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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

I quattrocento colpi

 

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Forse vedevano Doinel solo fisicamente e non mentalmente? (Stefano, a.s. 2006-2007).

Un bambino può essere educato senza l’amore? Se l’amore non c’è, il bambino ce la può fare da solo?

Si possono capire concetti così difficili senza l’aiuto di un grande esperto? (Sara, a.s. 2006-2007).

 

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Titolo: I quattrocento colpi

Titolo originale: Les Quatre Cents Coups

Regista: François Truffaut

Paese di produzione: Francia.

Anno di produzione: 1959

Attori principali: Jean-Pierre Léaud (Antoine Doinel), Albert Rémy (Julien Doinel), Claire Maurier (Gilberte Doinel, la mamma), Patrick Auffay (René), Guy Decomble (“Petite feuille”, il professore), Georges Flamant (Mr. Bigey), Jeanne Moreau (donna col cane), Jean-Claude Brialy (Passante), Jacques Demy (poliziotto), François Truffaut (uomo nel Luna Park).

Durata: 1h 33’.

 

Il film

 

Antoine Doinel ha tredici anni. Vive a Parigi con i genitori, va a scuola, e tra i suoi compagni c’è il suo migliore amico, René. Una vita normale, identica a quella di milioni di suoi coetanei. Ma fin dalla prima scena de I quattrocento colpi siamo indotti a sospettare (e ben presto costretti a vedere) che le cose non stanno così: la vita di Antoine non è quella che un ragazzino dovrebbe vivere. E non è felice.

Scopriamo, dapprima, che “va male” a scuola. Poi che gli insegnanti (e specialmente il professore di Lettere) “ce l’hanno” con lui. Poi che la mamma lo tratta male. Poi che dice un sacco di bugie. Poi che ruba, in casa e fuori. E non appena ci rendiamo conto con orrore che ha imboccato una strada in discesa, ecco che la discesa si fa ripidissima: Antoine scappa di casa, commette un furto più grave degli altri, finisce in riformatorio, scappa, è inseguito dalle guardie… Ma cosa gli accadrà in seguito non ci è dato di vederlo: non sapremo neanche se lo riprenderanno o no, il film termina qui, con un’ultima immagine di Antoine che ci guarda dritto negli occhi, smarrito, e sembra domandare, lui a noi, quello che anche noi vorremmo sapere: Come sono arrivato a questo punto? Cosa ne sarà di me?

 

Il regista

 

François Truffaut

Il commento di Luigi Scialanca

 

Uno degli aspetti de I quattrocento colpi che ne fanno un capolavoro (non solo di Truffaut, ma della cinematografia mondiale) è che risponde alle domande proprio come lo fa la vita: nascondendo la dolorosa verità sotto un’apparenza di normalità che è difficilissimo penetrare. Ci si riesce solo se si vuol bene a questo ragazzino e ci s’interessa a lui fino a cogliere i piccoli indizi che i suoi due persecutori (la madre e il professore) si lasciano di quando in quando sfuggire. Indizi che sono minuscoli nel film come lo sono, appunto, nella realtà, e ai quali coloro che si occupano di Antoine non danno, invece, la minima importanza. Eppure sono lì, ben visibili: discorsi e gesti dell’insegnante e della madre sotto gli occhi (e le orecchie, e le menti) di tutti. Ma nessuno li coglie. Nessuno, di conseguenza, può neanche tentare di fermare la progressione di eventi (in apparenza irresistibile) che a partire da un dato momento, con tremenda celerità, sospinge Antoine verso la rovina. E le terribili domande, finito il film, sono ancora senza risposta: Come sono arrivato a questo punto? Cosa ne sarà di me?

 

Dobbiamo ripartire dal principio, se vogliamo rimediare alla nostra incapacità di vedere (e I quattrocento colpi, capolavoro di un regista che riconosceva in Alfred Hitchcock un maestro, in effetti è costruito in modo che si debba rivederlo più volte, perché è misterioso e allusivo come un “giallo” ma senza un detective che nel finale riunisca tutti i personaggi, riepiloghi i fatti, ne riveli i nessi e il senso, e finalmente “inchiodi” il colpevole). Truffaut ci costringe insomma a trattare la sua creatura, il film, come nessuno ha mai trattato il bambino Antoine Doinel, e solo così, guardandolo e ascoltandolo con l’interesse profondo che nasce dall’amore, a poco a poco ci permette di capire e di sapere.

 

In francese, a quanto sembra, fare i quattrocento colpi (faire les quatre cents coups) significa fare una vita agitata, dissipata, sprecata.

 

Sprecata, infatti, è l’infanzia di Antoine Donel, e sprecata sarà la sua vita se egli continuerà a credere che essa non abbia alcun valore.

 

Ma chi è che la spreca? Chi è che disprezza i bambini e li induce a sprecare sé stessi?

 

I titoli di testa de I quattrocento colpi scorrono insieme alle immagini di una Parigi di cui non si vede che la Torre Eiffel. Ma che altro si può vedere, attraversando Parigi “col naso all’insù”? Non certo gli esseri umani, e men che meno i bambini.

 

Ecco: spreca i bambini chi non “abbassa” mai lo sguardo su di essi, e perciò non li vede.

 

Poi i titoli hanno termine, ci ritroviamo in un’aula scolastica e capiamo che questo film farà in un altro modo: guardando “in giù”, dove molti adulti non guardano mai, vedrà quel che essi non vedono.

 

Ed è ciò che propone di fare anche a noi spettatori, che per riuscirci dobbiamo guardare a quel che accade in quest’aula come fa il regista: con interesse profondo, andando oltre le apparenze.

 

L’apparenza infatti è ovvia, scontata: l’alunno Antoine Doinel si comporta male e viene punito.

 

La realtà, invece, è che molti alunni si comportano male, ma l’insegnante punisce solo Antoine. Vediamo ragazzi che copiano, si picchiano, cambiano banco di nascosto, escono e rubano nei cappotti dei compagni, fuggono dalla scuola… Ma il professore non li vede. O, se li vede, reagisce solo verbalmente e in modo assai blando. Mentre con Antoine è inflessibile: lo vede e lo punisce sempre, e sempre con severità, e furioso aggiunge punizione a punizione: ce l’ha con lui.

 

Ma almeno insegna, questo professore? Spiega? Fa o dice qualcosa che possa contribuire alla realizzazione degli allievi? Per niente. Ce ne rendiamo conto vedendolo camminare tra i banchi, dopo aver scritto alla lavagna una poesia, senza mai accorgersi che un alunno non riesce a stargli dietro, strappa i fogli, si macchia le dita d’inchiostro, fa a pezzi il quaderno per l’agitazione: è un ragazzino in difficoltà, ma l’insegnante non vede, non sa, non s’interessa. Non gliene importa.

La sola cosa che gli preme, che davvero lo appassiona, è la persecuzione di Antoine.

 

Qualche giorno dopo, Antoine legge La ricerca dell’assoluto di Balzac (poiché Antoine legge, anche se intorno a lui non lo fa nessuno e nessuno se ne accorge) ed è preso da una tale ammirazione per il grande scrittore, che accende un cero davanti alla sua immagine (rischiando di mandare a fuoco la casa) e porta il finale dell’opera all’insegnante spacciandolo per proprio. Cose che non si fanno, senza dubbio. Ma il professore ha mai dato ad Antoine qualcosa di proprio, o ha sempre e solo copiato, anche lui, ciò che altri avevano fatto, detto, scritto? E Antoine ha mai potuto trovare, in lui, l’adulto che s’interessa, vede, comprende, spiega: l’adulto, cioè, che il suo ingenuo soprassalto di venerazione per Balzac ci fa intuire che egli desidera incontrare? Evidentemente no.

 

Chi spreca Antoine e lo induce a sprecarsi, dunque, è il suo insegnante. Se questi s’interessasse a lui, Antoine sentirebbe di avere un qualche valore per qualcuno e scoprirebbe, forse, di averne anche per sé stesso. Invece l’insegnante non lo fa, e il fatto che non sappia farlo non lo giustifica, perché nel suo mestiere, come in quello del medico, ignoranza e incomprensione e distrazione sono colpe gravissime.

 

Ma non basta. Il professore non si limita a non sapere, non capire, non vedere (per poi dire al preside e ai colleghi: Ah, vedo molto nero per il futuro della Francia!, come se non fosse un distruttore di futuro lui stesso). No: come abbiamo visto, egli perseguita furiosamente Antoine Doinel. E per questa crudeltà non c’è che una spiegazione: egli ha fatto di Antoine il capro espiatorio del proprio fallimento, se la prende con lui anziché con sé stesso, e così riesce a credersi bravo e buono scaricando ogni giorno sul ragazzino l’ignoranza, l’insensibilità e la malevolenza proprie: vedendole e colpendole in lui invece che in sé.

 

Ma è stato forse il professore (e la Società degli adulti anaffettivi di cui egli è il rappresentante e l’ultimo sicario) che ha cominciato a sprecare questo bambino? A non amarlo, a non vederlo, a far di lui l’agnellino da caricare delle colpe degli altri per essere sacrificato al loro posto?

 

No, non è stato lui. Il falso insegnante arriva sempre per ultimo e infligge il colpo di grazia. Ma chi dà inizio all’opera sono i genitori.

 

Perché, allora, Truffaut fa cominciare I quattrocento colpi a scuola e non a casa?

 

Perché l’abbandono dei bambini, finché si consuma fra le quattro pareti di casa, rimane quasi sempre invisibile, ignoto a tutti. Talora perfino quando sfocia in abusi. Mentre a scuola, dove il bambino abbandonato “appare per la prima volta in pubblico”, la mancanza d’affetto, il disprezzo e le aggressioni di cui è stato oggetto in famiglia si cominciano a vedere fin dal primo giorno nelle sue difficoltà di rapporto con gli altri, nella perdita del desiderio di conoscere, nella paralisi dell’immaginazione e del pensiero. Si cominciano a vedere… Ma è proprio vero? Sì, indubbiamente, che il bambino abbia problemi lo vedono tutti. Ma chi, a scuola, sente il valore di un bambino al punto di non poter non tentare qualcosa per lui? E soprattutto: chi, da scuola, ha il coraggio di andare a ficcare il naso in casa sua?

 

Truffaut ce l’ha. Ci porta in casa di Antoine e ci mostra quel che pochi insegnanti osano anche solo immaginare: cosa accade nelle case dei bambini abbandonati e sprecati.

 

E anche qui, all’inizio, tutto sembra normale, banale: fa freddo, siamo vicini a Natale, e Antoine accende la stufa, gira per casa, aspetta che i genitori rientrino dal lavoro. Ma ecco un brutto segno: Antoine ruba dei soldi da un nascondiglio che per lui evidentemente non è tale. Eppure anche a questo potremmo non dar troppo peso, vero? Ragazzate, verrebbe da dire in tono indulgente; in fondo l’avevamo già capito a scuola, no?, che Antoine è un birbante. Tanto più che sùbito dopo lo vediamo apparecchiare la tavola, da bravo figliolo, per risparmiare un po’ di fatica alla mamma che tra poco tornerà stanca dal lavoro, e mettersi diligentemente a fare i “compiti”: a scrivere, in tutti i tempi dell’indicativo, del congiuntivo e del condizionale: io insozzo i muri della scuola e faccio scempio della metrica francese.

 

Ma no: ancora una volta, come a scuola, ecco dipanarsi gli indizi che l’infanzia di Antoine Doinel non è e non è mai stata un’infanzia normale, poiché non sono affatto normali gli adulti che ha intorno.

 

Arriva una donna. Buonasera, mamma!, la saluta Antoine. Buonasera, buonasera…, replica lei in tono stizzito. Non un bacio, un sorriso, una domanda. Non un grazie per la tavola apparecchiata e la stufa accesa. Solo un rimbrotto, perché Antoine si è dimenticato di comprare la farina, e un ordine, di portarle le pantofole, mentre lei si specchia: è una bella donna, ben vestita e truccata, ma la sua cura per sé stessa contrasta con gli abitucci goffi e rappezzati del figlio, col suo pigiama bucato, ridotto a uno straccio, col fatto che (come apprenderemo in seguito) la madre si è tenuta i soldi che il marito le ha dato per comprare una coperta ad Antoine. Perché tanto a lui piace dormire nel sacco a pelo. Vero, tesoro?

 

E dopo cena chi sparecchia la tavola? Antoine. Chi porta giù la spazzatura? Antoine (poiché, nelle case dove i bambini sono paria, gli incaricati di tutto ciò che è sozzo, disgustoso o semplicemente fastidioso son sempre loro). E intanto la madre e il marito (che non è il padre di Antoine, cioè il primo che lo ha abbandonato e sprecato, ma quello che invece gli ha dato il proprio nome ed è il solo che ha talvolta per lui un atteggiamento sinceramente affettuoso, e tuttavia non è in grado di difenderlo perché succube della moglie) di cosa discorrono, attardandosi a tavola? Della colonia estiva che li libererà di Antoine. Adesso, a pochi giorni da Natale. Poiché, evidentemente, non vedono l’ora che egli si levi dai piedi.

 

Più avanti apprenderemo molto altro. Sapremo che la madre di Antoine si è decisa a prenderlo con sé solo quando lui ha compiuto otto anni, poiché prima l’aveva affidato alla nonna e, alla morte di costei, l’aveva messo in un istituto. Sapremo che si è fatta sentire da Antoine mentre diceva che, quando scoprì di essere incinta, pensò di abortire. Sapremo che medita in continuazione di liberarsene ancora oggi, e l’ascolteremo mentre fa capire a un commissario di polizia che, piuttosto che riprenderselo, preferisce che di Antoine si occupino le autorità… Apprenderemo tutto ciò, e altro ancora, e allora non avremo più dubbi sull’odio della madre per il figlio. Ma lo verremo a sapere, come tutti, troppo tardi: quando Antoine sarà già finito in riformatorio e lì racconterà a una psichiatra (con la serenità del bambino che non è capace di odiare gli adulti che lo odiano ma li “accetta” come una realtà, come si è costretti ad “accettare” certi spaventosi fenomeni naturali) tutte le cose per le quali non c’è più rimedio.

 

Mentre rimediare sarebbe stato ancora possibile prima, quando ancora non disponevamo che di piccoli indizi dell’abbandono e dello spreco. I piccoli indizi che il genio di Truffaut allinea per noi dinanzi all’obiettivo della macchina da presa, e che noi tuttavia, anche così aiutati, ci lasciamo sfuggire fino alla seconda o alla terza visione. I piccoli indizi che nella realtà sono ancor meno visibili, poiché nessuno può andare a ficcare il naso fra le quattro mura delle case in cui i bambini sono abbandonati, sprecati, lasciati mentalmente appassire da madri e padri senza amore, senza immaginazione, senza pensiero, senza sapere, senza niente. O perché, anche quando si riesce ad andare a vedere, e si apre uno spiraglio su ciò che tra quelle mura accade, anche allora si è troppo facilmente ingannati, o ci si lascia ingannare, da una qualche abile recitazione dell’affetto e dell’interessamento, del tipo di quella che la madre di Antoine mette in scena quando vuol rabbonire il figlio affinché non riveli al marito di averla vista con un altro uomo: “affetto” interessato, da prostituta, che ella dà per aver in cambio qualcosa.

 

Beninteso, non è che la mamma di Antoine è cattiva perché ha una relazione extra-coinugale. Non si è cattivi perché si ama, neanche se si ama fuori casa. No, la madre di Antoine è cattiva perché non ama: perché non ha mai amato, tranne forse il vero padre di suo figlio; perché gli esseri umani non son per lei che mezzi per ottenere vantaggi; perché su nessuno, neanche sul bambino che ha messo al mondo, ella ha mai concepito un’idea affettuosa, ha mai fatto un progetto disinteressato, ha mai sognato e sperato.

 

Sa, questa madre, che Antoine ha sempre desiderato vedere il mare. Lo sa benissimo, tant’è vero che per sembrare affettuosa (ma invero con mostruoso sadismo) chiede al giudice di chiuderlo in un riformatorio vicino al mare. Ma lei non ce l’ha mai portato. Poiché lei, che ha perduto il latte dell’amore, come può soddisfare o anche solo sentire davvero, non astrattamente, il desiderio del figlio?

 

È con amara ironia, dunque, che Truffaut porta Antoine ad assistere con altri bambini a una recita natalizia di Cappuccetto Rosso: di una fiaba, cioè, che fu concepita per i fortunati bambini per i quali i lupi son solo nel bosco, e mamme e nonne, se si comportano come lupi, non è perché lo sono ma perché il lupo, disgraziatamente, se l’è mangiate e ne ha preso il posto. Ma tanto arriva il boscaiolo e salva tutti!

 

Antoine scappa anche dal riformatorio, comincia a correre e continua, disperatamente, senza mai fermarsi. Che cosa cerca? Cerca, come sempre ha cercato nel continuo correre di tutta la vita, qualcuno che invece di respingerlo e scacciarlo come un intruso e un fastidio, riesca a fermare la sua corsa, a tenerlo stretto, a farlo sentire amato, imporante, pieno di valore. Qualcuno che per la prima volta lo prenda in braccio, lo sollevi come fa il rotor del Luna Park e lo liberi dalla sensazione d’essere un peso, un ingombro, una fatica inutile. Magari anche sconvolgendolo e facendogli un po’ “male”, proprio come fa il rotor, a lui che in braccio non è mai stato preso, che mai è stato sollevato da terra.

 

Giunge al mare, che non ha mai veduto, e il mare è una delusione. Non perché sia invernale e sconvolto, ma perché Antoine ne è stato tenuto lontano per troppo tempo, per poter di punto in bianco godere della sua vista. Perché il suo desiderio è stato troppo a lungo deluso, perché egli possa di punto in bianco lasciarsi andare a esso senza paura né ostilità. E allora si volta a guardarci dritto negli occhi e sembra domandare, lui a noi, quel che anche noi vorremmo tanto sapere: Cosa ne sarà di me?

 

Sappiamo che Truffaut non abbandonò né il personaggio Antoine Doinel né l’attore Jean-Pierre Léaud: sappiamo, cioè, che in altri tre film (caso unico nella storia del Cinema) li accompagnò attraverso l’adolescenza finché non fu sicuro che ce l’avevano fatta. Come ce l’aveva fatta lui, Truffaut, che aveva avuto un’infanzia molto simile a quella di Antoine. Sappiamo, cioè, qual è la risposta alla domanda colta in riva al mare negli occhi smarriti del bambino abbandonato e sprecato: Ce la farai. Tutto andrà bene. Poiché tu non ti abbandonavi né sprecavi, e da te stesso ti portavi al mare. Poiché leggevi e andavi al cinema. Poiché entravi, vagabondando per la città, nei cento cinema di Parigi che vediamo quasi in ogni scena de I quattrocento colpi. Poiché riconoscevi l’opera d’arte, la “cosa” fatta per niente da chi intuisce che gli umani, per scoprire il proprio valore, devono scoprire che sono gli unici esseri che non possono vivere senza le cose che valgono niente: come lo sguardo d’amore e d’orgoglio di una madre, o l’emozionante intelligenza della vita racchiusa come una perla in un romanzo o in un film

 

O anche, appunto, la gioiosa riconoscenza di un bambino non abbandonato e non sprecato.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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