davano una bottiglia di trementina, e tutto andava per il meglio.

Quando Sc’vèik fu entrato ed ebbe ordinato le sue dieci corone d’olio benedetto dall’arcivescovo, il direttore disse al commesso: “Signor Tauchen, versategli un decilitro d’olio di ricino, n. 3”.

E il commesso, incartandogli la bottiglietta, disse a Sc’vèik con la dovuta cortesia commerciale: “È una merce di primissima qualità, e se avrete bisogno di pennelli, colori e vernici, favorite rivolgervi qui. Vi serviremo col massimo di convenienza”.

Nel frattempo, il cappellano andava ristudiandosi sul catechismo quello che non gli era mai entrato in testa quand’era in seminario. Gli andavan moltissimo a genio varie frasi straordinariamente spirituali, ben atte a risvegliare la sua allegria, quali ad esempio le seguenti: “La denominazione estrema unzione proviene dal fatto che essa è normalmente l’ultimo dei sacramenti che la Chiesa somministra ai fedeli”.

Oppure: “Può esser partecipe dell’estrema unzione ogni cristiano di religione cattolica che si trovi gravemente infermo e che sia giunto all’età della ragione”.

O anche: “Il sacramento dev’essere somministrato, per quanto è possibile, quando l’infermo è in perfetta conoscenza”.

Poco dopo giunse un’ordinanza con una missiva in cui si comunicava al signor cappellano Otto Katz che il giorno seguente, alla cerimonia dell’estrema unzione, nell’ospedale, avrebbe assistito anche l’Associazione fra Nobildonne pro Educazione Religiosa del Soldato.

Questa associazione era composta di vecchie dame isteriche che andavano distribuendo per tutti gli ospedali militari immagini di santi e raccontini edificanti, il cui protagonista era sempre un soldato cattolico che si faceva ammazzare per Sua Maestà l’Imperatore. Quei raccontini consistevano in fascicoletti con una copertina colorata che rappresentava un campo di battaglia. Dovunque giacevano cadaveri umani e carogne di cavalli, e tutto un mucchio di carrette di munizioni rovesciate e di cannoni. Sullo sfondo si vedeva un villaggio in pianura e granate che scoppiavano, mentre in primo piano c’era un soldato disteso e moribondo, con una gamba fracassata, sul quale un angelo s’inchinava per porgergli una ghirlanda fornita d’un nastro con l’iscrizione: “Ancor oggi tu sarai con me in Paradiso”. E il moribondo sorrideva beatamente, come se gli avessero offerto un gelato.

Quando Otto Katz si rese conto del contenuto della missiva, scaracchiò con forza mentre rifletteva tra sé: “Domani sarà un altro giorno”.

Egli aveva imparato a conoscere quella “banda”, come la chiamava, qualche anno prima, nella chiesa di Sant’Ignazio, quando vi teneva le prediche per la truppa. A quei tempi egli predicava con gran fervore, e l’Associazione prendeva posto alle spalle del colonnello. Due lunghissime megere in abito nero, munite di rosario, gli si erano attaccate addosso sùbito dopo la predica, e per due ore non avevan fatto altro che parlargli dell’educazione religiosa del soldato, finché lui non era uscito dai gangheri e aveva detto: “Le signore mi scusino, ma il signor capitano mi aspetta per una partita a carte”.

“Ora abbiamo anche l’olio”, esclamò trionfalmente Sc’vèik, reduce dalla ditta Polak, “olio di ricino n. 3 della migliore qualità, con cui potremo ungere tutto il battaglione. È una marca serissima, e vendono anche colori, pennelli e vernici. Ora non ci manca che il campanello”.

“Il campanello? E per che farne, Sc’vèik?”

“Dobbiamo farlo squillare per strada perché la gente si scopra al passaggio di Domineddio, signor cappellano, vale a dire dell’olio di ricino n. 3. Si fa sempre così, e c’è stata della gente a cui la cosa non è entrata in testa e che sono stati messi dentro per non essersi levato il cappello. Una volta, a Zizkov, un curato bastonò di santa ragione un povero cieco che aveva fatto a meno di scoprirsi in una simile occasione, e che per di più fu condannato, e al processo gli spiegarono che lui non era sordomuto, ma soltanto cieco, e che aveva potuto sentire il tintinnio del campanello e nondimeno aveva suscitato grande scandalo, benché il fatto fosse accaduto di notte. Lo stesso avviene durante le feste del Corpus Domini. Altrimenti la gente non ci farebbe nessuna attenzione, mentre così dovranno levarsi il cappello al nostro passaggio. Se voi non avete niente in contrario ve lo porto sùbito, signor cappellano”.

Mezz’ora dopo aver ottenuto il permesso, Sc’vèik portò anche il campanello.

“È quello della porta dell’Albergo della Crocetta” egli disse. “M’è costato cinque minuti di tremarella, e ho dovuto stare un bel pezzo in attesa, perché non faceva altro che passare gente”.

[...]

“San Giovanni Crisostomo”, osservò con un sorriso il cappellano, “ha detto: «Chi onora il prete, onora Cristo, chi fa offesa al prete, offende Nostro Signore, perché il sacerdote non è altro che il suo vicario». Ma dobbiamo prepararci il meglio possibile per domani. Fatemi una frittata al prosciutto, riscaldatemi un ponce al vino, e poi ci dedicheremo alla meditazione, così com’è detto nella preghiera serale: «Che la grazia divina tenga lontane da questa casa tutte le tentazioni del demonio»!”

[...]

Quella serata consacrata alla meditazione attraversò molte fasi diverse. Il cappellano s’accostò a Dio con tanta penetrazione e con tanto entusiasmo, che a mezzanotte dal suo appartamento echeggiava ancora il seguente cantico:

Quando i soldati marcian sulle piazze,

ai davanzali piangon le ragazze...

E il buon soldato Sc’vèik l’accompagnava.

 

Nell’ospedale militare erano due i soldati che avevan chiesto l’estrema unzione: un vecchio maggiore e un impiegato di banca, ufficiale di complemento. Tutt’e due s’eran buscati una palla nel ventre sui Carpazi e giacevano in due letti vicini. L’ufficiale di complemento aveva sentito l’obbligo di farsi somministrare il sacramento dei moribondi soltanto perché il suo superiore aveva domandato l’estrema unzione. Non farsela somministrare anche lui gli sarebbe parso un vero e proprio reato d’insubordinazione. Mentre il pio maggiore l’aveva fatto per furberia, credendo che una preghiera piena di fede fosse capace di risanare un infermo. Ma la notte prima morirono entrambi, e la mattina dopo, quando giunse il cappellano militare con Sc’vèik, essi giacevano sotto un lenzuolo col viso annerito, come tutti quelli che muoiono per soffocamento.

“Ci siamo dati tanta pena per niente, signor cappellano” osservò Sc’vèik, corrucciato, quando in direzione appresero che i due pazienti non avevano più bisogno di niente.

In quanto alla “pena”, Sc’vèik aveva detto la pura verità. Avevan preso una carrozza, e Sc’vèik scampanellava, mentre il cappellano brandiva la bottiglia con l’olio santo avvolta in un tovagliolo e benediceva con viso austero tutti i passanti che si scappellavano.

A dire il vero non eran troppi, malgrado Sc’vèik si desse molto da fare allo scopo di produrre col campanello il più gran fracasso.

Dietro la carrozza correva un branco di simpatici monelli, e quando uno di loro s’attaccava alla carrozza, gli altri gridavano in coro: “Dietro! Dietro!”

Sc’vèik scampanellava con più forza e il vetturino dava una frustata all’indietro. In via dell’Acquetta una portinaia, iscritta alla Congregazione di Maria, raggiunse trottando la carrozza, si fece benedire, si segnò e infine sputò con spregio, dicendo: “Portan via Nostro Signore come se fossero diavoli. A rincorrerli c’è da buscarsi una polmonite” e, tutta affannata, fece ritorno al suo posto.

Lo squillo del campanello eccitava in special modo il cavallo, ché doveva certo resuscitare in lui antiche reminiscenze, poiché volgeva continuamente il muso all’indietro e accennava, di quando in quando, il tentativo di fare un passo di danza sul selciato.

Ecco in che cosa era consistita la gran “pena” di cui parlava Sc’vèik. Il cappellano colse l’occasione per farsi regolare il lato finanziario del suo incomodo, e rimise al sergente furiere un conto secondo il quale l’amministrazione militare gli doveva centocinquanta corone per spese di trasporto e olio santo.

Ciò diede origine a una controversia fra il direttore dell’ospedale e il cappellano militare, nel corso della quale il cappellano batté più volte il pugno sul tavolo esclamando: “Non dovete credere, signor capitano, che l’estrema unzione si somministri gratuitamente. Quando un ufficiale di cavalleria è comandato ad assistere a un parto equino nelle scuderie, gli viene sempre pagata un’indennità. Mi rincresce sinceramente che i due pazienti non abbiano potuto fruire dell’estrema unzione. L’affare vi sarebbe costato un supplemento di prezzo di cinquanta corone”.

Nel frattempo, Sc’vèik attendeva il suo padrone al corpo di guardia, dove la bottiglietta d’olio santo suscitava il più vivo interesse.

Un tale fece notare che con un olio di quella fatta si sarebbero potuti ripulire ottimamente i fucili e le baionette.

Un soldato dell’altipiano boemo-moravo, che credeva ancora in Domineddio, supplicò i compagni di non profanare le cose sacre con certi discorsi: “Perché noi cristiani dobbiamo aver fede”. Un anziano della Territoriale diede un’occhiata al coscritto e gli disse: “Bell’affare sperare che una granata ti spacchi la testa. Ci hanno messo in mezzo, hai capito? Una volta al nostro paese è venuto un deputato clericale e ci ha parlato d’una pace divina che si libra sulla terra, e ci ha detto che il Padreterno riprova la guerra e desidera che tutti gli uomini vivano in pace e si trattino come fratelli. Ed ecco, bestione, che appena scoppiata la guerra, in tutte le chiese si prega per il successo delle proprie armi, e del Padreterno si parla come d’un generale di stato maggiore che guida e dirige la guerra. In questo ospedale militare, di funerali ne ho già visti parecchi, e carrette che portan via carichi di gambe e di braccia spezzate!”

“E i militari li seppelliscono nudi”, osservò un altro soldato, “le uniformi sono indossate da un altro, e così via”.

“Fino a che non avremo riportato la vittoria” disse Sc’vèik.

[...]

Nel frattempo il cappellano s’era imbattuto al piano di sopra in una signora dell’Associazione fra Nobildonne pro Educazione Religiosa del Soldato, una vecchia e ripugnante megera che dalla mattina girava per l’ospedale distribuendo a tutti immagini sacre che i feriti e i malati scaraventavano immediatamente nelle sputacchiere.

Nel corso della sua passeggiata, col suo stupido chiacchiericcio costei esortava tutti i soldati a pentirsi sinceramente dei propri peccati e a cercare di perfezionarsi, affinché nell’oltretomba Iddio misericordioso potesse conceder loro la salute eterna.

Divenne pallida appena poté conversare col cappellano Katz e poté dirgli che quella guerra abbrutiva i soldati invece di nobilitarli. Al pianterreno i coscritti le mostravan la lingua e la chiamavano mascherona e vecchia bacchettona: “È terribile, reverendo: il popolo s’è guastato!”

E si mise a spiegargli in che modo concepiva l’educazione religiosa del soldato. L’uomo del popolo avrebbe combattuto valorosamente per il proprio sovrano se avesse creduto in Dio e fosse fornito di sentimento religioso, in modo da non temere la morte sapendo di essere atteso in Paradiso.

E la vecchia chiacchierona continuò a proferire altre simili stupidaggini, manifestando la decisa intenzione di trattenere il cappellano chissà per quanto, finché egli fu obbligato a congedarsi a costo di mancare ai più elementari doveri della galanteria.

“Andiamo a casa, Sc’vèik!” gridò verso il corpo di guardia. E durante il percorso inverso non si diedero affatto la famosa “pena” di prima.

“Un’altra volta vada pure chi vuole a somministrare l’estrema unzione” osservò il cappellano. “Per ogni anima che vogliamo salvare, bisogna sempre mercanteggiare sul prezzo. Non vedono che la loro contabilità, quelle canaglie!”

Poi, vedendo in mano a Sc’vèik la bottiglietta dell’olio santo, corrugò le ciglia e disse: “Faremo meglio, caro Sc’vèik, a usar di codesto olio per la pulizia delle scarpe”.

“Proverò anche a ungerci la serratura” soggiunse Sc’vèik. “Non fa che stridere, la notte, quando lei rientra in ritardo”.

 

 

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(domenica 25 gennaio 2015. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com)

 

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