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Righe di Libri
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Osteria Calcutta
2007
Edizioni Sensibili alle Foglie Società Cooperativa
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A cosa serve l’utopia? Per continuare a camminare (Eduardo Galeano) |
La copertina del libro.
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Ad Alice, per la tenerezza tra noi A Priyanka, a Punnima, a Santi Das A tutte le persone che vivono a Sarada Pally A tutti i volontari dell’Osteria a Calcutta
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione è appena giusto che la fortuna lo aiuti... (Fabrizio De André)
Amare. Essere amati. Non dimenticare mai la propria insignificanza. Non assuefarsi mai all’indicibile violenza e alla grossolana disuguaglianza della vita intorno a te. Cercare la gioia nei posti più tristi. Inseguire la bellezza fin dentro la sua tana. Non semplificare mai le cose complicate e non complicare mai quelle semplici. Rispettare la forza, mai il potere. E, soprattutto, guardare. Cercare di capire. Non distogliere mai lo sguardo. E mai, mai dimenticare. (Arundhati Roy)
Il gravissimo rischio che l’umanità sta correndo è quello di appiattire ogni diversità interna al pianeta. Le cause ultime sono sempre le stesse: la razionalizzazione, le regole di mercato, la logica dei commercianti. Le antiche società sapevano che non si poteva lasciare a costoro la gestione del mondo, e non a caso Confucio, sistematizzando la struttura piramidale della società cinese, relegò i mercanti al livello più basso, dopo i sapienti, i militari e i contadini. Oggi, le società moderne hanno rovesciato quella piramide e i mercanti, con la loro etica, la loro estetica, sono in testa a tutti. (Tiziano Terzani) |
Le Righe di questo Libro:
Il vero volto de Le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta
Una middle class che non saluta nessuno, e che nessuno saluta
La sera in cui Maya stette male
La felicità è una piccola cosa
Nel dicembre 2001, un piccolo gruppo di persone diede vita a un’Associazione di Promozione Sociale dal nome ridicolo: L’Osteria a Calcutta. L’Associazione ha per finalità quella di contribuire all’avanzamento sociale delle fasce marginali delle popolazioni di tutti i sud del mondo attraverso l’attuazione di programmi basati sulla condivisione e lo sviluppo autogestito dal basso. Come primo ambito d’intervento fu scelta l’India e in particolare Calcutta, uno dei cuori sanguinanti della Terra, dove le contraddizioni e i divari creati dalla globalizzazione economica sono tra i più acuti. Il metodo dell’Associazione include l’impegno di volontari non professionali, provenienti anch’essi, prevalentemente, da fasce marginali: sottoproletari, operai, disoccupati, cassintegrati, persone con difficoltà di adattamento. Obiettivo dell’Associazione è infatti anche quello di ricostruire speranza, possibilità di lavoro, senso nella vita, in persone senza molte opportunità sul territorio nazionale. Il piccolo gruppo che aveva fondato l’Associazione si allargò ben oltre le speranze iniziali: intellettuali, artisti, studenti, medici, libertari e utopisti aderirono con entusiasmo e l’esperienza in India si concretizzò in una quantità di iniziative di grande impatto all’interno di Sarada Pally (Chanditala, periferia sud di Calcutta), uno slum poverissimo dove 2500 persone vivono in condizioni limite. Furono avviati e diventarono stabili: un ambulatorio medico, che forniva visite continuative, medicine e analisi anche specialistiche; programmi di prevenzione sanitaria; counselling; corsi di alfabetizzazione; attività di microcredito e iniziative periodiche, ludiche e di supporto, con donne e bambini, anche in collegamento con scuole primarie del territorio. Nel 2004, quando le cose funzionavano al loro meglio, la mafia locale impedì violentemente all’Associazione di proseguire il proprio operato. Anche attraverso le testimonianze di coloro che l’hanno condivisa, queste pagine raccontano un’esperienza, un sogno, un’utopia messa in pratica. Al tempo stesso, aprono uno spiraglio sull’intreccio di complicità mafia-polizia-stato che rende impossibile a una piccola associazione di volontariato bypassare i poteri forti e operare direttamente insieme alla popolazione interessata, in un rapporto ben oltre la carità. Verso un miglioramento di vita che parta dalla presa di coscienza della propria condizione e dei propri diritti e si sviluppi in forme originali e autogestite. Nel testo, si è preferito utilizzare nomi di fantasia.
(dalla Prefazione)
La ricerca dei volontari (il volantino per...)
“U-topia” significa letteralmente “nessun luogo”, cioè, società che ancora non esiste. Non: “impossibile.” (S. C. Kolm)
“Che accade? Ce lo chiediamo tutti con preoccupazione. Cosa può aver determinato un trauma tale da voler ritornare dopo neanche un giorno? Stefano arriverà il 10, consiglia di aspettare lui prima di decidere. Il tuo cellulare non prende. Se puoi, mandaci notizie in giornata.” Rispondevo a Fabio che, la mattina stessa dell’arrivo, mi aveva singhiozzato al telefono di voler rientrare immediatamente in Italia: “L’impatto con questa realtà è stato uno shock. So di deluderti enormemente e sappi che il primo che ho deluso sono io stesso, ma sto lentamente perdendo il mio equilibrio. Non voglio rischiare una crisi di nervi (ormai prossima), pertanto ti comunico che tornerò nel corso della prossima settimana. A Mishra racconterò di gravi motivi familiari, non ho la padronanza linguistica per poterle spiegare il mio momento (né il coraggio di dirle che mi ha traumatizzato quella che è la sua realtà). Scusa ancora, ma non posso aiutare gli altri se ho bisogno io di essere aiutato.” Nemmeno Antonello riuscì a rassicurare “una parte di lui che non era rassicurabile.” Fabio ripartì il giorno stesso in cui Stefano prendeva l’aereo per Calcutta. Si incrociarono (forse) in volo. A Roma, venne a trovarci dopo una settimana, la coda tra le gambe. Resto convinta che abbia perso, con quel ritorno precipitoso, un’occasione importante. E che quello che provò fu unicamente la paura di essere spodestato in un colpo dal trono di false certezze al quale gli occidentali usano assicurare la propria vita. Stefano (detto il Drago) portò a Calcutta un dizionario medico italiano-inglese e, insieme ad Antonello, si adoperarono per le medicine. Una faccenda maledettamente complicata...
(Medicinali, multinazionali e attacchi di panico, dal secondo capitolo)
Non fu possibile riaprire immediatamente anche perché, nel Comitato di gestione, Mishra e Prasad dissero che le persone avevano perso fiducia, meglio lasciare che la riconquistassero pian pianino. Oltre a ciò, il Club era impegnatissimo nella Durga Puja, la festa religiosa che, dal 4 novembre, andava scoppiettando in città e, a Chanditala, si traduceva in poco più di tanti lumini accesi e qualche bancarella di noccioline. Il 30 novembre, però: “settanta, ottanta persone, forse di più, non si riusciva a tenerli a bada! Vengono da tutto il mondo, credo, piaghe, pustole, febbre alta. Marina, perché alcuni hanno cicatrici precisissime lungo tutto un fianco, oppure dietro la schiena, che non sembrano fatte da chirurghi indiani? Ne sai qualcosa? E cosa sono le “malattie improprie”, o “indotte”, come le definisce Rav? E perché neanche lui sa come curarle?” Antonello e il Drago erano volontari diversi da quelli del viaggio precedente e da quelli che sarebbero arrivati in seguito. Ragazzi della Roma “bene” ai quali non era mai capitato di trovarsi a vivere una situazione tanto amara e difficile, in un Paese complesso. Che la miseria induca le persone a vendersi un polmone o un rene o a far da cavia per sperimentazioni selvagge era cosa di cui avevano sentito parlare, ma trovarcisi in mezzo è differente. Il traffico d’organi è facilitato, in India, da una normativa, ancora una volta, assolutamente insufficiente. Le “donazioni” sono infatti ammesse anche tra non consanguinei, in caso di “particolare attaccamento”, terminologia vaga e facilmente aggirabile. Organizzazioni criminali collaborano con medici specialisti e strutture ospedaliere nella mercificazione degli esseri umani e, nell’entroterra rurale, interi villaggi sono adibiti a empori di pezzi di ricambio umani. Il centro di questo commercio si è spostato dall’India degli anni ’80 e ’90 all’odierna Turchia, ma ciò non ha ridotto il numero degli indiani poveri oggetto di cannibalismo da parte degli occidentali e di conterranei benestanti perché, nel frattempo, si è avuta un’impennata della domanda, anche a seguito della messa a punto di nuovi e più efficaci farmaci anti-rigetto.
(Si riapre!, dal secondo capitolo)
Il vero volto de Le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta
Ci recammo anche presso gli istituti delle Missionarie della Carità. Nessuno di noi aveva in testa quel tipo di volontariato, però tutti, ovviamente, ne avevano sentito parlare. Benché l’Osteria sia un’Associazione assolutamente laica e lontanissima dagli apparati ufficiali della Chiesa, nessuno di noi nutriva preconcetti nei confronti di un ordine così famoso nel mondo per la sua generosità e abnegazione. Quelle visite rispondevano solo al desiderio dei miei compagni di farsi un’idea complessiva di quanto si muoveva a Calcutta e non a quello di rinvenire difetti o manchevolezze altrui. Quanto a me, avevo già avuto modo di conoscere le diverse “case” di Madre Teresa, ma non ne avevo mai parlato con loro e non li influenzai in alcun modo. Le visitammo tutte, anche se non senza difficoltà. Le prime cose che colpirono i volontari furono: a) la straordinaria piccolezza di queste case, a fronte delle colossali donazioni elargite alle missionarie a getto pressoché continuo. Gli edifici sono destinati ad accogliere da 50 a 200 persone al massimo, stipate una sull’altra. I molti indirizzi sulle yellow pages di Calcutta, corrispondono solitamente a uffici della Fondazione; b) l’austerità dei luoghi, potrei dire lo squallore. Nessun giardino, spazi ristretti e poco illuminati, pareti spoglie, nessun tipo di arredo, niente televisione né radio, nessun oggetto che possa ricordare una casa; c) ultima, ma non certo in ordine d’importanza: la blindatura di queste case, dalle quali le persone accolte non possono assolutamente uscire di propria volontà e nelle quali non è facilissimo entrare come visitatori.
La Casa dei Bambini Si trova in Bose Road, uno degli stradoni che tagliano la sterminata città nella zona sud. Protetta da un grande cancello di ferro sempre chiuso, possiede però un secondo accesso, attraverso un vicolo laterale. Dovemmo insistere molto con la suora guardiana. Ci disse subito di no, che non si poteva entrare. Solo dopo una quantità di domande: chi eravamo, da dove venivamo e perché, riuscimmo a ottenere il permesso di tornare “a meno che non avessimo l’intenzione di adottare un bambino.” Eravamo semplici visitatori, perciò ci ripresentammo il giorno successivo. Entrando attraverso il portoncino laterale, ci si trova in un comprensorio con due palazzine una a fianco dell’altra e nessun giardino, nessun albero, nessuna panchina all’esterno. L’esterno praticamente non esiste e non è accessibile, perché “dall’esterno vengono le malattie e i pericoli,” ci spiegò una suora. In uno degli edifici, al piano terreno, la tomba di Madre Teresa: una semplicissima lapide in marmo bianco, con alcune candele sempre accese e la scritta: “Amatevi come Io vi ho amato.” Le altre camere e il secondo piano sono destinati agli alloggi delle missionarie e agli uffici. Salendo per una scala stretta, si arriva a una specie di mansarda, dove ci sono i bambini “malati.” Lo stanzone contiene una sessantina di letti piccoli piccoli e con sbarrette laterali, uno attaccato all’altro, dove i bimbi “ricoverati”, tutti orfani e con la testa rasata, piangono, si fanno addosso le loro cose, cercano disperatamente di toccarti con le manine quando ti avvicini o ti chini su di loro. I bambini variano per età, dai pochi mesi di vita ai sei, sette anni. Rividi ancora lì anche due ragazzini più grandi, cerebrolesi, ancora nello stesso letto, delle dimensioni di una culla, benché fossero cresciuti in altezza nel corso del tempo e riuscissero a starci dentro solo a ginocchia flesse e con le braccia rattrappite. Il personale era quasi inesistente: due suore e una donna di mezza età indaffarate ad allattare col biberon un neonato piccolo come Pollicino. Alcuni bambini girovagavano per la stanza, senza neanche un giocattolo, senza meta, frastornati dalle grida di quelli che stavano dentro i letti. Una ci colpì dritti al cuore. Avrà avuto quattro anni. Stava in piedi, accostata a una parete, completamente nuda come molti altri, ma lei aveva una grossa fistola sotto l’ombelico che buttava urina attraverso un tubicino. Inguine, pancia e cosce erano ricoperte di cicatrici spaventose. Urlava a perdifiato, ma la suora ci disse: “Don’t worry, ha già mangiato ed è stata visitata dal medico, è una mental problem.” Noi vedevamo solo una bimba piccola, terrorizzata e molto malata, che si disperava per non ricevere attenzione alcuna e che doveva aver subìto traumi e sofferenze difficili anche da immaginare. Cercammo di calmarla, ma ci proibirono di toccarla perché “potevamo portarle malattie dall’esterno.” E sempre “a meno che non avessimo l’intenzione di adottarla.” Un altro bambino, apparentemente della stessa età, aveva una benda sugli occhi e girava su sé stesso in continuazione. Ci dissero che, essendo quasi completamente cieco, rincorreva le ombre, rischiando di cadere e di farsi male. La benda era per proteggerlo, garantendogli un’oscurità totale nella quale non avrebbe avuto nulla da inseguire. Ci fu impedito di liberarlo da quella tortura sotto la nostra responsabilità, ma ci consentirono di dedicargli del tempo. Cominciammo a tastarci, a toccare insieme degli oggetti: una bottiglia, delle chiavi, un block notes, e lui subito si animò. Smise di girare su sé stesso e si interessò di noi e di tutto ciò che gli offrivamo da esplorare. Non era un bambino autistico, era curioso e vivace. A un certo punto, prese per mano Alice cercando di guidarla verso una direzione che non gli veniva segnalata da alcuna ombra. Non riuscimmo a indovinarla, il tempo a nostra disposizione era scaduto, dovevamo andarcene. Benod si aggrappò a noi con forza insospettata. Le suore ce lo staccarono di dosso con un gesto brusco. Scendendo le scale, un’altra missionaria ci fermò per chiederci se avessimo scelto un bambino. “Aveva un fare aziendale, il tono di una commerciante che si rivolga a un cliente indeciso sull’acquisto.” I volontari furono anche colpiti dalla facilità dell’adozione: “Neanche ci conoscono!” Ma volevano visitare anche l’altro edificio, quello riservato ai bambini “sani.” La palazzina è più piccola dell’altra, circondata da una veranda stretta e con sbarre, resa inaccessibile da un altro cancello con lucchetto. “Per evitare che scappino, per la loro protezione...” ci spiegò la suora accompagnatrice, indiana. Una trentina di bambini a testa rasata e con vestiti di foggia occidentale correvano per la veranda, un paio di assistenti cercavano di tenerli fermi. Senza scarcerarla, la suora fece avvicinare una ragazzina alle sbarre e, attraverso quelle, ci presentò: “Questi signori vengono dall’Italia, dove andrai tu a giorni e dove vive già il tuo fratellino.” Spiegò, trionfante, che era stata adottata da una famiglia di Verona. “Devi essere gentile con loro, vengono dal tuo nuovo Paese.” Veronica Maria era timida, ci allungò una manina e subito la ritrasse. Chiedemmo se sarebbe andata a stare nella stessa famiglia del fratello, la suora ci rispose di no. La visita era finita. Soltanto uscendo ci accorgemmo del cartello all’ingresso: “Chi ama la correzione, ama il sapere.” Qualche anno fa, in Italia, mi è capitato tra le mani il libro di Christopher Hitchens, La posizione della missionaria. Purtroppo, ciò che c’è scritto è vero, lo abbiamo constatato con i nostri occhi. Le case di Madre Teresa sono riformatori. Ostentazione di povertà, a fronte di ricchissime donazioni, rigidità, obbedienza cieca, squallore delle stanze dove a nessuno è permesso personalizzare l’ambiente, divieto di uscire e difficoltà a entrare. La povertà trattata come una colpa, un affare di polizia (le sbarre e i lucchetti), come nel grande internamento cominciato con la costruzione dell’Hospital General di Parigi, quando i mendicanti vennero rinchiusi “con l’ossessione di correggerne lo spirito e la coscienza.” La “correzione dei poveri.” In realtà: una guerra ai poveri esercitata attraverso case di correzione “salvifiche”. Diversi volontari, da tutto il mondo, prestano servizio nelle “case” di Madre Teresa. Molti sono boy scout o ragazzi degli oratori occidentali senza molte esperienze di viaggi, che arrivano accompagnati dal parroco o da una suora laica, in “tours” organizzati al millesimo di secondo. Dell’India non sanno nulla, non si interessano, e la maggioranza non parla inglese. Stanno unicamente tra loro ed escono rigorosamente in gruppo. Di solito, ottengono il permesso per una settimana, alloggiando in una pensione di proprietà delle missionarie e rispettando orari di entrata e uscita. L’impatto con Calcutta è scioccante anche per il più smaliziato dei viaggiatori. E l’India è veramente un mondo “altro” dove, a eccezione dello sfruttamento di pochissimi su milioni e milioni di poveri, null’altro ricorda l’Occidente. Sono proprio differenti categorie mentali. La percezione dello spazio-tempo è diversa, il tempo è senza limiti e lo spazio non ha confini, i riferimenti saltano. Non poter usare gli abituali schemi di pensiero getta in un vuoto in cui si può solo lasciarsi andare e ascoltare. Accettare di non capire. Evitare i giudizi e non pretendere di “farsi delle opinioni” da sùbito. Inizialmente, l’India può fare molta paura. La paura di perdersi e di non ritrovarsi più, mascherata dal terrore delle malattie (gli occidentali si imbottiscono tutti di una quantità di farmaci, inutili in un Paese dove nessuna vaccinazione è obbligatoria. E gridano al colera alla prima diarrea dovuta al cambio di clima e di alimentazione). La paura dei furti (“Gli Indiani sono tutti ladri”), della gente (“Cooooome? Giri per il mercato da sola? E di notte esci? È pericoloso!”). Serve tempo per diventare disponibili alla messa in crisi dei preconcetti e dei propri sistemi di valori. I miei compagni dell’epoca pensarono: “Se i volontari di Madre Teresa restassero più a lungo, uno tra loro, un po’ più intraprendente, potrebbe domandarsi: perché nelle case non si può entrare o uscire? Perché sono così tetre e buie, i bambini non hanno giocattoli, i malati non ricevono cure sufficienti, non c’è attenzione per alcuno? Perché non c’è un giardino, perché le Missionarie della Carità sono tra le poche al mondo a fare ancora adozioni internazionali? Come impiegano i soldi delle donazioni? Domande proibite, meglio prevenirle limitando il soggiorno e monitorando l’intera giornata. Scoraggiando i volontari dal parlare con gli Indiani e imponendo assurde restrizioni di orario.” La notte della visita alla Casa dei Bambini la trascorremmo a escogitare piani per farli fuggire tutti dalla prigione. Ma potevamo metterli in pratica solo in sogno. E lo sognammo tutti.
(Le Missionarie della Carità e La Casa dei Bambini, dal primo capitolo)
Al Centro Medico i pazienti si moltiplicavano. La popolazione stessa di Chanditala sembrò raddoppiarsi, e un po’ era vero perché tanti arrivavano anche da lontano, ché le voci, in India, corrono. Tutti gli altri obiettivi, e i motivi di fondo che ci avevano indotti ad aprire quella postazione a Calcutta, andarono invece disattesi per tanto tempo. Non era facile ottenere una confidenza profonda. Le persone sembravano, a molti, quasi indistinguibili l’una dall’altra. A eccezione di Prasad, Priyanka e pochissimi altri, parevano immobilizzate dentro un bassorilievo dal quale nessuno faceva capolino. Non dipendeva tanto dal turn over dei volontari, quanto dal fatto che le singole esistenze erano come livellate da uno strato pesante di prostrazione piatta che impediva loro di uscire dall’indistinto. Ascoltavamo tante storie, accomunate dalla povertà, ma diverse una dall’altra; quando però si cercava di isolare una singola vita, ecco che correva a rannicchiarsi dietro le altre. Sarada Pally era, in qualche modo, un carcere, ma anche un riparo dall’esterno; non perché da fuori potessero arrivare le malattie, come dicevano le missionarie di Madre Teresa (ché le malattie erano tra le poche cose che arrivavano lo stesso), ma perché le persone avevano un marchio addosso che portavano dietro ovunque andassero: il marchio dell’intoccabilità e della fame. E questo le esponeva, fuori da lì, a un universo minaccioso, dove poteva capitare loro di tutto. In qualche misura, lo slum li faceva sentire protetti, in un modo maligno e distruttivo ma, lì dentro, speravano che nessuno si avventurasse a fare loro del male. Non era vero. Ma si illudevano che lo fosse. Nessuno, poi, pensava veramente di poter riscattare la propria condizione, tiravano la giornata non sapendo se ce ne sarebbe stata un’altra. I volontari avevano difficoltà a “legare” singolarmente e c’era chi iniziava a considerarli una categoria: “i poveri”, massa indistinta da aiutare in nome di principi giusti, ma personali. Poteva diventare una forma di narcisismo, che avrebbe perpetuato la situazione, invece di incoraggiare il mutamento. Le cose iniziarono a modificarsi con l’arrivo di Davide...
(Le belle speranze, dal secondo capitolo)
Quando Giulia smise di “sognarsi medicinali anche la notte”, cominciò a scrivere spesso. Le piaceva che i bambini la chiamassero Sili o Didi (che significa zia). E, anche lei, aveva legato con le donne: “Sono la vera forza di questi luoghi. Sbucano dall’ombra, dal niente, ma ce n’è sempre una a indicarmi la giusta direzione. È impressionante la loro dignità mentre stendono la merda al sole o escono da baracche fatiscenti coi gelsomini in mezzo ai capelli. Sono talmente belle, fiere di essere circondate dalle splendide murti che trovi a ogni angolo, proprio identiche a loro.”
(Arsenico a Calcutta, dal secondo capitolo)
(...) La produzione industriale di gamberetti è una delle attività più orrende, non potreste mai immaginarvela! Per aumentare la produzione, ripetono più volte la raccolta e costruiscono bacini artificiali, ma le femmine non amano riprodursi in cattività, si accoppiano solo nell’acqua libera. Devono credere di trovarsi nel mare, perciò le accecano, svuotando i loro occhi, e mettono acqua salata nelle riserve idriche. Quando l’acqua viene pompata, la terra diventa salina e gli alberi di cocco muoiono. Quando l’acqua ritorna al mare, lo inquina perché i gamberetti sono così malati da dover prendere antibiotici e ogni tipo di medicine: migliaia di altri pesci muoiono dopo due giorni. (dall’intervista di Loredana a Vandana Shiva)
(...) A Sarada Pally, slum contenuto dentro un altro slum (Chanditala), cuore di tutte le povertà e le ingiustizie di quella zona, le cose andavano meglio rispetto allo Yubak Sangha, ma si doveva anche lì aprirsi un varco in mezzo agli intrighi, tra ostacoli continui e nessuno che sapesse dirci perché ce li mettessero in mezzo ai piedi. Per tanto tempo, ogni volta che le cose cominciavano a funzionare, cioè quando le relazioni diventavano maggiormente strette e le confidenze più private, qualcuno azzerava tutto (e non era solamente Mishra). Le persone stesse dello slum, quelle che “non erano libere”, seguivano indicazioni intermittenti che le spingevano a presentarsi oppure a disertare il Centro, interrompendo anche le cure. Non era sufficiente (anzi, sembrò a qualche volontario: “addirittura pericoloso”) trascorrere tanto tempo insieme e dare prove concrete di amicizia, perché erano chiaramente agli ordini di qualcuno. Una mano invisibile muoveva i fili di quella scena e, come uno si faceva avanti, lo ricacciava dentro la riserva. Come accade ai gamberetti del Kerala, le persone erano tenute a Sarada Pally a forza, accecate dall’illusione di una inesistente sicurezza. E dovevano rimanerci perché serviva a qualcuno che restassero lì. A disposizione. Ma almeno i gamberetti mangiavano (prima di finire in padella).
(...) Gli slum, a Calcutta, sono insediamenti mantenuti volutamente abusivi (perché non beneficiari di incentivi o servizi pubblici) perché le persone facciano ricorso alla mafia. Sono riserve dove, tra vacche magre ciondolanti, vengono trattenute persone che servono: come pretesto per lucrare aiuti dall’Occidente; come empori di pezzi anatomici di ricambio; come cavie per sperimentare farmaci; come vivaio di bambini per gli “affari” dei papponi di Mumbay; come riserva di voti in tempi elettorali (una innumerevole quantità di voti in cambio della promessa di un tetto riparato, o anche molto meno); come forza lavoro gratuita per qualunque “lavoro”; come schiavi per gli usurai e la mafia con cui tutti sono indebitati ben oltre la propria sopravvivenza; come custodi di armi e droghe da nascondere per qualche tempo. Un sistema basato sul congelamento della consapevolezza di sé e dei propri diritti, sull’analfabetismo, il terrore delle rappresaglie, l’illusione di potersi affidare solo a quei “protettori”, perpetuava sé stesso con la complicità di tutti. Non si poteva spezzarlo se le persone non avessero deciso di farlo.
(La politica dei gamberetti e Le vacche magre, dal secondo e dal terzo capitolo)
Una middle class che non saluta nessuno, e che nessuno saluta
“Enjoy, enjoy the Puja! Ieri sono stata invitata a seguirne una, in una casa. L’unica cosa che ha colpito la mia attenzione è stato il ragazzino analfabeta che puliva il pavimento in cucina, durante la cerimonia. Non ho pensato ad altro, per tutto il giorno.” Ranjit, Sangheeta e gli amici loro erano stati estremamente gentili, ma la conversazione l’aveva messa a disagio: “Durante le interminabili ore in macchina, non hanno fatto che criticare le altre auto e deridere la nuova “serva” che sbaglia a sedersi sulla turca perché non ne ha mai vista una.” Ranjit e Sangheeta, perfettamente integrati nella Kolkata “bene”, vivevano totalmente estranei alla realtà che li circondava. Lui usciva tutte le mattine per recarsi al lavoro in una società di informatica. Camicia all’occidentale e scarpe BATA (originali), camminava spedito per Udayan Park, attento solo a evitare le pozzanghere e i crateri che le piogge di tanti mesi prima avevano spalancato nella terra battuta, pronti a ingoiare, nelle proprie profondità, un malcapitato distratto. Si teneva ben discosto dalle donne che attaccavano ai muri, con geometrica puntigliosità, decine e decine di poltiglie di sterco di vacca fresco, perché diventassero combustibile, una volta seccate. E ignorava i cani che si dividevano pacificamente con le cornacchie i pochi avanzi delle cene consumate nelle villette. Non vedeva i gladioli che spuntavano rigogliosi dai cumuli di macerie e lungo tutti i bordi delle fognature. Non assaporava il ciai di Kamala Ragoon, secondo solo a quello dei treni in ordine di prelibatezza (lei lo sapeva, perciò veniva a offrircelo tutte le mattine, fiera). Non si accorgeva di quanto fossero diventate belle Priyanka e Reka e Sury e di come i loro giochi infantili si fossero trasformati nel tempo, e molto velocemente. Nessuno lo salutava e lui non salutava nessuno, mentre raggiungeva a piedi il parcheggio dei taxi per farsi portare nella direzione opposta a tutto quel mondo brulicante di vita dentro il quale, pure, abitava. Sangheeta restava sempre in casa, aspettando il marito. Aveva volontariamente assunto l’incarico di “custodirla”, quasi temesse di vederla crollare all’improvviso e come se, nel caso, potesse mai farci qualcosa. Trascorreva le giornate nell’ozio più totale, comandando a bacchetta le domestiche e assaporando, avida, tutto quello che passava in televisione... (...) La middle class indiana è una realtà urbana difficile da immaginare. Ma è per la sua fortissima espansione che, dal 2007, sarà l’India il Paese privilegiato dal commercio internazionale. La sua ambizione è stata resa pubblica: “Diventare la seconda potenza mondiale (dopo la Cina) entro il 2050.” Per l’Occidente è l’ennesima corsa all’oro. Le banche d’affari di mezzo mondo scalpitano per affogare nei debiti le piccole imprese indiane. Ci sono intese con tutti i Paesi occidentali, in settori come: infrastrutture, difesa, componentistica auto, informatica, industria cinematografica, ecc. Il “manifatturiero” è azzannato da più parti, per via della manodopera a costo quasi zero. Anche centinaia di imprese italiane hanno siglato accordi, decise a triplicare l’export con un budget previsto di 4 miliardi di euro nei prossimi due anni e milioni e milioni di nuovi poveri e di “povertà nuove”. E che si tratti di una guerra lo conferma il Corriere della Sera del 21 gennaio 2007 parlando esplicitamente di “attacco” del made in Italy all’India. Ma l’accaparramento delle risorse è una guerra anche all’interno del Subcontinente. Le SEZ (Special Economic Zones) sono contese tra le grandi casate dell’industria indiana e le amministrazioni locali. Centinaia di aree agricole vengono requisite per utilizzarle come aree per l’edilizia, il consumo, qualsiasi cosa relativa a questo o quel progetto di sviluppo industriale. Si recintano terreni coltivati offrendo indennità minime e attentando alla sopravvivenza di popolazioni Adivasi prossime all’estinzione. “Molti contadini diventano manovali nei cantieri sorti su campetti che erano loro, e le donne, nel migliore dei casi, domestiche negli appartamenti di lusso. Un saccheggio che coinvolge le principali industrie indiane, come la Tata Steel.” (Il Manifesto, 3.3.2007. Che, in un articolo intitolato Sepolcro Indiano: Rocky Horror Tata show, riporta anche la vittoria popolare ottenuta a Kalinga Nagar, nello stato dell’Orissa, il 2 gennaio 2006, al prezzo di dodici morti, tutti tribali dell’etnia Ho, sei dei quali restituiti con mutilazioni terribili, che si opponevano alla requisizione di una vasta area di terreni da parte della Tata Steel: “Anche per lo sdegno suscitato dagli assassinii, l’esproprio non riuscì e lo slogan Siamo disposti a morire, ma non a cedere la nostra terra è definitivamente entrato nella coscienza collettiva di un’umanità che si percepisce sotto assedio...”) A Calcutta, governata dai “comunisti” e con un sindacato fortissimo, le grandi imprese hanno rifiutato per decenni di insediare i propri stabilimenti. Oggi, nonostante l’opposizione di tutti i piccoli partiti della Sinistra e del movimento universitario, il governo cerca di allettare gli investitori (soprattutto stranieri). Nel 2006 ha pianificato di requisire 14 milioni di acri di terra fertile per realizzare le SEZ, eliminando trentotto villaggi e gettando allo sbando centomila contadini per far posto alle industrie... Il 14 marzo 2007, a Nandigram, a sud di Calcutta, un massacro di contadini che si opponevano alla requisizione delle loro terre ha avuto come risultato quattordici morti e oltre sessanta feriti. Ma l’export dell’India è in crescita. E non sono solo le grandi imprese ad andare all’estero. Un esempio significativo: da tempo, molte risaie del Maharastra sono state trasformate in vigneti. L’India esporta vino in Europa e America dall’80 e, a febbraio 2007, ha acquistato un grosso distributore inglese. Le restrizioni alle importazioni nel settore vinicolo sono state anch’esse alleggerite, a seguito delle pressioni del WTO, perché un mercato di 300 milioni di potenziali consumatori non è trascurabile. Poco importa che le donne considerino il vino “male peggiore” e indicano manifestazioni di protesta contro un consumo che si diffonde a macchia d’olio, insieme alle botte. Un’India appetitosa e rampante. Tanti Ranjit e altrettante Sangheeta, orgogliosi e colpevolmente noncuranti.
(La politica dei gamberetti, dal secondo capitolo)
La sera in cui Maya stette male
Ricordo la sera in cui Maya stette male. Maya, tre mesi. Due genitori diciottenni, scalzi e terrorizzati, vennero di notte a chiamarmi. Erano muti, inermi. Maya, in braccio alla madre, pareva uno straccetto avvoltolato nell’altro straccio che Radjana portava addosso. Non respirava. Sulle prime pensai che fosse morta, ma respinsi l’idea correndo invece a svegliare il padre di Priyanka perché ci accompagnasse al taxi con il risciò. Lui sbadigliò, guardò la bimba e credo si rese conto della gravità della situazione, perché ci fece subito arrampicare tutti sul seggiolino e percorse scalzo il tragitto. Correva, ma mi sembrò un’eternità e anche il taxi per il G.P.O. pareva procedere al rallentatore. Calcutta, alle tre di notte, era silenziosa, ma non deserta. Guardavo le persone che dormivano sui marciapiedi e le file di corpi stesi nell’oscurità mi sembravano un esercito addormentato, o le vittime sacrificali di un maleficio che le costringeva a una non esistenza. Avrei voluto svegliarli tutti: erano così tanti che potevano numericamente occupare il Parlamento e rovesciare le carte da cima a fondo. Ma, nelle condizioni in cui si trovavano, li avrebbero sterminati subito. Erano affamati, laceri, nudi, corpi inconsapevoli di tutto se non del fatto che il giorno successivo avrebbero ripercorso le strade di sempre, con l’identica fatica. Una donna a seno scoperto dormiva in mezzo a una collina di spazzatura, un’altra accostata a un camion, stretta a una nidiata di figli; un uomo era addormentato sul cofano di un auto; tanti stavano raggomitolati sopra i loro risciò, accucciati sotto i banjan, o allungati sopra gli scalini dei templi. Molti sembravano già morti e qualcuno, forse, lo era. Non tutti dormivano. Vidi uomini e donne rovistare nell’immondizia e, quando attraversammo il grande mercato, ombre silenziose si aggiravano tra i rifiuti per riempire sacchi di plastica. Intorno al G.P.O. l’affollamento era massimo. Tanta gente riposava ammassata sotto tendoni neri. Un’incredibile quantità di persone, fuori da quei ripari di fortuna, sedevano in silenzio o intonavano cori di preghiera intorno a piccole lampade a olio. Pensai che fossero i parenti degli ammalati, ma mi sbagliavo. “Sono ammalati che aspettano per avere un posto,” disse il taxista (le uniche parole che pronunciò). Pagai il prezzo della corsa leggendolo sul tassametro, non chiese un sovrapprezzo benché fosse notte fonda. All’ingresso dell’ospedale dei poveri oltrepassammo, ignorandolo, lo sbarramento di alcune guardie armate che stavano lì soprattutto per tenere a bada i pazienti in attesa. Al Pronto Soccorso non trovammo nessuno. Il padre di Maya mi si aggrappò alla camicia: “Help me, please.” Cominciai a spalancare porte, suonai campanelli da dietro il vetro dell’accettazione, ma non arrivò nessuno. Decisi di cercare dentro i reparti, ma la security mi bloccò il passo: “Proibito salire.” “C’è una bambina in fin di vita e serve un medico immediatamente.” Con grande flemma, la guardia rispose che sarebbe andata a chiamarlo e mi ricacciò giù, nel Pronto Soccorso deserto. Minuti che sembrarono giorni. Alla fine si materializzò un’infermiera per dirci che non c’era posto e nessuno sarebbe venuto lì, a quell’ora. Mi misi a urlare e lei minacciò di chiamare la polizia. Poiché ero io quella che strillava più forte, fu costretta a recuperare un dottore che, seccatissimo di essere disturbato di notte, si infilò un camice sopra il pigiama per confermare in veste professionale che l’ospedale era pieno e non faceva ricoveri notturni. “Se dovessimo ricoverare tutta la gente in attesa... si rende conto?” Non poteva essere. Quella era un’emergenza, lui aveva il dovere di visitare e fornire aiuto immediato. Si avvicinò alla bambina, diagnosticò un attacco d’asma ma, essendo così piccola, andava ricoverata in pediatria, e la pediatria era a pagamento. Prezzi da Kolkata Hospital (e medicinali a parte). Mentre cercavo al telefono il Funzionario, tuonai che si trattava di un abuso e che avrei avvertito immediatamente “le autorità”. Il Funzionario avrebbe potuto comunicare al medico che il Consolato di un Paese straniero avrebbe denunciato quel tentativo di estorsione e che lui stesso avrebbe inviato la polizia, e immediatamente, perché, nell’ospedale pubblico di uno Stato sedicente marxista, non possono esistere reparti a pagamento. Ma bastò molto meno: un attimo di colloquio tra lui e il dottore in pigiama. La velocità con cui ricoverarono Maya fu sorprendente. La salvarono quando già le labbra le erano diventate blu e rovesciava gli occhi all’indietro, e fu permesso alla madre di restarle accanto. Quando andammo a riprenderle, una settimana dopo, il primario di pediatria si scusò all’infinito con me per i problemi creati dai suoi “dipendenti inesperti” e mi offrì un tè, che non accettai.
(Il Consolato italiano, dal terzo capitolo)
La felicità è una piccola cosa
Il piccolo Club di Sarada Pally diventò un caleidoscopio di magie intermittenti, secondo giorni e orari. Era un affollatissimo ambulatorio (due volte alla settimana); un dispensario (al venerdì, anche se per pochissimi a paragone delle necessità); un punto di riunione, dove si svolgevano incontri anche con persone “di fuori” che cercavamo di coinvolgere; un centro di informazioni sanitarie: distribuimmo schede e attaccammo pannelli per la prevenzione realizzati con colori vivaci (Buddhadeb li spiegò dettagliatamente, in giorni stabiliti); un Centro Ascolto permanente, in cui confluivano le differenti storie e le richieste e i sogni di 2503 esseri umani; un angolo di solidarietà, dove le persone venivano a domandarci di fare loro da garanti per un lavoro, o per l’accesso a qualche scuola professionale; un punto di riunione per le donne, dove potessero cominciare a sentirsi unite e a considerare le botte un po’ meno inevitabili; una scuola d’inglese, con classi sempre più frequentate di bambini e adulti, che facevano a gara per mostrarci i loro esercizi e dare prova dei progressi. Una ragazzina muta, presa in giro da tutti, che salutava col saluto militare e sorrideva con un sorriso perso, ricevette un supporto personalizzato. Santi Das, totalmente analfabeta, non mancava mai in classe. Veniva lì soltanto per farci contente. Solo per restarci vicina. Per mostrarci l’apparecchio nuovo e ben funzionante. Ricopiava lettere sghembe su un foglietto che si faceva dare dagli altri. Lettere che non somigliavano neanche un po’ a caratteri alfabetici, ma che significavano Amore. Tante volte, il Club si trasformò in un luogo di festa, con gare di poesia e disegno. Le persone dello slum addobbavano l’ambiente per le “grandi occasioni”, si procuravano microfoni, sedie, e tutto quello che serviva. Per una gara di poesia, Alice realizzò festoni colorati di plastica, ritagliando a spirale i vuoti della Bisleri. Priyanka storse il naso davanti a tanto spreco, ma erano “bellissimi”. I ragazzini che frequentavano la primaria, fuori da Sarada Pally, riuscirono a coinvolgere i compagni e le loro maestre, che fecero da giudici di gara insieme a noi (i premi erano comunque per tutti). Bambini meno sfortunati e bambini dello slum si ritrovarono insieme, a dispetto dei genitori che si rassegnarono a mandarli solo dietro richiesta esplicita della scuola. Queste gare riscossero un tale successo, che insegnanti che non conoscevamo vennero a domandarci di organizzarne anche altrove. Le uniche niente affatto contente furono le due “maestre” della mattina, quelle che carceravano otto ragazzini all’interno del Club. Temevano che potessimo realizzare una scuola vera (non avremmo mai ottenuto il permesso) e di perdere il posto. Cercammo di rassicurarle, ma continuarono sempre a guardarci male. Come facessimo, in due persone, a coinvolgere lo slum in tutto questo, inframmezzato da emergenze a getto continuo, accompagni, corse in ospedale, mercatini, internet, cene col Funzionario, lezioni di bengali che prendevamo noi (da Sionin, che in assenza della moglie sembrava recuperare un minimo di vitalità), incontri all’Accademia e quant’altro, non saprei dirlo. Però lo realizzammo. Ci alzavamo presto al mattino, per gli accompagni. Poi andavamo a Sarada Pally, recitando una versione de La livella che qualche volontario aveva ricopiato su una parete di casa e noi avevamo mandato a memoria. Santi Das era il nostro Virgilio. Ci accompagnava ovunque col suo orecchio a batteria, insistendo per portarci le borse o qualunque cosa avessimo con noi. Erano giorni incantati... In quel disperatissimo, disastrato e sudicio quartiere di Kolkata c’era una bellezza incomparabile. Una bellezza feroce, straziante. C’era poesia, c’era grazia. Nelle casette, ci riempivano di premure e di una dolcezza più forte di qualunque parola, contenuta nel calore di un ciai e nel piacere di star vicini e scambiarci il più possibile. Alice si muoveva con una grazia che la faceva adorare da tutti. E io ero con mia figlia. La mano nella mano... Ero felice; se esiste una misura della felicità, era quasi colma. La felicità può essere una piccola cosa.
(La felicità è una piccola cosa, dal terzo capitolo) |
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La speranza indiana. Ovvero: l’India per sentito dire
Difficile mantenere la calma scrivendo di Rampini e del suo La speranza indiana proprio il 27 dicembre 2007, sùbito dopo aver letto la sua firma sotto un articolo de La Repubblica sul “turismo sanitario” in India. Dopo aver da lui appreso, cioè (con inorridito stupore per i fatti che descrive e per l’ammirata simpatia con cui li descrive) che è sempre più attraente, per i paesi occidentali afflitti dall’invecchiamento demografico e da costi sanitari in drammatico aumento, curarsi negli avveniristici ospedali indiani. Spendendo, per esempio, per un trattamento di sei mesi di un tumore al seno, “solo” 65.000 dollari, tutto compreso, invece dei 200.000 che il medesimo intervento sarebbe costato negli Stati Uniti... Mentre i malati indiani, caro Rampini, trascorrono notti all’addiaccio nei parcheggi di quegli stessi ospedali sperando che qualcuno prima o poi abbia pietà di loro? Mentre bambine di tre mesi (vedi, sopra, il brano del libro di Marina Valente intitolato La sera in cui Maya stette male) rischiano di morire perché nessun medico, nemmeno al Pronto Soccorso, è disposto a scomodarsi di notte per chi non ha soldi per pagarlo?
Il fatto è che i giornalisti e gli “scrittori” alla Rampini, anche quando si prendono il disturbo di girare in lungo e in largo un continente, si guardano bene dal correre il rischio di ritrovarsi a urlare di disperazione e di rabbia, alle tre di notte, con una neonata morente fra le braccia, nei corridoi implacabilmente deserti del più grande ospedale di Calcutta. Cose di questo genere a loro non possono accadere, perché i giornalisti e gli “scrittori” alla Rampini non hanno mai alcun rapporto reale con le realtà che visitano, osservano e pretendono di essere in grado di descrivere senza essersi permessi, nell’attraversarle, di soffrire o gioire davvero per alcunché.
Nelle 250 pagine de La speranza indiana, le sole esperienze personali che Federico Rampini si degna di condividere con noi sono le seguenti:
1. Ha una trentina d’anni, piccolo e magro, sorride cordiale e scopre i denti candidi. Nel turbante rosso che gli fascia la nuca ha infilzato un sottile bastoncino di ferro appuntito, lo strumento del mestiere. A tracolla porta un piccolo astuccio di cuoio vecchio e consumato, con delle borchie colorate cucite sopra: da lì spuntano palline di cotone e una boccetta di sapone liquido. Colui che mi offre i suoi servizi professionali è un pulitore di orecchie, antichissimo mestiere indiano a cui corrisponde un’apposita casta. Mi studia con occhio esperto il padiglione auricolare, è pronto ad avvolgere un batuffolo bagnato sulla punta del suo stecchino metallico per iniziare la manutenzione del mio timpano. Guardo le mani sporche, le unghie nere di terriccio, la camicia sdrucita e polverosa e soprassiedo: mi avrà per cliente un’altra volta. (La speranza indiana, p. 53).
2. Ogni aeroscalo indiano ha regole diverse. In partenza da Mumbai mi è stato vietato il bagaglio a mano che pochi giorni prima avevo portato da New Delhi senza problemi. Protestare, chiedere spiegazioni, pretendere coerenza non serve. Questo è un mondo dove il tempo si è fermato, l’efficienza scattante e sorridente della giovane India hi-tech non ha mai fatto capolino. Arrivo finalmente ― dopo un’estenuante fila anche qui ― davanti al poliziotto che mi controlla il passaporto... (Ecc., ecc.: lo sfogo contro i vessatori regolamenti dell’aeroporto di Mumbai e i suoi arroganti poliziotti dura ben tre pagine. La speranza indiana, p. 133).
3. E chi mai ha la forza per una passeggiata serale? Ogni mattina alle cinque un tamburo impone la sveglia. Doccia ghiacciata (l’acqua calda non esiste), niente caffè né tè perché bisogna purificarsi dalle tossine eccitanti. Alle sei ha inizio la prima seduta di yoga, un’ora e mezzo. Poi è breakfast. Accovacciati sulla nuda terra, con una larga foglia di banano come piatto, aspettiamo che i volontari di turno ci rovescino davanti le porzioni del rancio. Una fetta di mango, una manciata di riso bollito, un pugno di semolino e cetrioli, una mestolata di minestra di lenticchie che appena servita sulla foglia piatta dilaga dappertutto... (La speranza indiana, pp 217-218. La devastante esperienza vissuta de La minestra che si sparge fa parte di un capitolo ― La mia vita nell’ashram ― dedicato allo yogi Jaggi Vasudev, detto Sadhguru, che abbiamo già avuto occasione di commentare nella puntata del Diario del Prof del 19 agosto 2007, intitolata Chi anestetizza le nostre menti?)
Tutto il resto del libro (per la bellezza, vogliamo ripeterlo, di quasi 250 pagine) non è che una raccolta (un centone, lo si sarebbe chiamato una volta) di parole altrui, di opinioni altrui, di brani di libri altrui e, nella migliore delle ipotesi, di esperienze autentiche, sì, ma sempre altrui. Il rapporto reale, concreto, i sentimenti, il dolore, la pena o la gioia che il signor Federico Rampini ha provato nelle città dell’India per gli esseri umani che vi ha incontrato, semplicemente non ci sono. Non perché egli pudicamente li taccia (altrimenti si vergognerebbe di piangersi addosso per essersi sbrodolato con la minestra di lenticchie) ma perché mai esistiti, mai vissuti, mai cercati.
Qual è, dunque, la differenza tra lo splendido e ben scritto Osteria Calcutta, di Marina Valente, e il brillante e ben scritto La speranza indiana, di Federico Rampini? Semplice. Osteria Calcutta è un appassionante documento sull’India: leggerlo è (non solo ascoltare ma) intensamente sentire, dalla voce dell’autrice, come una parte della sua stessa vita è rapporto con l’India; La speranza indiana, invece, è una raccolta di (brandelli di) testimonianze, e leggerlo (a parte il divertente episodio delle lenticchie) è come scartabellare nella biblioteca dell’autore.
Nessuno dei due è opera d’arte, lo sappiamo. Nessuno dei due, cioè, è per il lettore come trovarsi in India lui stesso. Sono, entrambi, solo delle finestre su quella realtà. Ma l’uno (Osteria Calcutta) è una finestra aperta direttamente sull’India (e aperta a pian terreno), mentre l’altro (La speranza indiana) non è che un finestrino (aperto dalla cima di un Hilton Hotel) su una (griffata) cartella zeppa di pagine e paginette.
E c’è di più, poiché la differenza tra un documento di vita e di rapporto con la realtà, da un lato, e un centone di testimonianze dall’altro, non consiste solo nella diversa complessità e intensità dei sentimenti che comunicano e suscitano nel lettore, ma anche nell’originalità, nell’intelligenza e nella profondità delle idee che ne scaturiscono. Dalla prima all’ultima delle 250 pagine de La speranza indiana, la sola idea “originale” di Federico Rampini che si riesce a trarne è che l’India è meglio della Cina perché è un Paese democratico, e in quanto tale dimostra all’intero pianeta che è possibile crescere economicamente senza rinunciare alla libertà: idea senza dubbio giusta e condivisibile (anche se dubitiamo un po’, dopo aver letto i capitoli di Osteria Calcutta sulle elezioni gestite e controllate dalle mafie, che l’India sia davvero così democratica come crede Rampini) ma che ogni lettore di quotidiani si è da tempo fatto da sé. Idee più originali, più intelligenti, più profonde, Rampini non riesce a produrle neanche leggendo quel che egli stesso scrive. Non sospetta neppure, per fare un solo esempio, che lo “yogi laico” (!) Jaggi Vasudev, detto Sadhguru, invitato dagli organizzatori dell’esclusivo summit dell’economia globale di Davos per tenervi i suoi corsi di inner engineering (ingegneria interiore) ai potenti del mondo (La speranza indiana, pp 217 e 222) sia perfettamente speculare al guru che, diventato la guida spirituale di Gaitonde, (il boss mafioso indù di Giochi sacri, romanzo di Vikram Chandra a cui sono dedicate le pagine da 204 a 216 de La speranza indiana), rende perfino la mafia un miserabile comprimario del fanatismo religioso, un pupazzo manovrato da forze più grandi... Sbalordito dalla minestra di lenticchie sparsa sulla foglia di banano, Federico Rampini non guarda, non entra in rapporto, non vede, non sente che il “suo” yogi è come il guru di Gaitonde e gioca a Davos la stessa partita che quello gioca nei bassifondi di Mumbay o che i giornalisti e gli scrittori alla Rampini vorrebbero giocare con noi dalle colonne dei quotidiani e nei talk show televisivi: anestetizzarci tutti, fare di tutti noi gli svaporati schiavi giulivi della religione liberista “democratica” (tanto migliore, certo, della religione modernista autoritaria alla cinese) capaci di attraversare un intero continente senza mai ridere e senza mai piangere, senza rapporto, senza vita, senza trarne alcunché di autentico da dire sinceramente ad alcuno, ma estasiati, in compenso, da meravigliosi “progressi” come quello di poter andare a curarsi a pagamento in un ospedale indiano negato alle neonate dell’India. |
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Marina Valente è presidente dell’Associazione di Promozione Sociale L’Osteria a Calcutta. Dalla decennale esperienza in India, ha realizzato diversi audiovisivi e il film-documentario Tutti i pensieri del mondo. Inoltre ha pubblicato numerosi articoli sul Subcontinente. |
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