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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Agora

 

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Titolo: Agora.

Titolo originale: Ágora.

Regista: Alejandro Amenábar.

Paese di produzione: Spagna.

Anno di produzione: 2009

Attori principali: Rachel Weisz (Ipazia), Max Minghella (Davo), Oscar Isaac (Oreste), Ashraf Barhom (Ammonio), Michael Lonsdale (Teone), Rupert Evans (Sinesio), Homayoun Ershadi (Aspasio), Sammy Samir (Cirillo), Richard Durden (Olimpio), Omar Mostafa (Isidoro), Manuel Cauchi (Teofilo), Oshri Cohen (Medoro), Charles Thake (Esichio), Harry Borg (prefetto Evagrio), Yousef Sweid (Pietro).

Durata: 2h 02’.

 

Il regista

 

Alejandro Amenabar

 

La storia (liberamente tratta da Wikipedia)

 

Sul finire del IV secolo, ad Alessandria d’Egitto, la tensione tra le comunità cristiana e pagana sfocia in un grave episodio di violenza: lo zelota cristiano Ammonio, esibitosi per la folla nel “miracoloso” attraversamento di un braciere ardente, vi spinge un pagano per dimostrare l’impotenza dei suoi dei.

 

Nella Biblioteca del tempio di Serapide, la filosofa Ipazia insegna invece il rispetto per ogni essere umano e si dedica alla difesa della conoscenza classica e ad ardite riflessioni astronomiche, che la inducono a dubitare dell’artificioso modello geocentrico di Tolomeo e a interessarsi alle dimenticate teorie eliocentriche di Aristarco. Mentre Teone, suo padre, è così ostile ai cristiani da voler frustare una schiava trovata in possesso di una croce; ma Davo, un altro schiavo, mentendo si dichiara cristiano per essere punito al suo posto; e più tardi, incontrato Ammonio e da lui persuaso, si converte alla sua fede.

 

Intanto i pagani si riuniscono per decidere se rispondere alla provocazione di Ammonio. Teone, sordo alle proteste di Ipazia, concorda con i più violenti che l’affronto si debba vendicare. Ma in piazza i pagani si scoprono in minoranza e, mentre Teone viene ferito, si barricano nel Serapeo. Durante la notte la guardia cittadina li protegge, ma al mattino arriva la decisione dell’Imperatore: non saranno puniti per aver attaccato i cristiani, ma devono lasciare il Serapeo, e gli assedianti potranno farne ciò che vorranno.

 

I pagani fuggono, portando con sé molti preziosi manoscritti, e la Biblioteca viene devastata dai cristiani. Anche Davo partecipa alla distruzione di quell’odiato simbolo della cultura pagana. Poi, segretamente infatuato della padrona, la raggiunge per abusare di lei, ma non riesce a portare a termine lo stupro. Ipazia allora lo libera e lo scaccia, mentre Teone muore per l’infezione della ferita.

 

Passano alcuni anni, durante i quali il paganesimo scompare dalla vita pubblica di Alessandria e il cristianesimo assume una posizione dominante. Il vescovo Cirillo, ferocemente antipagano, minaccia l’ordine pubblico garantito dal prefetto Oreste, ex allievo di Ipazia. Scoppia inoltre un conflitto tra la comunità cristiana e quella ebraica, che durante uno spettacolo viene assalita dai parabolani guidati da Ammonio. Gli ebrei si vendicano tendendo un agguato ad alcuni di loro e massacrandoli a colpi di pietre, ma nel pogrom che ne segue centinaia di ebrei vengono uccisi e i loro corpi bruciati.

 

Mentre Ipazia, continuando gli esperimenti sul modello eliocentrico, comincia a dubitare che le orbite dei pianeti siano perfettamente circolari, la situazione si aggrava quando Oreste, benché cristiano e battezzato, rifiuta di inginocchiarsi dinanzi alle Scritture dopo che Cirillo ha letto un passo di san Paolo che diffida le donne dall’insegnare agli uomini. Si scatenano allora violente maldicenze sull’influsso negativo che Ipazia, dichiaratasi non cristiana, avrebbe su Oreste. Ammonio colpisce il prefetto con una pietra ed è messo a morte, ma Ipazia è ormai accusata di empietà e stregoneria. E i parabolani decidono di linciarla proprio mentre lei finalmente intuisce che i pianeti si muovono su orbite ellittiche.

 

Davo corre a casa della ex-padrona per avvertirla, ma scopre che si è recata da Oreste. Il prefetto le offre un’ultima possibilità di scampare alla furia cristiana: battezzarsi, come ha già fatto tutto il governo. Ipazia rifiuta e sulla via di casa viene sequestrata dai parabolani, che la portano nel Serapeo per scorticarla viva. Ma Davo propone invece di lapidarla per evitare il contatto con il suo sangue impuro e, mentre i fanatici raccolgono pietre, si avvicina a lei e con il suo tacito consenso la strangola.

Il commento di Luigi Scialanca

 

Il coraggio di Ipazia, di volersi libera da “verità” indiscutibili, manca a chi meritoriamente ce la ricorda: non osando il regista volersi libero dalla Storia come si ha da esserlo per essere artista, lascia che Ipazia, donna impavida e filosofa e scienziata geniale, sia uccisa per la seconda volta: un film potente, per la passione, l’intelligenza, la sapienza che esprime, e così libero da reinventare fin nei dettagli protagonisti ed eventi di cui si sa poco ― decade nel finale a piatta riproduzione della realtà storica.

 

L’assassinio mostruoso di Ipazia, e ancor più la disperazione del suo ultimo sguardo all’occhio ellittico della cupola della Biblioteca aperto verso il cielo ― occhio che non è di Dio ma dell’essere umano, unico animale che guarda le stelle e ne fantastica le possibili verità ― sono rappresentazioni forse realistiche di ciò che accadde ad Alessandria d’Egitto nel marzo del 415, ma né realistiche né veritiere, né tanto meno artistiche, di ciò che riesce a intravedere l’immaginazione umana oggi, nel XXI secolo.

 

Mettere in scena tale e quale, dopo mille e seicento anni, un assassinio che fu anche un crimine contro l’Umanità significa (indipendentemente dalle intenzioni) ribadirlo, perpetuarlo, tentar di paralizzare per mezzo di esso quel che Ipazia muove oggi nelle menti in cui ella invece è viva perfino in chi niente sa di lei, ma ne condivide la passione per la ricerca e l’insofferenza per ogni dogma preteso inviolabile.

 

Ai suoi eredi, a noi che con lei siamo ora, che senso ha mostrare Ipazia assassinata e morta? Sappiamo fin troppo bene che è stata uccisa, ne soffriamo da sempre. Chi andrebbe da uomini e donne in lutto a ripetere loro ogni giorno ciò che li addolora: “Chi amavate non c’è più”? Sarebbe assurdo e delinquenziale. Sarebbe fare come quei frati che ogni volta che s’incontrano si ripetono: “Ricorda che devi morire” non per esortarsi a non dimenticare ciò che è impossibile dimenticare, ma per far sì che ognuno stia male, si rassegni, ceda alla disperazione, muoia mentre è ancora vivo. No: a tutti noi che con lei siamo oggi e impegnati a esser degni di lei, Amenábar doveva dire: “Ipazia è sfuggita agli assassini”.

 

E tuttavia, se si esclude la sconfitta finale, Agora è un capolavoro. E proprio per il coraggio, fin quasi alla fine, di non essere piatta ricostruzione di eventi immodificabili. Di eventi sui quali, cioè, se per noi fossero solo veri, solo verità storiche ― ciò che sono, anche ― sarebbe impossibile fare arte.

 

Abbiamo visto e commentato The Truman Show e Pleasantville e Ricomincio da capo!: gradevoli commedie in cui la creazione di un mondo immaginario preteso vero, immodificabile, senza alternative ― la follia e la violenza di fare di un mondo inventato un mondo assoluto ― è trattata con levità e si conclude con la sconfitta del “creatore”: Truman lascia Seahaven per un mondo non meno immaginario, il mondo reale, ma di cui tutti siamo i liberi artisti; “Bud” e “Mary Sue” trasformano Pleasantville, dove l’imprevedibile non esiste, in una cittadina in cui “non si sa cosa accadrà” e che tutti, perciò, possono tentar di dipingere secondo i propri desideri; e Phil esce a Punxsutawney dal grigio carcere di anaffettività in cui aveva tramutato il mondo nella propria immaginazione. Abbiamo visto, cioè, luoghi immaginari brutti trasformarsi, diventare migliori, umani, a dispetto di chi ne predicava l’intoccabilità. Ma ciò è stato possibile, e perfino abbastanza facile, proprio perché essi erano luoghi immaginari... immaginari.

 

Quello di Agora, invece, è un mondo immaginario reale: c’è stato, è esistito ed è durato più d’un millennio. Il mondo delirante che i cristiani imposero come immodificabile, cioè, e che per secoli è stato davvero immodificabile, ormai è nel passato: è Storia, e nessuno potrà più liberarne i milioni di sventurati che ne furono prigionieri. Poiché l’antiumana immaginazione religiosa fece di sé stessa l’unico mondo “vero”, l’unico possibile, uccidendo Ipazia e chiunque come lei tentò di cambiarlo. Ancora milleduecento anni dopo l’assassinio di Ipazia ad Alessandria, Giordano Bruno non fu forse bruciato vivo a Roma?

 

Anche le dittature del ’900 sono state così: creazione di mondi disumani la cui folle violenza li ha realizzati e imposti come gli unici possibili. Ma son durati pochi decenni. I mondi mostruosi delle religioni monoteiste, invece ― realizzazioni di opere dell’immaginazione non meno fantastiche di ogni altra, ma rese indiscutibili chiamandole libri sacri ― son durati secoli. Ed è grande merito di Amenábar averne sentito e fatto sentire l’orrore mostrandone realisticamente la costruzione e l’imposizione. Nessuno aveva mai sentito così l’avvento di una fede ― come fosse un’Invasione degli ultracorpi ― ma Amenábar sì: ha sentito e fatto sentire tutta l’insensatezza, le falsità, le violenze con cui il mondo immaginario religioso si impose al mondo immaginario collettivo spacciandosi per mondo reale vero, intrasformabile perché divinamente immutabile come il moto delle stelle, e accanendosi soprattutto contro chi invece poteva e può cambiarlo di più, il mutevolissimo mondo umano: le donne, i giovani, i ricercatori. Questo è ciò che Amenábar ha fatto, con Agora. Sentendo e facendo sentire, inoltre, tutta la stupidità e la viltà di un potere politico e culturale che aveva la forza per opporsi alla follia ma, per aver cercato solo la forza, non ebbe mai la passione né l’intelligenza di Ipazia d’immaginare gli umani ben altrimenti che come sudditi, e proprio per questo fu costretto in ginocchio da chi fingeva di immaginarli e pensarli come umani.

 

Sì: Agora è fin quasi alla fine opera assai diversa e incomparabilmente più creativa di quella del potere politico e culturale di stampo “romano” che da duemila anni, salvo rare ed effimere eccezioni, stupidamente e vilmente soccombe alla mostruosa “creatività” del potere religioso. Ed è perciò, Agora, fin quasi alla fine, quella vera Arte, mobilissima e modificabilissima, che si fonde con l’immaginazione umana e la esalta ma senza il potere né tanto meno la forza di controllarla e paralizzarla. Da un lato perché la ricostruzione storica e d’ambiente è perfettamente scrupolosa e veritiera, come ho detto, ma fa talmente giustizia della cosiddetta “verità storica” ufficiale (la favola della “mitezza” e della “umanità” dei cristiani) che i milioni di uomini e donne e bambini che per secoli ne furono prigionieri, e che nessuno potrà mai liberare dalla Storia, ne sono invece tutti riscattati e fatti rivivere intatti nelle nostre menti. Dall’altro, e in particolare, perché per tutto il film, ogni volta che Ipazia è meravigliosamente in scena, nelle sue vicinanze il mondo condannato in cui visse nella realtà si tramuta come per magia in un mondo tanto umano quanto il mondo umano può esserlo. Quando c’è lei la condizione delle donne fa passi da gigante, il rispetto e l’amore degli uomini non le restano indietro, la filosofia e la scienza raggiungono le massime vette. Perfino la schiavitù ― che il potere politico e culturale di stampo “romano” non ha mai eliminato, e la mostruosa “creatività” del potere religioso ha sempre e solo finto di condannare ― accanto a Ipazia si tramuta come per magia in rapporto umano creativo. Ed è così che si fa Arte: questa è l’Ipazia che sola può esser vera oggi per noi, e questa è l’Ipazia che Amenábar ci ha mostrato. Fin quasi alla fine.

 

“Agora”, come tutti sanno, era la piazza principale, nelle città di quell’antico mondo che sulle coste del Mediterraneo si avviava a morire assassinato dal livore antiumano delle religioni monoteistiche. E “agora” è oggi in qualche modo la “piazza” globale ― virtuale e reale, inventata e “vera” ― che ci collega tutti l’uno all’altro non più anche fisicamente ma solo con l’immaginazione. Siamo abituati a considerare queste due piazze diversissime, addirittura opposte ― minuscola e isolata l’antica, incommensurabile e iperconnessa l’attuale ― ma Amenábar ci mostra che le cose non stanno così: di quando in quando il suo occhio spicca il volo, s’innalza a mostrarci la Biblioteca di Alessandria come la vedevano solo gli uccelli, e poi più in alto, a mostrarci l’intera città, e poi l’Egitto, e il Mediterraneo, e infine il pianeta visto dallo Spazio. E non è un anacronismo. E neanche un tentativo di immedesimarsi nel punto di vista di un qualche Dio. È per mostrarci che già nel Quarto Secolo non esistevano piccole piazze isolate. Che tutto ciò che accadeva a ogni uomo o donna o bambino, dovunque fossero, accadeva già allora all’intera Umanità, compresa la futura che siamo noi, condizionando le vite di allora, quelle di dopo e quelle di oggi.

 

No: l’Ipazia di Amenábar e nostra non doveva morire (tanto meno per mezzo di un ragazzo, Davo, presentato come un suo alter ego maschile, appassionato e generoso e intelligente, pieno di umano desiderio di apprendere, il solo uomo di Alessandria degno di lei, e poi incredibilmente tramutato in un mostro all’unico scopo di farne il suo carnefice). Basta morti, assassinati dall’odio antiumano: Ipazia dev’essere fantasticamente viva e libera, nelle nostre menti, per poter esserlo veramente nelle nostre vite.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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