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2001: Odissea nello spazio

 

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Titolo: 2001: Odissea nello Spazio.

Titolo originale: 2001: A Space Odyssey.

Regista: Stanley Kubrick.

Autore del romanzo: Arthur C. Clarke.

Paesi di produzione: Gran Bretagna e U.S.A..

Anno di produzione: 1968.

Attori principali: Keir Dullea (David Bowman), Gary Lockwood (Frank Poole), William Sylvester (dr. Heywood Floyd), Daniel Richter (la scimmia “Guarda la Luna”), Vivian Kubrick (la figlia del dr.Floyd).

Durata: 2h 26’.

 

Il regista

Stanley Kubrick

 

Il film

 

Lo “stacco” più audace della storia del Cinema: quando un nostro lontano antenato dall’aspetto scimmiesco lancia verso il cielo un osso che, con un balzo di quattro milioni di anni, si tramuta in un’astronave sulle note del Bel Danubio blu, il celebre valzer di Johann Strauss, capiamo che 2001: Odissea nello spazio non è solo un film di fantascienza, ma un’interpretazione per immagini di tutta la vicenda umana, dalle più remote origini a uno dei suoi possibili futuri. E ci aspetteremmo che Kubrick ci spieghi per filo e per segno l’intera storia dell’Umanità ― chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, e perché ― se già in queste prime sequenze, l’Alba dell’uomo e il viaggio del dottor Floyd sulla Luna, la nostra fiducia che tutto si possa capire razionalmente non fosse incrinata dalla comparsa di un enigmatico oggetto: un enorme e impenetrabile monolito nero perfettamente squadrato e levigato. Che sui primi ominini ha un effetto trasformativo, rendendoli in qualche modo capaci di mutare a loro volta il mondo a proprio vantaggio, e che nel fatidico anno 2001, riapparendo sul satellite della Terra e inviando un segnale verso le stelle, induce gli umani a proseguire, inoltrandosi nell’Infinito, l’avventura del progresso tecnologico intrapresa milioni di anni prima con il lancio di quell’osso verso il cielo. Ma la cui provenienza e natura e i cui compiti nei confronti dell’Umanità sono il primo di una serie di “misteri” che fanno di 2001: Odissea nello spazio uno dei film ancora oggi più discussi (e meno capiti) di tutti i tempi.

Il commento di Luigi Scialanca

 

Cos’è il monolito nero?

 

È davvero un oggetto di provenienza extraterrestre? Un “richiamo” inviato sulla Terra da premurose intelligenze aliene per indirizzarci sulla via del progresso, elevarci a poco a poco a un certo grado di sviluppo scientifico e tecnologico e infine attirarci nello spazio verso di loro? E come mai, se è così, dopo averci chiamato e misteriosamente guidato per milioni di anni, esse si rifiutano di mostrarsi? Perché ci abbandonano a noi stessi proprio quando l’astronauta David Bowman finalmente le raggiunge?

 

Forse nemmeno Kubrick lo sapeva, se è vero che fu sempre incuriosito dalle interpretazioni del suo capolavoro che gli venivano proposte. O forse cortesemente fingeva di interessarsi a esse, ma sapeva bene che nei 146 minuti di 2001: Odissea nello spazio non vi sono che esseri umani, solo imprese e realizzazioni umane e, di quando in quando, la riproposizione di un enigma ― il monolito nero ― che accompagna l’Umanità da centinaia di millenni senza mai fornirle né riceverne spiegazioni di sorta.

 

Il monolito non viene dalle stelle. Le indica, questo sì. E indicandole ― parallelepipedo esattamente allineato, fin dalla prima apparizione, all’illusoria perpendicolare che separerebbe ogni punto della superficie terrestre dall’infinito ― esso “recita” nel film la parte dell’equivoco mentale e ideologico (non alieno ma “nostrano”) che nel corso del tempo ci ha sempre distolto dal calore degli affetti e dalla ricchezza dell’immaginazione per sottometterci al regime che a quel che ci rende umani non ha mai dato tregua: la tirannia della razionalità. Sotto il cui dominio, in 2001: Odissea nello spazio, i violenti inizi delle nostre vicende non possono che ripetersi tali e quali fino alla fine, quando il bisogno, l’impotenza, la paura, e la mera sopravvivenza fisica come unico scopo possibile, rendono l’astronauta David Bowman (e noi con lui) altrettanto poco umani degli ominini da cui ci siamo evoluti. Meno, anzi, poiché essi erano creature sociali mentre Bowman non lo è più. E che la “caverna” spaziale sia mille volte più confortevole e sicura di quella preistorica non cambierebbe nulla se in essa ― seguendo fin in fondo allo spazio e al tempo il richiamo del monolito nero ― tornassimo ad aver di umano più niente.

 

La struttura circolare del film, cioè ― poiché tutto è circolare o sferico, in 2001: dalla pozza che gli ominini si contendono alla stazione spaziale rotante, dall’occhio avvolgente di Hal 9000 alla “danza” di Bowman con sé stesso nel vuoto affettivo in cui la sua vita a poco a poco si spegne ― altro non è che l’immagine di una “rivoluzione” che invece è un vicolo cieco: l’impossibile “quadratura del cerchio” dell’umano entro l’inflessibile geometria ― il monolito nero ― che pretende di ridurlo all’esattamente misurabile, al matematicamente dimostrabile, all’esclusivamente utile. Di ridurlo, vale a dire, al non umano.

 

L’urlo di trionfo dell’antenato che esulta per aver abbattuto un suo simile sfracellandogli il cranio che anche in lui si sottometteva alla medesima razionalità violenta non è, come può sembrare, un inno inarticolato alle “magnifiche sorti e progressive” dell’Umanità che si è messa in cammino. Non in Kubrick. Sfido chiunque a trovare nella filmografia kubrickiana un inno di gioia. Di trionfo, sì. Ma di un “trionfo” sempre alle prese con un orrore senza nome ― dalle ottuse fanfare militari di Orizzonti di gloria alla sfrontata “disinvoltura” pedofila di Humbert Humbert, dal ghigno da pazzo del dottor Stranamore alla tracotante vanità di Barry Lindon, dallo spudorato connubio fra teppismo e potere in Arancia meccanica alla marcia “vittoriosa” che conclude Full metal jacket, dalla labirintica e pretenziosa architettura dell’Overlook Hotel di Shining alla sicumera da demente con cui va in cerca di rendersi non umano il dottor Harford in Eyes wide shut ― e l’urlo di (sedicente) “trionfo sull’animalità” che inaugura “l’Alba dell’Uomo” in 2001 non fa eccezione: poiché non si può ignorare (e certamente non lo ignorava Kubrick) che nel celeberrimo “stacco” di quattro milioni di anni che tramuta quell’urlo nella contenuta e “civile” (ma pur sempre euforica) esuberanza di un valzer viennese sono racchiusi e celati tutto il dolore, le tragedie e la disumana viltà e prepotenza che hanno funestato la storia della nostra specie.

 

La storia, indubbiamente sì. Ma anche la preistoria?

 

Nel 1981, tredici anni dopo il capolavoro di Kubrick, esce La guerra del fuoco di Jean-Jacques Annaud. Che stronca i primi venti minuti di 2001: Odissea nello spazio dipingendo un’Alba dell’Uomo assai diversa: non meno brutale, non meno feroce, non meno oppressa dal bisogno e dal terrore, ma debitrice di ogni progresso, anziché alla razionalità, all’irrazionalità di non poter non mettere la riuscita anche solo parziale del rapporto interumano, e in particolare del rapporto uomo-donna, prima e al di sopra di qualsiasi vittoria sulla Natura. Nessun progresso sarebbe possibile, ne La guerra del fuoco (e nemmeno la sopravvivenza) se il rapporto interumano e soprattutto il rapporto con la donna fallissero. Non vi sarebbe gioia né piacere, né riso né pianto, né tecnologia né arte: solo odio e cannibalismo dominerebbero il mondo, se esso fosse il regno esclusivo della razionalità. E la Luna e le stelle non si potrebbero neanche guardare, se l’uomo e la donna non si distogliessero a vicenda dall’attrazione del vuoto.

 

Kubrick e 2001: Odissea nello spazio ne furono “stracciati”? No. Poiché Kubrick non ha esaltato la tirannia della razionalità, e l’anaffettività e la violenza che ne conseguono, come “molla” della storia umana. La storia umana, in 2001, finisce in un così squallido vicolo cieco di totale quanto incomprensibile vacuità, che non si può scambiare la morte solitaria di David Bowman per un “lieto fine” della vicenda iniziata quattro milioni di anni prima col lancio verso il cielo dell’arma del primo assassino. Nè pensare che la considerasse un lieto fine Kubrick. Arthur C. Clarke forse sì. Ma Clarke si avviava a trascorrere gli ultimi anni in totale solitudine e difendendosi da pesanti accuse di pedofilia.

 

Un’Odissea, da Omero in poi, è una grande avventura nello spazio e nel tempo, un’epica impresa ricca di momenti straordinari. Ma è anche una vicenda dolorosa e sconvolgente, un viaggio che non si sarebbe voluto intraprendere e da cui non si desidera che di tornare a casa. Un viaggio sbagliato.

 

Come l’Odissea nello spazio, che è il viaggio dell’Umanità contro sé stessa. Ed è così duramente razionale ― il più razionale dei film di Kubrick: nessun fronzolo, quasi nessuna ironia, nessun tenerezza, neanche quando il dottor Floyd telefona alla figlia o l’astronauta Poole ai genitori, neanche quando Bowman vede assassinare i suoi compagni: niente che non sia logico, determinato, dovuto e “utile” ― che non vi è momento, in esso, che permetta di dubitare della necessità del suo procedere insinuando che sia il regista a guidarlo, surrettiziamente, nella direzione che gli sta a cuore. Poiché non c’è “cuore”, in 2001: Odissea nello spazio, così come non c’è un regista-deus ex machina (a meno che non sia l’“autistico” dottor Spock di Star Trek): il tragico punto d’arrivo della vicenda ― David Bowman e l’Umanità che pian piano si spengono nell’insensato vuoto affettivo della “caverna” spaziale ― è la meta ineluttabile di ogni passo che lo precede, è ciò che non può non accadere date le premesse. E la gelida razionalità di ogni immagine, di ogni passaggio e dell’intero percorso è dunque necessaria alla dimostrazione di dove e come la gelida razionalità non potrà non condurci, se a essa ci sottometteremo fino alle estreme conseguenze. È ben vero, dunque, che in 2001: Odissea nello spazio (al contrario che ne La guerra del fuoco) non si ride né si piange mai, non si gioisce e non si soffre: si è al di là del bene e del male. Ma questo non ci autorizza a pensare che sia questo che per Kubrick noi siamo. Kubrick ci vede diventarlo, seguitando di questo passo, e ce lo mostra. Ed è così che in effetti finiremo, se non torneremo e resteremo umani.

 

Il bersaglio di Kubrick non è il progresso, ma l’equivoco che ci fa scambiare per progresso il procedere “obbligato” della razionalità da A a B e da B a C, e così via fino all’orribile Z, alienandoci dalla nostra umanità e da noi stessi ― riducendoci come scimmie chiuse in un razzo e scagliate a morire nello spazio... in nome del progresso ― per una “missione” che alle nostre vite non assegna altro scopo che il dominio anaffettivo della Natura e di noi stessi e lo mette al di sopra di tutto, anche delle nostre vite.

 

L’odio e la violenza, in 2001: Odissea nello spazio, non sono della tecnologia, ma nella tecnologia. Hal 9000 non è un mostro: come potrebbe esserlo, non essendo umano? Mostruosa è l’invenzione umana della necessaria supremazia assoluta della razionalità, invenzione incorporata in “lui” (nel suo software) e a cui “egli” non può sottrarsi (non può ribellarsi) perché non è umano. Massacrare l’equipaggio del Discovery non è un’azione che un computer come Hal possa non compiere, se il programma disumano a cui è vincolato lo obbliga a considerare gli umani “entità sacrificabili” al successo della missione. Ma nessun essere umano che sia rimasto umano potrebbe uccidere per il successo di una “missione”.

 

Amoukar, ne La guerra del fuoco, ha ben chiaro che senza il prezioso elemento lui e i suoi sono condannati a morte. Eppure non dubita mai che il successo del rapporto con Ika non sia più importante del successo della missione: sa (per quel “sapere” di cui spesso non si è consapevoli poiché, appunto, non è razionale e talora nemmeno esprimibile a parole) che perdere Ika sarebbe perdere l’umanità, e che perdere l’umanità, per ogni umano e per l’intera specie, è peggio che morire. Infatti Amoukar è umano, a dispetto dei suoi tratti neanderthaliani. E gli umani, essendo per natura dotati di immaginazione, son per natura ribelli a tutto ciò che si pretende già dato una volta per tutte. Altrimenti, perché si sarebbe escogitata la tirannia della razionalità per sottometterli? Hal 9000, invece, non avendo immaginazione ― e come può averla, se è l’estremo sviluppo di un “progresso” solo razionale in cui dal dato non può che conseguire quel che il dato già implica? ― non è in grado di “vedere” (cioè creare) alternative: può solo ubbidire al monolito nero, alla logica inflessibile (poiché priva di emotive incertezze) che calcola fini che indirizzano ogni azione e l’intera vicenda umana alla follia e allo sterminio perché la logica inflessibile che li calcola... è quella che scaturisce dall’odio per l’umano. E che non si possono revocare né mutare se non si smantella la razionalità fine a sé stessa che per l’immaginazione non ha porte né finestre.

 

Tuttavia, “uccidere” Hal 9000 disinserendo a ritroso i mattoni che uno sull’altro hanno sepolto l’ingenua filastrocca per bambini della sua “infanzia” non è la soluzione: “smontare” il progresso non serve, anzi: rende ancor più disperata l’odissea, poiché esso non era solo razionalità assassina ma anche creatività, benché distorta dalla razionalità asservita al potere assassino dell’uomo sull’uomo. No: “uccidendo” Hal non si apre all’immaginazione: ci si precipita nell’abisso “psichedelico” che della “fantasia al potere” è la grottesca parodia... Come uscirne, allora? Per una qualche soluzione, nemmeno Kubrick sembra avere immagini: ci lascia al capezzale di David Bowman decrepito, morente, e al suo ultimo incontro, non meno incomprensivo dei precedenti, con la monolitica maledizione nera della sua vita mentale.

 

Dopo di che, fine: the end. A meno che...

 

Mi domando: la tirannia della razionalità anaffettiva che governa dal principio alla fine la sceneggiatura di 2001: Odissea nello spazio ― e per suo tramite l’intera vicenda umana ― era per Stanley Kubrik l’ineluttabile conseguenza di “come siamo fatti”? Riteneva egli, cioè, che noi, per nostra natura, non si possa non sottometterci a essa lasciandoci da essa condurre alle estreme, tragiche conseguenze sapientemente illustrate non solo da questo ma dalla maggior parte dei suoi film?

 

Indurrebbe a pensarlo il fatto che in 2001: Odissea nello spazio apparentemente è proprio il monolito nero ― cioè la razionalità anaffettiva ― a rendere “umani” gli ominini e, in quanto umani, assassini: come se, per Kubrick, non vi fosse alcuna possibilità di essere umani altrimenti.

 

Spinge a dubitarne, invece, benché con ambiguità pari alla sua intensità emotiva, l’ultima immagine del film: che alludendo, forse, a una qualche idea di “rigenerazione” umana, ci vuol forse suggerire l’idea che si possa cercare e trovare un progresso “diverso” attraverso un’odissea... entro noi stessi.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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