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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino
Il mago di Oz
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Nel sogno Dorothy incontra tanti amici forse perché nella realtà non ne aveva? (Caterina, a.s. 2003-2004).
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Titolo: Il Mago di Oz Titolo originale: The Wizard of Oz Regista: Victor Fleming (1883-1949) Scrittore: Lyman Frank Baum (1856-1919) Paese di produzione: U.S.A. Anno di produzione: 1939 Attori principali: Judy Garland (Dorothy), Bert Lahr (“Zeke” e il Leone), Ray Bolger (“Hunk” e lo Spaventapasseri), Jack Haley (“Hickory” e il Boscaiolo di Stagno), Frank Morgan (il professor Marvel e il Mago di Oz), Margaret Hamilton (miss Gulch e la Strega dell’Ovest), Charley Grapewin (lo zio Henry), Clara Blandick (la zia Em), Billie Burke (la Fata Glinda). Durata: 1 h 41’
Lo scrittore
Il regista |
Il commento di Luigi Scialanca
Un tema fondamentale de Il mago di Oz è il rapporto con sé stessi: Come siamo, davvero? Come pensiamo (o temiamo) di essere? Come desidereremmo essere? Come vorremmo diventare?
Ogni lettore o spettatore de Il mago di Oz nota infatti che lo Spaventapasseri, che sostiene di essere uno scervellato, è invece molto intelligente; che l’Uomo di Latta, che dice di non avere un cuore, è buono e generoso; che il Leone, che si dichiara un pauroso, ha un grande coraggio; mentre il Mago, che si presenta come un possente e temibile semidio, è invece un omino spaurito e incapace.
Ciascuno dei tre amici di Dorothy, cioè, ha creduto vera un’immagine di sé molto inferiore alla realtà, che gli rende assai difficile scoprire quanto invece sia in gamba; mentre il Mago è riuscito a farsi credere un individuo superiore costruendo e pubblicizzando una falsa immagine di sé, che rende molto arduo, per Dorothy e i suoi amici, realizzare che non è da lui che potranno ricevere ciò che desiderano.
Neanche Dorothy, a ben guardare, è quella che crede di essere. Né è quella che tutti, nel Kansas, credono che sia. Solo che nel suo caso ci è un po’ più difficile vedere e capire la verità, perché fin dalle prime pagine del romanzo (e dalla prima scena del film) abbiamo la sensazione che essa sia dolorosa.
È bello accorgersi che lo Spaventapasseri è dotato di una mente finissima, che il Boscaiolo di Stagno ha un cuore d’oro, che il Leone ha un coraggio... da leone. È piacevole, perché ci fa ridere, perfino scoprire che il Mago è un buono a nulla (benché sia spiacevole, al contempo, riflettere su quanto è difficile trovare qualcuno che possieda davvero la potenza, la saggezza e la volontà di aiutare, e che le abbia tutte e tre assieme). Ma la verità di Dorothy fa male al cuore, perché non riusciamo a liberarci dal sospetto che coincida con la realtà: che quel che la bambina crede di essere, cioè, sia quel che in effetti ella è.
Dorothy ― apprendiamo all’inizio de Il mago di Oz ― vive con lo zio Henry e la zia Em perché non ha né il papà né la mamma. Sono morti? L’hanno abbandonata? Non ci viene detto, ma capiamo da soli che, comunque se ne siano andati, ora non son più lì a volerle bene e ad occuparsi di lei. Mentre gli zii, come vedremo fra poco ― che di lei si occupano, le hanno dato un tetto, sfamata, vestita: tutte cose importantissime, senza le quali non sarebbe sopravvissuta ― però sono incapaci di amarla.
Dorothy, dunque, ci viene incontro come una bambina umanamente sola. Non ha che un cagnolino, che si chiama Totò. Come Jody Baxter, come Ti-Koyo, come molti bambini abbandonati e sperduti, anche Dorothy non vede intorno a sé e non può aver a che fare con quel che ci rende umani altrimenti che fantasticandolo nelle piccole grazie e nelle buffe moine di una bestiola amata.
Dorothy, insomma, vive in un deserto: in un luogo in cui, ovunque si guardi, “non si vede un albero, non una casa, che interrompa la vasta distesa della campagna ovunque confinante con l’orizzonte;”1 in cui “il sole ha talmente bruciato il terreno arato da ridurlo come una grande massa grigia, screpolata da sottili fessure. Nemmeno i prati sono verdi, perché il sole ha inaridito le cime dei lunghi fili d’erba così da non lasciar scorgere nulla all’infuori dello stesso color grigio dappertutto. Un tempo la casetta era stata dipinta di fresco, ma il sole aveva disseccato la vernice e le piogge l’avevano lavata via, tanto che la casa era ormai diventata triste e grigia come tutto il resto”.2 Un luogo, dunque, in cui non è possibile, altrove che nell’immaginazione, vedere alcunché.
In questo luogo la zia Em, che un tempo era “una mogliettina giovane e graziosa”, ha perduto “la bella luce viva” degli occhi e il rosso delle gote e delle labbra: si è fatta “di un tranquillo color grigio”, come ogni altra cosa, è diventata smunta, sottile, e non ride mai. Tanto che “quando Dorothy venne a vivere da lei, la zia Em fu così sorpresa del riso della bimba, che si mise a gridare stringendosi le mani sul cuore”. Del resto, anche lo zio Henry “è tutto grigio, ha un aspetto severo e solenne, non ride mai e non parla quasi mai”. Come stupirsi, dunque, che solo Totò “impedisca a Dorothy di diventare grigia e seria come tutto ciò che le sta attorno”?3
Il romanzo, a differenza del film, non autorizza a pensare che all’arrivo del ciclone la zia Em e lo zio Henry4 si disinteressino della sorte della bambina e non si preoccupino che di salvare sé stessi. Ma quel che pensa Frank Baum del loro affetto per Dorothy non pare diverso dall’idea che ne ha Victor Fleming se nel penultimo capitolo, alla Fata Glinda che domanda: “Cosa posso fare per te, bambina mia?”, fa dire a Dorothy: “Il mio più grande desiderio è quello di fare ritorno nel Kansas, perché la zia Em crederà certamente che mi sia accaduta una disgrazia e vorrà vestirsi a lutto. Ma, a meno che il raccolto non sia stato migliore quest’anno dell’anno scorso, son sicura che lo zio Henry non potrà permetterle questa spesa”.5 Se Dorothy, cioè, non può immaginare nella zia, per la sua scomparsa, altro dolore che quello di non poter degnamente onorarla indossando, una volta tanto, un abito diverso da quello da lavoro.
Un grigio deserto di solitudine, anaffettività e mancanza di fantasia: questa è la realtà in cui Dorothy vive. Baum, benché non spenda per descriverla più di tre pagine su duecentocinquanta, non ci permette di giudicarla altrimenti. Fleming, invece, che ci fa passare nel Kansas ben venticinque minuti su centouno, pasticcia un po’: i lavoranti sono gentili e affettuosi con la bambina, perfino gli zii sembrano talvolta schierarsi dalla sua parte come se fossero ancora dotati di umana intelligenza e d’amore, e nell’aia c’è addirittura un albero, anche se scheletrito... Ma il gustoso dettaglio che dal carrozzone del professor Meraviglia si può rientrare nel Kansas solo passando sotto il ghigno inospitale di un teschio, la stupenda canzone Over the Rainbow e soprattutto la radicale contrapposizione tra il bianco e nero della realtà e la variopinta tavolozza con cui il regista dà corpo per noi al regno di Oz6 ci dicono che anche per lui, come per lo scrittore, il mondo dell’immaginazione (nel Kansas) è molto più umano del mondo reale.
Perché, allora, nel romanzo come nel film Dorothy non desidera che di tornare a casa dagli zii?
Glielo domanda, poco dopo aver fatto la sua conoscenza, anche lo Spaventapasseri:
“Non capisco proprio,” le dice, “perché mai tu desideri di lasciare questi bei luoghi e voglia tornartene in quel paese squallido e grigio che chiami Kansas”.
“Perché non hai cervello,” risponde la ragazzina. “Noi gente di carne e ossa preferiamo vivere nelle nostre case, anche se grige e malinconiche, piuttosto che in qualunque altro paese, fosse anche il più bello del mondo. Non c’è nulla di così bello come la propria casa”.
La replica dello Spaventapasseri è soffusa di sottile ironia. Così sottile che neanche lui la coglie, anzi: sospira, mentre dice: “Già, io non posso capirlo. Se le vostre teste fossero tutte riempite di paglia come la mia, probabilmente, tutti voi vivreste nei luoghi più belli e allora il tuo paese sarebbe forse completamente disabitato. È una bella fortuna per il Kansas che tu e i tuoi compatrioti abbiate del cervello”.7
Il Leone, lo Spaventapasseri, l’Uomo di Latta e il Mago nel regno dell’immaginazione trovano la verità della loro realtà: nessuno è come credeva di essere, tre sono migliori, uno peggiore. E questo è forse vero anche per le Streghe dell’Est e dell’Ovest che nel regno di Oz trovano la morte, cioè l’inammissibile e inconfessabile verità segreta di ogni essere fantastico o realmente esistente che per un motivo o per l’altro non è riuscito a restare umano. Come non si può escludere, del resto, che la morte sia ciò che attende anche il Mago, se l’aria calda di cui è costretto a servirsi per gonfiare il pallone si raffredderà prima che esso abbia varcato il deserto8. Ma Dorothy no: Dorothy apparentemente non scopre mai, nel regno di Oz, che la sua verità non può essere quella che attende di richiudersi su di lei nel Kansas.
Possibile che solo lei non voglia essere più di quel che crede? Che solo lei si accontenti di una realtà senza verità? Che solo lei si rassegni al Kansas? Che solo lei sia davvero come il Kansas?
Ciò che immaginiamo è più potente della realtà in cui ci troviamo e di quella che facciamo? E, se sì, lo è sempre, o solo talvolta? Lo è solo se è più umano della realtà, o talora anche se lo è meno? (E per finire, visto che sto accumulando parecchie domande senza risposta: chi sono mai ― nel regno di Oz, nel Kansas o altrove ― quelli che hanno aspetto di Streghe, e i cui sudditi sembrano scimmie?)
[1] Lyman Frank Baum (Chittenango, New York, 1856 - Hollywood, 1919), Il Mago di Oz (1900). Traduzione italiana di Nini Agosti Castellani, Rizzoli, Milano, 1978, p.30. [2] Il Mago di Oz, cit., p.30. [3] Il Mago di Oz, cit., p.31. [4] E nel film anche i tre lavoranti di cui il regista li ha provvisti al solo (e inqualificabile, cfr. oltre) scopo di avvalorare alla fine il sospetto che l’avventura di Dorothy non sia stata che un sogno. [5] Il Mago di Oz, cit., p.272. [6] Contrapposizione che ritroveremo in Pleasantville, dove però sarà di segno opposto: al mondo della fantasia il bianco e nero (o meglio, per dirla con i Morandini, il grigio-grigio della televisione) e il colore al mondo reale. [7] Il Mago di Oz, cit., pp62-63. [8] Il Mago di Oz, cit., pp.222-223. |
(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.
Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.
Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)
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