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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Ladri di biciclette

 

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Il padre del bambino, quando cerca di rubare la bicicletta, non ci riesce perché non è un ladro vero? (Stefano, a.s. 2006-2007)

 

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Titolo: Ladri di biciclette

Regista: Vittorio De Sica (1901-1974)

Sceneggiatore: Cesare Zavattini (1902-1989)

Paese di produzione: Italia

Anno di produzione: 1948

Attori principali: Lamberto Maggiorani (Antonio Ricci), Enzo Staiola (Bruno Ricci), Lianella Carell (Maria Ricci), Vittorio Antonucci (il ladro).

Durata: 1h 32’.

 

Lo scrittore

 

Cesare Zavattini

 

Il regista

 

Vittorio De Sica

 

Il film

 

Ladri di biciclette è uno dei più bei film di tutti i tempi.

Interpretato da attori non professionisti, mostra con sincerità e senza retorica come vivevano, sùbito dopo la Seconda guerra mondiale (o come, anzi, stentavano a sopravvivere) le classi povere del nostro Paese, che in quel conflitto era stato precipitato dalla stupida violenza del regime fascista di Mussolini. Accolto quasi con disprezzo da una parte dei critici e del pubblico italiani, che lo giudicarono troppo realistico e tale da sminuire il prestigio dell’Italia, il film riscosse invece un largo successo all’estero, dove ricevette numerosi riconoscimenti.

È la storia di un disoccupato, Antonio Ricci, che trova finalmente un posto da attacchino. Per ottenerlo, però, gli serve una bicicletta, che egli non ha più perché l’ha impegnata. Allora torna con la moglie al Monte di Pietà e riscatta la bici, dando in cambio le lenzuola di casa. Il lavoro è così assicurato, e l’indomani Ricci comincia ad attaccare i primi manifesti. Ma a un tratto, mentre è intento al lavoro, un ladro gli ruba la bicicletta.

Ricci è disperato e il giorno dopo, domenica, col figlioletto Bruno si mette in cerca del ladro... Ha inizio, così, una drammatica odissea per le vie e le piazze di Roma, a cui il bambino contribuisce nell’unico modo che gli è possibile: quello di rinunciare, per il papà che adesso non può badare a lui, a tutti i suoi diritti di bambino, tranne quello di sopravvivere.

 

Il commento di Luigi Scialanca

 

Bruno Ricci ha un padre e una madre che si amano e lo amano. Ma vive in un’epoca (quella che l’Italia attraversa fra il 1940 e gli anni ’50 per colpa della guerra scatenata dal Nazismo e dal Fascismo) in cui l’amore e l’immaginazione della maggior parte dei genitori si consumano nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, e molti bambini (quelli che oggi hanno dai settant’anni in sù) stentano a ottenere dagli adulti perfino quel po’ di cibo e di riparo che anche un animale riesce a procurare ai suoi piccoli.

 

Quei bambini, che oggi sono nonni, per pudore difficilmente lo raccontano. Ma lo ricordano molto bene: tutto ciò che per un bambino dei giorni nostri è un diritto, per loro era quasi inimmaginabile.

 

Guardate il piccolo Bruno (che oggi ha settantatre anni) mentre accompagna il padre alla ricerca della bicicletta rubata. Osservate come rinuncia a essere un bambino, a giocare, ad aver bisogno di una carezza, di un bacio; come dimentica di aver desideri, domande da fare, spiegazioni da chiedere; come si rassegna alla stanchezza, alla fame e perfino a non far pipì, per essere soltanto un altro paio d’occhi e d’orecchi per il padre. Poiché il tempo e il luogo maledetti in cui Bruno si trova a vivere gli hanno insegnato, senza riguardo per i suoi sette anni, che il padre, se non ritrova quella bicicletta, non potrà più essergli padre neanche nel senso (minimo) in cui lo è un animale che dà da mangiare ai suoi piccoli.

 

Certi tempi e certi luoghi, infatti (purtroppo ancora oggi, e in molte parti del mondo) sono per i bambini come i genitori di Hänsel e Gretel: sono, cioè, tempi e luoghi in cui la Società degli adulti (con eccezioni anche consistenti ma che non bastano a impedire l’orrendo crimine, così come nella favola dei fratelli Grimm il debole padre non riesce a opporsi alla moglie assassina) è una matrigna folle e mostruosa che abbandona i bambini alle belve e alle streghe della foresta, un Erode sanguinario che massacra gli esseri umani da piccoli affinché da grandi non possano rendere il mondo più umano. Così è l’Italia degli anni fra i ’40 e i ’50 del Novecento, per la guerra scatenata dal Nazismo e dal Fascismo: un luogo e un tempo in cui molti bambini sono uccisi dalla guerra o dalla miseria o dalle malattie, e moltissimi altri sopravvivono a esperienze talmente orribili, che per tutta la vita ne porteranno i segni nella mente e nel cuore, e spesso non riusciranno a evitare di trasmetterli ai propri figli e ai figli dei propri figli.

 

Guardate, dunque, il piccolo Bruno (che oggi ha settantatre anni) mentre accompagna il padre alla ricerca della bicicletta rubata, e pensate che egli si trova a vivere in un tempo, gli anni ’40, e in un luogo, l’Italia distrutta dal Fascismo e dal Nazismo, in cui i bambini stentano a ottenere dai genitori non solo quel che distingue la nostra specie da ogni altra (vale a dire i frutti non materiali dell’immaginazione e dell’intelligenza) ma perfino l’assistenza materiale che i cuccioli degli animali ricevono dai loro. Un luogo ed un tempo in cui certi esseri umani, diventati disumani, costringono chi è ancora umano a vivere come una bestia e gli impediscono di essere qualcosa di più che una bestia per i suoi piccoli.

 

Ma guardate anche Antonio, il papà di Bruno: è così tremenda la sua angoscia per il furto che ha subìto, per il lavoro che rischia di perdere e per la fame che incombe sulla sua piccola famiglia, che all’inizio non riesce a resistere e comincia a diventare disumano anche lui: come se nella sua mente si stia formando la disperata idea che in un’epoca disumana non si possa che diventare disumani a propria volta. Comincia, cioè, a trattare il figlioletto come il mondo sta trattando lui, e non se ne accorge (o non vuole accorgersene) finché il piccolo Bruno non riesce finalmente a ribellarsi e a ricordargli, con la sua rabbia e le sue lacrime, che non può e non deve esistere alcuna situazione, per quanto orribile possa essere, in cui un essere umano, e soprattutto un piccolo umano, sia trattato men che umanamente.

Allora Antonio si riprende, ritrova sé stesso (almeno per un po’) e questa sua ricomparsa si manifesta con l’improvviso terrore che il figlio sia annegato nel Tevere: con il terrore, cioè, che la propria resa al disumano (vale a dire l’aver permesso alla realtà disumana circostante di prendere il sopravvento su di lui) gli costi ora una perdita molto più spaventosa e irrimediabile di quella della bicicletta. Poiché l’amore umano di Antonio per il figlio (la capacità, cioè, di essere per il figlio qualcosa di più di ciò che un animale è per la prole) è tutta l’umanità che ad Antonio è rimasta: tutta l’umanità che è riuscito a conservare a dispetto del tempo e del luogo disumano in cui si trova a vivere.

 

Il piccolo Bruno, insomma, ribellandosi al padre che lo sta trattando come lui è trattato, fa per il padre ciò che dovrebbero fare i padri per i figli: lo salva, o meglio gli dà un’opportunità di salvarsi. Poiché la ribellione dei figli al disumano dei padri, quando i figli riescono a farla senza diventar disumani anch’essi, non di rado è per i padri l’ultima opportunità di salvezza.

 

Guardate, allora, la gioia un po’ euforica di Antonio per il pranzetto in ristorante che osa offrire a Bruno spendendo gli ultimi soldi che ha in tasca: un gesto che si direbbe una “pazzia”, certo, per un padre nella sua situazione (poiché rischia di rendere ancor più precarie le prospettive di sopravvivenza sue e di suo figlio) ma che proprio per questo è una cosa che un animale non farebbe mai (dato che un animale non agisce irrazionalmente, ma solo in vista di un vantaggio materiale per sé e per la prole) e che perciò, per qualche minuto, fa di Antonio un padre umano, anche se momentaneamente “pazzo”.

 

Poi, purtroppo, Antonio torna a perdersi, e tenta di rubare una bici. Ma non ci riesce, in realtà (non riesce, cioè, a diventare sul serio come quelli che l’hanno rubata a lui) e questa incapacità d’impazzire fino in fondo la deve soltanto a una cosa: a quella sua “follia”, sia pur precaria e inconsapevole, di non poter fare a meno, di quando in quando, di sacrificare il necessario all’inutile, il bisogno alle esigenze, la realtà all’immaginazione. Come fanno i bambini. Come fanno gli esseri umani.

 

Per un attimo, allora, guardate anche i mostri di questo film: i ladri e i violenti per davvero, da un lato, e dall’altro le fattucchiere e i “benefattori” che accumulano ricchezze e potere approfittando della disperazione dei deboli. E domandatevi cosa sia, precisamente, quel che rende Antonio Ricci diverso e migliore di loro... Non è, forse, il fatto che egli è l’unico ancora capace, sia pur per un istante, di fare per un altro essere umano, il piccolo Bruno, qualcosa che non serve a niente?

 

È un film, Ladri di biciclette, che commosse e insegnò molto ai migliori Italiani dell’epoca in cui fu realizzato. Ma è un film che anche a noi, oltre che commuoverci per i nostri padri e i nonni, può insegnare qualcosa di fondamentale: e cioè quanto è ancora delicata e fragile, in fondo, l’immensa costruzione sociale, economica, politica, e soprattutto morale, che permette a una piccola parte dei bambini di oggi di essere trattati umanamente da genitori che non devono lottare per sopravvivere, e che perciò possono permettersi di essere umani sempre, e non solo nei momenti di “pazzia”; e quanto è importante, dunque, salvaguardarla e proteggerla, questa costruzione di civiltà, contro chi vorrebbe farci tornare al mors tua vita mea e all’homo homini lupus.

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Le migliori domande dei bambini sul film

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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