Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino
E.T., l’Extraterrestre
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La mamma non si accorge di E. T., quando gli dà lo sportello in faccia,
perché è una di quelle mamme frettolose che non si accorgono delle cose che accadono? (Stefano, a.s. 2006-2007)
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Titolo: E.T., l’Extra-terrestre Titolo originale: E.T., the Extra-terrestrial Regista: Steven Spielberg (1946, vivente) Paese di produzione: U.S.A. Anno di produzione: 1981 Attori principali: Dee Wallace-Stone (Mary), Henry Thomas (Elliot), Peter Coyote (Keys), Robert MacNaughton (Michael), Drew Barrymore (Gertie), K.C.Martel (Greg), Sean Frye (Steve), C.Thomas Howell (Tyler). Durata: 1h 55’
Il film
Un Extraterrestre sbarca da un’astronave “in sosta” sulla Terra per qualche ora e decide di esplorare i dintorni. Ma si allontana troppo, e i suoi compagni son costretti a ripartire senza di lui. La storia di E.T. comincia così, con il simpatico mostriciattolo dall’età indefinibile tutto solo su un pianeta, il nostro, sul quale neanche noi ci sentiamo sempre a nostro agio, ma che per lui è completamente sconosciuto. A questo punto E.T., rendendosi conto che non gli resta che chiedere aiuto agli indigeni, timidamente si avventura nel centro abitato più vicino, dove però scopre che i Terrestri si dividono in due categorie: quella dei piccoli, che sono quasi tutti buoni, giocherelloni, affettuosi e (se non altro per le dimensioni, e per la grandezza degli occhi in proporzione al resto del corpo) assomigliano un po’ a lui e non gli fanno troppa paura, specialmente dopo che si mostrano disposti a nasconderlo e proteggerlo come se fosse uno di loro; e quella dei grandi, che invece sono spesso troppo freddi e determinati, troppo asserviti a quelli che considerano i loro doveri e troppo dominati da idee astratte per poter entrare in rapporto con lui (e con tutto ciò che è nuovo, appena nato e tenero) senza fargli del male. Ne nasce un conflitto, che però questa volta non è più, come fantascienza comanda, tra gli Alieni e i Terrestri, ma fra i Terrestri intelligenti, fantasiosi e gentili e i Terrestri dissennati che, indipendentemente dalle intenzioni, sciupano e distruggono tutto ciò che toccano. Chi prevarrà, i piccoli o i grandi? E chi di loro erediterà la Terra?
Il regista
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Il commento di Luigi Scialanca
Per capire un film come E.T., dobbiamo rispondere a un paio di domande: E.T. è un mostro o non lo è? E se lo è, come mai non è cattivo come gli altri mostri?
Ci sono due tipi di mostri: quelli, reali o fantastici, “forniti” dalla Natura o da noi immaginati in essa (tirannosauri, pescecani, vedove nere, serpenti a sonagli, alieni, draghi, virus, ecc.); e quelli che si formano nelle menti distorte di certi esseri umani. I primi hanno un aspetto più o meno orribile, si vedono o si immaginano. I secondi, invece, sono invisibili. I primi sono spaventosi e possono far del male (nella realtà o nelle favole) ma non possono far diventare le loro vittime uguali a loro: come Manidù, il pescecane di Ti-Koyo, possono essere sconfitti, uccisi, ma si può anche riuscire a renderli inoffensivi e perfino a farseli amici. I secondi, invece, fanno diventare spaventosi e pericolosi gli esseri umani che li creano, ma senza che da fuori si veda: senza, cioè, che il loro aspetto fisico cambi.
Anticamente si credeva che i mostri fossero tutti del primo tipo, cioè che nessuno di loro facesse parte dell’Umanità (neanche quelli dall’aspetto parzialmente umano, come Polifemo o le Sirene o il Minotauro). Per gli Antichi, cioè, i mostri erano esseri estranei, brutti e cattivi, che un Eroe buono e valoroso, rappresentante di tutti gli esseri umani, doveva incaricarsi di affrontare e distruggere.
E gli umani che si comportavano male, o addirittura orribilmente? Secondo gli Antichi erano nati così: stupidi, o disonesti, o cattivi. Bisognava diffidarne, ma non li si poteva chiamare mostri se fisicamente erano come gli altri. Per gli Antichi nessuno poteva essere un po’ umano e un po’ mostruoso: una cosa erano i mostri (naturali o soprannaturali) e un’altra gli umani (più o meno buoni e in gamba).
I mostri degli antichi non si sono estinti come i loro Dei, ma sono sopravvissuti fino ai giorni nostri: gli alieni cattivi di quasi tutta la fantascienza, per esempio, non sono affatto diversi dall’antica Medusa, dallo sguardo pietrificante, o dall’orribile Scilla che con dodici piedi e sei teste, ciascuna con tre file di denti, si protendeva da una rupe a picco sul mare e azzannava i marinai.
Ma oggi i mostri a noi estranei degli antichi non sono più soli: a essi si sono aggiunti, per spaventarci ancora di più, i mostri che hanno il potere di cambiare gli esseri umani internamente, di farli diventare come loro e di escluderli, pertanto, dal consorzio umano: i mostri creati dalle menti.
A darne le prime notizie, dopo la fine dell’Età antica, sono state le grandi religioni monoteistiche. Secondo le quali, se alcuni umani si comportano male, non è perché la Natura o gli Dei li abbiano “fatti così” (come credevano gli Antichi) ma perché, a cominciare da Adamo ed Eva, hanno permesso al Diavolo di penetrare in loro: di impadronirsi delle loro menti, cioè, e di guidare le loro azioni al male.
Con l’idea del Diavolo, cioè, le religioni hanno cercato di spiegare come mai, sebbene gli esseri umani siano dotati di un’anima immortale creata a immagine di Dio, alcuni di essi diventino, col tempo, malvagi. Questo, hanno detto, accade loro perché danno ascolto al Grande Tentatore, accolgono i suoi mostruosi suggerimenti e così facendo si rovinano dentro: sciupano, guastano, deteriorano una parte più o meno grande della propria umanità, e la sostituiscono con altrettanta mostruosità.
Solo che dai mostri esterni, antichi o futuribili che siano, bastava e basta star lontani (cioè non andare in cerca di guai) per non correre pericoli. E in ogni caso, per il loro aspetto disumano, erano (e sono) riconoscibili da chiunque, anche da un bambino. La mostruosità interna, invece, non si presenta dapprima fuori (in un’altra casa, in un’altra città, in lontane e selvagge regioni del mondo o addirittura su altri pianeti) ma appare sùbito dentro gli esseri umani: li guasta dall’interno, li rende mostruosi senza modificarne l’aspetto esteriore. Perciò è molto più pericolosa (e fa più paura) di quella esterna.
I mostri interni, insomma, non si riconoscono da fuori e non si avvistano da lontano. Chi li ha dentro, da fuori continua ad apparire assolutamente normale e per bene: può sembrare innocente come un angioletto anche per una vita intera, prima di gettarsi su qualche malcapitato e farne polpette.
Naturalmente il Diavolo forse non esiste, proprio come non esistevano Polifemo e le Sirene. Ma questo non ci deve impedire di vedere che le religioni monoteistiche hanno compiuto un progresso, rispetto al pensiero antico, perché hanno stabilito che tutti nasciamo intimamente uguali nonostante le differenze esteriori; e che perciò, se alcuni durante le loro vite cominciano a comportarsi in modo disumano, non si può sostenere che siano venuti al mondo “fatti così” ma si deve cercare di capire che cosa gli sia accaduto dentro. Che cosa, cioè, li abbia resi mostruosi. E, se possibile, tentare di aiutarli.
Al contempo, tuttavia, per spiegare come mai siamo accessibili alle tentazioni, “diaboliche” o umane che siano, le religioni hanno compiuto un regresso, rispetto al pensiero antico, insinuando in noi l’idea (quella del “peccato originale”, per esempio) che nasceremmo tutti imperfetti (tutti un po’ mostri dentro) e che, per non rovinarci ancora di più, dovremmo controllarci ed essere controllati, più o meno severamente, per tutta la vita. E hanno creduto, per questa idea, che abbiano perduto una parte dell’originaria umanità (cioè che siano in parte mostruosi dentro) tutti quelli che per un motivo o per l’altro non hanno ancora potuto essere educati e istruiti: come i bambini appena nati, per esempio, o i popoli che professano altre religioni. Hanno elaborato e diffuso, cioè, un’idea opposta all’iniziale intuizione dell’originaria eguaglianza umana: l’idea che per essere umani non basti nascere da una donna e da un uomo ma si debba poi essere “completati”. Mentre, per gli Antichi, almeno una parte degli umani nascevano perfetti, ovunque venissero al mondo; e tali rimanevano per tutta la vita, qualunque cosa gli accadesse.
Ma l’idea della perfezione della nascita umana non è andata perduta. Ne hanno tramandato la memoria, dopo che l’ebbero ritrovata nelle opere d’arte e nei testi degli Antichi, i grandi movimenti culturali dell’Umanesimo, del Rinascimento e dell’Illuminismo, dalla cui lotta contro la superstizione e l’ignoranza ha avuto origine la moderna idea che gli umani nascano tutti buoni, e che la mostruosità che alcuni sviluppano dentro di sé sia provocata dalle condizioni disumane in cui son costretti a crescere. Che siano le bugie, gli inganni e le violenze di certi esseri umani (e non il Diavolo) a sconfiggere le resistenze interiori di altri inducendoli a distorcere e rendere mostruose le proprie menti.
Oggi, dunque, dei mostri si tende ad avere un’idea diversa sia da quella dell’Antichità, sia da quella medioevale: a pensare, cioè, che non esistano mostri esterni all’Umanità (ma solo esseri o forze naturali con cui non è stato stabilito un rapporto corretto) e che esistano, invece, solo i mostri interni (uno dei quali, per esempio, sarebbe proprio l’incapacità di convivere armoniosamente con la Natura). Ma che nessuno, tuttavia, nasca mostruoso; che, pertanto, non esistano intere categorie o interi popoli di mostri; e che anche gli individui che a poco a poco lo diventano, infine, rimangano pur sempre esseri umani e abbiano il diritto di essere trattati come tali.
Di chi è la colpa, per esempio, se ogni tanto la Natura si rivolta contro di noi? Dell’idea insensata che possiamo farle tutto ciò che vogliamo, pur di produrre e guadagnare sempre di più. Di chi è la colpa, se a volte ci facciamo del male a vicenda? Dell’idea insensata che schiacciare e sottomettere gli altri sia l’unico modo per innalzare noi stessi E l’elenco potrebbe continuare: sono le idee folli i veri mostri, e le idee folli non stanno fuori, ma dentro di noi. La vera mostruosità, in altre parole, è la follia che può nascondersi e svilupparsi in certe idee che noi stessi lasciamo talvolta germogliare e coltiviamo in noi.
È una consapevolezza, quella che i veri mostri sono creati dalle menti di alcuni di noi, che si è fatta strada nell’immaginario dell’Umanità soprattutto nel ’900. Nella letteratura, per esempio, l’opera che per prima e con immensa potenza ha accreditato questa idea preziosa è senza dubbio il racconto La metamorfosi, dell’autore praghese Franz Kafka (1883-1924), scritto nel 1916: dove Gregorio Samsa fa della sua mente un mostro così ben mimetizzato, che lui stesso non se ne accorge fino al mattino in cui, “nel destarsi da sogni inquieti, si trova trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto”...
E nel ’900, dunque, si è anche cominciato a pensare che, se è vero (com’è vero) che la presenza di mostri in una mente umana non si può intravedere dall’aspetto fisico, ne consegue che chi sembra “una brava persona” può talvolta essere un mostro, mentre chi viene chiamato mostro può talvolta essere perfettamente a posto, e magari perfino migliore di altri. E le cose stanno proprio così: Hitler, per esempio (che sembrava così tanto una brava persona, che i Tedeschi gli fecero vincere le elezioni) gridava che gli Ebrei erano dei mostri. E invece il mostro era lui, e le brave persone gli Ebrei.
Nonostante le durissime lezioni impartite dalla storia, però, ancora oggi molti continuano a credere che i mostri siano sempre e solo esterni. Che siano, cioè, sempre gli altri: quelli che hanno un aspetto diverso, o che vivono diversamente, o che professano idee diverse o una diversa religione. Come se fosse ancora potente, nelle menti di certi esseri umani, la favola antica dei mostri come categoria esterna all’Umanità, o quella medioevale dell’imperfetta umanità di chi non ha ricevuto o subìto l’imposizione della vera fede, si fa ancora oggi fatica a convincersi che l’unica vera mostruosità è la follia che può annidarsi e svilupparsi dentro il nostro paese, dentro la nostra fede, dentro il nostro partito, sotto il colore della nostra pelle. E perfino, se crediamo alle bugie, dentro la nostra testa.
C’entra, tutto questo, con E.T.? Molto, poiché bisogna sapere che gli scrittori e i registi di fantascienza, durante il ’900, hanno continuato a credere e a far credere che i Nostri siano sempre perfetti e i Loro sempre mostri da sterminare. E mascherando da Alieni gli stranieri (cioè, lo ripetiamo, non solo gli umani di altri paesi, ma anche quelli di altri partiti, di altre religioni, di altre etnie) hanno continuato a massacrarli nei loro libri, nei film e nelle fiction televisive, e a suggerire a milioni di lettori e di spettatori l’idea che si debba farlo anche nella realtà. Poi, finalmente, anche nella fantascienza qualcosa è cambiato, e al cinema sono apparsi (dopo i pescecani buoni come Manidù) i primi Extra-terrestri buoni.
Ma Steven Spielberg, con E.T., ha fatto di più, dimostrando di essere, oltre che un grande produttore di successi commerciali da centinaia di milioni di dollari, anche un grande divulgatore delle idee di democrazia e di tolleranza. Cioè di idee sane, che possiamo accogliere nelle nostre menti senza temere che si trasformino (e ci trasformino) in mostri. E dunque, nella scena in cui E.T., prima di separarsi da Elliot, ne sfiora la fronte con il suo lungo e luminoso dito indice e gli ripete le parole che il bambino aveva detto a lui per tranquillizzarlo, Io sarò sempre qui..., con questa frase il piccolo extra-terrestre non dice soltanto che a Elliot rimarrà il suo ricordo, ma parla anche a noi per dirci che ogni creazione della mente umana penetra in quelle che si mettono in rapporto con essa e vi rimane per sempre, fornendo loro i materiali (buoni o cattivi, a seconda dei casi) per la creazione del proprio mondo interiore.
Esaminiamole dunque, le idee che dopo aver visto E.T. “resteranno sempre qui”, nelle nostre menti, e verifichiamone il significato e il valore.
In primo luogo, come il Manidù di Ti-Koyo, E.T. ci dice che la Natura non crea mostri, né sulla Terra né altrove; che ciò che a noi può sembrare mostruoso (dagli squali agli eventuali Alieni, dai virus ai terremoti) smette di apparire tale non appena riusciamo a stabilire con esso un rapporto creativo; e che la scienza ha il compito non solo di rovistare e misurare la realtà (questi non essendo che i suoi strumenti) ma anche e soprattutto di creare nuovi modi di mettersi in rapporto con essa: come fa Elliot (in una scena analoga a quella in cui Ti-Koyo libera i pesci-palla dalle noci di cocco) quando libera le ranocchiette che il professore di scienze voleva che lui e i suoi compagni sezionassero, o quando si ribella agli scienziati che vogliono far lo stesso a E.T.. E in tal modo ci suggerisce l’idea che si possano scoprire più cose osservando le creature viventi e rispettandone la libertà, che imprigionandole e massacrandole.
In secondo luogo, E.T. ci dice che la mostruosità non ha niente a che fare con la diversità: che chi è fisicamente diverso da noi, cioè, e chi si differenzia da noi per le sue idee, sono umani come noi; mentre chi è fisicamente identico a noi e apparentemente condivide le nostre idee (come l’insegnante o gli scienziati di cui sopra) può invece essere un mostri dentro.
In terzo luogo (ed è questa l’idea più originale e importante del film) E.T. afferma che nessuno nasce mostruoso. Che è falso e delirante, cioè, il pensiero che umani non si nasca, ma che lo si diventi per effetto dell’educazione e dell’istruzione. E lo fa cercando e trovando protezione e aiuto non fra i grandi ma fra i piccoli, nessuno dei quali compie mai il minimo gesto ostile nei suoi confronti.
È possibile, del resto, che anche E.T. sia un bambino. Lo confermerebbe il fatto che i suoi sono stati costretti a lasciarlo sulla Terra perché, per soddisfare la sua curiosità, si è allontanato troppo, ha perduto il senso del tempo e, quando è stato richiamato a bordo, non è tornato indietro abbastanza rapidamente: comportamenti tipici dei bambini, e che per secoli sono stati addotti a loro carico come piccole ma inquietanti mostruosità da correggere al più presto; ma che in questo film sono invece presentati come caratteristiche positive e contrapposti all’obbedienza cieca, al tempismo da marionette e alla fede assoluta nella razionalità astratta di cui danno prova gli uomini del governo e l’insegnante di scienze.
Ma ciò che è più importante non è stabilire se l’eroe del film sia un bambino, quanto piuttosto sottolineare che sono bambini gli unici umani di cui egli si può fidare: gli unici, cioè, che sono in grado di stabilire con lui un rapporto di piena comprensione e solidarietà, espresso anche dal fatto che fra Elliot ed E.T. si crea una comunicazione telepatica speciale, doppiamente muta, in cui tra loro non passano “pensieri”, cioè parole insegnate dagli adulti, ma solo sensazioni. Sottolineare il fatto, cioè, che i bambini, in E.T., non sono esseri dall’umanità imperfetta e incompleta (come “dimostrerebbe” il fatto che non possiedono a pieno quella che passa per la più specifica delle caratteristiche umane, cioè il linguaggio) ma bensì esseri che, in quanto legati più ai sentimenti che alle parole, non sono stati ancora invasi e conquistati dalle idee insensate e violente che le parole introducono talvolta nelle menti dei grandi; e sono, perciò, i detentori più autentici e “incontaminati” delle qualità che ci rendono umani.
(Come si vede molto bene anche nella sequenza di Halloween: in cui i bambini, benché mascherati da mostri, appaiono più umani della loro madre, che si è travestita da donna “fatale” nel tentativo di liberarsi da quelle caratteristiche ancora “infantili” alle quali addebita la fuga del marito...)
Il fatto che siano Le avventure di Peter Pan, il libro che la mamma legge alla piccola Gertie, a questo punto non può essere casuale: Bambini di tutti i mondi, unitevi!, è evidentemente il messaggio di cui E.T. vuol essere il manifesto. Ma su Peter Pan torneremo nella scheda dedicata a Hook, altro film di Spielberg; in cui vedremo che egli ha introdotto sostanziali modifiche anche nell’immagine del bambino che non voleva crescere, per adattarla alla propria originale visione.
Visione che in E.T. si tinge di colori addirittura messianici ― e un po’ megalomaniaci, verrebbe da dire. In quale altro modo, infatti, potremmo definire le curiose circostanze per cui E.T. scende sulla Terra dal cielo, si rivolge soprattutto ai bambini, compie miracoli come guarire le ferite, resuscitare piantine morenti e perfino levitare, dopo qualche tempo dalla sua venuta sulla Terra viene catturato, è sottoposto a sevizie, muore, risorge, fa solenni promesse e infine ascende nuovamente al cielo (forse per tornare da suo padre) lasciando dietro di sé una lunghissima scia che ha i colori dell’arcobaleno? Non si sarà mica fatto prendere la mano, mr Spielberg, da qualche residuo mostriciattolo ideologico o religioso? Di quelli di cui non c’è traccia nei bambini, finché qualcuno non li insinua nelle loro menti? |
(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.
Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.
Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)
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