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Ecco qualche bella lettura!
"La Favola di Amore e Psiche", di Lucio Apuleio (II secolo d.C.)
"Pollicino", di Jacob e Wilhelm Grimm
"Giricoccola", fiaba tradizionale
"Schiaccianoci e il Re dei Topi", di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
"L'Orco Insabbia", di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
"Billy Budd", di Herman Melville
"Bartleby, lo Scrivano", di Herman Melville
"L'Isola del Tesoro", di Robert Louis Stevenson
"La Bella e la Bestia", di Jeanne Marie Leprince de Beaumont
"Hänsel e Gretel", di Jacob e Wilhelm Grimm
"Rikki-tikki-tawi", di Rudyard Kipling
"La Metamorfosi", di Franz Kafka
"La Sentinella", di Fredric Brown
"Il Colombre", di Dino Buzzati
"Intelligenza Artificiale", di Brian Aldiss
"I Bambini di Tsuga", di Thomas Williams
di Lucio Apuleio (125 circa – dopo il 160 d.C.) (da Le metamorfosi, o L’asino d’oro)
"Psiche riposò sul soffice prato, sdraiata nell’erba rugiadosa come su un letto, e calmò il grave affanno che la opprimeva" (cap.9) 1 V’erano in una città un re e una regina che avevano tre belle figlie. Le due maggiori erano, sì, attraenti, ma sempre, però, tali che la loro avvenenza poteva essere verosimilmente celebrata con lodi adeguate all’umano vocabolario; invece la bellezza della più giovane era così originale, così straordinaria, che nessuna lingua umana avrebbe potuto trovare le parole per esprimerla, né tanto meno per lodarla a sufficienza. Così, numerosi cittadini e forestieri, raggiunti dalla fama di quell’eccezionale spettacolo, accorrevano in folla con grande curiosità, e stupefatti stavano in ammirazione di quell’inaccessibile bellezza; e, portando la destra alle loro labbra e unendo l’indice al pollice, adoravano religiosamente la giovane come se fosse la Dea Venere in persona. E già, nelle vicine città e nelle regioni confinanti, s’era sparsa la voce che la Dea, nata nell’azzurro abisso del mare e allevata tra la rugiada delle onde spumose, si compiacesse di mostrare dappertutto la sua divina persona e si mescolasse alla turba dei comuni mortali: si vociferava persino che, per un mai visto prodigio di fecondazione dell’umidità celeste, non il mare questa volta, ma la terra avesse dato alla luce una seconda Venere, ricca del fiore della purezza. 2 Così, ogni giorno di più, tale credenza progredisce a dismisura, così la fama si diffonde già per le isole vicine e, addentrandosi sempre più nel continente, passa da una provincia all’altra. Già la gente a frotte, varcando lunghe distanze e profondissime distese marine, accorreva a vedere il famoso prodigio del secolo: nessuno più si recava a contemplare la Dea Venere né a Pafo né a Cnido e neppure nella stessa Citera; si rimandano i sacrifici, i templi non vengono più adornati, i sacri letti sono calpestati, trascurate le sacre cerimonie; ghirlande di fiori non ornano più le statue, e una fredda cenere deturpa le are abbandonate. Si elevano suppliche alla giovane donna, ci si rivolge alle sue umane fattezze credendo invece di placare il nume di una Dea così possente; quando, al mattino, la ragazza esce a passeggio, s’invoca il nome dell’assente Venere con sacrifici di vittime e con sacri banchetti; e di già, quando ella passa per le piazze, il popolo in folla la invoca e le offre fiori sciolti e ghirlande. Questo fatto di trasferire senza misura onori dovuti ai celesti al culto di una donna mortale esacerbò così tanto l’animo della vera Venere, che ella non poté più contenere il suo sdegno, ma, scuotendo il capo e fremendo nell’intimo del suo cuore, si disse: 3 "Ecco: io, l’antica genitrice dell’universo, io, la causa prima degli elementi, io, Venere, nutrice del mondo intero, sono ridotta a dividere l’onore dovuto alla mia maestà con una fanciulla mortale! Il mio nome, che è scritto nel cielo, è contaminato da terrene sozzure. Non c’è dubbio! Dovrò spartire con altri gli onori resi al mio nome e vivere nel timore che mi si renda un’adorazione di seconda categoria... Una fanciulla mortale porterà in giro sulla terra l’immagine mia! Invano quel famoso pastore, di cui il grande Giove riconobbe l’imparziale giustizia, diede a me la palma della vittoria sulle Dee più illustri, grazie alla mia eccezionale bellezza. Ma costei non ne godrà a lungo! Chiunque essa sia, ha usurpato un omaggio che è dovuto a me sola, e presto io farò in modo che ella maledica la sua stessa bellezza, visto che oltrepassa l’umana misura." Subito, chiama quel suo figliolo alato e molto audace, che secondo alcuni è maestro di cattivi costumi e disprezza la pubblica moralità. Egli, armato di saette infocate, di notte va correndo per le dimore altrui e, seminando zizzania tra gli sposi, dicono che provochi impunemente gravissimi scandali e insomma non faccia mai niente di buono. È uno, insomma, che (a quanto sostengono i suoi nemici) già di per sé non conosce limiti alla sua sfacciataggine; ma la madre lo infiamma maggiormente con i suoi discorsi, lo conduce in quella città e qui gli fa vedere di persona Psiche (così si chiamava infatti la fanciulla). 4 Gemendo e fremendo di sdegno, gli racconta poi tutta la storia della concorrenza che Psiche le muove in fatto di bellezza. "Ti scongiuro", gli dice, "per il legame dell’affetto materno, per le dolci ferite prodotte dalle tue saette, per i graditi ardori che suscita codesto tuo fuoco: offri a tua madre il piacere di una vendetta completa e punisci severamente questa arrogante bellezza! Io non ti chiedo altro, e tu dammi questa sola soddisfazione: possa codesta ragazza ardere d’amore appassionato per un uomo di vilissima condizione, che la Fortuna abbia colpito nel grado sociale, nei beni e nella persona medesima; per un uomo ridotto così in basso, che in tutta la terra non si trovi alcuno più disgraziato di lui!" Così parlò la Dea, e dolcemente, con le labbra semiaperte, impresse al figlio un lungo bacio. Si dirige poi verso la spiaggia più vicina, sulla riva, là dove muore l’onda, e, calcando con le rosee piante l’umida cresta dei flutti palpitanti, si adagia alfine sulla serena superficie del mare profondo. E le Divinità marine non tardarono a renderle omaggio, non appena ella ne ebbe il desiderio, quasi che da tempo ella gliene avesse dato l’ordine: accorrono le figlie di Nereo, che cantano in coro, Portuno, con la sua barba verdastra ed ispida, Salacia, dal seno colmo di pesci, Palemone, il piccolo auriga che guida un delfino; qua e là nel mare scorrazzano a schiere i Tritoni, e uno suona leggiadramente la tromba con la sua conchiglia sonora, un altro tende contro i raggi fastidiosi del sole un serico velo, un terzo pone sotto gli occhi della padrona uno specchio, e altri ancora, in coppie, trascinano a nuoto il cocchio della Dea. Tale è il seguito che fa corteo a Venere nel suo viaggio verso l’Oceano. 5 Frattanto Psiche, malgrado la sua straordinaria bellezza, non ricava alcun frutto dalla sua avvenenza. Tutti la guardano, tutti la lodano, ma nessuno, o re o di stirpe reale o anche plebeo, si presenta a lei desideroso di chiederla in sposa. Ammirano, è vero, il suo aspetto divino, ma l’ammirano tutti come una statua lavorata con arte. Da gran tempo le due sorelle maggiori (che l’opinione pubblica, dato che possedevano una bellezza normale, aveva passato sotto silenzio) erano state promesse a reali pretendenti e avevano fatto dei matrimoni brillanti. Psiche, invece, pura e senza innamorati, rimaneva in casa a piangere sul proprio abbandono e, dolorante nel corpo e nell’animo, odiava in sé quella bellezza che pur la rendeva oggetto di piacere per tutte le genti. Così, il tristissimo padre d’una infelicissima figlia comincia a sospettare che i celesti l’abbiano in odio; temendo l’ira degli Dei, interroga l’antichissimo oracolo del Dio di Mileto e, con preghiere e sacrifici, chiede al possente nume di concedere alla ragazza, da tutti trascurata, un marito che la sposi. E Apollo, benché fosse Greco della Ionia, per un riguardo verso l’autore di questo romanzo, diede il suo vaticinio in lingua latina: 6 "Sul picco più alto d’un monte, esponi, o re, la ragazza, abbigliata come si deve per le nozze che le daranno la morte. E non sperare in un genero che sia nato da stirpe mortale, ma attendi un mostro crudele, feroce, dalla faccia di serpente; uno che, volando per l’aria, ogni creatura molesta e tormenta impiagando col ferro e col fuoco ogni essere vivente che vede. Lo stesso Giove lo teme, che ispira terrore a tutti gli Dei, anche i fiumi l’hanno in orrore, e perfino i regni oscuri dell’Aldilà." Il re, che una volta era felice, avuto il responso del santo vaticinio, malinconico e triste se ne ritornò a casa e riferì alla moglie le malaugurate prescrizioni dell’oracolo. Per parecchi giorni tutti furono tristi, piansero e si lamentarono. Ma era ormai tempo di eseguire la crudele predizione. Già si pone mano ai preparativi per le ferali nozze dell’infelicissima ragazza, già la fiamma delle fiaccole nuziali è soffocata dalla cenere e dalla nera fuliggine, il suono del flauto nuziale assume i flebili toni del modo lidio, il canto lieto dell’Imeneo si chiude con un lugubre lamento, e la fanciulla, prossima alle nozze, si asciuga le lacrime con lo stesso velo rosso da sposa. Anche la città, tutta quanta, piangeva sul triste destino di una famiglia così travagliata, e senza indugio, in segno di pubblico lutto, viene proclamata la cessazione di ogni attività per un periodo adeguato. 7 La necessità d’obbedire agli ammonimenti celesti richiedeva che quella poverina di Psiche subisse la pena destinata. Furono dunque compiuti con profonda tristezza i solenni preparativi del funebre matrimonio, e Psiche, piangente, fu scortata non alle nozze, ma alle proprie esequie. Eppure, mentre i genitori, mesti e atterriti da tanta sciagura, esitavano a portare a termine l’esecranda cerimonia, fu la figlia stessa che fece loro coraggio: "Perché volete tormentare con eterni pianti la vostra vecchiaia infelice? Perché volete effondere in ripetute grida di dolore quel respiro che appartiene a me più che a voi? Perché imbruttite di lacrime vane quel volto che io tanto adoro? Perché straziate il mio sguardo con la disperazione che leggo nei vostri occhi? Perché vi strappate i bianchi capelli? Perché vi percuotete il petto e quel seno che mi è sacro? Sarà questo, per voi, il bel premio della mia straordinaria bellezza: troppo tardi vi accorgete della ferita mortale che vi ha inferto un odio implacabile... Quando le genti e i popoli mi rendevano onori divini, quando con universale consenso mi davano il titolo di novella Venere, allora avreste dovuto dolervi, allora versar pianti, allora, sì, prendere il lutto come se io fossi morta. Ora m’accorgo, ora vedo che la causa della mia rovina è il solo nome di Venere. Portatemi via e lasciatemi su quella roccia, cui il destino mi ha condannata: ho fretta di affrontare queste felici nozze, ho fretta di conoscere quel nobile mio marito. Perché dovrei indugiare, perché dovrei rifiutare d’incontrarmi con colui che è nato per la rovina dell’universo intero?." 8 Così parlò la ragazza, poi tacque e, con passo fermo, si mescolò alla processione del popolo che l’accompagnava in corteo. Si avviano alla roccia destinatale, su una montagna scoscesa, e qui, sulla vetta più alta, tutti abbandonano la giovane; qui lasciano le fiaccole nuziali, che avevano rischiarato la strada, dopo averle spente con le lacrime loro; e, a capo chino, prendono la via del ritorno. In quanto ai miseri suoi genitori, essi, stremati da una così grave sciagura, sbarrano la loro casa, si chiudono nelle stanze più oscure e si condannano a non veder più la luce del giorno. Frattanto, Psiche trema di spavento e piange sulla cima della rupe. Ma lo Zefiro, che spira dolcemente con la sua brezza, agitandole con continuo palpito le vesti e gonfiandole il grembo, insensibilmente la solleva e, con il suo dolce soffio, a poco a poco la porta giù per il pendio roccioso, sino a una valle sottostante tutta fiorita, ove lievemente la depone a giacere supina nel seno delle zolle erbose. 9 Psiche riposò sul soffice prato, mollemente sdraiata nell’erba rugiadosa proprio come su di un letto, e calmò il grave affanno che le opprimeva la mente. Dormì quel tanto che bastò a ristorarla e, quando si destò, aveva l’animo sereno. Vede un bosco fitto d’alberi alti e forti, vede una sorgente dalle acque limpide come il cristallo; e proprio nel mezzo del bosco, là dove spiccia la fonte, vi è un palazzo d’aspetto regale, costruito dall’arte d’un Dio, non dalla mano dell’uomo. Si è appena sulla soglia, e già si capisce che si tratta della fastosa e amabile residenza d’una Divinità: colonne d’oro sostengono il soffitto a cassettoni, intagliati con ricercatezza nel cedro e nell’avorio. Chi entrasse, vedrebbe poi drizzarsi dinanzi a sé belve e altri animali del genere, che, cesellati in lamine d’argento, ricoprono tutte le pareti. Dev’essere di certo un uomo raffinatissimo, o piuttosto un semidio o un Dio, colui che, con vera finezza d’artista, ha infuso la vita selvaggia delle fiere in una così grande abbondanza d’argento. Fatto sta che persino i pavimenti, con i loro mosaici di pietre preziose tagliate fini, offrono una grande varietà di pittoriche composizioni. Davvero beati due e tre volte, coloro che camminano sopra le gemme e le perle! E le altre parti del palazzo, sin dove esso si estende in larghezza e in lunghezza, rivelano anch’esse una magnificenza che non ha prezzo, mentre le pareti, interamente rivestite da blocchi d’oro massiccio, rifulgono d’uno splendore che emana da loro stesse, al punto che il palazzo potrebbe fruire d’una sua luce anche se il sole gli rifiutasse la propria: tale è lo splendore delle sale, dei portici e degli stessi battenti! Per il resto, l’arredamento corrisponde esattamente alla magnificenza della costruzione, talché si potrebbe giustamente pensare che il grande Giove abbia fabbricato questo divino edificio come sua dimora tra gli uomini. 10 Così grande è l’incanto di quel luoghi, che Psiche è indotta ad avvicinarsi e, rassicurata, a varcarne la soglia. Allettata, poi, dalla curiosità di vedere il bellissimo palazzo, ella ne visita minutamente l’interno, e in un’altra ala di esso scorge le grandiose costruzioni dei magazzini, zeppi di ricchi tesori. Tutto ciò che esiste al mondo di bello, è lì presente. Ma, dopo l’ammirazione destata da queste immense ricchezze, causa di ancor maggior stupore era il fatto che quell’accolta dei tesori del mondo intero non era difeso né da catene né da porte né da custodi. E mentre ella, estatica, contemplava queste meraviglie, le giunge una voce senza corpo, che le dice: "Perché, o signora, ti meravigli di tanta opulenza? Sono tue, tutte queste ricchezze! Entra pure in una stanza, riposati sul letto e fai il bagno, quando ti piacerà. Le voci che odi sono quelle delle tue ancelle: noi ti serviremo con diligenza e, quando avrai finito di prenderti cura della tua persona, troverai pronto un banchetto degno di un re." 11 Allora Psiche comprese che questa felicità era un dono della divina provvidenza. Obbedendo al consiglio di quella voce senza corpo, dissolse la sua stanchezza prima col sonno, poi con un buon bagno. Quindi vide accanto a sé una tavola semicircolare; e giudicando, poiché essa era apparecchiata per il pranzo, che le fosse stata preparata lì per il suo ristoro, vi si sedette con piacere. Immediatamente, compaiono vini dolci come il nettare e piatti abbondanti di cibi svariati; e non c’era nessuno che servisse, ma le portate erano spinte e recate in tavola solo per forza d’un soffio. Né Psiche riusciva a scorgere alcuno, ma udiva solo parole che uscivano dal vuoto: al suo servizio aveva solo delle voci! Consumato che ella ebbe l’abbondante imbandigione, entrò qualcuno che, senza esser visto, cantò una canzone. Similmente, un altro suonò la cetra, e neppure lo strumento Psiche poté vedere. Giunse infine alle sue orecchie un armonioso concerto di più voci e, sebbene nessuno apparisse, era nondimeno chiaro che si trattava di persone che cantavano in coro. 12 Gli svaghi erano finiti e, poiché la sera invitava al sonno, Psiche si ritirò per dormire. A un tratto, ne! cuore della notte, la giovane percepisce un fruscio. Sola com’è, teme per la sua purezza e trema per lo spavento, poiché l’ignoto le fa paura più che ogni altro male. Ma già era lì dinanzi a Psiche il marito sconosciuto. Egli sale sul letto, fa l’amore con lei e, prima dell’alba, in fretta se ne parte. Subito delle voci, che attendevano sulla soglia, si prendono cura della novella sposa e la consolano dell’offesa inferta alla sua purezza. Le cose continuarono a svolgersi per un bel pezzo a questa maniera e, come è legge di natura, l’abitudine fece meglio apprezzare a Psiche il piacere della novità, mentre il suono delle voci sconosciute le era di conforto nella solitudine. Frattanto i suoi genitori invecchiavano tristemente in continui pianti. E le sorelle maggiori (a cui la fama, diffondendosi da un paese all’altro, aveva riportato l’accaduto) in tutta fretta, ognuna per dimostrare il proprio zelo, tristi e atteggiate a lutto, avevano lasciato le loro case e si erano recate dai genitori per consolarli con la loro presenza e la loro voce. 13 Una notte lo sposo (la cui presenza, invisibile alla vista, riusciva più di ogni altra cosa evidentissima al tatto e all’udito) così disse alla sua Psiche: "Psiche, dolcissima e cara sposa, il destino troppo crudele ti minaccia con un funesto pericolo, e io penso che sarebbe bene osservare maggior prudenza. Le tue sorelle, commosse dalla falsa notizia della tua morte, cercano le tue tracce e tra breve arriveranno alla rupe che tu conosci. Se per caso tu dovessi udire i loro lamenti, non rispondere; non cercare, anzi, neppure di vederle. In caso contrario, procurerai a me un immenso dolore e a te la più grande delle sventure." Psiche assentì e promise di ubbidire al desiderio del marito. Ma quando la notte e lo sposo disparvero assieme, la poverina non fece che piangere e lamentarsi per l’intera giornata. Ripeteva che proprio in quel momento essa capiva d’essere scomparsa dal mondo dei viventi, poiché era rinchiusa in una dorata prigione, le era vietato di rivolger parola a persona umana, e non solo non poteva neppure recar conforto alle sorelle che la piangevano, ma neanche vederle! E così, senza prendere né un bagno né cibo, senza concedersi assolutamente alcun ristoro, tra lacrime e pianti andò a dormire. 14 Non passa molto tempo che lo sposo, un poco più presto del consueto, le si stende vicino sul letto, l’abbraccia ancor lacrimosa e le domanda: "È questa la promessa che mi hai fatto, Psiche mia? Io, che sono tuo marito, che mai debbo aspettarmi e sperare da te? Né di giorno né di notte smetterai di tormentarti? E neppure quando ti abbraccia il tuo sposo? Suvvia! Fai sin da ora come tu desideri e, se vuoi il tuo male, dai pur retta al tuo animo. Io parlo seriamente e tu ti ricorderai del mio avvertimento; ma quando comincerai a pentirti, sarà troppo tardi." Allora Psiche, pregando e minacciando di voler morire, strappa al marito il consenso a che ella veda le sorelle, le consoli e parli con loro. Così egli finisce per cedere alla preghiera della novella sposa, e le concede per giunta che regali alle sorelle tutto l’oro e le collane che vuole. Nello stesso tempo, però, le ripete più volte le ripete questo ammonimento, sin quasi a spaventarla: "Non ti lasciar persuadere con tuo danno dalle tue sorelle a cercare di sapere come è fatto tuo marito! Sarebbe un’empia curiosità, questa! Precipiteresti, dall’altezza in cui ti ha posto la fortuna, nell’afflizione più nera, e saresti privata per sempre dei miei abbracci." Psiche ringraziò lo sposo e, ormai rasserenata, gli disse: "Vorrei piuttosto morire cento volte, che essere privata del tuo dolcissimo amore. Chiunque tu sia, io ti amo perdutamente e ti ho caro più che la vita mia, e non vorrei fare il cambio neppure con Amore in persona. Ma soddisfa, ti prego, anche quest’altro mio desiderio: ordina al tuo servo, a Zefiro, di portar qui, come fece con me. le mie sorelle." Nel contempo, per persuaderlo, gli dava baci, gli sussurrava tenere frasi e, allacciandolo strettamente con tutto il corpo, intramezzava alle carezze paroline come: "Mio amatissimo, marito mio, dolce vita della tua Psiche..." Suo malgrado, lo sposo fu vinto dalla forza irresistibile che hanno le parole bisbigliate nelle ore d’amore, e promise tutto quello che ella volle. Così l’alba era già vicina, quando egli svanì dalle braccia di Psiche. 15 Le sorelle, fattesi indicare la posizione della rupe su cui era stata abbandonata Psiche, vi accorsero in fretta. E qui, a forza di piangere e battersi il petto, si tormentarono così tanto, che per le loro urla di dolore ripetutamente echeggiarono con eguale intensità i sassi e le rocce. Un bel pezzo esse chiamarono per nome l’infelice sorella, sinché il suono penetrante delle loro voci piangenti si udì giù per i fianchi del monte, e Psiche, fuori di sé per l’affanno, usci di corsa dal palazzo esclamando: "Perché vi affliggete? I vostri strazianti lamenti non hanno motivo! Eccomi qui, quella che voi piangete! Cessate le vostre funebri invocazioni e ponete finalmente un termine alle continue lacrime che vi bagnano le guance. Fra poco la potrete abbracciare, colei che piangete morta." Chiama allora Zefiro e gli ricorda l’ordine del marito. Immediatamente quegli obbedisce al comando e, con delicatissimo soffio, trasporta le sorelle giù, sane e salve. Subito si abbracciano l’un l’altra, si danno avidi baci, e la gioia, forte del suo diritto, fa ricominciare quel pianto che si era appena calmato. "Entrate lietamente nella mia dimora", fu l’invito di Psiche, "e sedetevi al mio focolare. Aprite alla gioia l’animo afflitto e consolatevi con la vostra Psiche."
"Entrate lietamente nella mia dimora," fu l’invito di Psiche, "e sedetevi al mio focolare. Aprite alla gioia l’animo afflitto e consolatevi con la vostra Psiche" (cap.15). 16 Così parlando, mostra alle sorelle le immense ricchezze che contiene l’aureo palazzo e fa loro udire il numero di voci che costituiscono la sua servitù. Ordina poi di preparare un magnifico bagno, e offre a esse il ristoro di cibi raffinati e di uno splendido banchetto, degno proprio degli Dei. Così le sorelle, quando si furono saziate di quella profusione di celesti ricchezze, presto cominciarono ad esser gelose di lei nel fondo del loro cuore. Una di esse, poi, non la finiva d’informarsi, con indiscreta curiosità, su chi fosse il signore di quel celeste dominio e chi suo marito e quale il suo aspetto. Ma Psiche non vuole in alcun modo violare la raccomandazione del marito o cancellarla dall’intimo segreto del suo cuore, e per l’occasione inventa che è un bel giovane, che una morbida barba gli ombreggia da poco le guance, e che di solito passa il suo tempo a cacciare per i monti e per le pianure. Quindi, per il timore che, prolungandosi la conversazione, le sorelle scoprano la sua intenzione di tacere, riempie loro il grembo d’oro e di collane di pietre preziose; e poi le affida a Zefiro, subito accorso alla sua chiamata, affinché le riporti via. 17 L’ordine fu immediatamente eseguito; ma le brave sorelle, tornando a casa, si sentivano sempre più ardere dal fiele dell’invidia e si scambiavano assai animatamente le loro impressioni. Alla fine l’una proruppe: "O cieca, crudele e ingiusta Fortuna! È stato forse un bel piacere, per te, che noi, tre sorelle nate dai medesimi genitori, avessimo un destino così diverso? Proprio noi, le maggiori, siamo state sposate a mariti forestieri per far loro da serve! E dobbiamo vivere lontano dai genitori, come delle esiliate, fuori della nostra famiglia e della nostra patria! Mentre questa, che è la più giovane, e che con la sua nascita ha tanto stremato nostra madre da essere rimasta l’ultimo frutto, ha fatto invece un ricchissimo matrimonio, ha un Dio per marito e non sa neppure far buon uso di tante ricchezze! Tu hai visto, sorella mia, la quantità e il valore dei monili che vi sono in quella casa, lo splendore delle vesti, il fulgore delle gemme... Per non parlare dell’oro, che praticamente si calpesta a ogni passo! E se poi ha davvero anche un marito così bello come dice lei, allora non c’è in tutto il mondo, oggi come oggi, una donna che sia più felice! Forse, anzi, poiché a lungo andare l’abitudine consolida l’affetto, il marito, che è un Dio, la trasformerà persino in una Dea! Ma no: lo è già, una Dea, se consideriamo i suoi gesti e le sue maniere! Già ti guarda dall’alto in basso, e attraverso la donna traspare già la Divinità, dal momento che ha delle voci al suo servizio e comanda persino ai venti. Io, invece, povera disgraziata, ho avuto in sorte un marito più vecchio di mio padre, calvo più d’una zucca, più piccolo di statura d’un ragazzino, e col vizio di tener chiusa sotto custodia tutta quanta la casa con spranghe e catene." 18 E l’altra replica: "In quanto a me, ho sul gobbo un marito tutto rattrappito per i reumatismi, che in quanto ad amore mi tiene proprio a stecchetto. Sono sempre occupata a frizionargli le dita contorte e indurite come pietre, e mi brucio queste mie mani così delicate con impiastri puzzolenti, con bende sporche e fetidi cataplasmi; insomma, ho tutt’altro che l’aspetto d’una signora come si deve, ridotta come sono al mestiere dell’infermiera... Tu, sorella mia, sopporti evidentemente con pazienza questa vita indegna; direi, anzi, (poiché voglio esprimere francamente la mia opinione) che la sopporti con servile rassegnazione; ma io non mi sento capace di tollerare che tanta felicità tocchi a una che non la merita. Non ti ricordi la superbia e l’arroganza con cui ci ha trattato? Con la sua presunzione e le sue vanterie smodate ci ha rivelato l’orgoglio che ha nell’animo, e, con tante ricchezze che possiede, ha faticato a gettarcene qualche briciola in regalo: ha fatto presto ad annoiarsi della nostra presenza, e ci ha fatto spinger fuori tra il soffio e i fischi del vento. Non voglio più esser donna, non voglio più aver respiro, se non la caccerò giù in malora dal piedistallo della sua fortuna! Ma l’offesa è comune ad entrambe e, se è dispiaciuta anche a te, cerchiamo insieme una punizione esemplare. Le notizie che abbiamo appreso, è meglio non riferirle né ai nostri genitori né ad alcun altro, come se non sapessimo affatto che ella vive. Abbiamo personalmente veduto uno spettacolo che mi spiace d’aver visto. Questo ci deve bastare! Sarebbe il colmo, se andassimo per giunta a sbandierare la lieta notizia, come degli araldi, ai nostri genitori e a tutta la gente. Infatti, felici non sono quelli la cui felicità è da tutti ignorata; ed ella comprenderà, così, di aver a che fare con le sue sorelle maggiori, non con le sue serve! Torniamocene dai nostri mariti, ora; ritroviamo la nostra casa, povera sì, ma semplice; e, quando avremo escogitato un piano preciso, facciamo ritorno più forti per punirla della sua superbia." 19 Le due malvagie sorelle adottano per buono questo plano malvagio. Nascondono tutti quei loro regali di valore, e, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto (come del resto si meritavano), cominciano di nuovo a versar lacrime menzognere. Senza perder tempo, tolgono le ultime speranze ai loro genitori, sicché costoro sentono di nuovo inacerbirsi il dolore; poi, gonfie di rabbia, si avviano alle loro case, per macchinare uno scellerato inganno, anzi una trama mortale contro l’innocente sorella. Frattanto lo sposo sconosciuto, ancora una volta, di notte, rivolge a Psiche i suoi avvertimenti: "Non ti accorgi del grave pericolo che ti sovrasta? La Fortuna, come una truppa di veliti, ti fa la guerriglia da lontano; ma se non prendi tutte le tue precauzioni, ti assalirà da vicino. Perfide lupe in veste di donna fanno di tutto per attirarti in un tranello infame, e questo è il punto essenziale: ti vorranno persuadere a scoprire il volto mio. Ma ricordati di quanto spesso ti dissi: il mio volto, appena l’avrai visto, cesserai di vederlo per sempre. Dunque, se in futuro quelle infami streghe si presenteranno qui con cattive intenzioni (e senz’altro verranno, lo so), non dar loro risposta. Se poi non potrai farne a meno, poiché hai un animo che è per istinto semplice e delicato, almeno non porger orecchio e non dir nulla sul conto di tuo marito. Tra breve la nostra famiglia aumenterà, ché il tuo piccolo seno, ancor di fanciulla, già reca un bambino: questi sarà un Dio, se tu saprai tacere i nostri segreti; ma sarà un mortale, se li violerai." 20 A tal notizia, Psiche si sentì rinascere per la contentezza e batté le mani per la consolazione all’idea di un figlio divino; esultava, pensando alla gloria futura del pegno a lei promesso, ed era lieta per l’onore stesso che è congiunto al nome di madre. Ella conta con ansia i giorni che si susseguono e i mesi che passano e, nell’inesperienza d’un peso che le era ignoto, osserva con stupore come da una leggera puntura possa esser derivato al suo seno un così ricco aumento di volume. Ma già quelle due pesti, quelle orride Furie, spirando veleno come le vipere, se ne venivano attraverso il mare con una fretta foriera di empi propositi. Allora colui che era suo sposo ad intervalli nuovamente avverte così la sua Psiche: "Ecco l’ultimo giorno, ecco il momento decisivo! Persone del tuo sesso e del tuo sangue sono tue irriducibili nemiche. Già hanno preso le armi, hanno levato il campo, hanno schierato l’esercito e fatto suonar le trombe; già le tue infami sorelle con le spade sguainate si apprestano a sgozzarti. Ahimè! Qual rovina ci sovrasta, o dolcissima Psiche! Ma tu abbi pietà di te e di noi, e col tuo scrupoloso comportamento tieni lontano dalla tua casa, da tuo marito e da questa nostra creaturina la calamità, che sta per colpirci. Quelle ignobili donne ti odiano a morte e hanno calpestato i legami del sangue: ormai tu non puoi più chiamarle sorelle. Cerca di non vederle e di non sentirle, quando come delle Sirene, curvandosi sulla rupe, faranno echeggiare i macigni con i loro funesti richiami." 21 Piangendo, Psiche rispose con parole rotte dai singhiozzi: "Da molto tempo, mi pare, hai avuto la prova di quanto io sia fedele e discreta; anche questa volta potrai apprezzare la fermezza dell’animo mio. Fammi solo il piacere di ordinare al nostro Zefiro che adempia al dover suo e, in cambio della sacra immagine tua che mi è negata, concedimi almeno che io veda le mie sorelle. Ti prego, per la corona dei tuoi capelli lunghi e profumati, per le tue guance morbide e rotonde che somigliano alle mie, per il tuo petto che brucia di un ignoto ardore, voglia il cielo che io, almeno in questo esserino, possa riconoscere il tuo viso; ma ora accondiscendi alle preghiere di una supplice angosciata e degna di pietà, concedi ch’io abbracci lieta le mie sorelle, e ristora con tale gioia l’animo della tua Psiche che ti è devota sino alla morte. Non mi interessa più sapere qual è il tuo volto; le tenebre medesime della notte non mi danno più fastidio: io ho te e tu sei la mia luce." Così parlò Psiche, e abbracciava teneramente lo sposo, tanto che questi ne fu stregato. Egli, asciugandole le lacrime coi suoi capelli, promise il suo assenso, e subito dopo se ne partì, prima che nascesse la luce del giorno. 22 Frattanto la coppia delle sorelle, tra loro unite da un patto, senza neppure vedere il padre e la madre, sbarca dalla nave e di corsa si precipita per la via più breve alla rupe in questione; e qui esse non attendono neppure che il vento le porti a destinazione, ma addirittura con sfrenata temerità si lanciano nel vuoto. Zefiro, che ricordava bene l’ordine del suo signore, pur a malincuore le accolse nel grembo della brezza che spirava nel cielo, e le depose poi sul terreno. Esse, senza indugio, si avviano a rapidi passi, entrano nel palazzo e abbracciano la loro preda. E, coprendo col falso nome di sorelle e con la letizia del volto lo scrigno di frodi che è sepolto nel loro cuore, così l’accarezzano con frasi d’adulazione: "O Psiche, tu non sei più la fanciulla di prima: sei già una madre. Non sai quanto bene ci rechi con questa tua piccola rotondità! Quanta gioia donerai a tutta la nostra famiglia! Immagina la nostra contentezza, quando potremo allevare questo fanciullo meraviglioso. Egli, se eguaglierà, come è da attendersi, la bellezza dei genitori, sarà alla sua nascita un secondo Amore." 23 Così, fingendo di esserle affezionate, un po’ alla volta prendono piede nell’animo della sorella. Subito Psiche offre da sedere, fa preparare il caldo lavacro d’un bagno, perché possano ristorare le loro forze stanche per il viaggio, e fa imbandire riccamente la tavola con vivande e intingoli raffinati e straordinari. Dà ordine che la cetra elevi la sua voce, e le corde vibrano; che i flauti echeggino, e si innalza la loro melodia; che i cori cantino, e si odono canzoni corali. Così, senza che appaia nessuno, soavissimi concenti empiono di dolcezza l’animo degli uditori. Eppure, la smania perversa delle due femmine infami non si calmò neppure all’udire quelle canzoni dolci come il miele; ma esse dirigono il discorso verso l’insidioso tranello che hanno ordito, e ipocritamente cominciano a domandarle chi sia il marito, dove sia nato e da qual ambiente provenga. A questo punto Psiche, troppo ingenua, non si ricorda più delle sue precedenti risposte, ma inventa una nuova storia, e cioè che suo marito è originario d’una provincia vicina, che è un banchiere fornito di grandi capitali, che si avvicina già alla mezza età, che ha i capelli radi e brizzolati. Poi, senza soffermarsi troppo sul discorso, di nuovo riempie le sorelle di splendidi doni, e le affida al vento che le riporti indietro. 24 Mentre esse, levate in alto da Zefiro col suo placido soffio, tornano a casa, così parlottano tra loro. E l’una fa: "Che dire, sorella mia, delle enormi bugie di quella svergognata? Una volta è un giovanotto che si adorna la barba da poco fioritagli sul volto, un’altra volta è un uomo di mezza età con i capelli bianchi come la neve. Chi è, dunque, costui a cui, in men che non si dica, d’improvviso, la vecchiaia ha dato una nuova forma? Sorella mia, non c’è altra spiegazione! Codesta disgraziatissima donna o fabbrica bugie o non conosce com’è fatto il marito; ma, qualunque sia la verità, noi dobbiamo al più presto farla scacciar fuori da tutta questa magnificenza. Se poi ignora veramente il volto di suo marito, di certo il motivo è che ha sposato un Dio; per cui, ora che è gravida, porta un Dio nel seno. Per conto mio, se si spanderà la fama che costei è madre di un divino fanciullo (il ciel non voglia), immediatamente mi impiccherò a un nodo scorsoio. Perciò, torniamocene per ora dai nostri genitori e tessiamo un’insidia che vada d’accordo con quanto dicemmo all’inizio." 25 In tal maniera, ardenti di gelosia, salutano appena i loro genitori; e dopo una notte passata nel fastidio dell’insonnia, si precipitano alla rupe, da dove, col solito aiuto del vento, scendono giù a volo. Stringendo le palpebre, si costringono a versar lacrime e rivolgono alla giovane questo scaltro discorso: "Tu sei felice, è certo: nell’ignoranza della tua grande sciagura, te ne vivi beata e non prevedi il pericolo che ti minaccia; ma noi, che vegliamo giorno e notte sulla tua felicità, ci tormentiamo per le tue disgrazie. Lo abbiamo infatti appreso da fonte sicura e non possiamo, noi che naturalmente ci sentiamo partecipi del tuo doloroso caso, nasconderti il fatto: un gigantesco serpente dalle molteplici spire, che trasuda veleno mortale dal collo e spalanca la gola profonda, riposa, senza che tu te n’accorga, tutte le notti al tuo fianco: ricordati di quell’oracolo Pitico che ti proclamava destinata a nozze con un orribile animale. Molti contadini e abitanti dei dintorni lo hanno visto ritornare la sera dalla sua pastura e traversare a nuoto le acque del vicino fiume. 26 Tutti sono del parere che esso non ti riempirà a lungo con quei cibi che ti offre per tenerti buona, ma che appena, al termine della gravidanza, il tuo seno sarà maturo per il parto, allora ti divorerà, quando sarai carica di un frutto più pingue. Ora tu devi decidere se vuoi dar retta alle tue sorelle, che sono in ansia e hanno cara la tua vita, e, evitando la morte, vivere assieme a noi al sicuro da ogni pericolo, oppure lasciarti seppellire nelle viscere di un ferocissimo animale. Potrebbe anche darsi che tu ti compiacessi di questa campagna deserta, abitata da voci, o che provassi gusto nell’amore clandestino d’un velenoso serpente con le sue schifose e pericolose intimità; ma noi, da sorelle affettuose come siamo, avremo compiuto il nostro dovere." Allora la povera Psiche, nella tenera semplicità dell’animo suo, cade in preda allo spavento, dinanzi a così spiacevoli notizie. Non è più padrona della propria mente, perde ogni ricordo delle avvertenze del marito e delle promesse da lei fatte, e si lascia cadere nell’abisso della sciagura. Trema tutta, e livida in volto, come priva di sangue, con la bocca semiaperta, interrompendosi ogni tre parole, mormora con voce fioca: 27 "Voi, sorelle carissime, adempite per l’appunto, com’era giusto, quel dovere che vi impone l’affetto; ma anche quelli che vi hanno informato mi pare che dicano la verità. In effetti, io non ho mai visto il volto del mio uomo, e neppure so da qual terra egli venga; ma devo sopportare un marito che mi parla solo di notte e bisbigliando, di cui non conosco la condizione, e che è assolutamente nemico della luce del sole. Con ragione voi affermate che è una fiera, ed io sono pienamente d’accordo con voi: egli, infatti, in ogni maniera cerca di spaventarmi affinché io non lo guardi, e mi minaccia un’atroce punizione, se avrò la curiosità di vedere il suo volto. Ora, se voi potete recare un valido soccorso alla sorella vostra che si trova in pericolo, fatelo senza indugio. Altrimenti, la noncuranza guasterebbe in seguito i benefici che mi avete recato con il vostro zelo previdente." A questo punto le due scellerate donne trovano ormai aperta la porta per penetrare senza ostacolo nell’animo della sorella. E, levata ogni mascheratura alla macchina dell’inganno, snudano la spada della furberia e, profittando dello sgomento dell’ingenua giovane, ne irretiscono l’animo. 28 Così conclude la seconda sorella: "Poiché il vincolo della comune origine ci induce, pur di salvarti, a non badare a rischi o pericoli, ti indicheremo la via, la sola che, secondo noi, dopo lunghe e mature riflessioni, conduca alla salvezza. Prendi un rasoio taglientissimo e, dopo d’averlo ben affilato ripassandolo sul palmo della mano, nascondilo furtivamente nel letto dalla parte dove hai l’abitudine di dormire. Riempi poi d’olio una lucerna che dia una luce chiara, e riponila in un pentolino col coperchio ben chiuso; ma tutti questi preparativi stai attenta a dissimularli nel più gran segreto. Il serpente, trascinandosi con la sua sinuosa andatura, salirà sul letto al solito posto, vi si stenderà e, schiacciato sotto il fardello del primo sonno, comincerà a dormire, respirando profondamente. Allora tu lasciati scivolare giù dal letto; scalza, in punta di piedi, accostati cautamente ed estrai la lucerna rinchiusa nelle tenebre della sua cieca prigione. Prendi poi a consigliera la luce, e cogli il momento favorevole alla tua coraggiosa impresa: con l’arma a doppio taglio che tu sai, dopo aver ben levato in alto la destra, vibra audacemente un colpo deciso e taglia al nefasto serpente il nodo che unisce il capo alla nuca. Il nostro aiuto non ti mancherà: noi staremo sollecitamente all’erta, e quando tu, uccidendo lui, avrai assicurato a te la vita, verremo qui di volata. Ti aiuteremo allora a portar subito via tutte codeste ricchezze e cercheremo per te, che sei una creatura umana, uno sposo conforme ai tuoi voti, un uomo anche lui." 29 Così, dopo avere appiccato l’incendio con le loro parole nel cuore della sorella, la lasciano già tutta sconvolta. Esse, invece, temendo non poco persino il trovarsi vicino a così grave delitto, si fanno deporre sulla rupe dal solito soffio sulle ali del vento. Di qui fuggono velocemente, s’imbarcano sulle navi e si allontanano. Ma Psiche, rimasta sola (e sola non è, se si considerano le Furie nemiche che la tormentano), nella sua angoscia è sconvolta come le onde che ribollono nel mare. Benché la risoluzione sia presa e l’animo fermamente deciso, tuttavia ancora adesso che sta per porre mano al delitto, ella esita, vacilla e si lascia trascinare qua e là dalle varie passioni che le ispira la sua disgrazia. A volta a volta decide e rimanda, ha coraggio e paura, si abbandona alla sfiducia e all’ira; e in conclusione, nel medesimo corpo, ha ribrezzo dell’animale, ma ama il marito. Finalmente, al cader del sole, sul far della notte, in fretta e furia esegue i preparativi del nefando delitto. Viene la notte, lo sposo giunge e, dopo aver sostenuto una prima prova nelle lotte di Venere, cade in un sonno profondo.
Ma appena la luce si offerse a rischiarare l’intimità del letto nuziale, essa vede la più tenera e la più dolce di tutte le fiere, proprio Amore in persona, il leggiadro Dio, che leggiadramente riposava (cap.30). 30 Allora Psiche, che per natura era debole d’animo e di corpo, si sente riavere, poiché il destino crudele la provvede di nuovo vigore. Scopre dunque la lucerna e afferra il rasoio, e la debolezza del suo sesso si muta in audacia. Ma appena la luce si offerse a rischiarare l’intimità del letto nuziale, essa vede la più tenera e la più dolce di tutte le belve: proprio Amore in persona, il leggiadro Dio, che leggiadramente riposava. Solo al vederlo, persino il chiarore della lucerna brillò più forte per la gioia e il rasoio provò rammarico per il filo sacrilego della sua lama. Ma Psiche rimase invece atterrita, alla vista del prodigio; fuori di sé, tutta pallida, stette per venir meno, e tremando si lasciò cadere giù sulle ginocchia. Volle nascondere il rasoio (ma intendiamoci, nel proprio petto!) e l’avrebbe fatto di certo se il ferro, per il timore di un tal misfatto, non fosse scivolato e sfuggito giù dalle mani dell’imprudente. E se prima ella era stanca e spossata da morire, ora, contemplando senza mai saziarsi la bellezza del volto divino, si sentiva riavere. Ella mira il biondo capo e l’abbondanza dei capelli umidi d’ambrosia; sul collo bianco come il latte e sulle guance rosate ella vede le ciocche dei capelli distribuirsi ed allacciarsi graziosamente, in modo che le une coprono la fronte e le altre la nuca, facendo impallidire, con lo splendore lucente che irraggiavano, persino il chiarore della lucerna. Sugli omeri dell’alato Dio le bianche ali brillavano come fiori luccicanti di rugiada e, sebbene giacessero in stato di riposo, le loro piume molli e delicate palpitavano tremule con capricciosa irrequietezza. E tutto il resto del corpo era liscio e splendente, e tale, insomma, che Venere può ben vantarsi d’essergli madre. Al piedi del letto erano stesi l’arco, la faretra e le frecce, armi propiziatrici del possente Dio. 31 Psiche, curiosa com’è, non è mai sazia di esaminare e di maneggiare questi oggetti. E mentre ammira le armi dello sposo, toglie dalla faretra una freccia e col dito pollice va provando la punta; senonché, col premere troppo il dito che ancora tremava, si punse profondamente, sicché alcune goccioline del suo roseo sangue stillarono sull’epidermide. Così Psiche, ignara, spontaneamente cadde nell’amorosa rete di Amore. Poi, siccome sempre più ardeva di desiderio per Amore, china su di lui lo contemplava perduta in estasi, e sua unica preoccupazione, nel dargli in fretta i suoi baci avidi e appassionati, era che si destasse. Ma mentre nel turbamento di una felicità così grande la sua mente vacilla per la ferita d’amore, la lucerna, sia che ve la spingesse una malvagia perfidia o una colpevole gelosia, sia che anch’essa bramasse di toccare e baciare quasi un tal corpo, lasciò cadere dalla sua fiamma lucente una stilla d’olio bollente sopra la spalla destra del Dio. Ahimè! Audace e sfrontata lucerna, vile ancella dell’amore! Tu vorresti bruciare colui che è proprio il Dio d’ogni fuoco, quando sai bene che proprio un qualche amante ti ha scoperto per primo, per godere più a lungo, anche di notte, dell’oggetto del suo desiderio. Sentendosi scottare, il Dio balzò in piedi e vide la sua fede tradita e oltraggiata. Immediatamente volò via, senza dire una parola, sottraendosi ai baci e agli abbracci dell’infelicissima consorte.
Ma Psiche, mentre egli si alzava, era riuscita ad afferrarsi con ambo le mani alla gamba destra del Dio (cap.32). 32 Ma Psiche, mentre egli si alzava, era riuscita ad afferrarsi con ambo le mani alla gamba destra del Dio. Divenuta una miserevole appendice, nell’aerea ascensione accompagnò penzoloni lo sposo per la regione delle nuvole, sinché sfinita ricadde al suolo. Però l’amante divino non l’abbandonò giacente sul terreno, ma volò sopra il cipresso più vicino, e lì, dalla vetta, profondamente turbato, le rivolse la parola: "Proprio io, o troppo ingenua Psiche, ho trascurato gli ordini di mia madre Venere. Io avevo ricevuto il comando di farti innamorare di un uomo vilissimo e di condannarti a un umilissimo matrimonio, e invece proprio io sono volato da te in veste di amante. Ho peccato di leggerezza, lo so; il famoso arciere si è da sé stesso colpito, col suo stesso arco. E ti ho fatto mia sposa perché tu credessi che io fossi una belva e ti sentissi in dovere di tagliarmi il capo! Eppure, esso reca questi occhi che ti adorano! Eran questi i pericoli da cui spesso ti consigliavo di guardarti, questi i miei benevoli avvertimenti... Ma le esimie tue consigliere ben presto mi pagheranno il fio del loro nefasto insegnamento; in quanto a te, bastevole punizione, sarà lo starti lontano." E mentre finiva di parlare, si alzò a volo verso il cielo. 33 Ma Psiche, prostrata a terra, seguì con l’occhio, sin dove arrivò con la vista, il volo dello sposo, e intanto si affliggeva con i più straziati lamenti. E quando lo sposo, portato via dal battito delle sue ali, si fu sottratto per la distanza al suo sguardo, Psiche corse a gettarsi giù a capofitto per la riva del vicino fiume. Ma il fiume, pietoso (e per rendere omaggio, certo, al Dio che suole appiccar l’incendio anche alle acque) temendo per se stesso si affrettò a trarla in salvo attraverso i suoi gorghi e la depose sulla riva smaltata d’erbe e di fiori. In quell’istante, Pan, il Dio dei campi, casualmente sedeva sull’orlo del fiume e abbracciava Eco, la ninfa dei monti: voleva insegnarle a cantare le canzoncine più svariate; mentre, vicino alla riva, le capre, intente al pascolo, saltellavano qua e là e brucavano le erbe che orlavano la corrente. Quel Dio che somiglia a un caprone chiama benignamente Psiche, disfatta dall’angoscia (egli del resto sapeva la disgrazia toccatale), e così cerca di calmarla, parlandole dolcemente: "Vezzosa ragazza, io sono un Dio che s’intende solo di campi e di pecore, ma grazie alla mia età avanzata ho il vantaggio d’una lunga esperienza. Ora, se colgo nel giusto (e questa facoltà i veramente esperti la chiamano divinazione), dalla tua andatura incerta, dai tuoi passi spesso vacillanti, dal livido pallore della tua figura, dai continui sospiri e soprattutto da quei tuoi occhi cerchiati d’affanno, mi pare che tu ti tormenti per un amore disperato. Ascoltami, dunque, e rinunzia a porre fine ai tuoi giorni, gettandoti nuovamente in un precipizio, oppure ricorrendo a qualche altro genere di morte; smetti di piangere e di rattristarti, e piuttosto volgiti a Amore e prega lui che è il più forte degli Dei. Siccome è un giovane schizzinoso e superbo, farai bene a sollecitare con omaggi e con lusinghe la sua simpatia." 34 Così parlò il Dio dei campi, e Psiche non rispose, ma si limitò a fare atto di adorazione verso il nume salutare e riprese il suo cammino. Dopo che ebbe errato tanto che si reggeva in piedi a fatica, seguendo un sentiero, giunse, senza saperlo, in una città in cui regnava il marito d’una delle sorelle. Quando Psiche ne fu informata, fece annunziare alla sorella il suo arrivo; appena introdotta, le due si abbracciano tra loro e si scambiano i saluti, poi la sorella le domanda il motivo della sua venuta, e Psiche così risponde: "Ti ricordi del consiglio che mi avete dato? Mi persuadeste a uccidere con un rasoio a doppio filo la belva che, sotto le mentite spoglie di marito, giaceva la notte al mio fianco, prima che mi divorasse, me poverina, con la sua bramosa gola. Il consiglio mi piacque assai. Ma appena, con la complicità del lume, conobbi il volto suo, mi apparve un meraviglioso e davvero divino spettacolo: proprio il figlio della Dea Venere, Amore in persona, ti dico, che tranquillamente dormiva. Fui commossa alla vista d’un bene così grande e sconvolta dall’eccesso del piacere, al punto di non riuscire ad accogliere completamente la mia gioia. Ma ecco che, per un infausto accidente, dalla lucerna sprizzò una goccia d’olio bollente sulla spalla del Dio. Egli subito si destò per il dolore, mi vide armata col ferro e col fuoco, ed esclamò: ‘Tu dunque stavi per compiere un delitto così efferato! In compenso vattene subito via dal mio letto e prenditi le cose tue. Io per conto mio voglio unirmi in matrimonio con tua sorella,’ e pronunciò il tuo nome di nascita, ‘secondo il rito religioso’. Dopo di che, subito ordinò a Zefiro di scacciarmi col suo soffio fuori dal recinto del suo palazzo." 35 Psiche non aveva ancora finito di parlare, che già la sorella era caduta preda degli aculei di un folle capriccio e d’una colpevole gelosia. Tosto spaccia al marito una bugia ben inventata lì per lì, che cioè aveva ricevuto la notizia della morte dei genitori, s’imbarca e si affretta ad andare alla rupe che sapete. Qui, benché il vento che soffiava fosse un altro, ella, nella cieca speranza di soddisfare il suo desiderio, esclamò: "Amore, prendimi! Io sono una moglie degna di te! E tu, Zefiro, accogli la tua signora." Così dicendo, compie un gran salto nel vuoto. Ma nemmeno da morta poté giungere nel luogo sperato: il suo corpo, infatti, si sfracellò, rimbalzando sulle rocce: così ella morì proprio nella maniera che meritava, e le sue carni, fatte a brani, offrirono un comodo pasto alle belve e agli uccelli da preda. IL meritato castigo non tardò a raggiungere anche l’altra sorella. Infatti Psiche, nel suo errar senza meta, di nuovo giunse a un’altra città, nella quale dimorava in egual maniera l’altra sorella. Non diversamente dal la prima, anch’essa cadde nell’inganno di Psiche: e bramosa com’era di soppiantare la sorella e di celebrare empie nozze, si affrettò a correre sulla rupe, e ivi incontrò la morte. 36 Frattanto, mentre Psiche si aggirava sulla terra in ansiosa ricerca di Amore, il Dio, cui ancora bruciava la scottatura della lucerna, giaceva tra i gemiti nel letto stesso di sua madre. Allora l’uccello dalle candide piume, il gabbiano, che vola con le sue ali rasente i flutti marini, rapido si immerse nel profondo grembo dell’Oceano. Qui si fermò vicino a Venere, proprio mentre ella si bagnava e nuotava, per informarla dell’accaduto. Il figlio suo, disse, s’era bruciato, ed ora si lamentava per il dolore di una grave ferita e giaceva a letto in gravi condizioni. Aggiunse che dappertutto, sulle bocche della gente, correvano chiacchiere e rimproveri di vario genere che erano indirizzati a tutta quanta la famiglia di Venere. "Tutti si lagnano", esclamò, "perché tuo figlio se n’è andato a fare il libertino in montagna e tu ai bagni di mare. Di conseguenza, non esiste più né voluttà né grazia né garbo, ma ovunque trionfano la rozzezza, la grossolanità e la selvatichezza. Sono spariti l’amore coniugale, la comunanza tra gli amici, l’affetto per i figli; sono subentrati il sovvertimento d’ogni giusta regola e un molesto fastidio che porta a disprezzare ogni vincolo sociale." Quell’uccello loquace e pettegolo rifischiava queste notizie alle orecchie di Venere e lacerava la reputazione del suo figliolo. Venere allora, con gran cruccio, esclamò: "Dunque, quel bel tipo di mio figlio ha già un’amante? Suvvia, poiché tu solo mi servi con fedeltà, dimmi tu il nome di colei che ha sedotto un fanciullo così ingenuo e innocente. Voglio saperlo, sia che appartenga alla stirpe delle Ninfe o al corteo delle Ore o al coro delle Muse, oppure anche al seguito delle mie ancelle, le Grazie." Non tacque, l’uccello ciarliero, ma disse: "Non so con sicurezza, o mia signora, ma credo che la ragazza, se ben mi ricordo, si chiami Psiche. Dicono che egli ne sia profondamente innamorato." Fu così tanto, allora, lo sdegno di Venere, che ella gridò con violenza: "Davvero egli ama Psiche, la mia rivale in bellezza, l’usurpatrice del nome mio? Non ci sarebbe da meravigliarsi se quel mio rampollo mi giudicasse una mezzana: non crederà mica che gliel’abbia indicata per fargliela conoscere!"
Si precipitò nella sua aurea stanza da letto, dove trovò, come aveva udito, il figlio a letto ammalato (cap.37). 37 Così strillando, in fretta ella scese fuori dal mare e si precipitò nella sua aurea stanza da letto, dove trovò, come aveva udito, il figlio a letto ammalato. Le sue urla risuonavano dinanzi alla porta già prima ch’ella entrasse: "Hai compiuto una bella impresa! Proprio conveniente alla nostra famiglia e al tuo senno! Non solo hai calpestato gli ordini di tua madre (che dico!, di colei che è la tua signora) ma anche, invece di ispirare alla mia nemica il tormento di un amore vilissimo, tu, un ragazzo così giovane, ti sei invischiato in un’unione che è dissoluta e sproporzionata alla tua età. O forse credevi che avrei tollerato una nuora che mi odia? O ritieni, fannullone, seduttore da strapazzo. ragazzaccio odioso, che tu solo sei capace di far razza e che io per l’età non posso più aver figli? Sappi dunque che io darò alla luce un altro figlio molto migliore di te. Anzi, perché tu senta maggiore scorno, adotterò qualcuno dei miei schiavetti di casa e gli donerò ali, fiamme, arco, le frecce anche, e tutto il repertorio che mi appartiene e che io ti avevo affidato non certo per questo uso. Infatti, in questo tuo corredo non v’è niente che provenga dai beni di tuo padre. 38 Il fatto è che sei stato male abituato sin dall’infanzia, che hai le unghie aguzze, che senza rispetto alcuno hai battuto tante volte i più vecchi di te. Persino tua madre (me stessa, ti dico!) tu la derubi ogni giorno, sacrilego ragazzo. Non solo, ma più volte m’hai percossa, e comunque mi disprezzi come se fossi una derelitta, e non hai paura neppure del tuo patrigno, quel grande e forte guerriero. E come no? Sei arrivato al punto di provvederlo più volte di ragazze, per tormentare me che sono la sua amante. Ma io farò in modo che tu ti penta di questi tiri e senta l’amaro gusto di cedeste tue nozze. "Eppure, ora che sono divenuta un oggetto di scherno, che posso fare? Dove andare? In che modo indurre all’obbedienza questa specie di ramarro? Dovrò chiedere aiuto alla mia nemica, la Temperanza? Ma io l’ho spesso offesa, proprio con la dissoluta condotta di questo mio figlio. Mi fa davvero ribrezzo, dover parlare con una donna rozza e trasandata; eppure, la soddisfazione che dà la vendetta non è da disprezzarsi, qualunque ne sia la provenienza. Devo proprio ricorrere a lei e a nessun’altra, poiché ella sola può infliggere una punizione seria a codesto disutilaccio. Occorre che ella gli vuoti la faretra, gli spunti le frecce, gli allenti l’arco, gli spenga la fiaccola, occorre anzi che riduca alla ragione lui stesso con i più energici rimedi. Solo allora, crederò che sia riparata l’ingiuria fattami, allorché ella gli avrà tagliato la chioma che sovente ho cosparso d’una cipria luminosa e del color dell’oro, e gli avrà spuntate le ali che ho bagnato di nettare nel mio seno." 39 Così parlò la Dea, e corse fuori furibonda, sprizzando una collera degna di Venere. In quell’istante, Cerere e Giunone la raggiunsero, e, vistola congestionata in volto, le chiesero perché aggrottasse le ciglia e oscurasse così l’amabile fulgore del suo sguardo. Venere rispose: "Capitate proprio a puntino, per offrire uno sfogo alla rabbia che ho in corpo. Vi prego, rintracciatemi con ogni mezzo Psiche, quella schiava fuggiasca che se n’è volata via. Poiché voi conoscete bene lo scandalo che succede in casa mia e le imprese di colui che non posso più chiamare mio figlio." Allora esse, che sapevano bene ciò che era accaduto, cercarono di lisciare Venere a forza di blandizie di calmarne la collera furibonda. "Qual peccato, o signora, ha mai compiuto tuo figlio, per opporti con tanta ostinazione ai suoi piaceri? Giungi sino al punto di bramare la rovina di colei che egli ama? Qual delitto, di grazia, ha commesso, se ha sorriso volentieri a una graziosa ragazza? Non lo sai che è maschio, e giovane per giunta, o davvero ti sei dimenticata l’età che ha? Forse per il fatto che porta bene i suoi anni, credi che egli sia sempre un ragazzino? Ma tu sei madre e anche donna di senno, e dunque continuerai sempre a inquisire con tanta diligenza gli svaghi di tuo figlio? E gli apporrai a colpa la sua esuberanza, e gli farai un rimprovero dei suoi amori, e biasimerai in un figlio così bello le arti e i piaceri che sono tuoi? Gli Dei e gli uomini potranno, poi, ammettere che tu sparga ovunque sulla terra i desideri d’amore, se vieti agli Amori del tuo seguito di amare e chiudi il laboratorio ove si tiene pubblica scuola di galanteria?." Così le due Dee cercavano di ingraziarsi Amore, benché egli non fosse presente, per paura delle sue saette, e intercedevano compiacentemente per lui. Ma Venere si seccò di veder messe in ridicolo le offese fattele, voltò le spalle e, a passi frettolosi, si avviò dall’altra parte, in direziono del mare. 40 Frattanto Psiche andava girovagando qua e là, da un luogo all’altro. Senza aver requie, cercava notte e giorno il suo sposo, ed era sempre più desiderosa, se non di calmare l’ira di lui con le carezze che una moglie conosce, almeno di ottenerne il perdono con le preghiere proprie degli schiavi. Vide ella un tempio sulla cima d’un’erta montagna ed esclamò: "Chi mi dice che il mio signore non abiti là?" Subito vi si dirige a rapidi passi e, sebbene si sentisse venir meno per le continue fatiche, la speranza di veder esaudito il suo desiderio la riempiva di nuovo ardore. Finito che ebbe di superare i dossi più alti del monte, arrivò presso al tempio. Vide allora spighe di frumento a mucchi o attorte a mo’ di corona, e vide pure spighe d’orzo. V’erano anche falci e tutti gli attrezzi che servono per la mietitura, ma tutti quanti giacenti qua e là senza cura, così come i contadini nelle ore più calde sogliono abbandonarli alla rinfusa. Con molta attenzione Psiche li divise e, separatili l’un dall’altro, li ripose nell’ordine dovuto, credendo naturalmente che di nessuna Divinità dovesse trascurare i riti e i santuari, ma che anzi di tutte dovesse implorare la benevolenza e la pietà.
Allora Psiche, prostrandosi a terra, bagnava i piedi della Dea con un fiume di lacrime e spazzava il pavimento coi suoi capelli: pregando e ripregando la Dea, ne implorava il favore... (cap.41). 41 Mentre con gran zelo si dava cura di questi oggetti, l’alma Cerere la colse di sorpresa, e lì per lì proruppe in una lunga esclamazione: "O povera Psiche, che mi dici? Su tutta la terra Venere va in caccia affannosa e ricerca infuriata le tue orme, ti reclama per l’estremo supplizio e chiede vendetta con tutte le forze che la sua divina potenza le consente, e tu ti prendi cura delle cose mie e pensi ad altro che alla tua salvezza?" Allora Psiche, prostrandosi a terra, bagnava i piedi della Dea con un fiume di lacrime e spazzava il pavimento coi suoi capelli: pregando e ripregando la Dea, ne implorava il favore: "Io ti scongiuro per questa tua mano destra apportatrice di frutti, per i riti sacri che rendono lieta la mietitura, per il segreto che avvolge le ceste dei tuoi sacri arredi, per l’alato cocchio trascinato dai draghi tuoi servi, per i solchi delle campagne sicule, per il cocchio rapitore e la terra avara, per la discesa di Proserpina verso nozze tenebrose e per il ritorno della figlia tua, dopo che la ritrovasti al lume delle fiaccole, per tutti gli altri segreti che il santuario dell’attica Eleusi avvolge nel silenzio, soccorri l’anima infelice di Psiche, la tua supplice. Permetti che tra questa congerie di spighe io mi nasconda, anche per pochi giorni, sinché quella Dea così possente abbia il tempo di lasciar sbollire la sua collera, o che almeno io, stanca come sono per i continui travagli, possa avere un po’ di requie e riprender le forze." 42 Cerere replicò: "In verità le tue lacrime e le tue preghiere mi commuovono, ed lo vorrei venirti in aiuto, ma non me la sento di incorrere nel risentimento di mia cognata. Ho con essa anche un legame d’amicizia che dura da tempo; ed ella, inoltre, è una donna eccellente. Allontanati, dunque, immediatamente da questa casa e stimati fortunata se non ti trattengo sotto buona scorta." Psiche, contro la sua speranza, si vide respinta, e fu doppiamente afflitta dall’angoscia. Mentre rifaceva all’indietro la via, scorse, nella penombra d’un bosco che riempiva una valle sottostante, un santuario che appariva costruito a regola d’arte; e poiché non voleva trascurare alcuna possibilità, anche se incerta, di miglior fortuna, ma era risoluta a rivolgersi per aiuto a ogni Divinità, qualunque essa fosse, si avvicina alla sacra porta. Scorge doni di gran pregio e vesti appese ai rami degli alberi e agli stipiti della porta, con scritte in oro che facevan menzione della grazia ricevuta e della Dea cui erano state dedicate. Allora cadde in ginocchio, abbracciò l’altare ancora tiepido e, dopo essersi asciugate le lacrime, così pregò: 43 "O sorella e moglie del grande Giove, sia che tu risiedi negli antichi templi di Samo (ed essa sola si possa vantare d’averti vista nascere, d’aver udito i tuoi vagiti e provveduto al tuo nutrimento) sia che tu frequenti le ricche dimore dell’eccelsa Cartagine (ove si adora l’immagine tua di ragazza che passa per il cielo trasportata da un leone) sia che proteggi le mura illustri di Argo presso le rive dell’Inaco (e qui tu sei onorata come sposa del signore del tuono e regina degli Dei) tu, che tutto l’Oriente venera col nome di Zigia e tutto l’Occidente chiama Lucina, sii per me nell’estrema rovina Giunone salvatrice, e liberami dalla paura dell’incombente pericolo per tutti i travagli che ho dovuto sopportare. Per quel che so, tu suoli spontaneamente porgere il tuo aiuto alle partorienti nel momento del rischio." Psiche in tal modo supplicava la Dea, e Giunone subito le apparve dinanzi in tutta l’augusta dignità del suo nome e le disse: "Come vorrei, sinceramente, accordare il mio consenso alle tue preghiere! Ma un giusto riguardo non mi permette d’agire contro la volontà di Venere, mia nuora, che io ho sempre amato come mia figlia. Inoltre, me lo impediscono le leggi che fan divieto di accogliere i servi altrui fuggitivi, senza il consenso dei loro padroni."
Psiche in tal modo supplicava la Dea, e Giunone subito le apparve dinanzi in tutta l’augusta dignità del suo nome (cap.43). 44 Psiche fu abbattuta dal naufragio che inghiottiva anche questa volta le sue speranze e, non potendo più raggiungere l’alato sposo, perse ogni speranza di salvezza e domandò consiglio a se stessa: "Che altro mi resta da tentare? Qual altro riparo opporre alle mie sciagure, se neppure le Dee, con tutta la loro buona volontà, possono porgermi aiuto? Chiusa dunque, come sono, in una rete inestricabile, dove ancora dovrei volgere il piede? In qual casa, in qual tenebroso recesso dovrei nascondermi per sfuggire allo sguardo infallibile della grande Venere? Perché allora non ti armi di virile energia e non rinunzi coraggiosamente alle tue speranze infrante? Arrenditi spontaneamente a colei che è la tua signora, e cerca di calmare l’ardore della sua collera con l’umiltà tua, anche se tardiva. Chissà, pure, che tu non trovi là, in casa della madre, colui che vai cercando da tanto tempo...." Così Psiche, nel prepararsi a un’obbedienza di esito dubbio, o piuttosto a una morte che appariva certa, rifletteva tra sé al modo come dar principio alle sue implorazioni. 45 Intanto Venere, rinunziando a valersi di mezzi terreni per le sue ricerche, decide di salire in cielo, e ordina di preparare il suo cocchio. Lo aveva modellato per lei Vulcano con ogni cura e con arte sottile di orefice e, prima di inaugurare il talamo nuziale, glielo aveva offerto come dono di nozze; la lima, affinandolo e levandone il soverchio, aveva accresciuto il suo pregio. Tra la folla delle colombe che soggiornano intorno alla camera della loro signora, quattro d’un bianco lucente si avanzano con gioiosa andatura e, piegando il variopinto collo, si sottomettono al giogo costellato di gemme; poi, ricevuta che hanno la loro padrona, lietamente prendono il volo. In corteo, dietro al cocchio della Dea, folleggiano con acuti pigolii i passeri e tutti gli altri uccelli che posseggono una bella voce, elevano dolci melodie e con soavi canti annunziano l’arrivo della Dea. Si ritirano le nubi, il cielo si apre al passare di sua figlia, l’etere in alto accoglie con gioia la Dea, e il canoro seguito della possente Venere non prova alcun timore, se incontra aquile o rapaci avvoltoi. 46 Allora la Dea si dirige al regale palazzo di Giove, e in atto altero richiede che le sia permesso, per un servigio a lei indispensabile, valersi della voce stentorea del Dio Mercurio. Giove col suo nero sopracciglio fece cenno di sì. Subito Venere, esultante, in compagnia di Mercurio scende giù dal cielo e si fa premura di parlargli. "O fratello nato in Arcadia, naturalmente tu sai che tua sorella Venere non ha mai intrapreso alcunché senza la tua assistenza, e non ti sfugge comunque che da molto tempo io cerco invano una mia ancella che si nasconde. Non mi resta altro che valermi della tua funzione di banditore e promettere pubblicamente una ricompensa a chi la scoprirà. Affrettati perciò ad eseguire l’incarico che ti affido e a render noti i contrassegni che posson servire per il riconoscimento. Altrimenti colui che si sia reso colpevole di averle dato rifugio contro le leggi potrebbe sempre giustificarsi, protestando la sua ignoranza." Mentre così parla, gli porge un libretto ove era scritto il nome di Psiche e tutte le altre indicazioni, poi si ritira dritto filato a casa sua. 47 Mercurio non trascurò di obbedire. Visitando una popolazione dopo l’altra, attraverso i vari paesi, assolveva in questo modo l’incarico di banditore, che gli era stato affidato: "Colui che potrà arrestare o indicare dove si trova una schiava fuggiasca, figlia di un re e serva di Venere, di nome Psiche, vada a trovare Mercurio banditore dietro i pilastri della valle Murcia. Egli riceverà da Venere in persona, in compenso dell’informazione, sette dolci baci, e uno per giunta dolcissimo tutto miele, dato con carezzevole tocco della lingua." In questi termini Mercurio annunziò il bando, e la brama d’ottenere un premio così grande stimolò a gara la passione d’ogni uomo mortale. Questa circostanza soprattutto tolse a Psiche ogni esitazione. E già essa era vicina alla porta della sua regina, quando le si fece incontro una che faceva parte del seguito di Venere; si chiamava Abitudine, e subito con voce altissima gridò: "Finalmente, infamissima serva, hai cominciato a capire d’avere una padrona? O forse, vista l’impudenza del tuo contegno, fingi di non sapere neanche quante fatiche abbiamo dovuto sostenere nel cercarti? Ma bene! Sei caduta proprio tra le mie mani! Sei ora impigliata tra le sbarre dell’Orco medesimo, e ben presto pagherai di sicuro il fio della tua imprudente superbia!"
Dopo di ché, cacciò violentemente la mano nella chioma di Psiche e la trascinò via senza che ella osasse un solo gesto di resistenza. Fu condotta dentro, e Venere, appena la vide in suo potere, scoppiò in una sonora risata; poi, come suol fare una persona che è assai adirata, scosse il capo e, grattandosi l’orecchio destro, esclamò... (cap.48). 48 Dopo di ché, cacciò violentemente la mano nella chioma di Psiche e la trascinò via senza che ella osasse un solo gesto di resistenza. Fu condotta dentro, e Venere, appena la vide in suo potere, scoppiò in una sonora risata; poi, come suol fare una persona che è assai adirata, scosse il capo e, grattandosi l’orecchio destro, esclamò: "Finalmente ti sei degnata di venir a salutare tua suocera? O piuttosto sei venuta a visitare tuo marito, che per colpa tua giace ferito in gravi condizioni? Ma stai pur sicura! Voglio riceverti con quel riguardo che si deve a una buona nuora. Dove sono", chiese poi, "Affanno e Tristezza, mie ancelle?" Le chiamò dentro e gli consegnò la ragazza per sottoporla alle torture. Esse, obbedienti all’ordine della signora, oltre a percuotere la povera Psiche con le loro sferze, le infliggono ogni sorta di tormenti, dopodiché la riconducono al cospetto della regina. Allora Venere nuovamente ci fece sù una risata e disse: "Ecco qua! Costei cerca di muovermi a compassione e allettarmi, con la vista di quel suo ventre gonfio; vorrebbe evidentemente che io mi sentissi nonna felice di un illustre rampollo! C’è davvero da esser felici! Dovrò esser chiamata nonna, ora che sono proprio nel fiore dell’età, e il figlio d’una vile serva avrà fama d’esser nipote di Venere! Eppure, sciocca che sono a chiamare costui figlio! No, certo! Nozze tra persone di condizione diversa, e per giunta svoltesi in una fattoria isolata, senza testimoni, senza il consenso del padre, non possono considerarsi legittime. Perciò codesto figlio che ne nascerà sarà un bastardo, se pure ti permetteremo di portar a termine il parto." 49 Così detto, si scaglia su di lei, le fa a pezzi la veste, le strappa i capelli, la scuote per il capo e la percuote brutalmente. Poi si fa recare grano, orzo, miglio, semi di papavero, ceci, lenticchie e fave, mescola tutto alla rinfusa, ne fa un sol mucchio, e le dice: "Sei una serva, e anche assai brutta d’aspetto. Mi sembra dunque evidente che tu acquisti la benevolenza del tuoi amanti solo col mostrarti premurosa al loro servigio. Ebbene! Anch’io voglio mettere in prova la tua abilità. Fa’ la cernita di questa confusa massa di chicchi, separali e disponili in ordine, uno per uno, e prima di sera mostrami il lavoro finito." Così, dopo averle assegnato un mucchio tanto grande di grani, Venere se ne andò a un pranzo di nozze. Quanto a Psiche, non osò mettere le mani in quel caos inestricabile, ma rimase istupidita in silenzio e costernata per l’enormità del compito. Allora una formica piccolina, di quelle che abitano in campagna, ben conoscendo la grande difficoltà di quel lavoro, provò compassione per la compagna del possente Dio e maledisse la crudeltà della suocera. In gran fretta corse di qua e di là a chiamare a raccolta l’esercito tutto delle formiche dei dintorni: "Abbiate pietà, o agili figlie della terra, nostra madre comune, abbiate pietà d’una bella giovane, sposa d’Amore. Presto! Muovete velocemente in suo aiuto, ché ella si trova a rischio della vita." Accorrono a ondate, le une sulle altre, le turbe delle stirpi a sei zampe. Tutte a gara, grano per grano, operano la cernita dell’intero mucchio, separano e distribuiscono con ordine le varie specie di grani, poi si affrettano a sparire alla vista di tutti. 50 Iniziava la notte, quando Venere, ebbra di vino, olezzante di profumi e tutta inghirlandata di splendide rose, fece ritorno da un pranzo nuziale. Scopre la straordinaria diligenza di quel lavoro, ed esclama: "Briccona! Né tu né le tue mani hanno avuto parte in codesta opera. Essa è frutto di colui a cui piacesti proprio per la tua disgrazia e anche per la sua..." E, gettatole in terra un tozzo di pane, se ne andò a dormire. Frattanto Amore era tenuto chiuso sotto attenta sorveglianza in una camera isolata all’interno del palazzo, sia perché non aggravasse la sua ferita con la sua sfrenata intemperanza, sia per impedire che egli si riunisse alla donna delle sue brame. Così gli amanti, lontani e separati, benché sotto lo stesso tetto, passarono una notte assai triste. L’Aurora da poco era salita nel cocchio, quando Venere, fatta chiamare Psiche, le dice: "Vedi quel bosco e il fiume che lo bagna? Esso si stende per lungo tratto sulle rive del fiume, e le sue estreme propaggini arrivano sin quasi a coprire la vicina sorgente. In esso vanno pascolando in libertà delle pecore adorne d’una lana che luccica come l’oro schietto. Ingegnati pure come vuoi, ma io voglio che immediatamente tu mi rechi di là un fiocco di lana di quella preziosa pelliccia." 51 Psiche si mise volentieri in cammino, ma non con l’intenzione di obbedire all’ordine, bensì per gettarsi da una rupe nel fiume e trovar così requie alla propria disgrazia. Ma dal letto del fiume una verde canna, nutrice di soavi suoni, attinse una divina ispirazione al lieve crepitio d’una dolce brezza e diede questo profetico insegnamento: "Psiche, tu sei stata già tribolata da una quantità di sciagure: non contaminare dunque con una tristissima morte le mie sacre acque e non avviarti neppure, a quest’ora, incontro a quelle terribili pecore. Difatti, sinché la vampa del sole le mette in calore, esse sogliono divenir preda di una rabbia violenta e, con le corna aguzze, la fronte dura come la pietra e talora anche con morsi stillanti veleno, sogliono avventarsi a morte contro gli esseri umani. Ma quando, trascorso il mezzogiorno, il sole mitigherà il suo ardore e le greggi riposeranno nella calma che esala la brezza fluviale, allora potrai nasconderti sotto quell’altissimo platano che insieme a me beve allo stesso fiume. E appena le pecore, sbollita la loro rabbiosa eccitazione, si saranno ammansite, allora batti le ramaglie del bosco vicino e troverai dei bioccoli di aurea lana, che restano impigliati qua e là nell’intrico degli arbusti." 52 Così la sincera e pietosa canna insegnava all’afflitta Psiche il mezzo di salvarsi. Né Psiche se ne stette inerte con poca diligenza, senza ascoltare delle istruzioni di cui non si sarebbe certo pentita, ma le seguì alla lettera, sicché il furto risultò facile; e, riempitosi il grembo, riportò a Venere quella soffice lana fatta di biondo oro. Tuttavia neppure la seconda fatica, eseguita con tanto suo rischio, trovò nella sovrana il giusto riconoscimento, poiché questa aggrottò le sopracciglia e con un amaro riso disse: "Non mi sfugge che anche di questa impresa l’autrice non sei tu, ma un’altra persona. Io voglio, però, questa volta sperimentare sul serio se tu davvero possiedi un animo audace e un senno fuori dell’ordinarlo. Vedi la cima di quella montagna dirupata e l’altissima roccia ch’essa domina? Da quella cima scaturiscono le acque tenebrose d’una triste sorgente e, raccogliendosi nel seno d’una valle vicina, si riversano nelle paludi di Stige e alimentano la rauca corrente di Cocito. Là dove la sorgente scaturisce alla superficie dal seno della terra, attingi alla sua gelida onda e subito recami l’acqua in questa piccola urna." Così dicendo le consegna un vasetto tagliato nel cristallo e per giunta la minaccia di più aspri castighi. 53 Psiche, a rapidi passi, si affretta a dirigersi verso il giogo più alto del monte, sperando d’incontrare almeno lì la fine d’una vita così travagliata. Ma quando giunse nelle vicinanze di tale cima, scorse le enormi difficoltà di un’impresa che implicava la morte. Poiché la roccia era a dismisura alta, inaccessibile, tutta punte e scivolosa; inoltre, da una gola che s’internava nel sasso, gettava fuori una disgustosa corrente, e questa, appena spicciava dalla cavità sottostante, tosto sfuggiva giù per la china e, infilandosi al coperto per un angusto canale che aveva scavato nella pietra, ricadeva di nascosto in una valle vicina. Ecco che a destra e a sinistra, negli anfratti rocciosi, strisciano e tendono il lungo collo feroci draghi, e le pupille del loro occhi, condannati a perpetua veglia, fan sempre la guardia e sono eternamente aperte alla luce. Persino le acque, che avevano il dono della parola, cercavano di difendersi e si gridavano l’una dopo l’altra: "Va’ via!" "Che fai? Guarda bene!" "Che vuoi? Stai attenta!" "Fuggi!" "Tu corri a morte!" Psiche, vista l’impresa impossibile, divenne immobile come una pietra. Era bensì presente col corpo, ma i sensi erano assenti al punto ch’ella, del tutto schiacciata dalla mole di un’impresa pericolosa e senza via d’uscita, non aveva neppure l’estremo conforto del pianto.
E allora il regale uccello del sommo Giove, l’aquila rapace, comparve all’improvviso con l’ali spiegate (cap.54). 54 Ma all’acuta vista della pietosa Provvidenza non sfuggì l’afflizione di quell’anima innocente. E allora il regale uccello del sommo Giove, l’aquila rapace, comparve all’improvviso con le ali spiegate. Si ricordava dell’antica sua compiacenza, di quando, per impulso di Amore, aveva rapito per conto di Giove il frigio coppiere; e, recando in buon punto il proprio aiuto, volle onorare la potenza del Dio nei travagli della sua sposa. Scese giù dai sentieri di un’erta cima sepolta tra le nubi e, roteando dinanzi agli occhi della giovane, le disse: "Proprio tu, che per natura sei ingenua e non t’intendi affatto di tali cose, credi di poter rubare o comunque toccare una goccia sola di questa sorgente che è in egual misura sacra e terribile? Sai, almeno per udito dire, che anche gli Dei e persino Giove hanno paura di codesta acqua? Essa appartiene allo Stige: e lo sai che, come voi giurate per la volontà degli Dei, così gli Dei sono avvezzi a giurare sulla maestà dello Stige? Ma dammi quest’urna!" E senz’altro l’afferra strettamente e, battendo le ali gigantesche, si libra nell’aria. Poi dirigendo di qua e di là il suo volo tra le mascelle del draghi armate di denti crudeli e le loro trifide lingue, attinge alle acque, benché esse siano riluttanti e le intimino minacciose di andarsene, pena la vita. Ma l’aquila afferma che per ordine di Venere viene ad attingere, e che è al suo servizio, e così, grazie alla sua bugia, può avvicinarsi con una certa sicurezza. 55 Psiche accettò con gioia l’urna colma d’acqua, e in fretta la riportò a Venere. Ma neppure allora poté placare l’infuriata volontà della Dea. Venere la minaccia di sottoporla a più gravi e crudeli oltraggi e l’apostrofa in tal modo, con un sinistro sorriso di scherno: "Mi hai proprio l’aria di essere una gran maga, dotata di poteri davvero eccelsi, visto che hai prontamente eseguito i miei ordini. E che ordini! Ma, pupilla degli occhi miei, devi rendermi ancora un altro servigio. Prendi questo barattolo", e glielo consegnò, "e recati immediatamente sotto terra, nella funebre dimora dell’Orco. Quando sarai là, presenta il barattolo a Proserpina e dille: ‘Venere ti prega che tu le invii un po’ della tua bellezza, sia pure quel poco che basti per una breve sola giornata. Poiché la sua, prodigandosi nel curare il figlio suo ammalato, l’ha tutta consumata sino al lumicino.’ Ma non tornar troppo tardi, perché ne ho bisogno per spalmarmela sul viso, prima di recarmi all’assemblea degli Dei." 56 A questo punto, Psiche si accorse davvero d’essere all’estremo della sua fortuna: la maschera era stata gettata, e si voleva evidentemente spingerla a morte sicura. E come no? Nientemeno avrebbe dovuto coi suoi piedi recarsi di persona nel Tartaro, tra le ombre dei morti! Senza troppo esitare, si avviò verso una torre altissima con l’intenzione di buttarsi giù a capofitto: sperava così di poter scendere all’Averno per la via più corta e nel modo più facile. Ma la torre d’improvviso ruppe il silenzio e parlò: "Perché, infelice, vuoi ucciderti gettandoti nel vuoto? Perché innanzi tempo ti abbatti davanti al rischio che comporta quest’ultima fatica? È evidente che, una volta che l’anima tua sia divisa dal corpo, te ne andrai di certo subito nel profondo del Tartaro, ma di là in nessun modo potrai far ritorno. Dunque, dammi ascolto. 57 Non lungi di qui si trova Lacedemone, illustre città dell’Acaia. Di lì recati al promontorio Tenaro, che è nelle vicinanze della città, in una località nascosta e lontana da ogni strada. Qui si apre uno spiraglio che porta al regno di Dite, e attraverso le sue porte spalancate si intravede il malagevole cammino. Oltrepassa la soglia e affidati a quella via; seguendo quel budello, ben presto arriverai direttamente proprio alla reggia dell’Orco. Però non ti conviene andartene sin là, per quei luoghi tenebrosi, a mani vuote, ma reca in ciascuna di esse delle focacce d’orzo impastate di vino e di miele, e nella bocca, per giunta, due monetine. Quando avrai percorso una buona parte di quella strada che è riservata ai morti, incontrerai un asino zoppo carico di legna, con un asinaio simile a lui. Costui ti pregherà di raccattare qualche ramoscello caduto dalla soma, ma tu non rispondere, e passa oltre in silenzio. Subito dopo giungerai al fiume dei morti. Suo custode è Caronte, ed egli innanzi tutto esige il prezzo del passaggio, poi con la sua barca di cuoio rattoppato traghetta i viaggiatori sull’altra riva. Anche tra i morti, dunque, vive l’avidità del guadagno, poiché quel famoso Caronte, l’esattore di Dite, un Dio così rispettabile, non muove gratis un dito; ma il povero che muore deve comunque provvedersi del denaro del traghetto, poiché, se non si presenta con l’obolo in mano, non gli si dà il permesso di esalare l’ultimo respiro. A questo vecchio sordido darai come nolo una delle monete che porti, però fa’ in modo che egli la prenda dalla bocca tua con la sua stessa mano. Inoltre, quando tu solcherai la pigra corrente, un vecchio bell’e morto, alzando le mani putrefatte, ti supplicherà di raccoglierlo nella barca, ma tu non ti lasciar commuovere. Laggiù la pietà è interdetta dalle leggi. 58 Attraversa il fiume e, quando ti sarai inoltrata un poco più innanzi, delle vecchie tessitrici, intente a tesser la tela, ti domanderanno di dargli un piccolo colpo di mano; ma bada che la legge divina ti vieta di toccare la loro opera. IL fatto sta che tutti questi e molti altri tranelli sono frutto di Venere: essa vuole che tu ti lasci cadere dalle mani almeno una focaccia. E non credere che il perdere una focaccia d’orzo sia un danno da poco; se tu ne perdessi una, non potresti assolutamente più vedere la luce del sole. Difatti, un cane gigantesco, fornito di tre teste enormi, orribile e spaventoso a vedersi, emette dalle sue fauci dei latrati che scoppiano come tuoni, e riempie di terrore i morti; è questo un vano terrore, perché egli ai morti non può più causare alcun male, ma così egli fa la guardia di continuo dinanzi alla soglia e al fosco atrio di Proserpina, e custodisce la vuota dimora di Dite. Ma basta che tu gli getti una focaccia sola, e diverrà subito mansueto; allora potrai facilmente passare ed inoltrarti direttamente sino al cospetto di Proserpina. Essa ti riceverà con cortese benignità, ti inviterà a sederti comodamente e ti offrirà un’abbondante colazione. Ma tu, invece, siediti per terra, fatti portare un tozzo di pane scadente e mangiatelo, poi informala del motivo della tua venuta e prendi ciò che ti verrà presentato. Nel ritorno, per liberarti da quel cane feroce, gettagli la focaccia che ti resta, e dai all’avido nocchiero la moneta che hai in serbo. Una volta varcato il fiume, ricalca le orme del viaggio d’andata, e tornerai a veder il cielo con il corteo delle sue stelle. Ma in special modo ti raccomando di far attenzione a una cosa: non aprire, non guardar dentro la scatola che porti, e comunque non permetterti eccessiva curiosità riguardo al tesoro di divina bellezza che vi è nascosto."
Qui non accetta la soffice poltrona e il ricco pasto che l’ospitale Dea le offre, ma si siede in terra ai suoi piedi e, contentandosi di pane scadente, espone l’ambasciata di Venere (cap.59). 59 Così la torre, dotata della preveggenza, adempì alla sua funzione d’oracolo. E Psiche non indugiò, ma si diresse verso il Tenaro. Si fornisce, nel modo prescritto, delle monete e delle focacce, e corre giù per l’infernale corridoio. Senza parlare, passa innanzi all’asinaio infermo, dà al pilota il prezzo del passaggio, non si cura del morto che nuota alla superficie e delle sue suppliche, sdegna le insidiose preghiere delle tessitrici, con l’offerta d’una focaccia addormenta il cane rabbioso ed orrendo, ed infine penetra nella dimora di Proserpina. Qui non accetta la soffice poltrona e il ricco pasto che l’ospitale Dea le offre, ma si siede in terra ai suoi piedi e, contentandosi di pane scadente, espone l’ambasciata di Venere. Subito la Dea, in disparte, le riempie la scatoletta e la chiude; Psiche la prende, con l’astuta offerta della seconda focaccia sbarra la bocca al cane e ai suoi latrati, offre al nocchiero la moneta che le resta, e ritorna sù dall’Inferno molto più arzilla che all’andata. Nel rivedere la fulgente luce di quassù, fa atto di adorazione, poi, sebbene abbia fretta di portar a termine il compito suo, si lascia invadere da un’irragionevole curiosità: "Ecco qua!", esclama. "Che sciocca sono, a portare un dono di divina bellezza senza gustarne neppure un pochetto. Almeno così potrò piacere al mio amante!" 60 E così detto, apre la scatoletta. Ma dentro non c’era niente, e di bellezza neppure l’ombra. V’era solo un sonno infernale, un sonno davvero degno dello Stige, che, appena libero del coperchio, la assalì: una densa nube gravida di sonno le avvolse le membra e si impadronì di lei, e Psiche cadde a terra proprio sulla via, nel luogo stesso in cui aveva posato il piede. E così la giovane giacque immobile, in tutto simile a un cadavere sepolto nel sonno della morte. Frattanto Amore era convalescente e la ferita rimarginata. Egli, non riuscendo più a sopportare la continua mancanza della sua Psiche, fugge via per una finestra che si apriva assai in alto nella camera in cui era rinchiuso. Le sue ali avevano ripreso vigore durante il tempo del suo riposo, sicché egli, volando con la massima rapidità, accorse presso la sua Psiche. Premurosamente le deterge il sonno e lo richiude nella scatoletta in cui prima era contenuto, poi desta Psiche, pungendola, senza farle alcun male, con una delle sue saette, e le dice: "Ecco, poverina! Anche questa volta eri caduta vittima della tua curiosità. Ad ogni modo, affrettati a condurre a termine l’incarico che ti ha affidato mia madre. Il resto me lo vedrò da me." Così parlò l’amante, e si librò a volo sulle sue ali; e Psiche si affrettò a riportare a Venere il dono di Proserpina. 61 Ma Amore, consunto dall’eccesso del suo desiderio, era triste in volto e assai preoccupato per l’improvvisa austerità di sua madre. Ritorna perciò alle sue vecchie abitudini, e con rapido volo penetra sino al punto più alto del cielo e lì si getta supplichevole ai piedi del grande Giove, per difendere davanti a lui la sua causa. Allora Giove lo prende per la gota e, attirandolo con la mano accosto al volto suo, lo bacia e così gli parla: "Signor figlio, è ben vero che tu non mi hai mai reso quell’omaggio che gli Dei hanno decretato di concedermi. Anzi, tu più volte hai ferito con i tuoi colpi questo mio cuore che regola le leggi della Natura e i moti degli astri, e di frequente lo hai avvilito al contatto di avventure e amori terreni; inoltre, contravvenendo alle leggi, e precisamente alle disposizioni Giulie, e in barba alla pubblica morale, col mescolarmi a vergognosi adulteri, hai leso il mio onore e la mia reputazione, trasformando la maestà del volto mio nello spregevole aspetto d’un serpente, di una fiamma, d’una belva, d’un uccello e di una bestia da gregge. Eppure, considerando che tu sei cresciuto proprio tra le mie braccia, io farò tutto ciò che desideri. Bada però di metter in guardia coloro che eventualmente volessero imitarti; e se poi ora sulla terra esiste qualche ragazza davvero bellina, ricordati che tu, in cambio del beneficio che ti rendo, sei in obbligo di offrirmela." 62 Così parlò Giove, e diede ordine a Mercurio di convocare immediatamente in assemblea plenaria gli Dei e di render noto che era comminata una multa di diecimila sesterzi per chi avesse disertato l’adunanza. In seguito a questa minaccia, subito si riempì il teatro delle celesti riunioni, e Giove, che dal trono elevato in cui sedeva dominava gli astanti, tenne questo discorso: "O Dei iscritti nell’albo delle Muse, di certo tutti sapete che codesto giovane io l’ho allevato con le mie mani. Nella sua prima giovinezza ho creduto bene di dover mettere un freno ai suoi impetuosi ardori: basta già che la gente chiacchieri, e che adulteri e scandali di tutti i generi ogni giorno compromettano la sua reputazione. Ma occorre ora levargli ogni pretesto di mal fare; occorre frenare la sua giovanile esuberanza con il legame del matrimonio. Egli si è scelto una ragazza e le ha tolto la purezza... Dunque se la tenga, la possegga, abbracci la sua Psiche e goda eternamente del suo amore." E, rivoltosi a Venere, esclama: "E tu, figlia mia, non affliggerti e non temere che un matrimonio con una donna mortale possa recar danno al rango del tuo illustre casato. Io farò immediatamente in modo che queste nozze non avvengano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile." E subito dà ordine a Mercurio di andare a prendere Psiche e di condurla in cielo. Appena ella giunse, le tese un bicchiere colmo di ambrosia e le disse: "Prendi, Psiche, e sii immortale. Mai Amore ripudierà il vincolo che a te lo unisce. Da oggi voi siete uniti in matrimonio per l’eternità." 63 Subito viene servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo, stringendo al suo petto Psiche, era sdraiato sul letto d’onore. Parimenti lo erano Giove e Giunone, e poi in ordine tutti gli altri Dei. A Giove la coppa del nettare, che è il vino degli Dei, la offriva il suo coppiere particolare, quel ragazzetto di campagna; Bacco serviva gli altri Dei; Vulcano cuoceva il pranzo; le Ore abbellivano ogni angolo con rose e ogni sorta di fiori; le Grazie spargevano profumi, e le Muse facevano echeggiare la loro voce armoniosa. Poi Apollo cantò, accompagnandosi sulla cetra. Venere si esibì in una leggiadra danza, seguendo il ritmo d’una musica soave, e, nell’orchestra che ella si era preparata, le Muse cantavano in coro, un Satiro suonava il flauto, un Panisco soffiava nella sua zampogna. Così, secondo il rito prescritto, Psiche sposò Amore; e al termine giusto nacque loro una figlia, che noi chiamiamo Voluttà. * *
C’era una volta un povero contadino, che una sera stava seduto presso al focolare e attizzava il fuoco, mentre sua moglie filava. Disse: "Com’è triste non aver bambini! È così silenziosa casa nostra! e dagli altri c’è tanto baccano e tanta allegria!" "Sì," rispose la donna sospirando, "anche se fosse uno solo, sia pur piccolissimo, non più grosso di un pollice, sarei già contenta; e gli vorremmo un gran bene". Ora avvenne che la donna cominciò a star male, e dopo sette mesi diede alla luce un bambino, perfettamente formato, ma non più alto di un pollice. Dissero: "È quale ce lo siamo augurato e sarà il nostro caro figlioletto" e, dalla statura, lo chiamarono Pollicino. Non gli lesinarono il cibo, ma il bimbo non crebbe; rimase quel che era stato fin dal primo momento; ma aveva uno sguardo intelligente e ben presto si dimostrò un cosino svelto e giudizioso, che riusciva in tutto quel che intraprendeva. Un giorno il contadino si preparava ad andar nel bosco a tagliar legna; e mormorò: "Se ci fosse qualcuno che venisse a prendermi col carro!" "O babbo," esclamò Pollicino, "verrò io! Fidatevi; arriverò nel bosco a tempo debito." L’uomo si mise a ridere e disse: "Com’è possibile? Sei troppo piccolo per guidare il cavallo con le redini." "Non fa niente, babbo; se la mamma vuol attaccarlo, io mi metto nell’orecchio del cavallo e gli dico dove deve andare." "Be’," rispose il contadino, - proviamo, per una volta." Quando giunse l’ora, la madre attaccò e mise Pollicino nell’orecchio del cavallo, e il piccolo gli gridava dove doveva andare: "Uh e oh! giò e arrì!" E il cavallo si dirigeva benissimo, come se ci fosse stato un cocchiere, e il carro se n’andava dritto verso il bosco. Ed ecco, proprio a una svolta, mentre il piccino gridava perché la bestia piegasse a sinistra, passaron di lì due forestieri. "Gran Dio!" disse l’uno. "Che mai è questo? C’è un carro, e guida il cavallo un carrettiere invisibile." "C’è qualcosa che non va," disse l’altro, "seguiamo il carro e vediamo dove si ferma." Ma il carro s’addentrò nel bosco, proprio dove spaccavan la legna. Quando Pollicino vide suo padre, gli gridò: "Eccomi, babbo, son qui col carro; tirami giù." Il padre prese il cavallo con la sinistra e con la destra tirò giù dall’orecchio il suo figlioletto, che tutto allegro si mise a sedere su una festuca. Quando i due forestieri videro Pollicino, ammutolirono dallo stupore. L’uno tirò l’altro in disparte e gli disse: "Senti, quel cosino potrebb’essere la nostra fortuna, se lo faremo vedere, a pagamento, in una gran città: compriamolo!" Si avvicinarono al contadino e dissero: "Vendeteci l’omino, lo tratteremo bene." "No," rispose il padre, "è la radice del mio cuore, non lo venderei per tutto l’oro del mondo." Ma Pollicino, sentendo del negozio, gli si era arrampicato su per le pieghe del vestito; si mise sulla sua spalla, e gli sussurrò all’orecchio: "Babbo, vendimi pure, tanto tornerò." Allora il padre lo diede a questi due per una bella moneta d’oro. "Dove vuoi metterti?" gli dissero. "Ah, mettetemi sulla tesa del cappello: così posso andar su e giù e guardarmi attorno senza rischio di cadere." L’accontentarono, e quando Pollicino ebbe preso congedo dal padre, se ne andarono con lui. Camminarono fino al crepuscolo; allora il piccino disse: "Tiratemi giù, ne ho bisogno." "Rimani pur lì!" disse l’uomo che lo portava sulla testa. "Non m’importa; anche gli uccelli ogni tanto lascian cadere qualcosa." "No," disse Pollicino. "So quel che si conviene; tiratemi giù, presto!" L’uomo si tolse il cappello e mise il piccino su un campo, lungo la strada; e quello s’addentrò un poco fra le zolle, strisciando e saltellando; poi, d’un tratto, scivolò in una tana di sorcio, che aveva appunto cercata. "Buona sera, signori! Andatevene pure senza di me!" gridò loro, beffeggiandoli. Quelli corsero e frugarono coi bastoni nella tana, ma era fatica persa: Pollicino strisciava sempre più giù, e siccome fu ben presto notte fonda, dovettero andarsene con la rabbia in corpo e con la borsa vuota. Quando Pollicino s’accorse che se n’erano andati, sbucò di nuovo fuori dalla galleria sotterranea. "È pericoloso camminar per i campi al buio," disse. "È così facile rompersi il collo!" Per fortuna s’imbattè in un guscio di lumaca. "Grazie al cielo," pensò, "posso pernottare al sicuro," e ci entrò. Poco dopo, mentre stava per addormentarsi, sentì passare due uomini, uno dei quali diceva: "Come faremo a pigliarci l’oro e l’argento del ricco parroco?" "Potrei dirtelo io!" gridò a un tratto Pollicino. "Cos’è stato?" esclamò atterrito uno dei ladri. "Ho sentito parlare." Si fermarono in ascolto e Pollicino tornò a dire: "Portatemi con voi, vi aiuterò." "Dove sei?" "Cercate in terra e ascoltate donde viene la voce!" rispose. Finalmente i ladri lo trovarono e lo sollevarono. "Tu aiutarci, vermiciattolo!" dissero. "Guardate," egli rispose, "entro dall’inferriata nella camera del parroco e vi sporgo quel che volete." "Be’," dissero, "vedremo cosa sai fare." Quando arrivarono alla parrocchia, Pollicino s’insinuò nella camera, ma gridò subito a squarciagola: "Volete tutto quel che c’è qui dentro?" I ladri dissero, spaventati: "Parla piano, non svegliar nessuno." Ma Pollicino finse di non aver capito e gridò ancora: "Cosa volete? Volete tutto quel che c’è?" L’udì la cuoca, che dormiva nella stanza attigua, e si rizzò a sedere sul letto, in ascolto. Ma dallo spavento i ladri eran corsi indietro un tratto; finalmente ripresero coraggio e pensarono: "Quel cosettino vuol canzonarci." Tornarono e gli susurrarono: "Adesso fa’ sul serio e dacci qualcosa." E di nuovo Pollicino gridò a squarciagola: "Vi darò tutto, porgete soltanto le mani!" La donna, che stava in ascolto, l’udi distintamente, saltò giù dal letto ed entrò inciampicando nella stanza. I ladri corsero via a precipizio come se avessero il diavolo alle calcagna; ma la donna non riuscì a veder nulla e andò ad accendere un lume. Quando ella tornò, Pollicino, non visto, si cacciò nel fienile: e la donna, dopo aver cercato inutilmente in tutti gli angoli, alla fine andò di nuovo a letto, credendo di aver sognato a occhi aperti. Pollicino si era arrampicato fra gli steli del fieno e aveva trovato un bel posto per dormire: voleva riposar fino a giorno, e poi tornare dai suoi genitori. Ma lo aspettavano ben altre esperienze! Sì, non mancan triboli a questo mondo! All’alba la serva si alzò per dar da mangiare alle bestie. Per prima cosa andò nel fienile, dove prese una bracciata di fieno, proprio quello in cui dormiva il povero Pollicino. Ma egli dormiva cosi sodo che non se ne accorse e si svegliò soltanto in bocca alla mucca, che se l’era preso col fieno. "Dio mio!" gridò. "Come ho fatto a cader nella gualchiera!" Ma vide subito dove si trovava. E che attenzione ci volle per non esser stritolato fra i denti! Ma poi dovette scivolar nello stomaco. "Nello stanzino han dimenticato le finestre," disse, "e non ci entra il sole, né ci portano un lume." L’appartamento non gli piaceva affatto e, quel che era peggio, dalla porta continuava a entrare altro fieno e lo spazio si restringeva sempre più. Alla fine, spaventato, gridò con quanto fiato aveva in gola: "Non portatemi più fieno! non portatemi più fieno!" La serva stava mungendo e quando senti parlare, senza veder nessuno, ed era la stessa voce udita durante la notte, si spaventò tanto che sdrucciolò dallo sgabello e versò il latte. Si precipitò dal padrone, gridando: "Dio mio, reverendo, la mucca ha parlato!" "Sei impazzita!" rispose il parroco; tuttavia andò in per sona nella stalla, per vedere che cosa ci fosse. Ma ci aveva appena messo piede, che Pollicino gridò di nuovo: "Non portatemi più fieno! non portatemi più fieno!" Allora anche il parroco si spaventò, pensando che uno spirito maligno fosse entrato nella mucca, e la fece uccidere. Fu macellata, ma lo stomaco, con Pollicino dentro, finì nel letamaio. Pollicino avanzava a gran fatica, pure riuscì a farsi strada; ma proprio quando stava per metter fuori la testa, sopravvenne un’altra sciagura. Arrivò di corsa un lupo affamato, che ingoiò tutto lo stomaco in un boccone. Pollicino non si perse d’animo. "Forse il lupo mi darà retta," pensò, e gli gridò dalla pancia: "Caro lupo, io so dove puoi trovare un cibo squisito..." "Dove?" domandò il lupo. "In una casa cosi e così: devi introdurti nel doccione e troverai focaccia, lardo e salsiccia a volontà." E gli descrisse minutamente la casa di suo padre. Il lupo non se lo fece dire due volte: durante la notte entrò nella dispensa, passando a forza per il doccione, e mangiò a sua voglia. Quando fu sazio, volle andarsene, ma si era così gonfiato che non potè più uscire per la stessa strada. Proprio su questo aveva contato Pollicino, che si mise a fare un gran baccano nel corpo del lupo, strepitando e strillando più che poteva. "Vuoi star zitto?" disse il lupo. "Svegli i padroni." "Come!" rispose il piccino. "Tu ti sei rimpinzato, e anch’io voglio spassarmela." E ricominciò a gridare con tutte le sue forze. Finalmente suo padre e sua madre si svegliarono, corsero alla dispensa e guardarono dalla fessura. Quando videro che c’era un lupo, si precipitarono, l’uno a prender l’ascia, l’altra la falce. "Stammi dietro," disse l’uomo, mentre entravano nella stanza. "Se non l’uccido al primo colpo, dagli addosso e fallo a pezzi." Udendo la voce di suo padre, Pollicino gridò: "Caro babbo, son qui, son nella pancia del lupo." Il padre disse, pieno di gioia: "Dio sia lodato, abbiam ritrovato il nostro caro bambino!" E disse alla donna di metter via la falce, per non fargli male. Levò il braccio e colpì il lupo sulla testa, facendolo crollare a terra, morto; poi cercarono un coltello e un paio di forbici, gli tagliarono la pancia e tirarono fuori il piccino. "Ah!" disse il padre. "Quale cruccio abbiamo avuto per te!" "Sì, babbo, ho girato il mondo in lungo e in largo! Grazie a Dio, respiro di nuovo aria buona!" "Ma dove sei stato?" "Ah, babbo, sono stato in una tana di sorcio, nel ventre di una mucca e nella pancia di un lupo: adesso rimango con voi." "E non ti vendiamo più, per tutto l’oro del mondo!" dissero i genitori, baciando e abbracciando il loro caro Pollicino. Gli diedero da mangiare e da bere e gli fecero fare dei vestiti nuovi, perché i suoi si erano sciupati in viaggio. * *
Un mercante aveva tre figlie e un giorno dovette partire per affari. Disse allora alle sue ragazze : "Ditemi che cosa volete come regalo, prima che parta." Le figliole chiesero dell’oro, dell’argento e della seta da filare. Il padre comprò oro, argento e seta e raccomandò loro di comportarsi bene durante la sua assenza. Dopo pranzo si misero al lavoro: la maggiore prese a filare l’oro, la seconda l’argento, la più piccola, che si chiamava Giricoccola, la seta. Tutta la gente che passava davanti alla finestra ammirava le tre belle fanciulle e soprattutto Giricoccola, che era la più carina. Le sorelle lo sapevano e in segreto la invidiavano. Venne la sera e andarono a dormire.
Nel cielo anche la luna sbirciò dalla finestra e disse: "Quella che fila l’argento è bella, Quella dell’oro è ancor più bella, Ma quella della seta le vince tutte, Buona notte, belle e brutte!" Le due maggiori non dormivano e sentirono tutto. Diventarono gialle dalla rabbia e decisero che si sarebbero scambiate i fili. Perciò il giorno dopo diedero l’argento a Giricoccola, la maggiore si tenne l’oro e la seconda la seta. La notte, di nuovo, la Luna passò davanti alla loro finestra e disse: "Quella della seta è bella, Quella dell’oro è ancor più bella, Ma quella dell’argento le vince tutte, Buona notte, belle e brutte!" Allora il giorno successivo cominciarono a fare così tanti sgarbi alla sorellina, che ci voleva la pazienza di un santo per sopportarli. Scambiarono nuovamente i fili e a Giricoccola toccò il filo d’oro: s’illudevano, così, di farsi beffe della Luna. Ma la Luna, guardando le tre fanciulle, disse: "Quella che fila l’argento è bella, Quella della seta è ancor più bella, Ma quella dell’oro le vince tutte, Buona notte, belle e brutte!" Le sorelle, non sopportando più di vedersi davanti Giricoccola, la rinchiusero nel granaio con i sacchi di farina. La poverina piangeva e piangeva. Ma la notte la Luna, con un suo luminoso raggio, aprì la finestrella del granaio e prese la fanciulla per mano, portandola fra le stelle. Il giorno dopo le due sorelle filavano sole e solette, davanti alla finestra. La notte, la Luna si affacciò alla loro cameretta e disse: "Quella che fila l’argento è bella, Quella dell’oro è ancor più bella, Ma quella a casa mia le vince tutte, Buona notte, belle e brutte!" Le sorelle, in camicia da notte, corsero nel granaio e si accorsero della scomparsa di Giricoccola. Mandarono a chiamare un’astrologa e le chiesero consiglio su come disfarsi per sempre della sorella. L’astrologa disse: "Lasciate fare a me!" e si vestì da zingarella. Così conciata, andò sotto la casa della Luna, urlando: "Vendo spilloni! Bellissimi spilloni per poche monete!"
Giricoccola si affacciò tutta incuriosita e fece entrare la zingara. Che premurosa le disse: "Tieni lo specchio, te li metto io nei capelli!". E così dicendo glieli cacciò in testa e Giricoccola diventò una statua, rigida e dura come il sasso. La luna tornò a casa dopo il suo giro quotidiano e fu sorpresa di trovarla in quello stato: "Te l’avevo detto di stare attenta e di non aprire a nessuno!..." la sgridò. "Mi hai disubbidito!" Ma provava tanta tenerezza, per quella fanciulla, che la perdonò. Sfilò lo spillone e Giricoccola ritornò la fanciulla allegra e simpatica di sempre. E promise di stare attenta. Dopo qualche tempo, le sorelle consultarono ancora l’astrologa per essere sicure che Giriccocola fosse proprio morta. L’astrologa guardò nella sua sfera di cristallo e vide... Giricoccola felice e contenta in casa della luna! Le sorelle sembravano impazzite dal dispetto: ordinarono alla maga di uccidere quella smorfiosa immediatamente! Allora la maga si travestì da mendicante e andò di nuovo sotto le finestre di Giricoccola a vendere delle bellissime camicette ricamate. E Giricoccola fece appena in tempo a indossare quella che le piaceva tanto, che ridivenne statua. La Luna perse la pazienza: non solo la lasciò statua, ma la vendette per pochi soldi a uno spazzacamino, che la legò sul suo carretto e se ne andò di paese in città. Un giorno il figlio di un Re, che vide quella splendida statua, fece di tutto per comperarla. Ne era rimasto così affascinato, che dopo che l’ebbe pagata a peso d’oro se la portò nel suo palazzo e passava la ore a guardarla, estasiato. Quando usciva, chiudeva a chiave la porta. Una sera, però, le sue sorelle entrarono con una chiave falsa e sfilarono quella splendida camicia alla statua per farsene una identica. In quel medesimo istante la fanciulla ridivennne di carne e sangue, cominciò a muovere gli occhi e la testa e racconto tutta la sua penosa storia. Quando il figlio del Re ritornò e non trovò più la preziosa statua, fu quasi preso dalla disperazione, ma poi vide le sorelle e Giricoccola conversare amabilmente e per la prima volta ascoltò deliziato la voce della fanciulla. La chiese in sposa, e di lì a una settimana si celebrarono delle nozze meravigliose. Anche le sorelle di Giricoccola lo seppero, curiosando nella sfera, e ci rimasero secche stecchite dalla rabbia. * * Schiaccianoci e il Re dei Topi di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822)
La sera di Natale
Durante tutta la giornata del 24 dicembre, i bimbi del consigliere sanitario Stahlbaum non avevano assolutamente avuto il permesso di entrare nella camera di mezzo e meno che mai nel salotto attiguo. Fritz e Maria sedevano rannicchiati in un angolo della cameretta sul retro dell’alloggio e già incominciavano a sentirsi piuttosto impauriti perché stava facendosi buio e nessuno era ancora venuto a portare il lume come tutte le altre sere. Fritz confidò sottovoce, in gran segreto, alla sorellina (... sette anni appena compiuti...) che già fin dal mattino presto aveva sentito dei rumori, dei fruscii, dei colpetti nelle camere chiuse; e poco prima un omino scuro era sgattaiolato in corridoio con uno scatolone sotto il braccio... Non poteva trattarsi (Fritz lo sapeva bene) che del padrino Drosselmeier. Allora Maria batte le manine esclamando, tutta felice: "Ah!... Chissà che cosa ci avrà fatto di bello il padrino Drosselmeier!..." Il signor Drosselmeier, consigliere alla corte d’appello, non poteva precisamente dirsi un bell’uomo: piccolo, magro, con molte rughe sul viso e al posto dell’occhio destro un grosso cerotto nero; non aveva capelli ma portava, invece, una bellissima parrucca bianca, una parrucca, pensate, di vetro: un vero capolavoro. Non per nulla il padrino era un uomo molto ingegnoso; si intendeva anche di orologi e ne fabbricava perfino qualcuno. Perciò quando una delle belle pendole di casa Stahlbaum era malata e non poteva più cantare, ecco, arrivava il padrino Drosselmeier: si toglieva la parrucca di vetro, la giacchetta gialla, si infilava un grembiale azzurro e incominciava a stuzzicare l’interno dell’orologio con i suoi ferretti aguzzi, ma senza fargli male, al contrario, perché l’orologio tornava a vivere, riprendeva a ronzare, a fare tic-tac, a cantare allegramente. E tutti erano contentissimi. Drosselmeier non veniva mai senza avere in tasca qualche bella cosina per i bambini: un ometto che girava gli occhi e faceva la riverenza (... a vederlo c’era da morir dal ridere!...), una scatoletta da cui saltava fuori un uccellino o qualcos’altro del genere. Ma per Natale fabbricava sempre certi giocattoli che erano veri capolavori di meccanica e perciò, subito dopo la distribuzione dei doni sotto l’albero, venivano presi in consegna e custoditi gelosamente dai genitori.
Fritz e Maria incominciavano a sentirsi piuttosto impauriti, perché stava facendosi buio e nessuno era ancora venuto a portare il lume come tutte le altre sere.
"Ah, chissà che cosa ci avrà fatto di bello il padrino Drosselmeier!..." tornò a sospirare Maria. Stavolta, decise Fritz, non poteva essere altro che una fortezza, con tanti bel soldatini di ogni genere che andavano avanti e indietro e facevano le esercitazioni... Poi sarebbero arrivati i nemici per conquistare la fortezza, e i soldati, dal di dentro, avrebbero sparato coraggiosamente con i cannoni... E che spari, che colpi!... "No, no," lo interruppe Maria. "Il padrino Drosselmeier mi ha raccontato di un bel giardino con un grande lago e dei magnifici cigni con collari d’oro che nuotano in tondo cantando delle belle canzoncine... Poi una ragazzina si avvicina al lago, chiama i cigni e gli dà da mangiare del marzapane dolce..." "I cigni non mangiano il marzapane," corresse Fritz piuttosto brusco, "e poi il padrino Drosselmeier non può costruire un giardino col lago e tutto... Per dire la verità, dei suoi giocattoli non ce ne sono rimasti molti: ce li prendono subito!... Preferisco ancora quelli che ci regalano papà e mamma, almeno possiamo tenerceli e farne quello che vogliamo!" I bambini ricominciarono a far congetture sui probabili doni che avrebbero ricevuto fra poco. Maria si lagnò che madamigella Geltrude (la sua bambola grande), era molto cambiata: non sapeva più stare in piedi, quella sventata, cadeva tutti i momenti e ogni volta le restavano certi brutti segni sulla faccia... A tenerle puliti i vestitini non c’era nemmeno da pensarci. L’aveva sgridata, e come, ma non era servito a niente!... Però lei aveva detto alla mamma che sarebbe stata tanto contenta di ricevere un parasolino per Geltrude... e la mamma aveva sorriso... Fritz disse invece che alla sua scuderia mancava proprio un buon sauro... e le sue truppe difettavano totalmente di cavalleria... Questo, il papà lo sapeva bene... A loro volta, i bimbi sapevano benissimo che i genitori avevano comprato ogni sorta di bel regali ed ora li esporrebbero sotto l’albero; e un’altra cosa era certa: quei doni li aveva guardati il buon Gesù Bambino, e dentro c’era la luce dei suoi santi occhi soavi... Ecco perché i regali di Natale parevano toccati da una mano benedetta e davano gioia come nessun altro. Questo gliel’aveva rammentato la loro sorella maggiore, Luisa; Gesù Bambino, aveva soggiunto, dava sempre ai bimbi, per mano dei genitori, le cose che facevano loro più piacere. Le conosceva meglio di loro stessi. Perciò i bambini non dovevano (appunto come Fritz e Maria) parlare continuamente dei doni di Natale, desiderare questo o quell’altro, ma aspettare zitti e buoni quello che sarebbe venuto. La piccola Maria si fece tutta pensierosa, ma Fritz continuò a borbottare per conto suo: "Però un bel sauro e una scatola di ussari mi piacerebbero proprio!... Era ormai buio pesto. Fritz e Maria, stretti stretti l’uno all’altra, non osavano più dire una parola. Pareva loro di sentirsi intorno dei lievi battiti d’ala e una musica sommessa, lontanissima, meravigliosa. Un raggio di luce bianca passò sulla parete: era il Bambino Gesù che stava andando da altri bambini fortunati, sopra una nuvola luminosa. Ed ecco un suono argentino: diin, diin diin!... Le porte si spalancarono e dalla camera grande scaturì un tale bagliore che i bimbi, dopo un "Ah... ah!..." di meraviglia, si fermarono impietriti sulla soglia, senza osare varcarla. Ma vennero il papà e la mamma, li presero per mano e dissero: "Venite, venite pure, cari bambini! Venite a vedere che cosa vi ha portato il buon Gesù!"
I doni
Ora mi rivolgo direttamente a te, lettore o ascoltatore mio benevolo (Federico, Teodoro, Ernesto, o comunque tu ti chiami) e ti prego di rievocare agli occhi della memoria l’ultimo tavolo natalizio stracarico di bel doni multicolori di cui tu riesca a ricordarti, così potrai immaginare perfettamente l’attonita immobilità, gli occhi scintillanti dei due bimbi di fronte a quello spettacolo. Solo dopo qualche istante Maria trovò fiato per esclamare, quasi in un profondo sospiro : "Ah... che bello... che bello !..." e Fritz fece un paio di capriole veramente riuscite. Dovevano essere stati buoni davvero durante l’anno, quei due bambini, perché mai avevano visto tanti e così stupendi doni sul loro tavolo natalizio. Al centro della camera, il grande abete era carico di mele d’oro e d’argento; mandorlati, confetti d’ogni colore e tutte le possibili ghiottonerie spuntavano da ogni rametto come gemme e fiori. Ma la cosa più bella erano i cento lumini scintillanti come stelle fra i rami scuri, perché così, illuminato di dentro e di fuori, l’albero sembrava invitare affettuosamente i bambini a raccogliere i suoi fiori, i suoi frutti. Anche intorno all’albero tutto era scintillio e colore: chi potrebbe descrivere l’infinità di cose belle poste lì accanto?... Maria vide le bamboline più graziose e ogni sorta di minuscole suppellettili fatte alla perfezione e (meraviglia delle meraviglie!) un vestitino di seta con nastri colorati appeso a un trespolo, in modo da poter essere osservato da tutte le parti; e Maria lo mirò e lo rimirò infatti da tutte le parti, ripetendo estasiata: "Ah... che bel vestitino... caro il mio vestitino!... E potrò mettermelo per davvero!..." Frattanto Fritz aveva già fatto tre o quattro giri intorno al tavolo, trottando e galoppando, per provare il suo nuovo sauro, che effettivamente aveva trovato legato per la briglia al tavolo stesso. Era proprio una bestia selvaggia, dichiarò scendendo di sella, ma non importava nulla: ci avrebbe pensato lui a domarlo! Poi subito andò a ispezionare i nuovi squadroni di ussari, nelle sgargianti uniformi rosso e oro, con armi d’argento, e montati su cavalli d’un così abbagliante candore da parer quasi d’argento purissimo anch’essi. Calmatisi un tantino, i bimbi passarono ai libri illustrati già aperti, in modo da mettere in mostra una profusione di fiori bellissimi, omini colorati, bimbi coi loro giochi, dipinti con tanta naturalezza da sembrare vivi e parlanti. Proprio così: i bambini stavano per mettersi a guardare quei libri meravigliosi, quando si udì una seconda scampanellata: Fritz e Maria sapevano che ora il padrino Drosselmeier avrebbe presentato il suo dono e corsero al tavolo addossato alla parete. Venne tolto in fretta il paravento che lo mascherava e... cosa videro i bimbi!... Su un verde prato fiorito sorgeva un mirabile castello con torri dorate e molte finestre di cristallo. Al suono di un carillon porte e finestre si aprirono e si videro passeggiare per le sale piccoli ma graziosissimi cavalieri e damine con cappelli piumati e lunghi abiti a strascico. Nella sala centrale, che pareva in fiamme tanti erano i lumini accesi nei lampadari a ghirlanda pendenti dal soffitto, danzava a tempo di musica una schiera di bimbi in giubbetti e sottanine corte. Un signore dal manto verde smeraldo si affacciava continuamente alla finestra, faceva un cenno di saluto e poi spariva; e il padrino Drosselmeier in persona (alto però appena come il pollice del papà...) si faceva sulla porta del castello e subito rientrava. Fritz, dopo aver contemplato a lungo, con i gomiti puntati sul tavolo, il bel castello, le figurette deambulanti e danzanti, esclamò: "Padrino Drosselmeier, fammi entrare nel tuo castello!..." Il consigliere gli spiegò che non era assolutamente possibile. E aveva ragione: era assurdo da parte di Fritz pretendere di entrare in un castello alto neppure quanto lui, torri comprese. Fritz se ne rese conto. Dopo un po’, vedendo che i cavalieri e le dame passeggiavano, i bimbi danzavano sempre allo stesso modo, che il signore dal manto verde si affacciava sempre alla stessa finestra e il padrino Drosselmeier appariva sempre sulla medesima porta, Fritz si spazientì: "Padrino Drosselmeier," disse, "adesso esci un po’ da quell’altra porta, là dietro..." "Non è possibile, caro Fritz," rispose il consigliere d’appello. "Bene. Allora quell’uomo vestito di verde, che si affaccia tutti i momenti alla finestra, fallo passeggiare un po’ insieme agli altri..." "Ma neanche questo è possibile!" tornò a rispondere il padrino. "Allora fa’ scendere i bambini... Falli uscire... Li voglio vedere più da vicino!..." "Ma non si può... non si può!..." spiegò il consigliere seccato. "Una volta fatto, il meccanismo deve restare com’è." "No-o?!" fece Fritz strascicando la voce. "Non si può proprio?... Senti, padrino Drosselmeier, se quei pupazzetti dentro il castello non sanno far altro che sempre la stessa cosa, non valgono molto... E io non so che cosa farmene di loro... No, no... preferisco i miei ussari, almeno posso farli manovrare avanti e indietro come voglio e non sono chiusi dentro una casa..." Ciò detto, ritornò all’altro tavolo e si sbizzarrì a far trottare avanti e indietro, caracollare, caricare, sparare, il suo squadrone di ussari montati sui cavalli d’argento. Anche Maria era sgusciata via pian pianino: quell’eterno andare, venire, ballare dei pupazzetti aveva annoiato anche lei, senonché, essendo una bimba molto buona e gentile, non voleva darlo a vedere come invece aveva fatto suo fratello Fritz. "Un oggetto così ingegnoso non è fatto per bambini che non capiscono," disse Drosselmeier ai genitori, alquanto risentito. "Mi riprenderò il mio castello." Ma intervenne la mamma, si fece mostrare l’interno del giocattolo, gli ingegnosissimi congegni d’orologeria che mettevano in movimento i pupazzetti, e il consigliere smontò, rimontò, ritornò di ottimo umore e diede perfino ai bambini alcuni pupazzi uomini e donne con i visi, le braccia e le gambe d’oro: erano tutti di Thorn e odoravano gradevolmente di panpepato. Fritz e Maria ne furono felici. La sorella Luisa, per volere della mamma, si era messa il bel vestito ricevuto in dono, e stava deliziosamente. Maria osservò che se anche a lei avessero dato il permesso di mettersi il vestitino nuovo, sarebbe stata quasi altrettanto graziosa... Il permesso le venne accordato senza difficoltà.
Il beniamino
Maria non riusciva a distaccarsi dal tavolo natalizio, perché ci aveva scoperto una cosa non ancora notata da nessuno: scostando i suoi ussari, schierati in parata proprio a ridosso dell’albero, Fritz aveva involontariamente reso visibile un ometto ragguardevolissimo, rincantucciato là in fondo, zitto e modesto, come in tranquilla attesa del proprio turno. Sulla sua corporatura ci sarebbe stato molto da dire perché, a prescindere dal fatto che le brevi gambette non si adattavano perfettamente al tronco piuttosto lungo e robusto, anche la testa appariva sproporzionatamente voluminosa. Certo, la proprietà del vestire aggiustava molte cose: denotava subito l’uomo di gusto, di cultura... Il pupazzo indossava, infatti, una bellissima giacchetta da ussaro color viola squillante, con molti bottoni e alamari bianchi, calzoni dello stesso tipo e colore e un paio di stivaletti quali raramente se ne vedono ai piedi d’uno studente o perfino d’un ufficiale; attillati, calzanti a pennello, perfetti. Il comico era che, con un abito così elegante, l’omino si fosse gettato sulle spalle un mantelletto scarso, goffo, che pareva di legno, e messo in testa un berrettino da gnomo. Anche il signor Drosselmeier, rifletté Maria, portava un mantello deplorevole e un berretto insopportabile... eppure era un caro padrino lo stesso... D’altronde, se anche si fosse vestito così elegante, il padrino Drosselmeier non sarebbe mai stato grazioso come quell’ometto... Quell’ometto, dunque, l’aveva conquistata al primo sguardo e, osservandolo sempre più attentamente, Maria si accorse che il suo viso spirava bonomia, gli occhi verdi chiari, un po’ sporgenti, esprimevano soltanto affetto e benevolenza. Una barbetta bianca, bene arricciata, intorno al mento gli stava benissimo, perché accentuava la dolcezza del sorriso e dava risalto al rosso vivo delle labbra. "Ah!..." esclamò finalmente Maria. "Ah, caro papà... di chi è quel bellissimo ometto laggiù, contro l’albero?..." "Quello," rispose il papà, "dovrà lavorare per tutti voi, cara bambina, dovrà schiacciare coi denti le noci, che sono molto dure... Quindi è di Luisa, come tuo e di Fritz." E così dicendo lo prese con garbo dal tavolo, sollevò il mantelletto di legno e con questa manovra gli fece aprire la bocca in modo spropositato. L’omino mise in mostra due file di dentini bianchi e aguzzi. "Mettici dentro una noce," disse il papà; Maria ubbidì e crac!, l’ometto la spezzò, il guscio cadde in frantumi e il dolce gheriglio andò a finire in mano alla bimba. Il grazioso personaggio, dunque (dovevano saperlo tutti, anche Maria) apparteneva alla stirpe degli "schiaccianoci" ed esercitava la professione dei propri antenati. Maria cacciò un grido di gioia. "Dal momento che l’amico Schiaccianoci ti piace tanto, mia cara," le disse il papà, "lo curerai e lo proteggerai in modo particolare, anche se, come ho detto, Luisa e Fritz avranno diritto di usarlo, quanto te." Maria se lo prese subito in braccio e gli fece rompere tante noci, cercando però sempre le più piccine in modo da non costringerlo a spalancare troppo la bocca, perché la bocca spalancata così, per la verità, non gli donava. Si avvicinò Luisa e anche per lei l’amico Schiaccianoci dovette prestare la propria opera; ma parve farlo volentieri, perché non smise mai di sorridere, di quel suo sorriso cordiale. Fritz, frattanto, stanco di esercitazioni e cavalcate, sentendo quell’allegro scricchiolio di noci, era corso accanto alle sorelle: al vedere il curiosissimo ometto rise di cuore, volle mangiare qualche noce anche lui e così lo schiaccianoci passò di mano in mano, aprendo e richiudendo le mandibole senza interruzione. Ma Fritz vi cacciò dentro noci sempre più grosse finché, ad un tratto, crac crac, due dentini caddero dalla bocca del pupazzo, che rimase con la ganascia inferiore semisguarnita e tentennante. "Oh... il mio povero caro Schiaccianoci!..." strillò Maria strappandolo dalle mani di Fritz. "Guarda che tonto... che baggiano!" disse il bimbo. "Vuol fare lo schiaccianoci e non ha neppure la dentatura in ordine... Non sa il suo mestiere... Dammelo qui, Maria... Deve romperne ancora, di noci, e se perde i denti che gli restano, anche tutti quelli di sopra, poco male... Tanto è un buono a nulla!..." "No, no!" strillò Maria piangendo. "Non te lo do più, il mio caro schiaccianoci!... Non vedi come mi guarda triste, con quella boccuccia ferita?... Tu sei un uomo senza cuore... Picchi i cavalli e fai perfino ammazzare i soldati!..." "Perché così va fatto. E tu non puoi capirlo!" protestò Fritz. "E poi lo schiaccianoci è tanto mio come tuo. Dammelo qui!" Maria riattaccò a piangere disperatamente e avvolse in fretta lo schiaccianoci malato in un fazzolettino. Intervennero i genitori e il padrino Drosselmeier, il quale, con grande disappunto di Maria, prese le parti di Fritz. Per fortuna il papà disse: "Ho messo esplicitamente lo schiaccianoci sotto la protezione di Maria; e poiché, a quanto vedo, in questo momento ne ha molto bisogno, lei può farne tutto ciò che vuole, senza che nessuno s’immischi. In quanto a te, Fritz, mi meraviglio che tu pretenda altre prestazioni da chi si è fatto male in servizio. Un buon militare dovrebbe sapere che non si mandano in linea i feriti." Fritz rimase molto mortificato e, senza più occuparsi di noci né di schiaccianoci, sgusciò verso l’altro lato del tavolo, dove i suoi ussari, lasciati i posti di guardia nei luoghi opportuni, si erano ritirati nel quartiere notturno. Maria cercò e mise da parte i dentini perduti da Schiaccianoci. Il povero malato era molto pallido e scosso; perciò la bimba, annodatogli intorno al mento un bel nastrino bianco sfilato dal suo vestitino e avvoltolo ancor più accuratamente nel fazzoletto, ora lo teneva in braccio cullandolo come un bimbo piccino e guardando intanto le belle illustrazioni dei libri nuovi ricevuti in dono. Ma poiché il padrino Drosselmeier non la smetteva di ridere e di domandarle come potesse coccolare così quel mostriciattolo, la bimba, quantunque ciò non fosse nella sua Natura, si sentì diventare cattiva. Ricordò il curioso paragone venutole in mente appena aveva scorto l’omino, e disse: "Anche se tu fossi elegante come il mio caro schiaccianoci, con questi begli stivali lucidi, non credo che saresti grazioso come lui, caro padrino!..." Chissà perché, i genitori scoppiarono a ridere forte, al consigliere d’appello il naso divenne rosso rosso e per contro la sua risata non suonò più così schietta come prima... Chissà perché... Maria non lo capì. Ma un motivo ci doveva pur essere.
Prodigi
Nella camera di soggiorno di casa Stahlbaum, appena entrati a sinistra, contro la parete più larga, c’era un grande armadio a vetri in cui i bimbi tenevano tutti i giocattoli ricevuti a Natale. Lo aveva fatto costruire il padre, quando Luisa era ancora molto piccola, da un abilissimo falegname, a perfetta regola d’arte, con applicati alle antine certi cristalli tersi come l’aria, di modo che, visti dentro quel mobile, gli oggetti sembravano ancor più nuovi e fiammanti del vero. Nel piano più alto, irraggiungibile per Fritz e Maria, c’erano le opere d’arte del padrino Drosselmeier, poi veniva il piano per i libri illustrati e negli ultimi due Fritz e Maria potevano metterci quello che volevano. Era però convenuto che Maria adibisse ad alloggio per le sue bambole il piano più basso e Fritz acquartierasse le sue truppe nel secondo. Così si era fatto anche oggi: Fritz aveva messo i suoi ussari nel piano di sopra e Maria, spinta un po’ in disparte madamigella Geltrude, aveva sistemato la bella bambola nuova nella camera mobiliata, al piano di sotto; e si era quindi invitata da lei a mangiare i confetti. Come ho detto, si trattava di una camera mobiliata, e molto ben mobiliata; perché francamente non so, mia attentissima ascoltatrice Maria, se anche tu, come la piccola Stahlbaum (già saprai che anche lei si chiamava Maria...), se anche tu, dicevo, possieda un piccolo sofà a fiorami, un grazioso tavolino da tè e, soprattutto, un così bel lettino candido per farci dormire le tue bambole più belle... Questi mobili erano sistemati in un angolo dell’armadio, tappezzato di figurine colorate; e quindi, come potrai immaginare, madamigella Claretta (la bambola nuova si chiamava così: Maria lo aveva appreso la sera stessa), ci si trovava magnificamente. S’era fatto tardi: quasi mezzanotte; il padrino Drosselmeier se n’era andato da un pezzo, ma i bambini, benché la mamma continuasse a chiamarli a letto, non riuscivano ancora a distaccarsi dall’armadio. "È vero," convenne Fritz, "questi poveri ragazzi (... i suoi ussari...) vorrebbero andarsene a riposare un po’; ma finché rimango qui io, non osano batter ciglio, lo so." E se ne andò via. Maria invece insistette a pregare: "Ancora un momento... un momentino solo, cara mamma... Devo fare una cosa... Appena ho finito vengo subito a letto." Maria era una bimba buona e giudiziosa e la mamma poté lasciarla sola coi suoi giocattoli senza timore. Ma per essere certa che, distratta dalle bambole, non dimenticasse i lumi, preferì spegnerli lei stessa. Lasciò acceso soltanto quello del lampadario centrale, che spandeva una luce dolce, tranquilla, e si ritirò in camera da letto raccomandando ancora: "Vieni presto, cara, altrimenti domattina non potrai alzarti per tempo." Rimasta sola, Maria si affrettò a fare ciò che le stava tanto a cuore; non sapeva neppure lei perché non avesse osato parlarne alla mamma. Teneva ancor sempre in braccio lo schiaccianoci malato, bene avvolto nel fazzoletto; ora lo depose con garbo sul tavolo, lo sfasciò accuratamente e ne esaminò le ferite. Schiaccianoci era molto pallido, ma continuava a sorridere così mesto e affettuoso, che Maria se ne sentì tutta commossa. "Ah, Schiaccianocino...", sussurrò. "Non prendertela con mio fratello Fritz, se ti ha fatto tanto male... forse non voleva... è un po’ duro di cuore per via della rude vita militare... ma in fondo è un bravissimo ragazzo, te l’assicuro... E adesso voglio curarti proprio bene, fino a quando non ritornerai sano e vispo come prima... A rimetterti a posto i dentini e ad aggiustarti le spalle ci penserà il padrino Drosselmeier... lui di queste cose se ne intende..." Ma non poté finire, perché, al solo udire il nome di Drosselmeier, l’amico Schiaccianoci aveva fatto una bocca maledettamente storta e nei suoi occhi erano guizzati certi bagliori verdastri e cattivi, molto simili ad aculei... Maria fu lì lì per spaventarsi; ma un attimo dopo Schiaccianoci la guardava già di nuovo con quel suo viso onesto, con quel suo sorriso un po’ triste... Certamente era stato il raggio della lampada, ravvivato da un’improvvisa corrente d’aria, a dargli quella strana espressione. "Che stupida bambina... Mi spavento per niente!" pensò Maria. "Ho perfino creduto che questo bambolotto di legno potesse farmi le smorfie... Ma a Schiaccianoci voglio bene proprio perché è così buffo e così buono... Su, curiamolo come si deve!" E, ripreso in braccio il suo ometto, si avvicinò all’armadio a vetri, vi si inginocchiò davanti e disse alla bambola nuova: "Per favore, signorina Claretta, cedi il tuo lettino a Schiaccianoci, che è malato, e tu aggiustati come puoi sul sofà... Tu sei sana e robusta, altrimenti non potresti avere quelle guance rosse e paffute... E del resto poche bambole, anche fra le più belle, hanno divani così morbidi, ricordatelo!" Madamigella Claretta, nel suo fastoso abbigliamento natalizio, rimase lì con un’aria di maestà offesa, ma non disse: "Bah!"... "Ma perché sto a fare tanti complimenti?" disse Maria. Tirò fuori il letto, vi coricò pian piano, con bel garbo, lo schiaccianoci, gli fasciò la schiena malata col bel nastrino che le cingeva la vita e lo copri ben bene fino al naso. "Claretta è così poco gentile," pensò. "Non posso lasciarlo con lei"; e mise il lettino con Schiaccianoci e tutto nel piano di sopra, proprio accanto al bel villaggio in cui erano acquartierati gli ussari di Franz. Poi richiuse l’armadio e fece per andare a letto... Senonché, a questo punto... (udite, bimbi, udite!...) da ogni angolo della camera, di dietro la stufa, le sedie, gli armadi, si levò un impercettibile coro di sussurri, bisbigli, brusii... La pendola si mise a ronzare sempre più forte... ma a battere le ore non riuscì... Maria guardò in sù e vide che la grossa civetta dorata posta sopra la pendola aveva lasciato ricadere le ali, ricoprendo l’intero orologio, e protesa in avanti la brutta testa felina col becco adunco... Poi, frammiste al ronzio sempre più rumoroso degli ingranaggi, si intesero chiaramente queste parole: "Or, oro, orologio, orolò Ronzate piano, pianino, pianò. Re dei topi, orecchio fine... (Prr, prr... pum, pum...) Vuoi sentir le canzoncine? (Prr, prr... pum, pum...) Sù cantà, sù cantà... Sù, cantategli una vecchia canzoncina! (Prr, prr... pum, pum...) Batti, batti, pendolino... La sua fine è ormai vicina!" E quel sordo, quel roco "pum pum" si ripeté per ben dodici volte!... Maria incominciò ad aver paura sul serio; e sarebbe fuggita via terrorizzata, se non avesse visto sulla pendola, al posto della civetta, il padrino Drosselmeier, con le lunghe falde della sua gabbana gialla pendenti come due ali... La bimba riuscì ancora a dominarsi e implorò con voce piangente: "Padrino... padrino Drosselmeier, che cosa fai là sopra?... Scendi, scendi... non spaventarmi così, cattivo padrino!..." Ed ecco, dietro le pareti, scatenarsi un pandemonio di squittii, risatine, vocette sibilanti... e lo scalpiccio di mille piedini al trotto... e mille puntini luminosi occhieggiare dalle sconnessure dei tavolati... Ma non erano lumini: erano occhietti scintillanti... topi... topi che sbucavano da tutte le parti... E, dopo qualche istante, hop, hop... schiere di topi sempre più fitte si lanciarono al galoppo per la camera, in tutte le direzioni, serrandosi, disponendosi in file ordinate, proprio come i soldatini di Fritz quando si preparavano alla battaglia.
Maria trovò assai comico questo spettacolo; e, non avendo quell’istintivo orrore dei topi comune a tanti bambini, era quasi sul punto di deporre ogni timore, quando, tutt’a un tratto, udì un sibilo così acuto e tagliente che le fece correre un brivido gelido lungo la schiena... Ah, cosa vide!... Eh, no, stimatissimo mio lettore Fritz: so bene che anche tu, come il saggio e valoroso comandante Fritz Stahlbaum, hai il cuore situato al posto giusto... Eppure, se tu avessi visto ciò che vide Maria, sono sicuro che te la saresti data a gambe, per andare a cacciarti in letto e tirarti le coperte fin sopra le orecchie, assai più del necessario... Maria, ahimè, non poté fare neppure questo, perché (udite, bimbi, udite...) proprio davanti ai suoi piedi schizzò un getto di sabbia, pietrisco e calcinacci, come proiettato da una forza sotterranea, e sette teste di topo, con altrettante coroncine scintillanti, sbucarono dal pavimento, squittendo e soffiando orribilmente... E, dopo le teste, sgusciò fuori il corpo cui le teste medesime, e relative corone, appartenevano, e tutto l’esercito, salutato con un triplice, stridulo "Hurrà" il grosso topo dalle sette teste e dalle sette corone, puntò diritto verso l’armadio, verso Maria!, ancor sempre rannicchiata contro la porta a vetri dell’armadio stesso. Fino a quel momento la bimba aveva creduto che il cuore stesse per schizzarle dal petto e lasciarla morta, tanto le batteva frenetico per la paura e l’orrore; ma adesso il sangue le si arrestò nelle vene. Semisvenuta, indietreggiò barcollando, diede di gomito nel vetro dell’antina e... crr... diinng... la lastra cadde in frantumi. Maria avvertì una fitta lancinante al braccio sinistro, ma subito riprese coraggio, perché gli squittii, i sibili si erano zittiti e tutto era ritornato silenzioso. Evidentemente il tintinnio del vetro infranto aveva ricacciato i topi nei loro nascondigli... Ma che cosa stava accadendo di nuovo?... Altri strani rumori (e questa volta provenienti dall’armadio) si fecero intendere... rumori strani, frammisti a vocette sottili, che chiamavano: "Sveglia, sveglia... alla battaglia! Questa notte saran botte... Sveglia, sveglia... alla battaglia!..." E sui richiami si inserì, gentile ed armonioso, il suono di un carillon... "Oh, il mio piccolo carillon!..." esclamò Maria tutta felice, scostandosi in fretta: l’interno dell’armadio le apparve stranamente illuminato, e ancor più stranamente animato... bambole di tutti i tipi correvano avanti e indietro affannatissime, agitando le braccia... E Schiaccianoci, tutt’a un tratto, gettò via la coperta e balzò dal letto esclamando: "Cric... topaglia... crac, canaglia... cric, topaglia maledetta... cric e crac, aspetta, aspetta!..." Quindi, sguainata e levata in alto la sua piccola spada, chiamò a raccolta i difensori: "Fedeli vassalli, amici, fratelli, volete seguirmi nell’aspra battaglia?" "Siamo con voi, sire, decisi e fedeli!" risposero in coro tre Scaramuccia, un Pantalone, quattro Spazzacamini, due suonatori di cetra e un tamburino. "Con voi scenderemo in campo per vincere o morire!" E si lanciarono al seguito dell’animoso condottiero nello spericolatissimo salto dal secondo piano dell’armadio; il salto a loro non riuscì difficile non solo perché indossavano ampi vestiti di panno e di seta, ma avevano i corpi imbottiti di cotone o segatura e perciò caddero come altrettante balle di lana; ma il povero Schiaccianoci si sarebbe certamente rotto braccia e gambe, perché il suo corpo era così fragile come se fosse intagliato nel legno di tiglio; sì, il nostro eroe con la spada sguainata si sarebbe spezzato braccia e gambe, se madamigella Claretta, balzata prontamente dal sofà, non lo avesse raccolto fra le morbide braccia... "Ah, cara, buona Claretta," singhiozzò Maria, "come ti avevo giudicata male!... Ora sono sicura che avresti ceduto volentieri il letto all’amico Schiaccianoci!..." Ma la signorina Claretta in quel momento stava stringendo il giovane eroe contro il serico seno e gli diceva: "Non vogliate, sire, scendere in campo, esporvi al pericolo, malato e ferito come siete!... Guardate come accorrono animosi, sicuri della vittoria, i vostri fedeli vassalli! Scaramuccia, Pantalone, gli spazzacamini, i suonatori di cetra, il tamburino sono già scesi... Tutte le figurine araldiche del mio piano stanno mobilitandosi... Vogliate, sire, riposare fra le mie braccia... o, se lo preferite, assistere alla vostra vittoria attraverso il piumaggio del mio cappello!" Ma, poiché Schiaccianoci continuava a sgambettare e scalciare in maniera assai poco galante, madamigella Claretta dovette affrettarsi ad allentare la presa; allora egli pose molto cavallerescamente un ginocchio a terra e sussurrò: "Signora!... Nell’infuriar della mischia sempre ricorderò la vostra benevolenza." Claretta si chinò profondamente, lo prese per le braccine e lo rialzò con dolcezza; poi, slacciatasi in fretta la cintura scintillante di lustrini, fece l’atto di metterla al collo del piccolo cavaliere. Schiaccianoci fece due passi indietro, si portò una mano al petto e disse in tono solenne: "Non vogliate, signora, profondere con me le vostre grazie, perché..." e qui esitò, si tolse il nastrino con cui Maria gli aveva fasciato il mento, lo baciò e se lo mise ad armacollo come una fascia di comando; quindi levò in alto lo spadino sguainato e saltò sul pavimento con l’aerea lievità d’un uccello. Avrete notato, lettori miei benevoli ed egregi, che Schiaccianoci, prima ancora di diventar veramente vivo, aveva profondamente sentito la bontà, l’affetto dimostratigli da Maria, preferendo al nastro, pur così scintillante e vistoso, di madamigella Claretta, il semplice nastrino della bimba che era stata tanto buona con lui. Ma... e adesso ?... Che cosa accadrà ?... Come Schiaccianoci toccò terra, il coro degli squittii, dei pigolii si riaccese... Ahimè!... Le odiose schiere dei rosicanti innumerevoli erano adunate sotto il tavolo grande e sopra tutti emergeva il mostruoso topo dalle sette teste... Come andrà a finire?...
La battaglia
"Tamburino, fedele vassallo, batti la marcia generale!" comandò Schiaccianoci con voce tuonante; e il tamburino attaccò un rullo così magistrale, da far tintinnare i vetri dell’armadio. E dentro l’armadio nuovi scricchiolii, nuovi rumori... Maria vide sollevarsi tutti i coperchi delle scatole in cui erano acquartierati i soldatini di Fritz, e i soldati balzarne fuori e saltare al piano di sotto per raggrupparsi in plotoni. Schiaccianoci correva su e giù, rincuorando le truppe con parole infiammate: "Non un cane di trombettiere che si muova!..." gridò incollerito e, rivolgendosi a Pantalone, piuttosto pallido e col lungo mento tremante, gli disse solennemente: "Generale, conosco la vostra perizia e il vostro coraggio; qui si tratta d’avere colpo d’occhio sicuro e di saper approfittare del momento. Le affido il comando supremo della cavalleria e dell’artiglieria. Di un cavallo non avrà bisogno: lei ha le gambe lunghe e potrà galoppare passabilmente anche con quelle. Ora faccia il suo dovere." Pantalone si portò immediatamente alle labbra le lunghe dita stecchite ed emise un suono lacerante come quello di cento trombe. Scalpitii, nitriti giunsero dall’armadio, e ne uscirono i corazzieri, i dragoni, gli ussari, gli ussari nuovi fiammanti di Fritz... Bandiere al vento, fanfare in testa, i reggimenti sfilarono uno dopo l’altro davanti a Schiaccianoci, per andare a disporsi in un’ampia fila sulla diagonale del pavimento. Precedevano la cavalleria, con gran fragore di ruote, i cannoni di Fritz, attorniati da cannonieri. E dopo pochi istanti - bum, bum! - una gragnuola di confetti si abbatté sulle fitte schiere dei topi, incipriandoli di polvere zuccherina con loro grande vergogna. Danni particolarmente gravi inflisse al nemico una batteria pesante postata sul poggiapiedi della mamma: pum, pura, pum!... le noci di panpepato mandavano a gambe all’aria quanti ne toccavano... Tuttavia, i topi continuavano ad avanzare e avevano già perfino travolto alcuni cannoni quando - prr, prr! - si scatenò una mischia tale, che Maria quasi non poté più vedere che cosa stesse accadendo, tanto erano densi il fumo e la polvere. Ma una cosa era certa: tutti i reparti si battevano con disperato accanimento, e le sorti della battaglia pendevano incerte. I topi sviluppavano masse sempre più imponenti, le loro palline d’argento, scagliate con grande precisione, giungevano già fin dentro l’armadio. Geltrude e Claretta correvano qua e là disperate, torcendosi le manine: "Che io debba morire nel fior dell’età?... Io, la più bella di tutte le bambole?..." gridava Claretta. "Essermi conservata così bene per finire così, fra queste quattro pareti!..." gemeva Geltrude. E, gettatasi fra le braccia della compagna, pianse con lei così forte, da sopraffare il fragore della battaglia. Difficilmente, egregi ascoltatori, riuscirete a farvi un’idea dello spettacolo che ne seguì. Che confusione, che scompiglio!... prr, prr... puff, piff... zighete, zaghete... bum, bum, burubum! I topi squittivano, il loro re strillava, Schiaccianoci impartiva ordini con voce tonante accorrendo presso i battaglioni più esposti al fuoco. Pantalone si era coperto di gloria effettuando alcune cariche di cavalleria molto brillanti; ma gli ussari di Fritz, bersagliati da certe brutte palline puzzolenti, vedendo i bei giustacuori rossi coprirsi di ignobili macchie, non vollero più saperne di andare avanti. Allora Pantalone li fece ripiegare a sinistra e, nella foga del comando, impartì lo stesso ordine ai corazzieri e ai dragoni; per il che, tutta la cavalleria fece fronte a sinistra e se ne ritornò a casa, lasciando in una situazione assai critica la batteria postata sul poggiapiedi. E infatti, di lì a non molto, un folto drappello di bruttissimi topi la travolse, al completo di cannoni e cannonieri. Schiaccianoci, sconcertato e sgomento, ordinò all’ala destra di ripiegare. Ora, mio caro ascoltatore Fritz, con la tua esperienza di arte bellica tu sai benissimo che una simile manovra equivale press’a poco a una fuga, e già deplorerai con me la sciagura abbattutasi sull’armata del beniamino di Maria... Ma volgi l’occhio da questo infelice settore e osserva l’ala destra, dove tutto procede ancora assai bene e molti sono i motivi di speranza e per il condottiero e per l’armata... Mentre infuriava il corpo a corpo, grandi masse di cavalleria nemica erano sbucate pian piano di sotto il comò, per gettarsi con furia e stridori selvaggi sull’ala sinistra dell’armata di Schiaccianoci. Ma quale resistenza incontrarono!... Lentamente, come lo consentiva la difficoltà del terreno, poiché si trattava di scavalcare il bordo dell’armadio, erano scese in campo le figurine araldiche, sotto la guida di due imperatori cinesi. Dispostesi en carré plein, queste splendide e pittoresche truppe, composte di giardinieri, Tirolesi, Tungusi, parrucchieri, arlecchini, cupidi, leoni, tigri, cercopitechi e scimmie varie, combatterono con fermezza, calma e tenacia. Il valore spartano di questo battaglione d’elite avrebbe certamente strappato la vittoria al nemico, se un capitano della cavalleria topina, spintosi avanti con folle temerarietà, non avesse addentato e stroncato la testa d’un imperatore cinese, il quale cadendo travolse due Tungusi e un cercopiteco. Attraverso la falla così prodottasi i topi fecero irruzione, e in un baleno l’intero reparto fu sbocconcellato. Tuttavia da tale atrocità il nemico trasse ben scarso vantaggio, perché, non appena un topo cavalleggero, assetato di sangue, addentava uno dei valorosi difensori, cadeva morto all’istante col collo trafitto da un’asticciola. Ma questo giovava ancora all’armata di Schiaccianoci?... Una volta iniziato il ripiegamento, la ritirata proseguiva inarrestabile, con perdite sempre più gravi, anche se l’infelice condottiero, con un pugno di uomini, resisteva ancora, premuto contro l’armadio. "A me le riserve!" gridò Schiaccianoci nella speranza di veder sortire qualche rinforzo. "Pantalone... Scaramuccia... Tamburino, dove siete?..."
Ma dall’armadio uscirono soltanto alcuni omini e donnine di Thurn, quei tali moretti dai visi, gli elmi e i cappelli dorati: guerrieri goffi ed inetti, non riuscirono ad abbattere un solo nemico e poco mancò che non portassero via il berretto di testa al loro stesso comandante; poi, con le gambe stroncate a morsi dai cacciatori nemici, i poveretti ruzzolarono a terra, trascinando nella caduta alcuni compagni d’armi di Schiaccianoci; il quale, circondato ormai da ogni parte, si vide perduto. Tentò di scavalcare il bordo dell’armadio, ma le sue gambe corte non glielo permisero. Claretta e Geltrude, cadute in deliquio, non potevano aiutarlo. E intanto i dragoni e gli ussari in ritirata gli sfrecciavano intorno, saltando allegramente al riparo... "Un cavallo... un cavallo!... Il mio regno per un cavallo!..." invocò Schiaccianoci disperato. Ma in quell’attimo stesso due fucilieri nemici lo agguantarono per il mantello di legno, mentre il re dei topi avanzava trionfante, squittendo con le sue sette gole. Maria perse la testa: "O Schiaccianoci!... Mio povero Schiaccianoci!..." gridò fra i singhiozzi; e, senza neppure rendersi ben conto di ciò che faceva, si sfilò la scarpina sinistra e la scaraventò con tutta la forza, là dove i topi erano più fitti, sulle sette teste del re. Istantaneamente tutto parve dileguarsi e svanire. Ma Maria sentì una fitta ancora più lancinante al braccio sinistro e cadde a terra svenuta.
La malattia
Come ridestandosi da un profondo sonno di morte, la bimba si ritrovò nel proprio lettino. Un bel sole radioso entrava nella camera attraverso le finestre orlate di ghiaccio. Accanto al letto sedeva un uomo, in cui Maria quasi subito riconobbe il chirurgo Wendelstern. "Si è svegliata!" disse costui sottovoce; allora si avvicinò la mamma e la scrutò a lungo con occhi pieni di paura e di ansia. "Ah, mamma cara!" bisbigliò la piccola. "Quei brutti topacci sono andati via?... E Schiaccianoci?... È salvo?..." "Non dire sciocchezze, carina..." rispose la mamma. "Che c’entrano i topi con Schiaccianoci?... Tu, piuttosto, cattiva bambina, ci hai tenuti in pena, tutti quanti! Ecco che cosa succede quando i bambini vogliono fare di testa loro e non ubbidiscono ai genitori! Hai voluto giocare fino a tarda notte con le tue bambole, ti è venuto sonno e, chissà, forse ti sei presa paura per un topo... e dire che qui in casa, di solito, non ce ne sono... hai urtato il vetro dell’armadio e ti sei fatto un bruttissimo taglio nel braccio... Il signor Wendelstern ha finito proprio adesso di estrarti le schegge rimaste nella ferita... Dice che se ti fossi tagliata una vena, potevi restare col braccio anchilosato, se non addirittura morire dissanguata!... Grazie a Dio, verso mezzanotte mi sono svegliata e, non vedendoti a letto, sono corsa nella camera di soggiorno. Eri là, accanto all’armadio, per terra, svenuta e insanguinata... Per poco non svenivo anch’io dallo spavento!... Tutt’intorno erano sparsi i soldatini di Fritz... bambole, figurine rotte... omini di panpepato... Schiaccianoci stava appoggiato al tuo braccio ferito. Poco distante ho trovato la tua scarpina sinistra..." "Ah, mammina, mammina!" la interruppe Maria. "Lo vedi?... C’erano ancora le tracce della grande battaglia fra le bambole e i topi... Schiaccianoci comandava l’armata delle bambole, e quando ho visto che i topi stavano per prenderlo prigioniero, mi sono spaventata tanto, ho gettato la scarpa sui topi e poi... poi non so più che cosa sia successo..." Il chirurgo Wendelstern fece un cenno d’occhi alla madre, la quale disse alla bimba con grande dolcezza: "Adesso non pensarci più, mia cara piccina! Sta’ tranquilla: i topi sono scappati e Schiaccianoci è di nuovo sano e allegro nell’armadio." Entrò il padre, confabulò a lungo col chirurgo, tastò il polso a Maria e Maria senti parlare di febbre vulneraria... Dovette rimanere a letto, prendere medicine e la cosa durò per alcuni giorni, benché, a parte un po’ di dolore al braccio, non si sentisse veramente ammalata... Sapeva che Schiaccianoci era uscito vivo dalla battaglia; e talvolta, come in sogno, le pareva di udirne la voce... La voce era molto triste, ma le parole chiarissime: "Maria," le diceva, "mia carissima dama, io le devo già molto, ma lei per me può fare ancora di più." E Maria si sforzava di pensare, ma non riusciva assolutamente a capire di che cosa potesse trattarsi. Giocare proprio bene ancora non poteva, per via del braccio ferito, e se voleva leggere o sfogliare i libri illustrati, strani vermicelli luminosi le guizzavano davanti agli occhi, costringendola a smettere. Il tempo perciò le sembrava cordialmente lungo e la bimba non vedeva l’ora che si facesse sera, perché all’imbrunire la mamma veniva finalmente a sedersi accanto al suo letto e le leggeva o le raccontava tante belle cose. Quella sera, la mamma aveva giust’appunto finito di raccontarle la magnifica storia del principe Facardino, quando la porta si aperse ed entrò il padrino Drosselmeier dicendo: "Voglio proprio vedere con i miei occhi come va questa Maria, malata e ferita!..." Rivedere quell’uomo con la sua giacchetta gialla e rievocare la scena della notte in cui Schiaccianoci aveva perduto la battaglia contro i topi, per Maria fu tutt’uno. "Padrino Drosselmeier, eri proprio brutto, sai!..." esclamò la bimba. "Ti ho ben visto quando stavi sull’orologio e lo coprivi con le ali, perché non facesse rumore e non spaventasse i topi... Ti ho ben sentito chiamare il re dei topi!... Perché non sei sceso ad aiutare Schiaccianoci e me, brutto padrino Drosselmeier!... Se devo stare a letto ferita, ammalata, è tutta colpa tua!..." "Maria, cara... che ti prende?..." le domandò la mamma sgomenta. Ma il padrino Drosselmeier fece una faccia stranissima e incominciò a cantilenare con voce stridula e monotona, dondolando il braccio destro come quello d’una marionetta mossa dal filo: "Ronza, ronza il pendolino Ma non vuole far tic-tac Gli orioli han da ronzare Sottovoce, pian pianino Frr, frr, clic, ciac La campana batte l’ora Forte, forte, din e dan Clic, cluc, clic, ciac Non temere, bamboletta L’orologio suonerà A scacciare il re dei topi Verrà in fretta la civetta Fluc! In volo scenderà Pic, puc, pic, pac Campanella, bin, bin Oriolo, frr,frr... Ronza, ronza il pendolino Ma non vuole far tic-tac Frr, frr... prr, prrr..." Maria fissava il padrino affascinata, con tanto d’occhi, perché lo vedeva diverso, molto più brutto del solito: in quel momento Drosselmeier le avrebbe fatto terrore, se non ci fosse stata presente la mamma e non fosse saltato fuori Fritz a interrompere la tiritera con una risata: "Ehi, padrino Drosselmeier," gridò il fanciullo, "oggi sei proprio troppo buffo: sembri tal e quale quel mio burattino che ho gettato dietro la stufa tanto tempo fa!" La mamma in vece rimase seria: "Caro signor consigliere," disse, "il suo è uno scherzo molto strano... Si può sapere che cosa significa?..." O, santo cielo!" rispose Drosselmeier ridendo. "Non riconosce più la vecchia canzoncina dell’orologiaio?... La canto sempre, quando vado a trovare pazienti come Maria..." E, sedutosi accanto al letto della bimba, le disse: "Non tenermi il broncio, se non ho cavato di colpo i quattordici occhi al re dei topi... credimi, non mi è stato possibile... In compenso ora voglio farti contenta..." Si cacciò una mano in tasca e tirò fuori adagio adagio... che cosa?... Schiaccianoci! Schiaccianoci, a cui aveva abilmente sostituito i dentini perduti e rimesso a posto la mandibola slogata. Maria gridò per la gioia; e la mamma le disse sorridendo: "Vedi come vuole bene a Schiaccianoci, il padrino Drosselmeier?..." "Devi ammettere, Maria," si intromise il consigliere," devi ammettere che Schiaccianoci non ha una corporatura molto felice... E, di faccia, non può precisamente dirsi... bello... E adesso, se vuoi, ti racconterò come sia entrata e diventata ereditaria nella sua famiglia una tale bruttezza. La sai la storia della principessa Pirlipat, della strega Mauserinks e dell’orologiaio ingegnoso?... "Senti un po’, padrino Drosselmeier," saltò su Fritz all’impensata, "i denti, a Schiaccianoci, glieli hai rimessi a posto bene e anche la mandibola non ciondola più come prima. Ma perché non gli hai fatto una spada?..." "Benedetto ragazzo!" rispose il consigliere seccato. "Devi sempre trovare a ridire su tutto... Che c’entro io, con la spada di Schiaccianoci?... Io gli ho curato il corpo... e se gli serve una spada, ci pensi lui a procurarsela, come gli pare." "È vero," ammise Fritz. "Se è un uomo in gamba, le armi saprà trovarsele!" "Dunque, Maria..." riprese il consigliere. "Dimmi se conosci la storia della principessa Pirlipat." "Oh, no..." rispose Maria. "Raccontamela, caro padrino, raccontamela!" Spero," osservò la mamma, "che la sua storia non sia orripilante come tutte quelle che ha l’abitudine di raccontare..." "Al contrario, cara signora!" rispose Drosselmeier. "Quella che avrò l’onore di presentarvi è una storia divertentissima." "Racconta, racconta, caro padrino!" esclamarono i bimbi. E il consigliere d’appello incominciò:
La fiaba della noce dura
"La madre di Pirlipat era la moglie di un re, vale a dire una regina; e Pirlipat, nel momento stesso in cui venne al mondo, si trovò ad essere una principessa di sangue reale. Pazzo di gioia al pensiero di avere nella culla una così bella figlioletta, il re si mise a cantare, a ballare, a saltare su una gamba sola, gridando a perdifiato: «Evviva!... Si è mai visto qualcosa di più bello della mia piccola Pirlipat?...» Ministri, generali, presidenti, ufficiali di stato maggiore, saltando anch’essi su una gamba sola, ad imitazione del padre della patria, risposero in coro: «No! Giammai!...» E infatti non si poteva negare che, da che il mondo era mondo, non fosse mai nata una bimba più bella della principessa Pirlipat. Il suo visetto sembrava intessuto di morbida seta, candida come il giglio e rosea come la rosa di maggio, gli occhietti vispi parevano due zaffiri scintillanti, e i riccioli (come le stavano bene quei riccioli!...) un delizioso intreccio di fili d’oro... Inoltre, Pirlipat era venuta alla luce portando con sé, nella boccuccia, due file di dentini simili a perle, coi quali, due ore dopo la nascita, aveva morso un dito al cancelliere del regno che voleva osservare i suoi lineamenti un po’ troppo da vicino. Si diceva che il cancelliere avesse gridato: «O Gesù mio!...» o, secondo altri, semplicemente: «Ahii... oh!...»; le voci, al riguardo, sono ancor oggi molto discordi. Comunque, Pirlipat aveva veramente morso il dito al cancelliere del regno, mandando tutto il paese in visibilio; perché ormai si sapeva per certo che il corpicino dell’angelica piccola Pirlipat albergava uno spirito sensibile e intelligente. Tutti, dunque, erano felici e contenti. Soltanto la regina pareva piena di paura e d’inquietudine, nessuno sapeva perché. Dava nell’occhio soprattutto il fatto che facesse sorvegliare con tanto rigore la culla di Pirlipat. Come se non bastassero le sentinelle alle porte e le due governanti sedute costantemente accanto alla piccina, altre sei donne dovevano vegliare nella camera per tutta la notte e (cosa incomprensibile!...) ognuna di esse doveva tenere un gatto in grembo e accarezzarlo senza interruzione, di modo che non la smettesse mai di fare le fusa... Il motivo di tali precauzioni voi bambini non potreste assolutamente indovinarlo; ma io lo so, e voglio dirvelo subito. Ecco com’erano andate le cose: una volta erano convenuti alla corte del padre di Pirlipat numerosi sovrani assai distinti e principi simpaticissimi, dando occasione a una serie di manifestazioni brillanti, quali tornei, commedie, balli di gala. Il re, per dimostrare a tutti che non mancava d’oro e d’argento, aveva deciso di attingere senza economia al tesoro della corona e organizzare qualcosa di veramente eccezionale. Avvertito in gran segretezza dal capocuoco che l’astronomo di corte aveva annunziato l’insorgere della congiuntura propizia alla macellazione del suino, sua maestà ordinò l’allestimento di un grandioso banchetto a base di salsicce, poi salì in carrozza e si recò personalmente a invitare i re e i principi a mangiare «un piatto di minestra» in casa sua, già pregustando con gioia la sorpresa degli ospiti all’apparire delle prelibate pietanze. Dopodiché, disse molto amabilmente alla regal consorte: «Tu sai, tesoruccio, quanto mi piacciono le salsicce!...» La regina conosceva benissimo il significato di queste parole. Significavano che, come già aveva fatto altre volte, le sarebbe toccato adattarsi all’incombenza (utilissima, peraltro) di confezionare salsicce. Il maestro della tesoreria dovette consegnare immediatamente alle cucine il grande paiolo d’oro e le casseruole d’argento. Venne acceso un gran fuoco di legno di sandalo e, di lì a poco, dal paiolo fumante già emanavano i dolci aromi della pasta di salsiccia. Il piacevole odore giunse fino alla camera di consiglio e il re, inebriato, non riuscì a trattenersi: «Col vostro permesso, signori!» esclamò; e corse in cucina, abbracciò la sovrana, rimestò un poco con lo scettro d’oro nel calderone e, tranquillizzato, ritornò alla camera di consiglio. Si era giunti, proprio in quel momento, alla fase più importante e delicata: quella del taglio del lardo in tanti piccoli dadi, da rosolarsi per mezzo di minuscoli spiedi dorati. Le dame di corte si ritirarono; perché quest’operazione la regina intendeva compierla da sola, in segno di devozione e di rispetto al suo regal consorte. Ma non appena il lardo incominciò a rosolare, si intese il bisbiglio di una vocetta sottile sottile: «Da’ un po’ di arrostino anche a me, sorella!... Io pure voglio farmi una bella scorpacciata... sono una regina anch’io... Dammi un po’ di arrostino!...» La regina comprese al volo: quella era la vocetta della signora Mauserinks. La signora Mauserinks abitava da molti anni nel palazzo del re; si diceva parente della famiglia reale e regina del regno di Mausolia e, in tale qualità, teneva una corte molto grandiosa sotto la pietra del focolare. La regina era una donna buona e caritatevole e, pur rifiutandosi di riconoscere alla signora Mauserinks la dignità di regina e sorella, fu ben lieta di invitarla a partecipare al banchetto, in quel giorno di festa: «Venite pure, signora Mauserinks...» le rispose. «Certo, che potete servirvi del mio lardo!» La signora Mauserinks uscì vispa e giuliva dal suo buco e saltò sulla pietra del focolare a prendere con le graziose zampine i pezzi di lardo portile dalla regina, uno dopo l’altro. Ma dopo di lei, ecco sbucar fuori tutto il parentado: cugini, cugine, compari e perfino quei monellacci screanzati dei suoi sette figli, e precipitarsi sul lardo senza che la povera regina, spaurita, potesse difenderlo. A scacciare gli ospiti indiscreti sopraggiunse fortunatamente la prima dama di corte. Il poco lardo avanzato venne scrupolosamente suddiviso fra tutte le salsicce, secondo i calcoli e le indicazioni del matematico di corte, chiamato in soccorso. Al suono di timpani e trombe, potentati e principi, in sgargianti abiti di gala, giunsero al banchetto, alcuni cavalcando cavalli bianchi, altri entro carrozze di cristallo. Il re li ricevette con affettuosa e cordiale benevolenza; e, corona in testa, scettro in mano, sedette subito a capotavola, come voleva il suo rango di sovrano della contrada. Già alla portata delle salsicce di fegato lo si vide farsi sempre più pallido, volgere gli occhi al cielo, sospirare ango sciato, come se un’atroce pena lo tormentasse. Ma alla portata dei sanguinacci si abbatté gemendo contro lo schienale della poltrona, si coprì il viso con le mani e pianse da far pietà. Tutti balzarono in piedi. Il medico di corte tentò invano di tastare il polso all’infelice monarca, straziato, pareva, da un dolore inenarrabile. Finalmente, a furia di parole persuasive e di rimedi estremamente energici, come penne d’oca abbruciate e via dicendo, il re parve riprendersi un poco e farfugliò con voce appena percettibile: «... Troppo... poco... lardo...!» Allora la regina gli si prosternò ai piedi singhiozzando sconsolata: «Oh, povero, infelice mio regal consorte!... Quale dolore ha dovuto subire la vostra regale maestà!... Ma ecco, veda, la colpevole è ai suoi piedi... La punisca... la punisca duramente!... Ahimè, fu la signora Mauserinks, furono i suoi sette figli, i suoi cugini, i suoi compari, a mangiare il lardo!... E poi...» Ma a questo punto la regina cadde riversa, svenuta. Il re balzò in piedi fremente di collera: «Signora prima dama di corte!» gridò. «Com’è successo?» La prima dama di corte raccontò quanto ne sapeva, e il re giurò di vendicarsi della signora Mauserinks e della sua famiglia, che gli aveva mangiato il lardo per le salsicce.
Si convocò il consiglio segreto di stato per processare la colpevole e confiscarle tutti i beni; ma il re, essendo convinto che nel frattempo quella genia avrebbe continuato a rubargli il lardo, passò l’intera pratica all’orologiaio (nonché occultista) della corona, che si chiamava esattamente come me, vale a dire Cristiano Elia Drosselmeier. Costui promise di scacciare per sempre la signora Mauserinks e famiglia dal palazzo, mediante una singolarissima operazione di alta politica. Inventò, infatti, certe piccole, ingegnose macchinette, entro cui si appendevano a un filo dei pezzetti di lardo arrostito, e le fece porre in prossimità dell’abitazione di madama mangialardo. La signora Mauserinks era troppo saggia per non subodorare l’inganno di Drosselmeier, ma a nulla valsero le sue ammonizioni e le sue prediche. Adescati dal dolce odorino del lardo arrostito, i sette discoli e una legione di cugini e compari entrarono nelle macchine di Drosselmeier, addentarono il lardo e rimasero presi in trappola dall’improvvisa caduta di uno sportello graticolato. Dopodiché, gli infelici vennero ignominiosamente giustiziati nella cucina medesima, mentre la signora Mauserinks lasciava quel luogo d’orrore con un’esigua schiera di sopravvissuti e col cuore traboccante di rancore, disperazione, sete di vendetta. La corte giubilò, ma la regina rimase molto preoccupata: conosceva troppo bene il carattere della signora Mauserinks per illudersi che lasciasse invendicata la morte dei figli e dei parenti. Infatti, un giorno, mentre stava cucinando un bel piatto di coratella per il regal consorte, che ne era ghiottissimo, ecco, saltò fuori la signora Mauserinks e le disse: «I miei figli, i miei cugini, i miei parenti sono stati massacrati... Bada, maestà, che la regina dei topi non abbia a sbranare la tua principessina... Bada !...» Con queste parole scomparve e non si fece più vedere. La regina rimase talmente spaventata, che lasciò cadere la coratella nel fuoco; in tal modo, per la seconda volta (e di nuovo per colpa della regina dei topi) andò rovinato uno dei piatti preferiti del re, che se ne adirò moltissimo." "Ma per questa sera basta," disse Drosselmeier. "Il seguito a domani." Per quanto Maria, che di questa storia si era fatta un’idea tutta sua particolare, insistesse nel pregarlo di continuare, il padrino fu irremovibile: "Il troppo stroppia!" disse alzandosi. Quand’era già sulla porta, Fritz gli domandò ancora: "Ma di’ un po’, padrino Drosselmeier, è proprio vero che hai inventato le trappole per i topi?" "Non fare domande sciocche!" esclamò la mamma. Ma il consigliere sorrise in modo assai strano e disse sottovoce: "Io, che sono un così bravo orologiaio, non dovrei essere capace di inventare una trappola per topi?..."
Segue la fiaba della noce dura
"Adesso voi sapete, bambini," riprese il consigliere Drosselmeier la sera seguente, "perché la regina facesse sorvegliare con tanto rigore la bellissima principessina. Poteva non temere che la signora Mauserinks, mettendo in atto la sua minaccia, venisse a uccidere Pirlipat a morsi?... Contro di lei, la saggia e scaltrissima regina dei topi, le macchine di Drosselmeier non potevano nulla. L’astronomo di corte (e al tempo stesso astrologo e supremo interprete dei segni celesti) fu l’unico a dichiarare con certezza che soltanto la famiglia del gatto Schnurr sarebbe stata in grado di tenere lontana la signora Mauserinks dalla culla. Ecco perché a ognuna delle governanti era stato ordinato di tenere in grembo un pupillo della famiglia suddetta (a corte ce n’erano parecchi, e tutti impiegati in qualità di consiglieri di legazione), e di addolcirgli il gravoso servizio con carezze e granatine sapienti. Mezzanotte suonata... All’improvviso, una delle capo-governanti, seduta proprio accanto alla culla, si destò di soprassalto: intorno, tutto era immerso nel sonno: niente fusa, silenzio di tomba, soltanto lo stridere di un tarlo nel legno!... Ma immaginate come rimase la capo-gover nante quando si vide accanto un orribile topo, ritto sulle zampe posteriori e col muso schifoso contro il visino della principessa! Con un grido d’orrore la donna balzò in piedi e istantaneamente la signora Mauserinks (...chi altri poteva essere il grosso topo, se non lei?...) corse verso l’angolo della camera. I consiglieri di legazione si lanciarono all’inseguimento, ma... troppo tardi! L’intrusa era già scomparsa in una fessura del pavimento. La piccola Pirlipat, svegliata da quel baccano, si mise a piangere forte. «Lode al cielo! È viva!...» esclamarono le governanti. Ma grande fu il loro raccapriccio quando videro che cosa ne era diventato, della bella e tenera bimba... Al posto della testina angelica, bianca, rosea, ricciuta e bionda come l’oro, un testone informe poggiava su un minuscolo corpicino rattrappito. Gli occhi color del cielo si erano trasformati in due bocce verdi, sporgenti, dallo sguardo imbambolato, e la deliziosa boccuccia in una bocca mostruosa che giungeva da un orecchio all’altro. La regina parve dovesse morire a furia di gemiti e pianti. Lo studio del re dovette venir tappezzato di coltri imbottite, perché sua maestà non faceva più altro che dar di testa contro le pareti, gridando con voce da far pietà: «O me infelice !... Sventurato monarca !...» A questo punto, chiunque altro al posto suo avrebbe ammesso che sarebbe stato assai meglio mangiare le salsicce senza lardo e lasciare in pace sottoterra la signora Mauserinks e il parentado; ma il regal genitore di Pirlipat non giunse a tale conclusione e preferì riversare tutta la colpa dell’accaduto sull’orologiaio (nonché occultista di corte) Cristiano Elia Drosselmeier, da Norimberga. E pertanto emise la seguente saggia ordinanza: se Drosselmeier, entro quattro settimane, non avesse riportato la principessina Pirlipat allo stato primitivo o, quanto meno, non fosse stato in grado di indicare un rimedio infallibile per raggiungere tale scopo, sarebbe morto di morte ignominiosa sotto la scure del boia. Sulle prime Drosselmeier si impressionò non poco, ma poi, fidando nell’arte sua e nella buona stella, passò a compiere la prima operazione del caso. Con incredibile abilità, smontò la principessina da capo a piedi, le svitò le manine, i piedini, ne esaminò la struttura interna, ma giunse, purtroppo, soltanto alla certezza che la bimba, crescendo, sarebbe diventata sempre più mostruosa. Rimedi, consigli utili, non seppe suggerirne. Rimise insieme con cura la principessa e si accasciò affranto presso la culla, da cui non doveva allontanarsi mai. Si giunse così al mercoledì della quarta settimana. Il re, con occhi fiammeggianti di collera, fece capolino dalla porta e disse, agitando minacciosamente lo scettro: «Cristiano Elia Drosselmeier, guarisci la principessa o morirai!» Drosselmeier scoppiò in amarissimo pianto; ma, mentre lui piangeva, la principessa schiacciava allegramente noci con i dentini. Per la prima volta, l’occultista fece caso all’eccezionale avidità con cui la piccola mangiava noci... ripensò al fatto che fosse venuta al mondo coi dentini, e la coincidenza lo colpì. Infatti, infatti: subito dopo la mostruosa trasformazione si era messa a strillare, e aveva continuato fino a quando, per caso, non le era capitata fra le manine una noce... una noce che subito aveva stritolato con i dentini per mangiarne il gheriglio; dopodiché si era immediatamente chetata. Da quel momento le governanti non facevano più in tempo a portarle tutte le noci che consumava. «O divino istinto della Natura!... Eterna, insondabile simpatia che regola i rapporti fra tutti gli esseri viventi!», esclamò Cristiano Elia Drosselmeier. «Tu mi additi la porta del mistero... io busserò e mi sarà aperto!» Chiese immediatamente il permesso di conferire con l’astronomo di corte e venne condotto da lui sotto scorta. I due scienziati, legati da tenera amicizia, si abbracciarono fra le lacrime e, ritiratisi in un laboratorio segreto, consultarono numerosi libri e trattati sugli istinti, le simpatie, le antipatie e altri misteriosi fenomeni. Quando si fece notte, l’astronomo di corte scrutò le stelle e, con l’aiuto di Drosselmeier (versatissimo anche in questo campo) tracciò l’oroscopo della principessa Pirlipat. Fu una fatica enorme, perché le linee sembravano imbrogliarsi sempre più, ma finalmente (o gioia!) finalmente apparve chiaro e manifesto che, per sciogliere l’incantesimo e ritornare bella come prima, la principessa Pirlipat doveva semplicemente mangiare il dolce gheriglio della noce Krakatuk. La noce Krakatuk aveva un guscio così duro, che sarebbe potuto passarci sopra un cannone da quarantotto libbre senza schiacciarlo: eppure questa durissima noce doveva venir spezzata coi denti da un giovane che ancora non si fosse mai raso né avesse mai calzato stivali. E non basta. Il giovane in questione avrebbe dovuto porgere il gheriglio alla principessa tenendo gli occhi chiusi, e riaprirli soltanto dopo aver fatto sette passi all’indietro senza inciampare... Drosselmeier e l’astronomo avevano lavorato ininterrottamente per tre giorni e tre notti. Era sabato; il re sedeva a tavola per il desinare di mezzodì, quando Drosselmeier, che avrebbe dovuto venir decapitato l’indomani mattina di buon’ora, si precipitò pazzo di gioia in sala da pranzo ad annunziare che il rimedio per restituire alla principessa Pirlipat la perduta bellezza era stato trovato. Il re lo abbracciò con impetuosa benevolenza e gli promise una spada di diamante, quattro decorazioni e due abiti da festa nuovi fiammanti: «Appena finito di pranzare», soggiunse affabilmente, «ci si deve mettere all’opera. Faccia in modo, mio caro occultista, che il giovanotto imberbe con le scarpine ai piedi e, naturalmente, anche la noce Krakatuk, siano a portata di mano. E badi bene di non lasciargli bere del vino, a quel tale, in modo che non abbia a inciampare quando dovrà fare i sette passi camminando all’indietro come i gamberi. Dopo potrà pure ubriacarsi quanto vorrà». Drosselmeier rimase senza fiato... Esitando, tremando, balbettando, fece presente al sovrano che il rimedio era, sì, stato trovato, ma che la noce Krakatuk e il giovanotto-schiaccianoci dovevano ancora cercarsi, ed era assai dubbio che potessero trovarsi mai... Fremente di collera, il re si percosse la testa coronata con lo scettro e ruggì, con voce leonina: «E allora confermo l’ordine di decapitarti!» Nel tragico frangente fu una vera fortuna, per il povero orologiaio angustiato e impaurito, che quel giorno il re avesse particolarmente gustato il pranzetto e fosse pertanto nelle migliori disposizioni di spirito per prestare orecchio alle sensate parole della magnanima regina, commossa dalla sorte di Drosselmeier. Questi riprese coraggio e finì per obiettare che, indicando il rimedio per guarire la principessa, il suo compito, dopo tutto, lo aveva assolto e la vita se l’era riscattata. «Cavilli... pretesti... chiacchiere senza senso!» brontolò il re e, trangugiato un bicchierino di liquore digestivo, decise che l’orologiaio e l’astronomo partissero insieme (gambe in spalla!) e non ritornassero senza portare in tasca la noce Krakatuk. In quanto al giovane destinato a schiacciare la medesima coi denti, la regina suggerì di procurarselo mediante ripetute inserzioni nei gazzettini locali ed esteri." A questo punto, il consigliere d’appello si interruppe di nuovo e promise di terminare la storia l’indomani sera.
Si conclude la fiaba della noce dura
La sera dopo, appena si accesero i lumi, il padrino Drosselmeier si ripresentò puntuale e riprese il racconto: "Drosselmeier e l’astronomo di corte erano in viaggio ormai da quindici anni, ma della noce Krakatuk non avevano ancora trovato traccia. Se dovessi descrivervi tutti i luoghi che attraversarono e le straordinarie peripezie di cui furono protagonisti, bambini miei, avrei da raccontarvene per un mese. Non lo farò, ma vi dirò solamente che Drosselmeier, già tanto turbato, a un certo punto incominciò a soffrire d’una terribile nostalgia della sua amata città Natale: Norimberga. Tale nostalgia lo colse in forma particolarmente acuta mentre, seduto insieme all’amico in una immensa foresta asiatica, stava fumandosi una pipatina di tabacco canastro: O Norimberga mia, bella città Chi veduta non t’ha Fosse pur ito A Parigi o a Londra o in altro sito Avrà sempre di te la nostalgia O Norimberga mia, città celeste Dalle case munite di finestre... Udendo Drosselmeier gemere questa tristissima nenia, l’astronomo fu preso da compassione e incominciò a piangere e a ululare così forte, che lo si sentì da un capo all’altro dell’Asia. Però si riprese quasi subito, si terse le lacrime e disse: «Ma, esimio collega, perché, invece di starcene qui seduti a piangere, non andiamo a Norimberga?... Tanto, cercarla in un posto o nell’altro, quella maledetta noce Krakatuk, non è la stessa cosa?...» «Questo è anche vero...» ammise Drosselmeier rincuorato. E, detto fatto, si alzarono, svuotarono (tac, tac) le pipe e via, tutto d’un fiato, da quel bosco nel cuore dell’Asia, difilato a Norimberga! Appena arrivati, Drosselmeier si precipitò da un suo cugino, fabbricante di bambole, verniciatore e indoratore, di nome Cristoforo Zaccaria Drosselmeier, che non aveva più visto da molti e molti anni; e subito gli raccontò per filo e per segno la storia della principessa Pirlipat, della signora Mauserinks nonché della noce Krakatuk. «Ah, cugino, cugino!» esclamò Cristoforo Zaccaria dopo aver abbondantemente manifestato il proprio stupore con grandi battute di mano. «Che cose!... Che cose inaudite!...» E Drosselmeier raccontò ancora le peripezie del lungo viaggio: come avesse trascorso due anni presso il re dei datteri (e fosse stato ignominiosamente scacciato dal principe dei mandorli) e avesse invano sottoposto il suo problema alla Società di ricerche scientifiche naturalistiche di Sciuruspoli (la capitale degli Scoiattoli); in breve, come in nessun posto fosse riuscito a scovare la benché minima traccia della noce Krakatuk. Durante questo racconto, Cristoforo Zaccaria non aveva fatto altro che schioccare le dita, la lingua, e piroettare su un piede solo mugolando: «Hm, hm... Ih... Ahi... Ohh... il diavolo mi porti!"; ma alla fine scagliò in aria la parrucca ed abbracciò con effusione il cugino esclamando: «Cugino, cugino!... Voi siete a posto... siete a posto, vi dico... Perché, se non è tutto un abbaglio, io, io stesso possiedo la noce Krakatuk...!» E corse a prendere una scatoletta, dalla quale tirò fuori una noce dorata, di media grandezza. «Guardate...» disse, mostrandola al cugino. «Guardate... E state a sentire la storia di questa noce: molti anni fa, durante le feste natalizie, giunse qui un uomo a vendere un sacco di noci. Proprio davanti al mio negozio di bambole, un mercante del posto, irritato dalla concorrenza dello straniero, lo aggredì; e quello, prima di venire alle mani, per difendersi meglio pose il sacco per terra. Passava in quel momento un grosso carro carico di merci, travolse il sacco e schiacciò tutte le noci, tranne questa sola, che lo straniero mi offrì in vendita (con un sorriso curioso) per una svanzica dell’anno 1720. La cosa mi parve strana... mi frugai in tasca... ci trovai proprio una di quelle svanziche, comprai la noce e la indorai. Non sono però mai riuscito a capire perché la pagassi tanto cara e la tenessi tanto da conto, come una cosa preziosa». Gli ultimi dubbi circa l’autenticità della noce Krakatuk caddero, non appena l’astronomo di corte, chiamato in consulto, dopo aver grattato e ripulito ben bene il guscio della noce, vi trovò incisa la parola «Krakatuk», in caratteri cinesi. Grande fu la gioia dei nostri due viaggiatori; e il cugino Cristoforo Zaccaria divenne l’uomo più felice sotto il sole allorché Drosselmeier gli assicurò che ormai la sua fortuna era fatta. D’ora innanzi, oltre a una cospicua pensione, avrebbe ricevuto gratuitamente tutto l’oro necessario per le sue indorature. L’occultista e l’astronomo, infilatisi le berrette da notte, si disponevano ad andare a letto, quando questi (l’astronomo) osservò: «Egregio signor collega, le fortune non vengono mai sole. Mi creda: abbiamo trovato non soltanto la noce Krakatuk, ma anche il giovinetto destinato a schiacciarla coi denti e a porgere alla principessa il "gheriglio della bellezza"... Alludo, né più né meno, che al figliolo del suo signor cugino!... No... Non andrò a dormire», proseguì con foga, «voglio tracciare l’oroscopo del ragazzo questa notte stessa!" Così dicendo, si strappò la berretta dal capo e iniziò senz’altro le sue compulsazioni. Il figlio del cugino era, in effetti, un bel ragazzino ben fatto, assolutamente imberbe e privo di stivali. Veramente, da piccolo era stato una marionetta, ma per due Natali soltanto; ora non lo dava assolutamente più a vedere, tanto lo avevano migliorato gli sforzi educativi del buon padre. Durante le feste natalizie indossava una bella giubba rossa e oro e, spada al fianco, cappello sotto il braccio, parrucca con codino sulla testa, bazzicava nella bottega del padre spezzando noci coi denti per conto delle ragazzine. Quest’atto di innata galanteria gli aveva già fruttato il soprannome di «Schiaccianocino bello» da parte delle ragazzine medesime. Il mattino seguente, l’astronomo, fuori di sé dalla gioia, si gettò al collo dell’occultista esclamando: «È lui!... Lo abbiamo trovato... lo teniamo!... Due cose soltanto non dobbiamo trascurare, collega carissimo; primo: lei dovrà applicare al suo illustre signor nipote un robusto codino di legno, collegato con la mandibola inferiore in modo tale che tirandolo energicamente si possa raddoppiare la forza dei muscoli zigomatici. Secondo: quando giungeremo a corte, non dovremo assolutamente dire di aver portato con noi il giovane schiaccianoci; egli dovrà fingere di arrivare molto dopo di noi. Perché leggo nell’oroscopo che, se qualcun altro si spezzerà qualche dente senza risultato, il re prometterà la mano della principessa e la successione al trono a chi riuscirà a spezzare la noce e a restituire alla figlia la bellezza perduta». Il tornitore di bambole rimase estremamente soddisfatto, all’udire che il suo figlioletto era destinato a sposare la principessa Pirlipat e a diventare principe e re. Drosselmeier applicò la leva al giovane e promettente nipote in modo ineccepibile; gli esperimenti effettuati anche sui più duri noccioli di pesca furono brillantissimi. Poiché i due scienziati avevano immediatamente notificato alla capitale il ritrovamento della noce Krakatuk, anche là si erano subito prese le disposizioni del caso. Cosicché, quando i nostri viaggiatori fecero ritorno in patria recando il miracoloso cosmetico, erano già stati preceduti da numerosi giovani di bell’aspetto (... c’erano perfino alcuni principi!) i quali, fidando nelle loro sane dentature, volevano tentare di sciogliere l’incantesimo. Nel rivedere la principessa, l’astronomo e l’occultista inorridirono: Pirlipat era un mostriciattolo, dalle membra striminzite, dal piccolo corpo che pareva reggere a stento l’enorme testa deforme... La bruttezza del viso era ancora accentuata da una barbetta bianca lanugginosa intorno alla bocca e sul mento. L’oroscopo aveva detto il vero! Uno dopo l’altro, gli sbarbatelli si fiaccarono mandibole e denti contro il durissimo guscio della noce Krakatuk senza, naturalmente, recare alcun vantaggio alla principessa. Vennero portati via semisvenuti dal dentista di servizio, gemendo invariabilmente: «Ahi, ahi, che noce dura !...» E quando finalmente il re, ansioso e trepidante, promise la figlia e il regno a chi avesse rotto l’incantesimo, il tenero e gentile giovinetto Drosselmeier si fece annunziare e chiese di poter tentare la prova. Nessuno dei competitori era piaciuto tanto alla principessa Pirlipat quanto quel giovinetto; vedendolo si pose le manine sul cuore e sospirò dal fondo dell’anima: «Ah, fosse lui quello che riuscirà a rompere la noce Krakatuk e a diventare il mio sposo!» Il giovane Drosselmeier, rivolto un cortese saluto al re, alla regina, alla principessa, ricevette la noce Krakatuk dalle mani del gran cerimoniere, se la mise in bocca, diede di strappo al codino e (crac, crac...) fece saltare il guscio in mille pezzi; ripulì con cura il gheriglio delle residue fibre legnose e lo porse, con un’umile riverenza, alla principessa. Poi chiuse gli occhi e incominciò a camminare all’indietro. La principessa inghiottì senz’altro la noce e (o prodigio!...) al posto del mostriciattolo apparve un’angelica figuretta di fanciulla, dal viso come intessuto di serici fiocchi, candidi come il giglio, rosei come la rosa di maggio, dagli occhi simili a due zaffiri splendenti e i riccioli biondi a un intreccio di fili dorati. Timpani e trombe si unirono al tripudio del popolo; il re e tutta la corte si misero a ballare su un piede solo, come nel giorno della nascita di Pirlipat, ma la regina cadde in deliquio per la troppa gioia e dovettero rianimarla con aspersioni di Acqua di Colonia. Il tumultuoso baccano turbò non poco il giovane Drosselmeier, ancor sempre alle prese con i sette passi indietro; ciò nonostante egli riuscì a controllarsi, e già stava posando in terra il piede destro per la settima volta, quand’ecco che madama Mauserinks sbucò dal pavimento squittendo e pigolando minacciosa: il piede le si posò addosso, Drosselmeier incespicò, per un pelo non cadde... Oh, sciagura!... Istantaneamente il fanciullo divenne mostruoso come lo era stata fino ad allora la principessa... il suo corpo si contrasse, si rattrappì al punto di non poter quasi più reggere l’enorme testa deforme, dai grossi occhi sporgenti, dall’orrenda boccaccia spalancata... Al posto del codino, gli pendeva dietro le spalle un breve mantelletto di legno, collegato alla mandibola in modo da poterne comandare i movimenti. L’orologiaio e l’astronomo inorridirono; ebbero tuttavia la soddisfazione di vedere la signora Mauserinks contorcersi a terra nel proprio sangue. Tanta perfidia non era rimasta impunita: il giovane Drosselmeier, calpestandole il collo col tacco aguzzo, l’aveva ferita a morte. Negli spasimi dell’agonia essa pigolò ancora pietosamente: O Krakatuk, o dura, dura noce Tu sei la causa di mia morte atroce Hi-hi, pi-pi, Schiaccianocino caro Presto saprai quanto il morir sia amaro. Il figlio mio, dalle sette corone Ti darà, Schiaccianoci, il guiderdone. Vendicherà la madre: aspetta, aspetta Il figlio mio di me farà vendetta! O vita, addio! Ancor sì fresca e forte Dover chiudere gli occhi nella morte! Quick! Con quest’ultimo gridolino, madama Mauserinks spirò e venne spazzata via dal reale intendente alle stufe. Del povero Drosselmeier non si era curato nessuno. Fu Pirlipat a ricordare al re la promessa, e questi allora ordinò di condurgli subito il giovane eroe; ma quando l’infelice si presentò, in tutta la sua mostruosa deformità, la principessa si coprì il volto con le mani strillando: «Via... via!... Portate via quell’orribile schiaccianoci!...» E, detto fatto, il maresciallo di corte afferrò il poverino per le gracili spalle e lo scaraventò fuori dalla porta. Il re montò sulle furie (come avevano osato proporgli per genero uno schiaccianoci?...) e riversò tutta la colpa sulla inettitudine dell’orologiaio e dell’astronomo, decretando per entrambi l’esilio perpetuo dalla residenza reale. Questa complicazione, l’oroscopo tracciato a Norimberga non l’aveva prevista; ciò nondimeno l’astronomo non si tenne dal ritentare la prova; e credette di leggere nelle stelle che il giovane Drosselmeier si sarebbe comportato così bene nella sua nuova mansione, da diventare, alla fine, principe e re, malgrado la sua bruttezza. Di tale bruttezza, però, si sarebbe liberato se fosse riuscito ad uccidere di propria mano il figlio di madama Mauserinks (nato con sette teste, dopo la morte di quei sette figli, e diventato re dei topi) e a conquistarsi la benevolenza di una dama malgrado il suo orribile aspetto. Pare che il giovane Drosselmeier sia poi stato visto a Norimberga, nella bottega del padre: era uno schiaccianoci, sì, ma anche un principe! Questa, bambini, è la storia della noce Krakatuk. E adesso voi sapete perché la gente dica così spesso: «Ah... che noce dura!» e da che cosa dipenda il fatto che gli schiaccianoci siano tanto brutti." Il consigliere d’appello concluse così il suo racconto. Maria deprecò indignata la nera ingratitudine della principessa Pirlipat; Fritz, invece, dichiarò che se Schiaccianoci avesse avuto un briciolo di fegato, avrebbe dovuto sbrigarsela senza tanti complimenti col re dei topi e riconquistarsi la graziosa figura di un tempo.
Zio e nipote
Se qualcuno fra voi, lettori o ascoltatori pregiatissimi, ha già avuto la sfortuna di tagliarsi con una scheggia di vetro, saprà per esperienza quanto siano dolorose, e insidiose, e lunghe a guarire simili ferite. Maria aveva dovuto rimanere a letto per quasi una settimana, perché, se appena si alzava, si sentiva girare la testa. Ma finalmente ritornò a star bene, e a correre allegra per la camera come prima. L’armadio a vetri era bellissimo a vedersi, così pieno di bambole, casette, alberelli, fiori e giocattoli nuovi fiammanti. Per prima cosa Maria ritrovò il suo caro Schiaccianoci, che le sorrideva dal secondo piano con la dentatura rimessa a nuovo. Ma, mentre lo contemplava struggendosi di tenerezza, si rese improvvisamente conto, con sgomento, che tutto il racconto del padrino era la pura e semplice storia del conflitto suo e di Schiaccianoci con madama Mauserinks e suo figlio. Schiaccianoci (ora lo sapeva di certo) non poteva esser altri che il grazioso e simpatico nipote del padrino Drosselmeier, il fanciullo di Norimberga, stregato, purtroppo, dalla signora Mauserinks. In quanto, poi, all’ingegnoso orologiaio del real padre di Pirlipat (Maria lo aveva capito benissimo già durante il racconto) era, senz’ombra di dubbio, il padrino Drosselmeier in persona... "Ma perché, allora, tuo zio non ti ha aiutato?... Perché non ti ha aiutato?..." gemeva la bimba, mentre sempre più chiara e precisa si rafforzava in lei la convinzione che, nella battaglia a cui aveva assistito, erano in gioco il regno e la corona di Schiaccianoci... Non erano forse tutte sottomesse a lui, le altre bambole?... E ciò non significava che, come giustamente aveva profetato l’astronomo di corte, il fanciullo Drosselmeier era diventato re del regno delle bambole?...
Mentre la bimba si sforzava di dipanare nella sua testolina intelligente tali pensieri, si convinse che Schiaccianoci e i suoi vassalli avrebbero preso vita, si sarebbero mossi, per il semplice fatto che lei li riteneva capaci di tanto. Invece non fu così: nell’armadio tutto rimase immobile e Maria, ben lontana dal rinunziare alla propria convinzione, attribuì anche questo fatto all’incantesimo di madama Mauserinks e del suo figliolo dalle sette teste. "Però," disse, parlando forte a Schiaccianoci, "anche se lei non è in grado di muoversi e di dirmi una parolina, caro signorino Drosselmeier, io so che mi capisce e sa quanto le voglio bene... Conti pure sul mio appoggio, qualsiasi volta le occorra! Proverò almeno a pregare suo zio che le venga in aiuto in caso di bisogno... lui, che è tanto ingegnoso..." Schiaccianoci rimase zitto e tranquillo; ma a Maria parve che un lieve sospiro, un sospiro quasi impercettibile ma delizioso ad udirsi, corresse per l’armadio, e una vocetta limpida come un suono di campanella cantilenasse: "Maria, piccina, angelo mio, tu sarai mia... E tuo sarò io... Maria..." Maria provò un brivido freddo e insieme uno strano senso di benessere. Imbruniva. Il consigliere sanitario entrò col padrino Drosselmeier, Luisa in quattro e quattr’otto apparecchiò il tavolino del te e la famiglia vi si sedette attorno conversando allegramente. Maria, zitta zitta, era andata a prendere la sua seggiolina per sedersi proprio accanto ai piedi del padrino. In una pausa della conversazione, la bimba sgranò gli occhioni celesti sul viso di Drosselmeier e gli disse: "Adesso so, caro padrino, che il mio Schiaccianoci è tuo nipote... quel giovane signorino Drosselmeier di Norimberga... È diventato principe (anzi: re!) proprio come aveva predetto il tuo amico astronomo... Tu sai che è in guerra aperta col brutto re dei topi, figlio della signora Mauserinks... Perché non lo aiuti?... E la bimba raccontò daccapo tutto lo svolgimento della battaglia (così come l’aveva vista) continuamente interrotta dalle sonore risate della mamma e di Luisa. Soltanto Fritz e Drosselmeier rimasero seri. "Ma dove le va a prendere tutte queste idee strampalate, la mia bambina?..." domandò il papà. "Sai, caro," rispose la mamma, "ha una fantasia molto fervida, ecco tutto... E poi si tratta soltanto di sogni provocati dalla febbre alta, durante la malattia." "Non è vero niente!" protestò Fritz. "I miei ussari rossi non sono dei simili poltroni... Corpo di mille spingarde!... Gliela farei vedere io!..." Ma il padrino Drosselmeier, col suo enigmatico sorriso, prese in grembo la piccola e le disse più teneramente del solito: "Eh, sì, cara la mia Maria: a te è stato dato più che a noi tutti... Tu sei, come Pirlipat, una principessa di sangue reale, perché regni su un regno meraviglioso, candido come la neve... Ma ti toccherà soffrire molto, se vorrai continuare a proteggere quel povero schiaccianoci deforme, perché il re dei topi lo perseguita senza dargli quartiere. Non io, carina, tu sola potrai salvarlo: tieni duro e siigli fedele." Né Maria né alcun altro comprese che cosa intendesse dire Drosselmeier con queste parole; e il papà le trovò così strane, che volle tastare il polso al consigliere: "Egregio amico," gli disse, "lei soffre di gravi congestioni cerebrali. Le prescriverò qualche cosa." Soltanto la mamma rimase sopra pensiero e disse piano, crollando il capo: "Credo di intuire che cosa abbia inteso dire il signor consigliere... ma non saprei ripeterlo con parole chiare..."
La vittoria
Non molto tempo dopo, Maria, in una notte di luna, fu svegliata da strani rumori che parevano provenire da un angolo della camera... Rumori come di pietruzze smosse e scagliate qua e là, frammisti a sibili, a squittii sgradevolissimi. "Ah!... I topi... i topi ritornano!" gridò Maria spaventata, e volle svegliare la mamma: ma il grido le morì in gola e le membra si rifiutarono di ubbidirle quando ella vide il re dei topi aprirsi un passaggio attraverso una fessura del muro, uscirne con gli occhi (e con le corone) sfavillanti e balzare d’un salto sul tavolino accanto al suo letto: "Ih... ih... ih... Devi darmi tutti i tuoi confetti... tutto il tuo marzapane, piccina mia... Altrimenti divorerò Schiaccianoci... il tuo Schiaccianoci!" sibilò il re dei topi con un sinistro scricchiolio di denti; e poi subito corse via, nel suo pertugio... Il giorno dopo Maria era pallidissima, agitata, taciturna, tanto l’aveva spaventata e scossa l’orribile apparizione. Cento volte fu sul punto di raccontare tutto alla mamma, a Luisa, perlomeno a Fritz... Ma, chi le avrebbe creduto?... E non l’avrebbero presa ben bene in giro, per giunta?... E questo pensiero la trattenne. Convinta, tuttavia, che per salvare Schiaccianoci avrebbe dovuto sacrificare confetti e marzapane, verso sera pose quanto possedeva di tali beni accanto al bordo dell’armadio. La mattina seguente la mamma disse: "Non capisco come mai, tutt’a un tratto, siano entrati i topi nel nostro alloggio. Guarda soltanto, povera Maria: hanno mangiato tutti i tuoi dolci." Era proprio così. Il marzapane ripieno, l’ingordo re dei topi non l’aveva trovato di suo gusto, però lo aveva rosicchiato in modo tale che lo si dovette buttar via. Maria non rimpianse minimamente i dolciumi; si rallegrò, anzi, in cuor suo, d’aver salvato Schiaccianoci. Ahimè, come rimase quando, la notte stessa, sentì di nuovo fischiare, squittire proprio accanto al suo orecchio... Sì: il re dei topi era ritornato... gli occhi gli scintillavano ancor più cattivi... la vocetta sibilava fra i denti ancor più sgradevole che la notte pre cedente: "Devi darmi tutti i tuoi pupazzetti di zucchero e gomma dragante, altrimenti divorerò Schiaccianoci... il tuo Schiaccianoci..." E balzò via.
La mattina seguente Maria, tutta turbata, si accostò all’armadio a contemplare tristemente le sue bamboline di zucchero e adragante. Il dolore della bimba era giustificato, perché tu non puoi credere, mia attenta ascoltatrice Maria, quali deliziose figurette di zucchero possedesse la piccola Stahlbaum. Oltre a un graziosissimo pastorello, con la sua pastorella, il gregge di pecorelle bianche come il latte e un bel cagnolino vivace, c’erano due postini con le lettere in mano e quattro elegantissime coppie di giovincelli e ragazze seduti su un’altalena russa. Venivano poi alcuni danzatori e infine il massaro Feldkùmmel e la pulzella d’Orléans, a cui Maria non teneva un gran che... Ma nel cantuccio, là in fondo, c’era il suo prediletto: un bambinello roseo e paffuto. "Ah!" esclamò rivolgendosi a Schiaccianoci. "Che cosa non farei per aiutarla, signorino Drosselmeier!... Ma questo è molto duro!..." Schiaccianoci la guardò con un viso così piagnucoloso, che Maria credette di vedergli accanto il re dei topi, pronto ad addentarlo con le sette fauci spalancate... No: avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvare l’infelice fanciullo! Perciò, quando fu sera, depose tutte le figurine di zucchero presso l’armadio; baciò il pastorello, la pastorella, gli agnellini, poi trasse il suo prediletto (il bimbo roseo e paffuto) dal cantuccio e lo mise con gli altri, ma più indietro possibile. Il massaro Feldkùmmel e la pulzella d’Orléans dovettero invece rassegnarsi a stare in prima fila. "No, questo è troppo!" esclamò la mamma la mattina dopo. "Ci deve proprio essere un brutto topaccio nell’armadio a vetri, perché tutte le belle bamboline di zucchero della povera Maria sono state rosicchiate, fatte a pezzi..." Maria non poté trattenersi dal piangere, ma quasi subito tornò a sorridere pensando: "Pazienza!... Almeno Schiaccianoci è salvo!..." Quella sera, la mamma riferì al consigliere Drosselmeier il disastro combinato dal topo nell’armadio dei bimbi; e il papà soggiunse: "Quella bestiaccia ha rosicchiato tutte le cosine di zucchero della povera Maria. È mai possibile che non ci sia modo di eliminarla?..." "Sì che c’è!..." saltò sù Fritz tutto allegro. "Il fornaio qui sotto ha un bellissimo consigliere di legazione grigio... Lo porterò di sopra: penserà lui a farla finita e a papparsi la testa di quel topo, fosse pure madama Mauserinks in persona, o il re suo figlio..." "Sì!... E a saltare sulle sedie, sui tavoli, buttar giù tazze, bicchieri e fare chissà quali altri danni!" disse la mamma ridendo. "Ma no, ma no!" protestò Fritz. "Il consigliere di legazione del fornaio è un tipo talmente in gamba... Vorrei sapere io camminare così sicuro sugli spioventi dei tetti!" "Per favore, niente gatti di notte!" supplicò Luisa, che i gatti non li poteva soffrire. "Veramente," disse il papà, "mi pare che Fritz non abbia torto. Potremmo però anche provare a mettere una trappola... Ne abbiamo qualcuna?..." "Potrebbe sempre farcela il padrino Drosselmeier, dal momento che è stato lui a inventarle!" propose Fritz, e tutti risero. La mamma dichiarò che trappole, in casa, non ce n’erano, e poiché il consigliere ne aveva parecchie, mandò subito a prenderne una eccellente a casa sua. Allora la fiaba della noce dura ritornò ben viva alla memoria di Fritz e Maria. Quando la cuoca si mise a rosolare il lardo, Maria, totalmente immedesimata nel mondo fantastico del racconto udito dal padrino, disse tutta tremebonda alla buona e ben nota Dora: "Ah... signora regina... si guardi da madama Mauserinks e dalla sua famiglia!..." Fritz, invece, sguainò la sciabola e proclamò fieramente: "E adesso vengano pure... li concerò io per le feste!..." Finalmente il consigliere Drosselmeier legò il lardo a un filo sottile e andò a deporre piano, con circospezione, la trappola presso l’armadio a vetri. "Attento, padrino!" gli gridò il fanciullo. "Bada che il re dei topi non faccia anche a te qualche brutto scherzo!..." Ah, povera Maria, che angoscia quella notte!... Qualcosa di gelido le picchiettò il braccio... qualcosa di ispido, di schifoso, le si appoggiò sulla guancia... e poi di nuovo quella orribile vocetta stridente... Il mostruoso re dei topi le sedeva sulla spalla, schiumando sangue dalle sette fauci spalancate, digrignando i denti... E Maria, paralizzata dal terrore, si sentì sibilare all’orecchio: "Me ne infischio... me ne infischio... Non entro in quella casa Non cado dentro il vischio Non vado a banchettare Faccio quel che mi pare Me ne infischio Fuori, fuori i libri belli Fuori il vestitino nuovo Voglio questo, voglio quelli E se non li ritrovo Tu non avrai più pace Schiaccianoci perderai Lo sai Io sono vorace Ih, ih... Quick, quick!..." Maria rimase profondamente afflitta e turbata. Quando la madre, la mattina dopo, le disse: "Il topo cattivo non lo abbiamo preso," la vide così pallida che pensò si crucciasse ancora per le sue figurine di zucchero e, per di più, avesse paura del topo; perciò soggiunse subito: "Ma sta’ tranquilla, cara, riusciremo a liberarcene; se le trappole non servono, Fritz ci porterà sù il suo consigliere di legazione grigio." Rimasta sola nella camera di soggiorno, Maria corse all’armadio e disse fra i singhiozzi a Schiaccianoci: "Ah, mio caro e buon signorino Drosselmeier... Che cosa posso fare per lei io, povera bambina infelice?... Se anche dessi in pasto all’orribile re dei topi tutti i miei libri illustrati... e perfino il bel vestitino nuovo che mi ha regalato Gesù Bambino... quello continuerebbe a chiedere, a chiedere sempre di più... E alla fine che cosa mi resterebbe da dargli?... Me stessa, perché mi mangi in vece sua... O povera me... Che cosa, che cosa devo fare?..." Mentre piangeva e si lamentava così, Maria osservò che, da quella famosa notte, una grossa macchia di sangue era rimasta sul collo di Schiaccianoci. Da quando aveva saputo che Schiaccianoci era il giovane Drosselmeier, non aveva più osato prenderlo in braccio, coccolarlo, baciarlo... quasi neppure toccarlo, per un comprensibile senso di soggezione... Ma adesso lo tirò giù con cautela e provò a togliergli la macchia col suo fazzoletto... E immaginate come rimase quando lo senti intiepidirsi... muoversi fra le sue mani!... In fretta lo ripose nell’armadio, ma quello aprì e richiuse alcune volte la bocca e bisbigliò stentatamente: "Ah... pregiatissima signorina Stahlbaum... impareggiabile amica... quanto, quanto le devo!... No... lei non dovrà più sacrificare nessun libro illustrato... nessun vestitino... Mi procuri soltanto una spada... una spada!... Al resto ci penso io. Venga pure, quel..." A questo punto la voce gli mancò; e gli occhi, che per un momento gli si erano ravvivati in un’espressione di immensa tristezza, ritornarono fissi e senza vita. Maria, per nulla spaventata, si mise a saltellare dalla gioia di aver trovato un mezzo per salvare Schiaccianoci senza nuovi dolorosi sacrifici. Ma dove l’avrebbe presa una spada?... La bimba decise di consigliarsi con Fritz; e, la sera stessa, usciti i genitori e rimasta sola con lui accanto all’armadio dei giochi, gli raccontò tutte le sue peripezie col re dei topi, con Schiaccianoci, gli spiegò che cosa occorresse fare per salvare il poveretto... Nulla lasciò Fritz tanto perplesso quanto il resoconto del pessimo comportamento dei suoi ussari durante la battaglia. Tornò a domandare, serissimo, se le cose fossero andate realmente così e, uditane la conferma su parola d’onore, corse all’armadio, tenne un patetico discorso ai soldati colpevoli e, per punirli di tanta viltà, di tanto egoismo, strappò a ciascuno di loro la coccarda dal berretto, facendo perentorio divieto di suonare la fanfara degli ussari per un anno intero. Pronunziata la marziale sentenza, si rivolse di nuovo a Maria: "In quanto alla sciabola," le disse, "posso procurarla io. Proprio ieri ho messo a riposo un vecchio maggiore dei corazzieri. Della sua bella sciabola affilata, quello d’ora innanzi non avrà più bisogno." Il suddetto maggiore era andato a godersi la pensione assegnatagli da Fritz al terzo piano dell’armadio, nell’angolo in fondo. Venne tirato fuori, e la sua sciabola (un’arma effettivamente assai bella, tutta d’argento) fu affibbiata alla cintura di Schiaccianoci. La notte seguente, Maria non riuscì a prender sonno, per lo spavento. Verso la mezzanotte le parve di udire degli strani rumori nella camera di soggiorno... un frusciar di piedini... un tintinnar di ferri... Poi, tutt’a un tratto: "Quick!..." uno strillo. "Il re dei topi!... Il re dei topi!..." gridò Maria, e balzò giù dal letto terrorizzata. Nulla. Silenzio. Ma, dopo un attimo (toc, toc...) due leggeri, leggeri colpetti alla porta... e poi una vocina sottile, sottile: "Pregiatissima Demoiselle Stahlbaum, apra pure senza timore... buone... liete notizie!" Maria riconobbe la voce del giovane Drosselmeier, si infilò in fretta il vestitino e corse ad aprire: sulla soglia c’era Schiaccianoci, con la spada insanguinata nella destra e una candelina accesa nella sinistra. Come vide Maria, poggiò un ginocchio a terra e parlò così: "Voi, o dama, foste l’unica a rinsaldare il mio cavalleresco coraggio e a rafforzare il mio braccio, rendendolo capace di combattere il tracotante che osò farsi beffa di voi. Il perfido re dei topi è stato abbattuto e si contorce nel proprio sangue!... Non vogliate, o dama, disdegnare i trofei della vittoria dalla mano del vostro cavaliere, fedele fino alla morte!" Così dicendo, si sfilò dal braccio sinistro le sette corone d’oro del re dei topi e le porse a Maria, che le prese, raggiante di gioia. "Oh, mia carissima Demoiselle Stahlbaum," proseguì Schiaccianoci alzandosi, "quante cose meravigliose potrei mostrarle, ora che ho abbattuto il mio nemico, se lei avesse soltanto la compiacenza di seguirmi per pochi passi!... Oh, venga, carissima Demoiselle, venga!...
Il regno delle bambole
Io credo che nessuno di voi, bambini miei, avrebbe esitato un attimo a seguire il buono e onesto Schiaccianoci, il quale non poteva certamente essere animato da alcuna cattiva intenzione. Tanto più volentieri lo seguì Maria, convinta com’era di poter contare sulla sua gratitudine e la sua parola: se le aveva promesso di mostrarle tante cose belle, lo avrebbe fatto, senza dubbio. Perciò gli rispose: "Verrò con lei, signorino Drosselmeier, ma spero che non andremo molto lontano e ritorneremo presto, perché non ho ancora dormito niente..." "Appunto per questo," rispose Schiaccianoci, "sceglierò la via più breve, anche se è un po’ disagevole..." E si avviò in anticamera, seguito da Maria, verso l’antico, monumentale armadio guardaroba. L’armadio, contrariamente al solito, era spalancato (Maria lo notò con stupore) e la pelliccia da viaggio del papà pendeva bene in vista, in prima fila. Schiaccianoci si arrampicò agilmente su per i bordi e le guarnizioni, raggiunse la grossa nappina, fermata da un cordoncino sul dorso del soprabito, la afferrò, la tirò forte; e, immediatamente, dall’interno della manica venne giù una graziosa scaletta in legno di cedro... "Voglia salire, per cortesia, carissima signorina..." disse Schiaccianoci, e Maria ubbidì; ma non appena dall’interno della manica sbucò fuori per l’apertura del colletto, si trovò all’improvviso immersa in una luce abbagliante, su un prato profumatissimo, costellato di miriadi di punti scintillanti come pietre preziose.
"Eccoci sul Prato Candito!" disse Schiaccianoci. "Ma ora dovremo passare attraverso quella porta..." Maria guardò e vide, lì a pochi passi, una porta meravigliosa, che pareva tutta di marmo bianco con variegature color cannella. Avvicinandosi, Maria si avvide che era invece un sol blocco di mandorle zuccherate e uva passa. Si chiamava, infatti, la Porta del Torrone, le spiegò Schiaccianoci, anche se la gente ordinaria l’aveva soprannominata "La greppia degli studenti"... In una galleria, apparentemente di zucchero d’orzo, applicata al frontone del portale, sei scimmiette in giubbettini rossi suonavano una musica militare turca così bella, che Maria quasi non si avvide di star camminando non già su piastrelle di marmo variegato, bensì su ben lavorate stiacciatelle...
Ed ecco, i due amici furono investiti da un’ondata di aromi dolcissimi, provenienti dal meraviglioso boschetto in cui stavano addentrandosi. Sotto la volta frondosa era tutto uno scintillio di luci, di frutti d’oro e d’argento appesi a steli colorati... i tronchi, i rami addobbati di nastri e mazzi di fiori davano agli alberi l’aspetto di sposi vestiti per la cerimonia o di allegri convitati a una festa di nozze; e quando una folata di profumo d’arancio passava come uno zefiro facendo stormire le fronde e tintinnare le laminelle indorate, l’aria si riempiva d’una musica gioiosa, al cui suono le mille piccole luci si mettevano a saltare, a danzare... "Ah, com’è bello qui!..." esclamò Maria estasiata. "Siamo nel bosco natalizio, mia cara signorina," spiegò Schiaccianoci. "Ah, se potessi fermarmi ancora un pochino," continuò Maria. "Qui è proprio troppo bello!..." Schiaccianoci battè le manine e subito accorsero alcuni pastorelli, pastorelle, cacciatori, cacciatrici, così delicati, così candidi, che si sarebbero detti di purissimo zucchero. Maria non li aveva ancora notati, benché stessero passeggiando per il bosco già fin da prima. Le gentili figurette portarono una bella poltroncina dorata, vi posero sopra un cuscino di liquirizia e invitarono molto ossequiosamente Maria a sedersi. Maria sedette e i pastori e le pastorelle eseguirono un grazioso balletto, mentre i cacciatori davano garbatamente fiato ai loro strumenti. Poi subito scomparvero tutti quanti nella boscaglia. "Perdoni..." disse Schiaccianoci. "Perdoni, egregia Demoiselle, se la danza è riuscita così scadente... Ma i ballerini sono tutti elementi del nostro teatro di marionette e fanno sempre la stessa cosa, perché non sanno fare nient’altro. I cacciatori, poi, hanno suonato così fiacchi e sonnacchiosi, perché sugli alberi di Natale hanno, sì, i cestelli di zucchero appesi davanti al naso, ma sempre un po’ troppo in alto... E adesso vogliamo passeggiare ancora un po’?..." "Ah, è stato tutto così carino... a me è piaciuto moltissimo!..." disse Maria alzandosi e seguendo la sua guida. Costeggiarono un ameno ruscelletto gorgogliante, da cui parevano provenire i deliziosi aromi che riempivano il bosco. "Questo è il Rio d’Aranciata," spiegò Schiaccianoci. "A parte il buon profumo, non può paragonarsi per grandiosità e bellezza al fiume Limonata, che sfocia nel lago di Latte di Mandorle." Infatti, poco dopo, Maria intese un più forte rumoreggiare di acque e vide l’ampia superficie color cannella del maestoso fiume Limonata serpeggiare fra cespugli scintillanti come smeraldi. Da quelle acque saliva una frescura veramente ristoratrice. Non lontano scorreva pigramente una gora gialla, limacciosa, emanante però dolcissimi aromi, e sulle cui sponde sedevano tanti graziosi bambinelli intenti a pescar con la lenza: non appena tiravano sù un pesce, se lo cacciavano in bocca e lo mangiavano. Maria aguzzò gli occhi: i pesci erano noci di panpepato!... Poco più oltre, sempre sulle sponde di quel fiume, sorgeva un ameno villaggio: le casette, la chiesa, la casa parrocchiale, i fienili, tutti i fabbricati, insomma, avevano il tetto dorato e le mura esterne di color bruno scuro, ma ravvivate da variopinti mosaici di mandorle e scorzette di limone candito.
"Quello è Borgo Panforte," disse Schiaccianoci. "È situato sul torrente Miele ed è abitato da gente molto carina... Peccato che siano quasi sempre di malumore, perché soffrono terribilmente di mal di denti... Andiamo a dare un’occhiata." In quel mentre, Maria notò un’altra cittadina, graziosissima a vedersi, tutta di case colorate e trasparenti. Andando in quella direzione, udirono un baccano, un cicaleccio gioioso: intorno ad alcuni carri stracarichi, fermi sulla piazza del mercato, si era radunata una folla di personcine minuscole, graziose, indaffarate a scaricare i carri e ad esaminarne il carico, consistente in carte colorate e tavolette di cioccolato. "Siamo a Pieve di Chicche," disse Schiaccianoci. "È arrivata, proprio in questo momento, una spedizione da Papiropoli e dal re del cioccolato. I poveri abitanti di questo paesello hanno subìto una grave minaccia da parte dell’ammiragliato dei moscerini, ed ora sono costretti a ricoprire le loro case con la carta stagnola ricevuta in dono da Papiropoli e ad allestire solide fortificazioni con i materiali inviati dal re del cioccolato... Ma, cara Demoiselle Stahlbaum, non possiamo visitare tutte le cittadine, tutti i villaggi di questo paese! Alla capitale, alla capitale!..." e si avviò di buon passo, seguito da Maria sempre più incuriosita. Non avevano ancor fatto molta strada, quando un inebriante profumo di rose li investì e tutti gli oggetti apparvero circonfusi di aloni rosati: questo fenomeno era il riflesso d’una distesa d’acqua color di rosa, che si stendeva dinnanzi a loro aprendosi sempre più, come un grande lago; lievi onde dai riflessi argentei e rosati ne increspavano la superficie, venendo a rompersi sulla sponda con uno sciacquio armonioso, musicale... Sul lago nuotavano superbi cigni argentati con collari d’oro, cantando canzoni una più bella dell’altra, mentre pesciolini di diamante guizzavano fuori dall’acqua e si rituffavano, in una specie di danza gioiosa. "Ah!" esclamò Maria estasiata. "Questo è il lago che voleva costruire per me il padrino Drosselmeier... E io sono la bambina che va ad accarezzare i cigni!..." Schiaccianoci abbozzò un sorriso così sprezzante, quale Maria non gli aveva mai visto: "Una cosa simile," disse, "lo zio non potrà farla mai... Lei, piuttosto, signorina Stahlbaum... Ma non stiamo ad almanaccare su queste cose; pensiamo piuttosto ad attraversare il lago e a raggiungere la capitale."
La capitale
Schiaccianoci batté di nuovo le manine e subito la superficie del lago incominciò ad agitarsi; le onde si sollevarono più alte, rumoreggiarono più forte. Di lontano, Maria vide venire un vascello in forma di conchiglia, tempestato di gemme multicolori splendenti come il sole e tirato da due delfini ricoperti di squame dorate. Dodici deliziosi moretti, con berrettini e sottanine di penne di colibrì, balzarono a riva e, scivolando dolcemente sulle onde, condussero prima Maria e poi Schiaccianoci a prender posto nella conchiglia, che subito si mosse. Ah, che bellezza navigare così, su quelle acque rosate, accarezzati da venticelli odoranti di rose!... I due delfini dalle squame d’oro ersero la testa e spruzzarono dalle narici due altissimi zampilli, che, ricadendo come archi di pioggerella iridescente, parvero emettere il canto di due vocette sottili, argentine: Chi vien navigando Sull’acqua rosata? La fata! Moscerini! bim, bim... Pesciolini!... sim, sim... Cigni, cigni! ci, ci... Uccellino dorato! tra-rà! Sù, ondette, muovete Suonate, cantate, soffiate A ritmo di danza La bella fatina, vedete? Avanza, sull’acque rosate Ondette, giocate, sciacquate, spruzzate Sprizzate zampilli Di perle, di gemme color del cobalto Spruzzate più in alto Più in alto! Ma i dodici negretti, balzati anch’essi sul vascello-conchiglia, parvero prendere assai male la canzoncina delle gocce d’acqua, perché si misero a scrollare i loro parasolini di foglie di dattero fino a stazzonarli tutti, e a battere i piedi su un ritmo assai strano, cantando: Clipp, clapp, su e giù La tribù dei moretti è loquace E non tace Sù, muovetevi, pescetti Sù, muovete, cigni belli Sù, conchiglia Fila, fila sulla chiglia Taglia l’acqua, clipp, clapp Anche tu, su e giù! "I mori sono gente allegra," disse Schiaccianoci un po’ seccato. "Ma mi metteranno in subbuglio tutto il lago." Infatti, dopo un attimo si scatenò un brusio sconcertante: l’aria, il lago parvero riempirsi di voci inaudite; ma Maria non ci badò, perché era intenta a fissare una gentile figuretta di fanciulla che le sorrideva dalle onde rosee e profumate. "Ah!..." esclamò, battendo le manine tutta felice. "Guardi... guardi soltanto, caro signorino Drosselmeier!... Laggiù c’è la principessa Pirlipat che mi sorride!... Guardi... guardi com’è graziosa, caro signorino Drosselmeier!..." Schiaccianoci sospirò, quasi corrucciato: "Quella non è la principessa Pirlipat, egregia signorina Stahlbaum!" disse. "Quella è lei, è sempre e soltanto lei... è il suo bel visino che le sorride, riflesso nell’acqua." Maria ritrasse in fretta la testa, chiuse gli occhi e si vergognò moltissimo. Ma, proprio in quel momento, i dodici moretti la sollevarono dalla conchiglia e la portarono a terra. Maria si ritrovò in un boschetto quasi ancor più bello del bosco natalizio. Particolare meraviglia: gli alberi erano carichi di frutti non soltanto stranamente multicolori, ma anche profumatissimi. "Siamo nel bosco delle confetture," disse Schiaccianoci. "E la capitale è laggiù." Ah, che cosa non vide Maria!... Da che parte incomincerò, bambini miei, a descrivervi tutte le mirabilia della città che si presentò, adagiata su un prato fiorito, agli occhi di Maria?... Non soltanto i colori vivacissimi delle mura, delle torri, ma anche le forme delle costruzioni erano di una bellezza mai vista al mondo. Le case, anziché di tetti, erano ricoperte di graziose ghirlande intrecciate, e le torri di fronde multicolori. Quando passarono sotto la porta, tutta fatta di amaretti e frutta caramellate, un reparto di soldatini d’argento presentò le armi e un ometto in vestaglia di broccato si gettò al collo di Schiaccianoci esclamando: "Benvenuto, serenissimo principe, benvenuto a Confettoburgo!" Sentendo dare del principe a Schiaccianoci da un personaggio così distinto, Maria si stupì non poco. Ma subito un cicalare, un intrecciarsi di vocine ridenti, festanti, frammiste a canti e a musiche, la lasciò ancor più sbalordita. "Non è niente di speciale," si affrettò a spiegarle Schiaccianoci. "Confettoburgo è una città piena di gente allegra... Tutti i giorni è così... Ma venga avanti, per favore!..." Dopo pochi passi furono sulla piazza del mercato, di fronte a uno spettacolo stupendo: le case circostanti erano tutto un merletto di zucchero filato, galleria su galleria, loggia su loggia; e al centro della piazza si ergeva come un obelisco un immenso dolce piramidale, spolverato di zucchero e circondato di artistiche fontane. Le fontane zampillavano orzate, limonate ed altre squisite bibite dolci, ma nelle vasche scorreva crema: una crema che ti saresti mangiata a cucchiaiate. La cosa più piacevole a vedersi erano però quelle deliziose personcine che si affollavano a migliaia, testa a testa, vociando, ridendo, scherzando, cantando, facendo insomma quel gioioso frastuono che Maria aveva già udito di lontano. C’erano signore, signori eleganti, Armeni, Greci, Ebrei, Tirolesi, ufficiali, soldati, religiosi, pastori, pagliacci; in breve, l’intero campionario delle popolazioni terrestri. In un settore della piazza si vide la folla ondeggiare tumultuando ed aprirsi: passava il Gran Mogol, in palanchino, seguito da novantatre grandi del regno e settecento schiavi; contemporaneamente, dall’angolo opposto, stava avanzando in corteo la corporazione dei pescatori, forte di cinquecento uomini, e, per una disgraziata coincidenza, al sultano di Turchia era venuto il ghiribizzo di fare un giretto a cavallo per la piazza insieme a tremila giannizzeri; mentre, da un’altra parte ancora, veniva, fra potente clangore d’ottoni, la grande processione della "Festa sacrificale interrotta", cantando: "Orsù, ringraziate il sole potente!" e puntando diritto verso l’obelisco di pandolce. Ah, che confusione, che pigia-pigia, che strilli!... Strilli, intendiamoci, anche di dolore, perché in quella calca un pescatore aveva portato via la testa a un bramino e il Gran Mogol per un pelo non era stato travolto da un pagliaccio. Il baccano si faceva sempre più indiavolato e la gente già incominciava a picchiarsi, quando l’uomo in vestaglia di broccato, che aveva salutato Schiaccianoci sulla porta dandogli del principe, si arrampicò sull’obelisco, suonò per tre volte una campanella squillante e per tre volte gridò, con quanto fiato aveva in corpo: "Confettiere! Confettiere! Confettiere!" Il tumulto si placò all’istante, i cortei si districarono, e ognuno cercò di rabberciarsi alla meno peggio: il Gran Mogol si fece spazzolare le vesti insudiciate, il bramino si riappiccicò la testa e tutti ripresero a vociare, allegri come prima. "Che cosa significa questa storia del confettiere?..." domandò Maria. "Eh, carissima Demoiselle Stahlbaum," rispose Schiaccianoci, "la gente di qui chiama «Confettiere» una potenza ignota e tremenda, arbitra assoluta dei destini umani. È il «Fato» che incombe su questo piccolo popolo allegro, ed è così temuto che, al solo sentirlo nominare, si placa qualsiasi tumulto, come appunto ci ha dimostrato il signor borgomastro. Tutti smettono immediatamente di pensare alle cose terrene, ai colpi ricevuti nelle costole, per esempio, o ai bozzi in testa, e meditano: «Che cos’è mai l’uomo? Quale sarà la sua sorte?...»" Maria non poté reprimere un grido di meraviglia quando, all’improvviso, si vide dinnanzi un castello con cento torri aeree, svettanti, circonfuso di bagliori rosati... Le mura erano cosparse di mazzi di violette, narcisi, tulipani, violaciocche, i cui colori caldi e scuri accentuavano ancora il candore abbagliante, i rosei riflessi dello sfondo. La grande cupola dell’edificio centrale, i tetti piramidali delle torri erano disseminati di miriadi di stelline scintillanti, d’oro e d’argento. "Siamo davanti al castello di Marzapane," disse Schiaccianoci. Maria era totalmente smarrita nella contemplazione del palazzo incantato, tuttavia non le sfuggì che una grande torre mancava del tetto; alcuni omettini, arrampicati su impalcature di cannella, stavano tentando di ricostruirlo. Prevenendo la domanda della bimba, Schiaccianoci proseguì: "Poco tempo fa questo bel castello ha corso il rischio di venir devastato, seppur non totalmente distrutto. È capitato qui il gigante Ghiottone e in un attimo si è divorato il tetto di quella torre. Anche alla cupola grande ha dato qualche morso. I Confettoburghesi hanno dovuto sacrificargli un intero quartiere della città e una vasta zona del bosco confettato, perché se li mangiasse e se ne andasse via." In quel momento si udì una musica dolce e piacevolissima; le porte del castello si aprirono e ne uscirono dodici paggetti con in mano un chiodo di garofano acceso, come una fiaccola. Avevano, al posto della testa, una perla, i corpi di rubini e smeraldi, i piedini d’oro purissimo finemente cesellato; seguivano i paggi quattro dame, alte press’a poco come la Claretta di Maria, ma vestite e acconciate così sfarzosamente, che la bimba non esitò un solo istante a riconoscere in loro altrettante principesse. Le dame abbracciarono teneramente Schiaccianoci, esclamando felici, anche se con un’ombra di tristezza nella voce: "Oh, mio principe!... Ottimo principe!... Fratello mio!..." Schiaccianoci parve molto commosso; si terse le copiose lacrime, poi prese Maria per mano e dichiarò pateticamente: "Questa è la signorina Maria Stahlbaum, figlia d’un eminente consigliere sanitario e mia salvatrice: se non avesse scagliato la scarpina al momento giusto e non mi avesse procurato la sciabola del maggiore in congedo, a quest’ora giacerei nella tomba, sbranato dall’esecrabile re dei topi... Ditemi: osereste paragonarla, per bellezza, bontà, virtù, a Pirlipat, che pure è principessa di sangue reale?... No!... No, vi dico!..." "No!..." proclamarono in coro le quattro dame, e si gettarono al collo di Maria esclamando fra i singhiozzi: "Oh, nobile salvatrice del principe, nostro amato fratello... Impareggiabile Demoiselle Stahlbaum!..." Le dame condussero quindi Maria e Schiaccianoci dentro il castello, e precisamente in una sala dalle pareti di purissimo cristallo colorato, splendente. Ma più di tutto piacquero a Maria le graziosissime seggioline, i tavoli, i comò, i secrétaire, i mobili, insomma, di cedro e legno brasiliano decorati con fiorellini d’oro. Le principesse fecero accomodare gli ospiti e dissero che avrebbero subito preparato un pranzetto con le loro mani. Andarono a prendere un’intera batteria di pentoline e scodelline di purissima porcellana giapponese, cucchiai, coltelli, forchette, grattuge, casseruole e altre suppellettili di cucina, tutte d’oro e d’argento; tirarono fuori frutta, zucchero e confetti d’una bellezza mai vista e, con quelle loro manine candide come la neve, incominciarono a spremere frutta, a spolverare spezie, a grattugiare mandorle zuccherate, a cucinare, insomma, con tanta grazia, con tanta destrezza, che Maria rimase a bocca aperta... Quelle principesse se ne intendevano per davvero, di cucina!... E che pranzetto squisito avrebbero preparato!... Profondamente conscia di non esser da meno di loro in quel campo, Maria si augurò in cuor suo di poter metter mano anche lei ai preparativi. E subito, come se avesse indovinato il suo tacito desiderio, la più bella delle sorelle di Schiaccianoci le porse un piccolo mortaio d’oro dicendole: "O dolce amica, cara salvatrice di mio fratello, pesta un pizzico di zucchero candito, per favore..." E Maria si mise a pestare, allegra e felice; e mentre lei pestava, e il mortaio tintinnava soavemente come se cantasse una bella canzoncina, Schiaccianoci incominciò a descrivere con dovizia di particolari la spaventosa battaglia fra il proprio esercito e quello del re dei topi. Raccontò come fosse stato battuto a causa della viltà delle truppe e quindi perseguitato dall’orribile re dei topi, deciso a sbranarlo ad ogni costo... Per salvarlo, soggiunse, Maria, poverina, aveva dovuto sacrificare parecchi dei suoi sudditi, passati al servizio di lei, eccetera eccetera... Maria ebbe la sensazione che le parole di Schiaccianoci e perfino il tintinnio del mortaio le giungessero sempre più attutiti, si perdessero sempre più lontani, fino quasi a divenire impercettibili... Un velo argenteo le salì davanti agli occhi, come un mare di nebbia sottile in cui le parve di veder galleggiare le principesse, i paggi, Schiaccianoci e perfino se stessa. Un canto, un brusio, un ronzio confuso le risuonò nella testa, riecheggiò, si dissolse nel vuoto di lontananze abissali. Poi un’ondata possente la raccolse, la sollevo sulla cresta, sù, sù, in alto... ancora più sù... più in alto, più in alto, più in alto...
Conclusione
Prr... Patapunfete!... Maria precipitò da un’altezza vertiginosa... Che capitombolo!... Ma subito aprì gli occhi e si ritrovò nel proprio lettino. Era ormai giorno chiaro... Davanti a lei stava la mamma e le diceva: "Ma come si può dormire così tardi?... La colazione è pronta da un pezzo!" Tu, rispettabile pubblico raccolto intorno a me, avrai già bell’e capito che Maria, stordita dalle troppe meraviglie, si era addormentata nel castello di Marzapane, e che i mori, o i paggi, o forse le principesse medesime, l’avevano ricondotta a casa e messa a letto. "Oh, mamma, mamma cara... se sapessi dove mi ha portato il giovane signorino Drosselmeier stanotte!... Se sapessi quante belle cose ho visto!..." E raccontò il suo viaggio quasi esattamente come ve l’ho raccontato io. La mamma la guardava sbalordita: "Tu hai fatto un lungo e bellissimo sogno, cara Maria," le disse alla fine. "Ma adesso tutte queste idee devi levartele dalla testa."
Non aveva sognato affatto, insistette Maria ostinatamente: tutte quelle belle cose le aveva viste, viste per davvero! Allora la mamma la condusse presso l’armadio dei giochi, tirò fuori Schiaccianoci, alloggiato, come si è detto, sù al terzo piano, e disse: "Come puoi credere, sciocchina, che questo bambolotto norimberghese, di legno, possa muoversi e parlare come una persona viva?..." "Ma cara mamma," protestò Maria, "il piccolo Schiaccianoci è il giovane signorino Drosselmeier di Norimberga, nipote del padrino... io lo so!..." La mamma e il papà scoppiarono a ridere forte. "Ah," piagnucolò Maria. "Adesso tu, papà, ridi del mio Schiaccianoci... E pensare che egli ha parlato tanto bene, di te, presentandomi alle sue sorelle, quando siamo arrivati al castello di Marzapane. Ha detto che sei un consigliere sanitario molto illustre!" Alla risata, stavolta ancora più clamorosa, del papà e della mamma, si unì anche Luisa; e perfino Fritz. Maria corse nell’altra camera, tirò fuori qualcosa da una sua scatoletta e ritornò dalla madre, dicendole: "Ecco, guarda, cara mamma: queste sono le sette corone del re dei topi. Me le ha date la notte scorsa il giovane signorino Drosselmeier, in segno della sua vittoria." La mamma prese le coroncine e le osservò, stupita: erano di un metallo sconosciuto, ma estremamente terso, e lavorate con una finezza di cui nessuna mano d’uomo sarebbe stata capace. Le prese anche il papà e le esaminò, le studiò da tutte le parti, come se non riuscisse a capacitarsi di ciò che vedeva... Ad un tratto, però, i genitori si fecero serissimi ed ingiunsero a Maria di dire come le avesse avute, quelle coroncine. La povera bimba non poté far altro che ripetere quanto già aveva detto. Allora il papà divenne ancora più severo e le disse che era una piccola bugiarda. Maria scoppiò a piangere e a ripetere, sconsolata: "Ah, povera me... Povera me!... Che cosa devo dire?..." "Che succede?... Che succede?... Perché piange così, la mia figlioccia?..." chiese il consigliere Drosselmeier, entrando all’improvviso. Il papà lo mise al corrente del fatto e gli mostrò le coroncine. Come le vide, Drosselmeier scoppiò a ridere: "Ma che sciocchezza... che sciocchezza!..." esclamò. "Queste coroncine le portavo, un tempo, appese alla catena dell’orologio; e poi le regalai alla piccola Maria, quando compì due anni... Possibile che non ve ne ricordiate più?..." Effettivamente, né il papà né la mamma riuscirono a ricordarsi del fatto; tuttavia si rischiararono in viso, e tanto bastò, a Maria, per correre dal padrino e invocarne il soccorso: "Ah, tu sai tutto, padrino... Dillo, dillo anche tu, che Schiaccianoci è tuo nipote... il giovane signorino Drosselmeier, di Norimberga!... Che è stato lui, a darmi le coroncine!..." Allora il papà la prese per le spalle e, tenendola ferma davanti a sé, le disse, serissimo: "Senti bene, Maria: finiamola con questa farsa. Se ripeti ancora una volta che quel brutto Schiaccianoci è il nipote del signor consigliere, io lo prendo e lo getto dalla finestra. E dietro di lui tutte le altre bambole, madamigella Claretta compresa." E così la povera Maria non poté più parlare dell’argomento che le stava tanto a cuore. Non è facile dimenticare d’aver visto simili meraviglie, ne converrete anche voi! Perfino il tuo compagno Fritz Stahlbaum, mio egregio lettore o ascoltatore Fritz, sì, perfino lui volgeva le spalle alla sorellina, appena questa accennava a raccontargli qualcosa del regno favoloso in cui era stata tanto felice! Le volgeva le spalle e talvolta, pare, mormorando fra i denti: "Senti che oca!..." Ma questo, tenendo conto della sua comprovata bontà d’animo, mi rifiuto di crederlo... Comunque, sta di fatto che Fritz ormai non credeva più a nulla di tutto ciò che gli aveva raccontato Maria e, di conseguenza, aveva voluto formalmente e solennemente riparare al torto fatto ai suoi ussari. Dopo averli schierati in parata, aveva applicato a ciascuno di loro, al posto della coccarda, un bel pennacchio di penna d’oca, tornando a concedere il permesso di suonare la marcia degli ussari... Eh, ma noi lo sappiamo anche troppo bene che razza di coraggio avessero dimostrato, quegli eroi, quando le brutte palline avevano incominciato a macchiare i loro giubbetti rossi! Maria, dunque, non poteva più parlare della sua avventura, ma le immagini meravigliose del regno delle fate continuavano a circondarla, ad avvolgerla come in un dolce, musicalissimo mormorio cullante... Se appena si concentrava un pochino, rivedeva chiaramente ogni cosa; perciò, invece di giocare come d’abitudine, era capace di restarsene silenziosa e immobile a meditare per ore intere. I suoi la sgridavano e la chiamavano la piccola sognatrice. Ora, avvenne un giorno che il consigliere Drosselmeier dovesse riparare un orologio in casa Stahlbaum. Maria, immersa nei propri sogni, sedeva presso l’armadio contemplando Schiaccianoci. E ad un tratto, senza volerlo, le venne fatto di dire: "Ah, caro signorino Drosselmeier... se lei fosse vivo per davvero, io non farei come la principessa Pirlipat... non la respingerei, se lei fosse diventato brutto per amor mio!..." "Sciocchezze... sciocchezze!..." gridò il padrino Drosselmeier; e nello stesso istante ci fu uno schianto, uno scossone pauroso: Maria era caduta dalla sedia, svenuta! Quando ritornò in sé, la mamma le stava intorno affannata: "Ma come hai fatto a cadere dalla sedia?... Tu, una bambina così grande!... Guarda: c’è qui il nipote del signor consigliere, arrivato da Norimberga... Sii gentile con lui!" Maria alzò gli occhi: il padrino si era rimesso la parrucca e la giacchetta gialla, e teneva per mano un giovinetto, molto piccolino per la verità, ma assai ben fatto. Aveva un visino tutto sangue e latte, ed era elegantissimo: marsina rossa gallonata d’oro, calze di seta bianca, scarpette di vernice, mazzolino di fiori puntato sullo jabot, capelli ben pettinati e incipriati con un magnifico codino pendente sulle spalle, cappello di seta sotto il braccio... La piccola spada appesa al fianco sembrava un gioiello, tant’era tempestata di pietre preziose. Il giovinetto dimostrò subito una rara squisitezza di modi offrendo in dono a Maria una quantità di giocattoli meravigliosi; soprattutto del marzapane di prima qualità e quelle stesse figurine rimaste vittime del re dei topi. A Fritz, invece, aveva portato una bellissima sciabola. A tavola, poi, l’amabile giovinetto spezzò noci per tutta la compagnia: se le metteva in bocca con la destra, con la sinistra tirava il codino e... crac!, non c’era guscio che resistesse ai suoi denti! Se Maria, appena aveva visto il minuscolo cavaliere, si era fatta di brace, arrossì ancor di più quando, finito il pranzo, il giovine Drosselmeier volle andare con lei nella camera di soggiorno, presso l’armadio dei giochi... "Giocate insieme da bravi, bambini..." disse il padrino. "Adesso che tutti i miei orologi funzionano bene, io non ho niente in contrario!" Rimasto solo con Maria, il piccolo Drosselmeier poggiò un ginocchio a terra e disse: "Oh, mia impareggiabile Demoiselle Stahlbaum, ecco ai suoi piedi il fortunato giovane a cui lei, proprio qui, in questo stesso luogo, salvò la vita!... Quando ebbe la bontà di dire che non mi avrebbe respinto, come la cattiva principessa Pirlipat, perché ero diventato brutto per amor suo, io smisi immediatamente di essere un miserabile schiaccianoci per riprendere la mia primitiva, non del tutto sgradevole, figura... Oh, carissima Demoiselle, mi renda felice con la sua preziosa mano... divida con me regno e corona... regni al mio fianco nel castello di Marzapane, dove io sono re!..." Maria risollevò il giovinetto sussurrando: "Caro signorino Drosselmeier, poiché lei è un uomo d’animo buono e delicato e, per di più, regna su un paese di gente simpatica e allegra... io l’accetto come sposo!" Così Maria si fidanzò con il giovane Drosselmeier. E, trascorso un anno, si dice che egli andasse a prenderla con una carrozza d’oro tirata da cavalli d’argento. E che alle nozze danzassero ventiduemila bellissime figurine, tempestate di perle e diamanti. E si dice che Maria, ancora oggi, sia regina di un paese, in cui si possono vedere dovunque boschi scintillanti di abeti natalizi, castelli di marzapane trasparenti... le più inverosimili meraviglie, insomma!... Sempreché, beninteso, si abbiano occhi per vederle. E così termina la fiaba di Schiaccianoci e il re dei topi.
* *
di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822)
Nataniele a Lotario
Certamente sarete tutti sottosopra perché sono stato tanto, tanto tempo senza scrivervi. La mamma sarà certamente in collera, e Clara crederà che io qua mi dia alla bella vita e abbia dimenticato la sua dolce immagine angelica che mi è così profondamente impressa nel cuore e nell’animo. Ma invece non è così; tutti i giorni, tutte le ore penso a voi, e nei sogni più dolci la cara figura della mia adorata Claretta mi passa davanti e mi sorride con gli occhi luminosi, con tanta grazia come era solita fare quando entravo in casa vostra. Ah, come vi avrei potuto scrivere nelle condizioni di spirito turbate e sconvolte in cui mi trovo, e che mi agitano le idee! Nella mia vita è successo qualcosa di terribile. Oscuri presentimenti di un atroce destino che mi minaccia stendono su di me un’ombra di nuvole nere, impenetrabile ad ogni amico raggio di sole. Devo dirti qual è il male che mi ha colpito? Bisogna che lo faccia, lo comprendo; ma quando vi ripenso, mi strappa le risa più pazze. Ah, Lotario del mio cuore, come fare perché anche tu possa almeno in parte sentire che quello che mi è avvenuto pochi giorni fa era veramente in grado di turbare in modo così ostile la mia vita? Se tu fossi qua, potresti renderti conto di tutto coi tuoi occhi; ma invece così so cosa penserai di me: che io sono un visionario senza giudizio. Insomma, per farla breve, la cosa terribile che mi è successa e di cui mi sforzo invano di vincere la mortale impressione: alcuni giorni fa, e precisamente il 30 ottobre, a mezzogiorno, un venditore di barometri è entrato nella mia stanza e mi ha offerto la sua merce. Non ho comperato niente e l’ho minacciato di buttarlo giù per le scale, dopo di che se n’è andato coi suoi piedi. Comprenderai che solo qualcosa di molto particolare, profondamente radicata nella mia vita, poteva dare tanta importanza ad un incidente così semplice, soprattutto se la persona di quello sciagurato merciaio doveva farmi un’impressione addirittura insopportabile. E così è. Mi sforzo di raccogliermi per raccontarti tranquillamente e pazientemente qualche cosa della mia infanzia, in modo che al tuo chiaro intelletto tutto si possa presentare con lucidità ed evidenza, con immagini luminose. E mentre sto per incominciare sento te che ridi e Clara che esclama: "Tutte queste sono ragazzate!" Ridete, vi prego, ridete di cuore alle mie spalle! Vi prego davvero. Ma per Dio, mi si rizzano i capelli in testa e mentre vi supplico di ridere di me mi par di essere sull’orlo della disperazione e della pazzia come Daniele quando rivolge la stessa preghiera a Franz Moor. Ma ora ascoltate! Fuori dell’ora di pranzo, io e i miei fratelli e le mie sorelle vedevamo raramente mio padre durante la giornata. Può darsi che fosse molto occupato per il suo lavoro, ma dopo cena, che secondo una vecchia usanza ci riuniva già alle sette di sera, andavamo tutti insieme con la mamma nella camera di lavoro di nostro padre e ci sedevamo intorno a una tavola rotonda. Il babbo fumava la pipa e beveva intanto un bel bicchiere di birra. Spesso ci raccontava molte storie straordinarie e si entusiasmava tanto che lasciava spegnere la pipa; allora io avevo l’incarico di riaccendergliela con un pezzo di carta infiammata, e questo era senza dubbio lo spasso migliore della serata. Ma talvolta ci dava anche da guardare le immagini di qualche libro e lui stava sdraiato nella sua poltrona muto ed immobile mandando in giro grosse nuvole di fumo, sicché ben presto tutti quanti eravamo immersi in mezzo alla nebbia. In quelle serate la mamma era molto triste e, appena l’orologio batteva le nove, incominciava a dire: "Su, bambini, a letto, a letto! Viene l’Orco Insabbia, l’ho bell’e visto." E davvero ogni volta sentivo qualcosa che saliva su per le scale con un passo lento e pesante, che rimbombava; non poteva essere altri che l’orco. Una volta che quei passi lenti e quel rimbombo erano particolarmente orribili, chiesi alla mamma che ci portava via: "Oh, mamma, chi è questo cattivo Orco Insabbia che ci fa sempre andare via dal babbo? Com’è fatto?" "Ma non c’è alcun orco, piccolo mio," rispose la mamma; "quando dico: viene 1’Orco Insabbia, vuol dire solo che vi è venuto il sonno e non potete tenere più gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato la sabbia in viso." La risposta della mamma non mi persuase; anzi, nel mio animo infantile si radicò l’idea che la mamma dicesse che l’orco non esisteva solo perché non avessimo paura di lui; l’avevo sempre sentito salire le scale. Tutto curioso di sapere qualcosa di più preciso di questo Orco Insabbia e dei rapporti che aveva con noi bambini, chiesi finalmente alla vecchia che faceva da balia alla mia sorellina più piccola che razza di uomo fosse l’Orco Insabbia. "Ehi, Tanielino," mi rispose, "come mai non lo sai? È un uomo cattivo; viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro pugni di sabbia negli occhi, e glieli fa cadere insanguinati fuori dalla testa; poi li mette in un sacco e li porta nella Mezza Luna per darli da mangiare ai suoi bambini. Stanno tutti nel nido e hanno il becco a punta come le civette; e così beccottano gli occhi dei bambini maleducati." Dentro di me si formò così un quadro orribile di questo feroce Orco Insabbia; e quando la sera sentivo il suo passo pesante per le scale, tremavo dalla paura e dallo spavento. La madre non mi poteva levare altro di bocca che questo, balbettato fra le lacrime: "L’Orco Insabbia, l’Orco Insabbia!" Poi scappavo subito nella camera da letto e per tutta la notte ero torturato dalla terribile apparizione dell’orco. Ormai ero già abbastanza grandicello per comprendere che quello che mi aveva raccontato la bambinaia dell’orco e del nido dei suoi bambini nella Mezza Luna, non poteva essere tutto vero; ma lo stesso l’Orco Insabbia era rimasto per me uno spettro terribile ed ero preso dal terrore, dallo spavento, quando lo sentivo non solo salire su per le scale, ma aprire anche violentemente la porta di mio padre e penetrare nella sua stanza. Talvolta restava a lungo senza venire; poi all’improvviso ritornava per parecchie sere di seguito. Questa storia durò per anni interi ed io stesso non potei mai abituarmi a questi rumori paurosi; e l’immagine del feroce Orco Insabbia non impallidì dentro di me. Anzi la mia fantasia incominciò ad occuparsi sempre più di quello che poteva venire a fare da mio padre. Ma un timore invincibile mi tratteneva dal chiedere a mio padre una spiegazione; e invece con gli anni nasceva sempre più forte in me il desiderio di svelare da solo il mistero e soprattutto di vedere coi miei occhi l’orco favoloso. L’Orco Insabbia mi aveva messo sulla via delle fantasie meravigliose, straordinarie, che così facilmente s’impossessano degli animi infantili. Non c’era nulla che mi piacesse di più di ascoltare o leggere storie paurose di folletti, di streghe, di pollicini, e così via; ma in testa a tutti stava sempre L’Orco Insabbia, che non mi stancavo mai di disegnare nella figura più stravagante e repulsiva sugli armadi e sulle pareti col gesso o col carbone. Quando ebbi compiuto dieci anni, la madre mi tolse dalla stanza dove dormivano gli altri fratelli e mi mise in una cameretta che dava sul corridoio, vicino alla stanza di mio padre. Ancora, quando l’orologio suonava le nove e lo sconosciuto si faceva sentire sulle scale di casa, dovevamo andarcene in fretta. Stando nella mia cameretta, sentivo come entrava da mio padre, e poco dopo sembrava che per la casa si diffondesse un sottile vapore, con un profumo curioso. Sempre più, assieme alla curiosità, cresceva il desiderio di fare in un modo qualunque la conoscenza dell’Orco Insabbia. Spesso, quando la mamma se n’era andata, scivolavo rapidamente dalla mia stanza, nel corridoio, ma non potevo scoprire nulla; perché 1’orco era regolarmente già scomparso dietro la porta quando raggiungevo il posto dal quale l’avrei potuto vedere. Finalmente, spinto da una smania irresistibile, decisi di nascondermi dentro la stanza di mio padre e di aspettare là dentro l’arrivo dell’orco. Una sera, dal silenzio di mio padre e dalla tristezza di mia madre, compresi che l’Orco Insabbia sarebbe venuto; finsi perciò di essere molto stanco, già prima delle nove me ne andai dalla stanza e mi nascosi in un angolo del corridoio, vicino alla porta. Udii scricchiolare la porta di casa; nell’androne un passo lento, pesante, rimbombante, si diresse verso la scala. La madre mi passò in fretta davanti portando via gli altri bambini. Adagio adagio apersi la porta dello studio di mio padre. Come sempre, sedeva immobile e silenzioso, volgendo le spalle alla porta; non si accorse di nulla. In un lampo fui dentro e mi nascosi dietro la tendina appesa davanti ad un armadio aperto, che stava accanto alla porta e nel quale erano appesi i vestiti di mio padre. I passi rimbombavano, sempre più vicini, sempre più vicini; si sentiva nel corridoio qualcuno che tossicchiava, trascinava i piedi e brontolava in un modo bizzarro. Il cuore mi tremava dalla paura e dall’attesa. Vicino, proprio vicino alla porta, un ultimo passo più pesante, un colpo forte sulla maniglia, e la porta si spalanca con grande fracasso. Sforzandomi di farmi coraggio, sporsi prudentemente il capo dalla tenda. L’Orco Insabbia sta in mezzo alla stanza, in piedi davanti a mio padre; la luce della lampada lo colpisce in viso. L’orco, il terribile Orco Insabbia è... il vecchio avvocato Coppelius, che talvolta veniva a pranzo da noi a mezzogiorno. Ma la figura più orribile non mi avrebbe potuto incutere più profondo spavento di questo Coppelius. Immaginati un uomo alto di statura e largo di spalle, con una grossa testa informe, il viso giallastro, due sopracciglia grigie e arruffate, sotto le quali scintilla un paio di occhi pungenti, verdi come gli occhi di un gatto, e un grande naso che pende sopra il labbro. La bocca storta si spalanca spesso per una risata odiosa; e allora sulle guance gli si accendono due macchie rosse ed uno strano sibilo gli esce dai denti stretti. Coppelius arrivava sempre con una giacca di taglio antico, color grigio cenere, panciotto e pantaloni uguali, calze nere e scarpe con una piccola fibbia. Aveva un parrucchino che gli arrivava a malapena a metà della testa, le ciocche appiccicate sopra due grandi orecchie rosse ed un codino attorcigliato e spettinato, che gli si alzava sopra la nuca scoprendo la fibbia d’argento che sosteneva la cravatta increspata. Tutta la sua figura era repellente ed odiosa, ma a noi bambini facevano soprattutto senso i grossi pugni nodosi, coperti di pelo, tanto che non potevamo più soffrire una cosa che egli avesse toccata. Lui se n’era accorto e si divertiva a toccare con un pretesto o con l’altro un pezzettino di torta o un frutto dolce che la madre ci aveva messo di nascosto sul piatto, e noi, allora, con gli occhi pieni di lacrime, pieni di nausea e di spavento, non potevamo più mangiare il dolce che ci avrebbe dovuto rallegrare. E faceva lo stesso anche quando, nei giorni di festa, mio padre ci versava un bicchierino di vino dolce. Ci passava in fretta sopra il pugno, o addirittura avvicinava il bicchiere alle labbra bluastre, e rideva diabolicamente di noi, che potevamo mostrare il nostro dispetto solo piangendo sottovoce. Aveva l’abitudine di chiamarci le bestioline, e quando c’era lui non potevamo pronunciare una parola; e maledivamo, perciò, quel vecchio brutto e antipatico, che ci guastava di proposito e con intenzione anche il più piccolo divertimento. Pareva che anche la mamma odiasse come noi l’insopportabile Coppelius; perché, appena quello si faceva vedere, la sua allegria, il suo carattere gaio e spensierato cedevano il posto ad un umore triste e tetro. Mio padre, invece, di fronte a lui si comportava come se fosse un essere superiore, di cui bisognava sopportare gli sgarbi e che bisognava tenere in tutti i modi di buonumore. Bastava che facesse un piccolo cenno e subito venivano preparati i suoi piatti preferiti o portate in tavola bottiglie di prezzo. Non appena vidi questo Coppelius, nella mia anima nacque con un brivido la certezza che nessun altro che lui poteva essere l’Orco Insabbia; ma ora l’orco non era più, per me, quello spauracchio della fiaba della bambinaia, che portava da mangiare occhi di bambini alla sua nidiata di civette nella Mezza Luna... No, era divenuto un mostro odioso e spettrale, che dovunque si presenta porta con sé dolori, angosce, eterna rovina. Ero come incantato. Esponendomi al rischio di essere scoperto e, come m’immaginavo, severamente punito, rimasi dov’ero, spiando con la testa fuori della tenda. Mio padre accolse Coppelius con solennità. "Su, al lavoro!" esclamò questi con la sua voce rauca, imperiosa, e si levò la giacca. Senza dir nulla e col volto imbronciato, anche mio padre si tolse la veste da camera e tutti e due indossarono due lunghi camici neri. Dove li avessero presi, non l’avevo visto. Mio padre spalancò i battenti di un grande armadio; ma vidi che quello, che per tanto tempo avevo creduto che fosse un armadio, era invece un grande vano nero, aperto nel muro, nel quale si trovava un focolare. Coppelius vi si avvicinò, e ben presto una fiamma azzurra incominciò a crepitare sul fornello. In giro c’era ogni sorta di arnesi e di attrezzi strani ed insoliti. Oh, Dio! Quando il mio vecchio padre si chinò sul fuoco, il suo volto mi parve completamente trasformato! Un dolore orribile, convulso, pareva che avesse sconvolto i suoi lineamenti dolci e sinceri, trasformandoli in un’orribile maschera diabolica. Assomigliava a Coppelius. Questi brandiva un paio di tenaglie roventi e toglieva fuori da dense nuvole di fumo masse di metallo incandescenti, che batteva poi furiosamente col martello. Mi sembrava che tutto all’intorno comparissero volti umani, ma senza occhi: con orribili, profonde occhiaie nere, invece degli occhi... "Occhi ci vogliono, occhi ci vogliono!" gridò Coppelius con una voce profonda, rimbombante. Lanciai un urlo, in preda al più terribile spavento, e ruzzolai fuori del mio nascondiglio, sul pavimento. Coppelius mi afferrò immediatamente: "Bestiolina bestiolina!" gracidò con la sua voce fioca, digrignando i denti mi sollevò da terra e mi buttò sul focolare, tanto che le fiamme incominciarono a bruciarmi i capelli. "Ecco che abbiamo trovato gli occhi, gli occhi! Un bel paio d’occhi di bambino!" sussurrava Coppelius come un pazzo, e con le mani toglieva dalle fiamme grani di una materia incandescente che mi voleva gettare negli occhi. Ma mio padre alzò le mani, supplicando e gridando: "Maestro, maestro, lasciate gli occhi al mio Nataniele! Lasciateglieli!" Coppelius scoppiò in una risata stridula ed esclamò: "Che si tenga pure i suoi occhi, e che versi la sua parte di lacrime, nella vita; ma almeno studieremo il meccanismo delle mani e dei piedi." E, così dicendo, mi afferrò con tanta forza che le giunture mi scricchiolavano e mi svitò le mani e i piedi, riappiccicandomeli ora qua ora là. "Non stanno bene in alcun posto; era meglio come era prima. Il vecchio ha saputo fare le cose!" Brontolava e sussurrava così, il vecchio Coppelius, ma d’un tratto fu circondato da una grande nuvola nera; una terribile convulsione mi scosse le ossa ed i nervi... e non sentii più nulla. Sentii un alito dolce e tiepido sul volto; mi destai come da un sogno mortale: la mamma stava chinata su di me. "È ancora qui l’Orco Insabbia?" balbettai. "No, bambino mio, è andato via da molto tempo; non ti farà più alcun male!" Così disse la mamma, baciando e accarezzando il suo caro figliolo ritrovato. Perché ti devo annoiare oltre, Lotario del mio cuore? Perché ti devo raccontare tutti questi particolari, mentre mi rimangono ancora tante cose da dire? Basta così: ero stato scoperto mentre spiavo nella stanza e Coppelius mi aveva malmenato. La paura e lo spavento mi avevano procurato una febbre violenta, che mi aveva trattenuto a letto ammalato per molte settimane. "C’è ancora l’Orco Insabbia?" fu la prima parola che pronunciai, ed era il segno che stavo guarendo, che ero risanato. Ma ora ti devo raccontare il momento più terribile della mia infanzia; allora ti convincerai che non dipende da una particolarità dei miei occhi se d’un tratto tutto mi sembra senza colore, ma che un’oscura fatalità ha veramente teso un fosco velo di nubi sopra la mia vita, che forse potrò strappare solo morendo. Coppelius non si era fatto più vedere; si diceva che fosse partito dalla città. Poteva essere passato un anno, quando una sera, secondo la vecchia abitudine, stavamo seduti intorno al tavolo rotondo. Nostro padre era molto allegro e ci raccontava una quantità di cose divertenti a proposito dei viaggi che aveva fatto da giovane. E d’un tratto, mentre battevano le nove, udimmo all’improvviso cigolare la porta di casa, e passi lenti, pesanti come il ferro, che rimbombavano attraverso l’androne e su per le scale. "Dio mio, è Coppelius!" disse mia madre impallidendo. "Sì, è Coppelius," ripeté mio padre con la voce smorzata. Le lacrime incominciarono a cadere dagli occhi di mia madre: "Ma papà, papà!" esclamò. "È proprio necessario?" "Questa è l’ultima volta," egli rispose, "che viene da me; te lo prometto. Ora va’, va’ coi bambini! Andate, andate a letto! Buona notte!" Mi sentivo come se fossi murato dentro una pietra gelida e pesante, non riuscivo neanche a respirare. E vedendomi là immobile, mia madre mi afferrò per un braccio: "Vieni, Nataniele, vieni via!" Mi lasciai condurre via, entrai nella mia cameretta. "Su, stai tranquillo!... Mettiti a letto!... Dormi, dormi!" esclamò mia madre dietro di me; ma io, torturato da un’angoscia e da una inquietudine indescrivibile, non potei chiudere occhio. L’odiato, spaventoso Coppelius mi stava davanti con gli occhi fulminanti e rideva perfidamente di me. Mi sforzavo inutilmente di liberarmi di questa immagine. Probabilmente era già mezzanotte, quando si udì un terribile colpo, come se avesse sparato un cannone. Tutta la casa rimbombò. Sentii qualcuno che correva davanti alla mia porta e subito dopo il portone di casa che si rinchiudeva, sbattuto con forza. "È Coppelius!" esclamai spaventato, saltando giù dal letto. In quella si sentì un urlo tagliente, disperato; mi precipitai verso la camera di mio padre. La porta era spalancata, mi venne incontro un fumo asfissiante. La serva gridò: "Ah, il padrone!" Davanti, per terra, davanti al focolare da cui salivano nuvole di fumo, era steso mio padre, morto, con la faccia spaventosamente sconvolta, coperto di bruciature nere; intorno a lui singhiozzavano e si lamentavano le sorelle, la mamma gli stava stesa accanto, svenuta. "Coppelius, Satana maledetto, hai ammazzato nostro padre!" gridai, e perdetti i sensi. Due giorni dopo, quando mio padre fu steso nella bara, i lineamenti del suo volto erano nuovamente miti e dolci come erano stati in vita. Nell’anima mi nacque un pensiero confortante: che il suo patto col diabolico Coppelius non poteva averlo portato alla dannazione eterna. L’esplosione aveva destato i vicini, l’incidente fu propalato e venne alle orecchie delle autorità, che volevano interrogare Coppelius. Ma questi era scomparso dalla città senza lasciare alcuna traccia. Se ora ti dico, amico del mio cuore, che il mercante di barometri che il 30 ottobre ho minacciato di buttare giù per le scale non era altro che l’infame Coppelius, credo che non mi rimprovererai se sono persuaso che la sua sgradita comparsa significa qualche grave sciagura. Non aveva più gli stessi vestiti; ma la figura ed il volto di Coppelius sono impressi troppo profondamente dentro di me, perché sia possibile un errore. Ed oltre a tutto Coppelius non si è neanche cambiato il nome. Qui in città, come ho sentito, si spaccia per un meccanico piemontese e dice di chiamarsi Giuseppe Coppola. Sono deciso ad affrontarlo ed a vendicare la morte di mio padre, qualunque cosa possa succedere. Non dire nulla alla mamma della comparsa di questo orribile mostro! Saluta la mia amata, soave Clara! Le scriverò quando avrò l’animo più tranquillo. Addio, ecc. ecc.
Clara a Nataniele
È vero che da molto tempo non mi hai più scritto; ma credo lo stesso che mi porti viva nel pensiero e nel cuore. Perché dovevi pensare molto vivacemente a me, mentre volevi spedire la tua ultima lettera a mio fratello Lotario e sull’indirizzo, invece del suo, hai scritto il mio nome. Ho aperto perciò tutta contenta la lettera e mi sono accorta dell’errore solo alle parole: "Ah, Lotario del mio cuore!" A questo punto non avrei dovuto leggere più, ma dare la lettera al fratello. Ma mi hai rimproverato e mi hai preso in giro troppo spesso perché ho un animo troppo tranquillo, troppo riflessivo, tanto che farei come quella donna, e se la casa stesse per crollare, prima di scappare via aggiusterei una piega fuori di posto delle tendine; perciò ti devo assicurare che l’inizio della tua lettera mi aveva profondamente commossa. Potevo a malapena respirare; mi girava la testa... Ah, Nataniele mio, amato dell’anima mia, che cosa terribile doveva essere successa nella tua vita? Essere separata per sempre da te, non doverti mai più rivedere: questo pensiero mi trafisse il cuore come un pugnale rovente! Non potevo fare a meno di leggere, ho letto fino in fondo. La tua descrizione dell’abominevole Coppelius è spaventosa. Solo così ho appreso di che terribile morte violenta è morto il tuo vecchio e buon papa. Il fratello Lotario, al quale ho restituito la sua lettera, ha tentato di tranquillizzarmi; ma non si può dire che vi sia riuscito. Quel tale mercante di barometri, Giuseppe Coppola, mi perseguitava dovunque andavo, e mi vergogno quasi di confessarti che era riuscito persino a turbare, con ogni sorta di sogni stravaganti, i miei sonni di solito così sani e tranquilli. Ma ben presto, già il giorno successivo, tutto - per me - è ritornato in ordine. Sono di un umore allegro e imperturbabile come sempre! Non essere in collera con me, mio caro amore, se ti dico senza reticenze che sono persuasa che tutte le cose orribili e paurose, delle quali tu parli, sono avvenute solamente dentro di te, e che il mondo esteriore, vero e reale, vi abbia poca parte. Il vecchio Coppelius dev’essere stato certamente un essere repugnante; e, poiché odiava i bambini, questo suscitò in voi, quando eravate piccoli, il ribrezzo che provavate per lui. Naturalmente, nel tuo animo infantile, lo spaventoso Orco Insabbia della fiaba si confuse col vecchio Coppelius, che, se anche non credevi più all’orco, rimase per te un mostro spettrale particolarmente pericoloso per i bambini. Le misteriose operazioni che faceva di notte insieme con tuo padre erano forse una cosa molto semplice, e cioè la notte i due facevano insieme esperimenti alchimistici, per cui tua madre non poteva essere tanto contenta, giacché così si sprecava senza dubbio molto denaro e, per giunta, come succede sempre in queste manipolazioni, l’animo di tuo padre, tutto occupato dall’illusoria ricerca della saggezza, veniva estraniato dalla famiglia. Non c’è dubbio che tuo padre ha provocato la propria morte con qualche imprudenza, e che Coppelius non ne ha alcuna colpa. Vuoi credere che ieri sera sono andata a chiedere al nostro dotto vicino, il farmacista, se è possibile un’esplosione tale, che uccida qualcuno sul colpo, mentre si fanno esperimenti di chimica? Lui mi ha risposto: "Eh, come no!" e mi ha descritto, con i suoi soliti modi prolissi e minuziosi, come potrebbe avvenire una simile disgrazia, usando così tanti nomi stravaganti, che non me ne posso ricordare alcuno. Ora senza dubbio stai andando in collera contro la tua Clara, e mi pare di sentirti dire: "In questo animo gelido non penetra neanche un raggio, dei misteri che tengono l’uomo nelle loro braccia invisibili; essa scorge solo la superficie colorata del mondo, e come il più infantile dei bambini è piena di gioia per il frutto dorato, dentro il quale si nasconde un veleno mortale!" Ah, Nataniele mio, amato del mio cuore, non pensi che anche in animi sereni, tranquilli, imperturbabili, può nascere il presentimento di una forza oscura, che si accanisce ostilmente contro di noi e cerca di distruggerci nel nostro stesso io? Ma perdonami se, da quella ragazza semplice che sono, tento di spiegarmi in qualche modo come concepisco dentro di me una simile lotta! Ho paura di non trovare le parole giuste e che tu finisca col prendermi in giro, non già perché dico qualcosa di stupido, ma perché lo dico in modo così impreciso... Ascolta: se esiste una forza oscura, che ripone a tradimento nel nostro cuore un filo, col quale poi cerca di trascinarci su strade pericolose e fatali, dove altrimenti non ci saremmo mai avventurati... Se esiste una simile forza, io credo, allora, che dentro di noi essa debba assumere il nostro stesso aspetto, e anzi divenire noi stessi; perché solo così possiamo credere in essa e darle il modo di compiere la sua opera segreta. Ma se abbiamo un animo forte, irrobustito dalla vita serena, capace di riconoscere come tale un’influenza estranea e a noi nemica e di proseguire con passo tranquillo sulla via su cui ci hanno indirizzato le nostre simpatie e la nostra professione, allora quella forza paurosa si eliminerà, nell’inutile tentativo di assumere la forma che dovrebbe essere in certo modo la nostra immagine riflessa... Ed è anche certo, aggiunge a questo punto Lotario, che se invece noi ci abbandoniamo spontaneamente a questa oscura forza fisica, essa diviene capace di attirare nel nostro cuore le figure estranee che il mondo esteriore ci fa trovare sulla nostra via, sicché, in realtà, accendiamo solamente il nostro spirito quando, in una strana illusione, ci immaginiamo che ci parli da quelle figure. Sono solo dei fantasmi del nostro proprio io, quelle figure, la cui intima affinità e la cui profonda influenza sul nostro animo ci fanno precipitare all’inferno o ci sollevano in paradiso! Vedi, dunque, mio amato Nataniele, che noi due, io e il fratello Lotario, abbiamo discusso a fondo a proposito delle forze e delle energie misteriose; e questo argomento, ora che ho trascritto non senza fatica le cose principali che abbiamo detto, mi sembra veramente profondo. Non riesco a comprendere a pieno le ultime parole di Lotario, ho solamente una vaga idea di quello che vuol dire; eppure mi sembra che tutto sia vero. Ti prego, bandisci completamente dai tuoi pensieri l’orribile avvocato Coppelius e l’uomo dei barometri, Giuseppe Coppola. Persuaditi che queste figure estranee non hanno alcun potere su di te! Solo la tua fede nella loro forza nemica te le può rendere nemiche di fatto. Se in ogni riga della tua lettera non parlasse la più profonda agitazione del tuo animo, se la tua condizione non mi facesse soffrire fino in fondo all’anima, davvero mi sarebbe facile scherzare sull’avvocato Insabbia e sul mercante di barometri Coppelius. Sii sereno, sereno! Mi sono proposta di comparirti davanti come il tuo spirito protettore e di far fuggire con una bella risata l’orribile Coppola che volesse attentarsi di opprimerti in sogno. Io non ho proprio alcuna paura né di lui né dei suoi orribili pugni pelosi; non ha il modo di sciuparmi né - come avvocato - un pezzo di torta, né - come orco - gli occhi. Eternamente Nataniele mio, amato con tutto il mio cuore, ecc. ecc. ecc.
Nataniele a Lotario
Per quanto comprenda l’errore provocato dalla mia distrazione, mi è molto dispiaciuto che Clara abbia aperto e letto, l’altro giorno, la lettera che io ti avevo mandato. Mi ha scritto una lettera molto profonda e filosofica, nella quale mi dimostra per filo e per segno che Coppelius e Coppola esistono solo dentro di me e sono fantasmi del mio io, che cadrebbero istantaneamente in polvere se li riconoscessi come tali. In effetti, non si direbbe che lo spirito, che trapela così spesso da quei suoi occhi chiari e sorridenti di bambina come un sogno soave, possa essere così giudizioso e fare di queste distinzioni così razionali. Cita anche le tue parole. Avete discusso insieme su di me. Sembra quasi che tu le tenga un corso di logica perché impari a comprendere e a distinguere tutto molto sottilmente! È meglio che tu non lo faccia più! Del resto, ormai è certo che il mercante di barometri Giuseppe Coppola non è affatto il vecchio avvocato Coppelius. Io seguo un corso del nuovo professore di chimica che è arrivato da poco e che, come il celebre naturalista, si chiama Spallanzani ed è di origine italiana. Egli conosce Coppola già da molti anni. E per di più si sente benissimo, dalla sua pronuncia, che Coppola è veramente piemontese. Mentre Coppelius era tedesco, per quanto, mi pare, poco leale... Però non posso dire di essere completamente tranquillo. Tu e Clara potete continuare a giudicarmi un fosco sognatore; ma non riesco a liberarmi dall’ossessione che mi tiene sempre davanti il volto maledetto di Coppelius. Sono lieto che, come mi dice Spallanzani, Coppola sia partito dalla nostra città. Questo professor Spallanzani è un tipo stravagante. Piccolo, grassotto, il viso con gli zigomi sporgenti, un naso sottile, le labbra tumide, gli occhi piccoli ed acuti. Ma, meglio di come te lo possa descrivere io, te lo puoi raffigurare guardando il ritratto di Cagliostro disegnato da Chodowiecki in qualche lunario berlinese. Spallanzani è tale e quale. Ieri salivo le scale di casa sua e mi accorgo che una tenda, che copre di solito completamente una porta a vetri, lasciava aperto uno spiraglio da un lato. Non so neppure io come mi sia venuta l’idea di gettare un’occhiata curiosa nella stanza. C’era seduta una figura di donna molto alta e snella, di proporzioni armoniose, vestita splendidamente, che teneva le mani giunte e le braccia appoggiate a un piccolo tavolino davanti a lei. Era di fronte alla porta, sicché ho potuto vedere bene il suo viso angelico. Non mi è parso che si accorgesse di me, e anzi i suoi occhi avevano una strana fissità, direi quasi che non avevano forza visiva... Pareva che dormisse ad occhi aperti. Sentii un profondo disagio, e per questo scivolai silenziosamente fino nell’auditorio, che è là vicino. Più tardi ho saputo che la figura che avevo visto è Olimpia, la figlia di Spallanzani, che - non si sa perché - egli tiene sempre crudelmente rinchiusa, sicché nessuno ha ancora potuto avvicinarla. Probabilmente c’è qualche cosa che non va, forse è debole di mente, o qualcosa così. Chissà perché ti scrivo tutto questo? Ti avrei potuto raccontare tutto molto meglio e con più particolari a voce. Perché devi sapere che tra quindici giorni sarò di nuovo con voi! Voglio rivedere il mio dolce, caro angelo, la mia Clara. Come la nebbia si dissiperà allora il malumore che - devo confessarlo - stava quasi per impossessarsi di me, dopo quella sua lettera noiosa e giudiziosa. E per questo anche oggi non le scrivo. Mille saluti, ecc. ecc. Non si può immaginare nulla di più strano e di più bizzarro di quello che è successo al mio povero amico, il giovane studente Nataniele, e che io, benigno lettore, ho incominciato a raccontarti. Non è mai avvenuto, nella tua vita, qualcosa che prendesse possesso del tuo cuore, dei tuoi sensi e dei tuoi pensieri, cancellandovi tutto il resto? Allora qualcosa fermentava e ribolliva in te; accendeva fino a farlo bollire il sangue che avevi nelle vene e ti colorava le guance. Avevi uno strano modo di guardare, come se volessi afferrare, nella stanza vuota, figure invisibili per gli occhi di tutti gli altri; e ogni tuo discorso si spegneva in foschi sospiri. Gli amici ti chiedevano: "Cosa le succede, stimatissimo?" "Carissimo, che cos’ha?" Ed allora volevi esprimere le immagini che avevi nel cuore con tutti i più accesi colori e le ombre e le luci, e ti sforzavi di trovare le parole per incominciare. Ti pareva di dover comprendere nella prima parola tutte le cose meravigliose, splendenti, spaventose, allegre e terribili che ti erano successe, in modo da colpire gli ascoltatori come una scarica elettrica. Ma ogni parola, tutto ciò che si può dire coi discorsi, ti sembrava grigio, gelido, morto. Allora cercavi e cercavi, e balbettavi e restavi a bocca aperta, e le frasi prosaiche degli amici penetravano come un vento gelato nel tuo fuoco interno, finché lo facevano spegnere. Se, invece, come un pittore di spirito, tu avessi gettato là con qualche segno ardito i contorni della tua immagine interiore, avresti avuto poca fatica ad aggiungervi colori sempre più ardenti, e il groviglio vivente delle figure più svariate avrebbe trascinato i tuoi amici, che al pari di te avrebbero scorto la propria immagine nel quadro uscito dal tuo cuore. In realtà, come sono costretto a confessarti, benigno lettore, a me nessuno ha chiesto la storia del giovane Nataniele. Ma tu sai bene che io appartengo a quella bizzarra razza di autori, i quali, se portano dentro di sé qualcosa del genere che ho scritto più su, ogni volta, quando qualcuno viene vicino a loro, hanno l’impressione di sentirsi domandare: "Ma insomma, cosa succede? Andiamo, andiamo: racconti!" Così provavo una grande smania di raccontarti qualcosa della vita fatale di Nataniele. La sua stravaganza, la sua stranezza riempivano tutta la mia anima; ma appunto perciò, e perché, o mio lettore, volevo renderti subito incline ad accettare le cose più straordinarie (che non è un’impresa da poco) mi tormentavo per incominciare la storia di Nataniele in modo simbolico, originale, commovente. C’era una volta... Il più bel principio di una storia, ma troppo prosaico! Nella piccola città di S. viveva... È già un po’ meglio, per lo meno prepara a qualcosa d’importante. Oppure subito medias in res: "Andate al diavolo!" gridò, pieno di furore e di spavento, con gli occhi stravolti, lo studente Nataniele, quando il mercante di barometri, Giuseppe Coppola... E difatti avevo già incominciato a scrivere così, quando mi parve di scorgere qualcosa di burlesco, negli occhi stravolti dello studente Nataniele; ma, in questa storia, di burlesco non c’è niente. Insomma: non mi veniva in mente una sola parola, che riflettesse anche solo minimamente gli splendidi colori dell’immagine che avevo dentro di me. Decisi così di non incominciare in alcun modo. Accetta perciò, benigno lettore, le tre lettere, che l’amico Lotario mi ha gentilmente comunicato, come lo schizzo del quadro nel quale ora cercherò di portare sempre più vari e più vivi colori col mio racconto. Forse mi riuscirà di prospettare come un buon ritrattista qualche figura in modo che tu la trovi simile pur senza conoscere l’originale; anzi: in modo che tu abbia l’impressione di aver veduto spesso coi tuoi occhi quella persona. Forse, o mio lettore, allora crederai che nulla v’è di più stravagante e pazzesco della vita reale, e che il poeta la può cogliere solamente come un oscuro riflesso dentro uno specchio senza luce. Affinché sia più chiaro quello che bisogna sapere fin da principio, a quelle lettere bisogna aggiungere che, poco tempo dopo la morte del padre di Nataniele, Clara e Lotario, figli di un lontano parente che li aveva del pari lasciati orfani, furono accolti in casa dalla madre di Nataniele. Clara e Nataniele concepirono un violento affetto l’uno per l’altro, e credo che nessuno a questo mondo possa avere nulla in contrario. Erano perciò fidanzati, quando Nataniele abbandonò la cittadina per continuare gli studi a G. E là lo troviamo, nella sua ultima lettera, mentre segue i corsi del celebre professore di fisica Spallanzani. Sicché ora potrei continuare tranquillo il mio racconto; ma in questo momento mi si presenta davanti agli occhi così vivace l’immagine di Clara, che non posso distoglierne lo sguardo, come mi è sempre successo allor quando mi ha rivolto il suo soave sorriso. Non può certo pretendere di essere bella, Clara, questo lo dicono tutti quelli che se ne intendono di bellezza per ragioni di ufficio, però gli architetti lodano le pure proporzioni della sua figura. I pittori pensano che forse il collo, le spalle ed il petto hanno forme troppo caste, ma invece sono tutti assieme innamorati dei suoi meravigliosi capelli da Maddalena e vaneggiano di un colorito alla Battoni. Uno di loro, vittima della fantasia, ha avuto la strana idea di confrontare gli occhi di Clara con un lago di Ruysdael, in cui si rispecchia il nitido azzurro di un cielo senza nubi, un rigoglio di alberi e di fiori, la vita variopinta e serena di un ricco paesaggio. Ma i poeti e i musicisti sono più arditi ed esclamano: "Ma che lago, che specchio! Possiamo guardare questa creatura senza che dal suo sguardo ci vengano i raggi di canti meravigliosi e di note celesti, le quali ci penetrano nel cuore mettendo in movimento tutto quanto c’è dentro di noi? E se allora non ci riesce di cantare qualcosa di ben fatto, vuol dire che non abbiamo alcuna stoffa, ed è proprio quello che leggiamo chiaramente nel sottile sorriso che gioca intorno alle labbra di Clara quando ci attendiamo di canticchiare qualche cosa che avrebbe la pretesa di essere vera musica." Perché le cose stavano così: Clara aveva la vivace fantasia di una creatura serena, limpida, infantile, un animo profondo e delicato di donna, un cervello lucido e bene equilibrato. Gli amanti delle ombre e delle nebbie non avevano fortuna con lei; perché, senza dir molto, cosa che non era assolutamente nella natura silenziosa di Clara, quel suo sguardo trasparente e quel fine sorriso ironico dicevano: "Cari amici, come potete pretendere che io consideri le vostre figure fosche e confuse come creature vere, piene di vita e di sentimento?" C’era, perciò, molta gente che criticava Clara perché era troppo fredda, senza sentimenti e prosaica; ma altri, che coglievano la vita in maggiore e più lucida profondità, amavano oltre modo quel suo animo così sensibile, intelligente, infantile; ma nessuno come Nataniele, che si muoveva con sicurezza e serenità nel campo della scienza e dell’arte. Clara si sentiva trasportata con tutta l’anima verso il suo innamorato, e le prime ombre passarono sulla sua vita quando si dovette separare da lui. Con che trasporto volò perciò nelle sue braccia, quando, come aveva annunciato nell’ultima lettera a Lotario, arrivò veramente nella sua città natale ed entrò in casa della madre! Successe veramente come Nataniele aveva pensato; perché, nello stesso istante in cui rivide Clara, egli non pensò più né all’avvocato Coppelius né a quella lettera troppo giudiziosa. Ogni malumore era scomparso. Eppure Nataniele aveva ragione, quando aveva scritto al suo amico Lotario che la figura repugnante del mercante di barometri Coppola era entrata ostilmente nella sua vita. Tutti se ne resero conto, poiché, fin dai primi giorni, Nataniele si mostrò completamente trasformato nel suo carattere. Cadeva in uno stato fosco e trasognato e si comportava in un modo così strano, che nessuno lo riconosceva più. Tutto, l’intera vita era diventata per lui sogno e presentimento. Diceva continuamente che tutti gli uomini, pur nell’illusione di essere liberi, servono al gioco crudele di oscure potenze; inutilmente noi ci ribelliamo, non c’è altro da fare che adattarci umilmente a quello che il destino ci ha mandato. Arrivava sino al punto di sostenere che è una pazzia credere che nell’arte e nella scienza si possa creare secondo il libero arbitrio; perché quell’entusiasmo, che solo ci permette di creare, non nasce dal nostro animo, ma dall’influsso di un principio superiore che risiede fuori di noi. Questa esaltazione mistica dispiaceva profondamente a Clara; ma le sembrava impossibile mettersi a discutere. Solo quando Nataniele cercò di dimostrarle che Coppelius era il principio del male, che si era impossessato di lui al momento in cui stava a spiare nascosto dietro alla tenda, e che questo sinistro demonio avrebbe orribilmente distrutta la felicità del loro amore, Clara si fece molto seria e disse: "Sì, Nataniele, hai ragione: Coppelius è un principio ostile, è il principio del male; può produrre effetti terribili, come una potenza diabolica che entra visibilmente nella vita... Ma solo nel caso che tu non lo voglia bandire dai tuoi sensi e dai tuoi pensieri. Finché tu credi in lui, esso esiste ed agisce; solo la tua fede crea la sua potenza." Nataniele, incollerito perché Clara insisteva a dire che il diavolo esisteva solo dentro di lui, voleva esporle tutta la sua teoria mistica dei diavoli e delle potenze occulte. Ma Clara lo interruppe di malumore, mettendosi a parlare di qualcosa d’indifferente con non poco disappunto di Nataniele. Egli pensava che questi profondi misteri non si rivelano agli animi freddi e sordi (senza rendersi ben conto che in questo modo egli annoverava Clara fra simili nature inferiori) e perciò non smise coi suoi tentativi di iniziarla in questi misteri. La mattina per tempo, mentre Clara stava preparando la colazione, si presentò da lei e incominciò a leggere una quantità di testi mistici, finché Clara non lo pregò: "Ma, caro Nataniele, e se io ti dicessi che sei tu il principio del male, il quale esercita un’influenza deleteria sul mio caffè? Perché, se piantassi tutto come vuoi tu e stessi a guardarti negli occhi mentre leggi, il caffè traboccherebbe nel fuoco e restereste tutti senza colazione!" Nataniele, infuriato, chiuse il libro e pieno di rabbia corse fuori dalla stanza. Un tempo aveva dimostrato una particolare capacità di scrivere racconti graziosi e vivaci, che Clara ascoltava col più profondo diletto; ma ora queste sue composizioni erano fosche, incomprensibili, informi, sicché, anche se Clara per riguardo non lo diceva, egli sentiva bene che il cuore di lei rimaneva indifferente. Per Clara non c’era nulla di peggio della noia, perché allora, con gli sguardi e le parole, rivelava una sonnolenza spirituale che non riusciva a vincere in alcun modo. Ed infatti le composizioni di Nataniele erano molto noiose. La sua collera per l’animo freddo e prosaico di Clara aumentò ancora; Clara, dal canto suo, non poteva superare il suo malumore per l’oscuro, fosco e noioso misticismo di Nataniele; e così, senza rendersene conto, nel loro cuore si allontanavano sempre più l’una dall’altro. La figura del brutto Coppelius, come Nataniele doveva ammettere, era impallidita nella sua fantasia e spesso gli costava fatica rappresentarla vivamente nelle sue novelle, dove compariva regolarmente come un pauroso spauracchio del destino. Finalmente ebbe l’ispirazione di usare come argomento di una poesia il fosco presentimento che Coppelius potesse distruggere il suo amore felice. Rappresentò se stesso e Clara congiunti in un amore fedele; ma di quando in quando sembrava loro che un pugno nero penetrasse nella loro vita per strapparne una gioia che aveva loro brillato da lontano. Poi, quando già sono all’altare delle nozze, appare lo spaventoso Coppelius che tocca i dolci occhi di Clara; questi cadono sul seno di Nataniele come scintille sanguinanti, e lo ardono, lo mettono in fiamme. Coppelius lo afferra e lo spinge in una ruota di fuoco, che gira con la rapidità della bufera e lo trascina lontano nei suoi vortici. È un ululo, come se l’uragano sferzasse con ira le onde schiumanti del mare, che si sollevano in una lotta rabbiosa come giganti neri dal volto canuto. Ma in mezzo agli ululi selvaggi ode la voce di Clara: "Non mi puoi scorgere, Coppelius ti ha ingannato. Non erano i miei occhi che ti hanno bruciato il petto, erano gocce ardenti del sangue del tuo cuore. Li ho, i miei occhi; guardami, dunque!" Nataniele pensa: "È Clara che parla, ed io sono eternamente suo." Allora questo pensiero scocca con tanta potenza attraverso cerchi di fuoco, che lo costringe a fermarsi, mentre l’ululo si spegne sordamente nell’abisso tenebroso. Nataniele guarda negli occhi di Clara; ma è la morte, che con gli occhi di Clara amorosamente lo guarda. Mentre Nataniele lavorava a questa poesia, era molto tranquillo e riflessivo; limava e correggeva ogni verso e non si dette pace finché tutte le strofe non furono pure ed armoniose. Ma quando ebbe finalmente terminato e lesse la poesia ad alta voce, si senti rabbrividire per un cieco spavento e gridò: "Ma di chi è questa voce raccapricciante?" Ma subito dopo l’insieme tornò a fargli l’impressione di una poesia molto ben riuscita, e si consolò pensando che avrebbe senza dubbio acceso l’animo gelato di Clara, sebbene non gli fosse chiaro perché Clara dovesse essere accesa, e quale scopo potesse avere spaventarla con quelle immagini orribili che presagivano una tremenda sorte: la rovina del suo amore. Stavano seduti, Nataniele e Clara nel piccolo giardino della madre. Clara era molto allegra, perché da tre giorni, da quando aveva incominciato a scrivere la sua poesia, Nataniele non l’aveva più tormentata coi suoi sogni e i suoi presagi. Anche Nataniele parlava vivacemente di cose più divertenti del solito, sicché Clara disse: "Finalmente ti ho ritrovato completamente. Vedi che siamo riusciti a cacciar via quell’odioso di Coppelius?" Allora Nataniele si ricordò di avere in tasca la sua poesia, che le aveva voluto recitare. Prese subito fuori i fogli e incominciò a leggere. Clara, rassegnata all’idea di dover sentire secondo il solito qualche cosa di noioso, incominciò tranquillamente a fare la calza. Ma quando le nuvole fosche presero ad addensarsi sempre più nere, lasciò cadere la calza e gli aghi e si mise a fissare Nataniele negli occhi. Egli si sentiva trascinato dai propri versi, il fuoco del cuore gli aveva infuocato le guance, le lacrime gli scorrevano dagli occhi. Arrivò finalmente alla chiusa, si sentiva spossato, non poteva trattenere i gemiti... Poi afferrò la mano di Clara e sospirò, come perduto in un dolore inconsolabile: "Ah! Clara, Clara!" Clara lo strinse dolcemente fra le braccia e disse sottovoce, ma molto seriamente: "Nataniele, caro Nataniele del mio cuore, butta nel fuoco questa favola assurda, pazzesca!" Allora Nataniele balzò in piedi sdegnato e gridò, respingendo Clara: "Maledetto automa senza vita!" E scappò via, mentre lacrime amare scorrevano sul volto di Clara, profondamente offesa: "Ah, non mi ha mai amato, perché non mi comprende!" e scoppiò in singhiozzi. In quel momento Lotario entrò nella pergola. Clara gli dovette raccontare quello che era successo. Amava sua sorella con tutta l’anima, ogni parola dei suoi lamenti cadeva nel suo cuore come una scintilla, sicché il malumore che da molto tempo sentiva dentro di sé per le fantasticherie di Nataniele divampò in un’ira sfrenata. Corse da Nataniele, gli rimproverò il suo assurdo comportamento di fronte all’amata sorella, usò dure parole, alle quali Nataniele, infuriato, rispose non meno duramente. Un "pupazzo trasognato e impazzito" fu ribattuto con un "miserabile, volgare borghese". Divenne così inevitabile un duello. Decisero di battersi la mattina seguente dietro il giardino, secondo gli usi accademici, con fioretti acuminati. Durante tutta la giornata andarono in giro col viso scuro senza dir parola. Clara aveva sentito la lite ed aveva veduto che verso sera il maestro di scherma aveva portato i fioretti. Comprese quello che stava per succedere. Giunti sul luogo del combattimento, Lotario e Nataniele, tutti e due foschi e silenziosi, avevano gettato da una parte le giacche e, con gli occhi accesi dalla smania di combattere e dalla sete di sangue, stavano per precipitarsi l’uno addosso all’altro, quando Clara comparve sulla porta del giardino. Fra i singhiozzi incominciò a gridare: "Come potete essere così terribili, così crudeli! Uccidetemi, prima d’incominciare a combattere; come potrei vivere più a lungo sulla terra, se l’innamorato mi uccidesse il fratello o il fratello l’innamorato!" Lotario abbassò la lama, guardando silenzioso a terra; e nel cuore di Nataniele, in un momento di dolore lacerante, si riaccese tutto il suo amore per la dolce Clara, come non l’aveva mai sentito nei più bei giorni della sua giovinezza. L’arma omicida gli cadde di mano, si precipitò ai suoi piedi: "Potrai mai perdonarmi, unica, amata Clara mia? Mi potrai mai perdonare, Lotario, fratello del mio cuore?" Lotario si commosse per il profondo dolore dell’amico; fra mille lacrime, i tre giovani riconciliati si abbracciarono e giurarono di non abbandonarsi mai più, in eterno amore e in eterna fedeltà. Nataniele si sentiva dentro di sé come se un grave peso gli fosse caduto dalle spalle, che prima lo aveva tenuto piegato al suolo; anzi: come se, resistendo alla forza tenebrosa che si era impadronita di lui, tutto il suo essere si fosse salvato dalla rovina che lo minacciava. Passò ancora tre giorni felici insieme coi suoi cari; poi ritornò a G., dove pensava di restare ancora per un anno prima di ritornare definitivamente nella città natale. Alla madre avevano tenuto nascosto tutto quello che si riferiva a Coppelius; sapevano che essa non poteva pensare a lui senza un grande spavento, perché, come Nataniele, gli attribuiva la colpa della morte di suo marito. Come rimase meravigliato Nataniele quando, arrivato davanti alla sua abitazione, vide che tutta la casa era bruciata e che dal mucchio delle macerie non si alzavano più che i muri maestri, nudi e anneriti. Sebbene l’incendio fosse scoppiato nel laboratorio del farmacista, che abitava al pianterreno, e la casa fosse bruciata dal basso in alto, i coraggiosi e bravi amici di Nataniele erano riusciti a penetrare per tempo nella sua stanzetta all’ultimo piano e a salvare libri, manoscritti e strumenti. Avevano portato ogni cosa in buon ordine in un’altra casa, dove avevano fissato senz’altro una stanza nella quale Nataniele poté andare subito ad abitare. Non badò affatto che il suo alloggio si trovava di faccia a quello del professor Spallanzani, e non fece neanche caso quando si accorse che dalla sua finestra poteva guardare dentro la stanza dove di solito Olimpia sedeva tutta sola, sicché poteva riconoscere chiaramente la sua figura, sebbene i tratti del volto rimanessero lontani e confusi. Ma a lungo andare si avvide che Olimpia rimaneva spesso per ore intere nella stessa posizione in cui l’aveva scorta quel giorno attraverso la porta di vetro, seduta davanti a un tavolino senza fare mai nulla, e che evidentemente lo fissava senza staccargli un momento gli occhi di dosso; e dovette confessare a se stesso che non aveva mai veduto in vita sua un personale più bello. Ma frattanto, col cuore pieno di Clara, rimase completamente indifferente a quell’Olimpia dura ed impalata, e solo di quando in quando alzava per un momento lo sguardo dalle sue dispense e dava un’occhiata alla bella statua. Questo era tutto. Stava scrivendo una lettera a Clara, quando sentì bussare leggermente alla porta; alla sua risposta questa si aperse e si affacciò il viso antipatico di Coppola. Nataniele senti un brivido dentro di sé. Tuttavia, ricordandosi di quello che Spallanzani gli aveva detto a proposito del suo compatriota ed anche di quello che aveva promesso così solennemente alla sua innamorata a proposito dell’orco Coppelius, si vergognò di quella sua infantile paura dei fantasmi e, facendosi forza, disse con tutta la calma e la gentilezza di cui fu capace: "Non compro alcun barometro, amico mio, vada pure!" Ma Coppola entrò lo stesso nella stanza e, spalancando la bocca in un’orribile risata mentre gli occhietti gli scintillavano sotto le lunghe ciglia grigie, disse con la sua voce rauca: "Eh, no barometri, no barometri! Avere bei oci, bei oci!" Nataniele gridò spaventato: "Pazzo, come puoi avere occhi?! Occhi?! Occhi?" Ma nello stesso momento Coppola aveva messo da parte i suoi barometri e, affondando tutte e due le mani nelle tasche capaci del cappotto, aveva incominciato a tirare fuori occhiali ed occhialetti disponendoli sul tavolo: "Sì, sì, occhiali, lenti mettere sul naso, ecco mii oci! Bei oci!" E intanto tirava fuori sempre più occhiali, di tutte le qualità, in numero così grande che su tutto il tavolino le lenti incominciarono a scintillare e a brillare in un modo strano. Migliaia d’occhi guardavano, sbattevano convulsamente, fissavano Nataniele; ma non poteva distogliere lo sguardo dal tavolo, e Coppola gli metteva davanti sempre più occhiali, sempre nuovi occhiali, e gli sguardi scintillanti si confondevano in un modo orribile e penetravano coi loro raggi sanguinanti nel petto di Nataniele. Quasi pazzo dal terrore, esclamò: "Fermati, fermati, maledetto!" e afferrò per un braccio, scuotendolo, Coppola che aveva rimesso le mani in tasca per tirar fuori ancora altri occhiali, sebbene il tavolino fosse già tutto coperto. Ma Coppola si liberò con la sua risata rauca e odiosa, brontolando: "Ah, no per lei? Allora ecco bella lente!" Arraffò in un attimo tutti gli occhiali, se li rimise in tasca e tirò fuori dalle tasche interne del pastrano una quantità di telescopi e di cannocchiali grandi e piccoli. Appena gli occhiali furono scomparsi, Nataniele si tranquillizzò e, ripensando a Clara, dovette persuadersi che quella terribile visione era nata assolutamente dentro di lui, e che anche Coppola era un onorato meccanico ed un bravo ottico, e non poteva essere in alcun modo il fantasma del maledetto Coppelius. Inoltre tutti i cannocchiali che Coppola aveva messo sul tavolo non avevano niente di speciale e tanto meno poi qualcosa di spettrale... E, per riparare a tutto, decise di comperare qualche cosa. Prese un piccolo cannocchiale tascabile molto ben lavorato e, per provarlo, guardò fuori della finestra. Mai in vita sua aveva ancora provato lenti che portassero gli oggetti così ben disegnati e chiari davanti agli occhi. Involontariamente guardò dentro la stanza di Spallanzani: Olimpia stava seduta come al solito davanti al suo tavolino tenendovi appoggiate le braccia, con le mani in mano. Solamente ora Nataniele poté scorgere il meraviglioso visetto di Olimpia. Gli occhi tuttavia gli sembravano troppo fissi, senza sguardo, e morti. Ma guardando sempre più acutamente attraverso il suo cannocchiale gli parve che negli occhi di Olimpia si accendessero umidi raggi di mare. Era come se, all’improvviso, i suoi sguardi si fossero accesi ed ora fiammeggiassero sempre più vivacemente. E Nataniele rimase alla finestra come incantato, continuando ancora a fissare la celeste bellezza di Olimpia. Si svegliò come da un sogno profondo sentendo qualcuno che tossicchiava e si raschiava in gola dietro le sue spalle. Coppola gli si era avvicinato: "Tre zecchini, tre zecchini." Nataniele, che si era semplicemente dimenticato dell’ottico, gli pagò in fretta quello che gli aveva chiesto. "No vero? Bella lente, bella lente?" chiese Coppola con la sua voce insopportabile e il suo falso sorriso. "Sì, sì, sì!" rispose Nataniele di malumore. "Addio, caro amico!" Coppola uscì dalla stanza, non senza aver guardato ancora un paio di volte di nascosto, con un’aria strana, dalla parte di Nataniele. Questi lo sentì ridere forte sulle scale. "Si capisce," pensò Nataniele, "ride alle mie spalle perché senza dubbio gli ho pagato troppo caro il suo piccolo cannocchiale... L’ho pagato troppo caro!" E, ripetendo queste parole sottovoce, gli parve di sentire risuonare paurosamente nella stanza un profondo sospiro mortale. A Nataniele, dallo spavento, si fermò il respiro in gola. Ma era stato lui stesso a sospirare, lo comprese benissimo. "Clara," disse a se stesso, "ha davvero ragione quando dice che sono uno sciocco, un visionario. Eppure è strano - ah, assai peggio che strano - che questo sciocco pensiero di aver pagato troppo caro il cannocchiale a Coppola mi faccia tanta paura; non posso comprenderne il motivo." Si rimise al suo tavolino per terminare la lettera per Clara; ma uno sguardo gettato fuori dalla finestra lo convinse che Olimpia era ancora seduta al suo posto, e nello stesso momento, come spinto da una forza irresistibile, saltò in piedi, afferrò il cannocchiale di Coppola e non poté staccarsi dalla seduzione di Olimpia fin quando non venne a chiamarlo il suo amico e camerata Sigismondo, per andare alla lezione del professor Spallanzani. La tenda davanti alla stanza fatale era completamente chiusa, e così non poté scorgere Olimpia nella sua stanza né quel giorno né i due giorni seguenti, sebbene non abbandonasse quasi mai la finestra e guardasse continuamente attraverso la strada col cannocchiale di Coppola. Il terzo giorno anche le finestre furono chiuse con una tenda. Tutto disperato, e spinto dalla nostalgia e da un’ardente brama, uscì di città e si mise a correre per la campagna. La figura di Olimpia gli brillava davanti nell’aria, gli veniva incontro fra gli alberi e lo guardava con i grandi occhi luminosi dalle acque profonde e limpide dei ruscelli. L’immagine di Clara era completamente scomparsa dal suo cuore. Non pensava più che ad Olimpia e si lamentava ad alta voce, piangendo: "Ah, sublime, meravigliosa stella dell’amore, perché ti sei alzata per me nel cielo, se dovevi subito scomparire e abbandonarmi in questa notte tenebrosa, senza speranza?" Mentre stava rincasando, si accorse che in casa di Spallanzani c’era un gran da fare, gran chiasso e confusione. Le porte erano spalancate, facchini trasportavano dentro ogni sorta di mobili. Le finestre del primo piano erano completamente aperte; donne di servizio indaffarate spazzavano e spolveravano, ripulivano tutte le pareti con grandi scope di crine; di dentro si sentivano falegnami e tappezzieri battere e bussare. Nataniele si fermò tutto meravigliato, in mezzo alla strada, e in quella Sigismondo gli si avvicinò ridendo e gli chiese: "Dunque, cosa ne dici del nostro vecchio Spallanzani?" Nataniele rispose che non aveva niente da dire, visto che non sapeva assolutamente niente del professore e invece constatava con meraviglia che nella sua casa, prima così tranquilla e piuttosto melanconica, si era scatenato all’improvviso tutto quel fracasso. Allora Sigismondo gli raccontò che il giorno dopo Spallanzani voleva dare una grande festa con ballo e concerto, e che aveva invitato mezza università. Aveva fatto sapere a tutti che avrebbe presentato per la prima volta in società la sua figliola Olimpia, che aveva tenuta per tanto tempo paurosamente nascosta agli occhi di tutti. Nataniele trovò un biglietto d’invito e, all’ora stabilita, se ne andò col cuore palpitante dal professore, quando già le prime carrozze erano arrivate e le lampade erano state accese nelle sale guarnite. Gli invitati erano numerosi e magnifici. Olimpia comparve con un vestito ricco e pieno di buon gusto. Tutti dovettero ammirare il suo bel volto, il magnifico personale. L’eccessiva curva delle reni, la sottigliezza da vespa della cintura parevano una conseguenza del busto troppo stretto. Anche nel modo di muoversi e di tenersi c’era qualcosa di troppo misurato e rigido, che a qualcuno poteva dispiacere; ma tutti lo attribuivano alla soggezione che le incuteva la società. Incominciò il concerto. Olimpia suonò il piano con grande abilità e contemporaneamente si mise a cantare un’aria di bravura con una limpida voce da campana di vetro, forse un tantino stridente. Nataniele era come rapito; stava nell’ultima fila e, nella luce abbagliante delle candele, non poteva ben distinguere i lineamenti di Olimpia. Senza pensare, prese il cannocchiale di Coppola per guardare la bella Olimpia. Ah!, allora si accorse che essa guardava con nostalgia verso di lui, che ogni nota si trasformava palesemente in uno sguardo innamorato che penetrava ed accendeva il suo cuore. I gorgheggi più ammirevoli sembravano a Nataniele il grido di gioia dell’animo trasformato dall’amore e quando finalmente, dopo una cadenza, un lungo trillo squillante risuonò attraverso la sala, si sentì come stretto fra due braccia ardenti e non poté più trattenersi, per il dolore e per l’estasi dovette gridare forte: "Olimpia!" Tutti si voltarono verso di lui; più d’uno scoppiò a ridere. Ma l’organista del duomo fece un viso più scuro di prima e si limitò a dire: "Andiamo, andiamo!" IL concerto terminò. Incominciò il ballo. "Poter ballare con lei! Con lei!" Ormai questo era l’unico scopo, erano i desideri, i sogni di Nataniele; ma come farsi tanto coraggio e andare ad invitare lei, proprio lei, la regina della festa? Eppure (lui stesso non avrebbe potuto dire come successe) quando le danze erano già incominciate si trovò accanto ad Olimpia, la quale non era stata invitata da alcuno, e, capace appena di balbettare qualche parola, la prese per mano. Fredda come il ghiaccio era la mano di Olimpia: si sentì attraversare da un terribile brivido di morte. Fissò Olimpia negli occhi: si sentì colpito dai raggi dell’amore e della nostalgia e, nello stesso momento, gli sembrò anche che nella mano gelata incominciasse a battere il sangue e ad ardere il calore della vita. E anche nel cuore di Nataniele divampò più forte l’amore: strinse la bella Olimpia fra le braccia e incominciò a girare con lei fra i gruppi dei ballerini. Finora aveva sempre creduto di saper ballare bene e a tempo; ma la particolare sicurezza ritmica con cui ballava Olimpia, e che talvolta gli faceva addirittura perdere il tempo, lo convinse presto di non avere addirittura il senso del ritmo. Tuttavia giurò a se stesso che non avrebbe mai più ballato con un’altra donna e, appena qualcuno si avvicinava ad Olimpia per invitarla, avrebbe avuto voglia di assassinarlo. Ma in realtà questo successe due volte sole: con sua grande meraviglia Olimpia restava a sedere ad ogni ballo, ed egli non mancava mai di andare a prenderla. Se avesse avuto occhi per vedere anche qualche altra cosa che non fosse la bella Olimpia, sarebbero senza dubbio scoppiati litigi e scene di ogni sorta; perché non c’è dubbio che le risatine appena represse, che scoppiavano qua e là fra i crocchi di giovani, erano indirizzate alla bella Olimpia, che essi seguivano con un’aria molto curiosa, nessuno avrebbe potuto dire perché... Riscaldato dalla danza e dal vino bevuto abbondantemente, Nataniele aveva dimenticato la sua solita timidezza. Stava seduto accanto ad Olimpia, tenendole la mano fra le sue, e parlava tutto acceso ed entusiasmato del proprio amore con parole che nessuno era capace di comprendere, né Olimpia né lui. O forse questa le comprendeva, perché lo fissava ininterrottamente negli occhi e non faceva altro che sospirare di continuo: "Ah!, ah!, ah!" e allora Nataniele le rispondeva: "O creatura meravigliosa, celeste, raggio del paradiso promesso dell’amore, cuore profondo, in cui tutto il mio essere si rispecchia!" e un sacco di altre frasi di questo genere; e Olimpia ogni volta tornava a sospirare: "Ah!, ah!" IL professor Spallanzani passò un paio di volte davanti alla coppia felice, con uno strano risolino soddisfatto. Sebbene si trovasse completamente fuori di questo mondo, d’un tratto parve a Nataniele che sulla terra e in casa del professor Spallanzani incominciasse a fare piuttosto buio. Si guardò all’intorno e, con non poco spavento, si accorse che le due ultime candele si erano consumate e stavano per spegnersi nella sala vuota. Da molto tempo erano terminate la musica e le danze. "Ah, separarci, lasciarci!" esclamò tutto sconvolto e disperato; baciò la mano di Olimpia, si chinò sulla sua bocca; due labbra gelate incontrarono le sue ardenti. Come prima, quando aveva toccato la gelida mano di Olimpia, si sentì preso da un intimo terrore. Gli passò d’improvviso per la mente la leggenda della fidanzata morta; ma Olimpia lo aveva stretto al proprio seno e sembrò che il bacio riscaldasse e richiamasse alla vita le sue labbra. IL professor Spallanzani stava attraversando lentamente la sala vuota; i suoi passi destavano un’eco sepolcrale, e la sua figura, su cui giocavano le ombre delle candele morenti, aveva un aspetto spettrale, pauroso. "Mi ami? Mi ami, Olimpia? Una parola sola! Mi ami?" Così sussurrava Nataniele; ma, alzandosi, Olimpia sospirò solamente: "Ah!, ah!" "Sì, soave, meravigliosa stella dell’amore," disse Nataniele, "sei spuntata per me nel cielo ed ora illuminerai e riscalderai per sempre il mio cuore!" "Ah!, ah!" replicò Olimpia avviandosi. Nataniele la seguì, si trovarono di fronte al professore: "Ha fatto una conversazione animata, con mia figlia," disse questi sorridendo. "Bene, bene, caro signor Nataniele, se lei ci prova gusto, a far chiacchiere con questa scioccherella, le sue visite saranno per me un piacere." Con tutto un cielo luminoso raggiante nel cuore, Nataniele uscì di là. I giorni seguenti nessuno parlava d’altro che della festa di Spallanzani. Sebbene il professore non avesse trascurato nulla per fare una splendida figura, le teste allegre raccontavano una quantità di stranezze, di contrattempi che si erano verificati, e soprattutto si chiacchierava molto a proposito della rigidità e del silenzio di Olimpia, alla quale, ad onta della sua bellezza esteriore, attribuivano una totale ottusità di spirito; e proprio in ciò si voleva vedere la causa per cui Spallanzani l’aveva tenuta nascosta tanto tempo. Nataniele non poteva sentire questi discorsi senza sentirsi sconvolto; ma non diceva nulla, perché, pensava, che scopo c’era di mostrare a quei ragazzetti che era proprio la loro ottusità il motivo per cui non potevano riconoscere i sentimenti profondi, meravigliosi, di Olimpia? "Fammi il favore, camerata," disse un giorno Sigismondo, "di dirmi come ti può essere venuto in testa, a te, che pure sei una persona intelligente, di istupidirti dietro a quella faccetta di cera, a quella bambola di legno?" Nataniele stava per andare in furia, ma si trattenne e rispose: "Dimmi piuttosto tu, Sigismondo, come al tuo sguardo, che di solito concepisce ogni bellezza, come al tuo spirito vivace sia potuto sfuggire il divino fascino di Olimpia?! Ma proprio questo è il motivo per il quale, grazie alla nostra sorte, non sei mio rivale; altrimenti uno di noi due dovrebbe cadere nel proprio sangue!" Sigismondo, accorgendosi a che punto era arrivato il suo amico, ebbe il buon senso di dargli ragione ed aggiunse, dopo aver osservato che in fatto d’amore non si può mai discutere sull’oggetto amato: "Però è strano che molti di noi hanno su per giù la stessa opinione, su Olimpia. Per il nostro gusto (non avertene a male, camerata!) c’è parsa un po’ troppo rigida e senza spirito. Ha un personale molto regolare, è vero, ed anche un bei viso; potrebbe passare per una vera bellezza, se i suoi occhi non fossero così senza vita, starei per dire senza sguardo. E poi cammina a passi misurati; ogni movimento che fa sembra che sia regolato dalle rotelle di un meccanismo. Quando suona, quando canta, ha lo stesso ritmo sgradevole, preciso e senza spirito di una macchina cantante, e lo stesso si pensa quando balla. Insomma, per noi questa Olimpia ha qualcosa d’inquietante e non vorremmo avere nulla a che fare con lei. Ci pareva che facesse finta di essere un essere vivente, e che sotto ci fosse qualcosa di poco chiaro." Nataniele non si abbandonò affatto ai sentimenti di amarezza che stavano per impossessarsi di lui alle parole di Sigismondo; dominò il suo malumore e si limitò a dire con molta serietà: "Può darsi benissimo che per voi altre, creature fredde e prosaiche, Olimpia sia fredda e inquietante. Solo ad un animo poetico si rivela un animo ugualmente ispirato. Solo verso di me è sceso il suo sguardo innamorato, illuminando i miei sensi e i miei pensieri; solo nell’amore di Olimpia ritrovo me stesso. A voi, probabilmente, non piace perché non sta a chiacchierare nelle più stupide conversazioni, come altri spiriti piatti. Parla poco, è vero; ma le poche parole che pronuncia si rivelano come autentici geroglifici di un mondo interiore pieno di amore e di alti pensieri, di una vita spirituale che contempla i mondi eterni. Ma voi queste cose non le capite, ed è inutile che perda fiato con te." "Che Dio ti protegga, caro camerata!" disse Sigismondo dolcemente, quasi melanconicamente; "ma mi sembra che tu ti sia messo per una brutta strada. Puoi contare su di me, nel caso che tutto... Ma no, non voglio dire altro." E, all’improvviso, Nataniele ebbe l’impressione che il freddo, prosaico Sigismondo fosse un fedele amico; e scosse perciò con tutto il cuore la mano che gli offriva. Nataniele aveva completamente dimenticato che a questo mondo esisteva una Clara che una volta aveva amato; la madre, Lotario, tutti erano come scomparsi dalla sua memoria. Viveva solo per Olimpia, con la quale passava ogni giorno ore intere fantasticando del suo amore, della simpatia che si accende e diviene vita, dell’affinità fisica; ed Olimpia ascoltava tutto con la più grande devozione. Dai più profondi ripostigli della sua scrivania Nataniele tirò fuori tutto quello che aveva scritto in vita sua: poesie, fantasie, visioni, romanzi, racconti; e tutte queste opere le aumentava quotidianamente con ogni sorta di sonetti, stampe, canzoni, che spaziavano nell’azzurro, e che leggeva ad Olimpia per ore intere di seguito, senza stancarsi mai. Ma mai, ancora, in vita sua, aveva avuto un’ascoltatrice così magnifica! Non ricamava e non faceva la calza, non guardava fuori della finestra, non dava il becchime agli uccelletti, non giocava col cagnolino, non prendeva in collo il gatto, non rigirava fra le dita un pezzetto di carta o qualche altra cosa, non aveva bisogno di nascondere gli sbadigli con qualche leggero e provvidenziale colpo di tosse. Insomma, per ore intere essa fissava ininterrottamente senza battere ciglio gli occhi dell’innamorato, senza muoversi né alzarsi, e il suo sguardo diveniva sempre più acceso, sempre più vivace. Solo quando Nataniele finalmente si alzava e le baciava la mano, o anche la bocca, diceva: "Ah!. ah!" e poi aggiungeva: "Buona notte, mio caro!" "Oh, pura, meravigliosa anima," esclamava Nataniele ritornato nella sua stanza, "solo tu, solo tu mi sai completamente comprendere..." E tremava nell’estasi, quando rifletteva alla meravigliosa armonia che ogni giorno più si rivelava nella sua e nell’anima di Olimpia; poiché gli sembrava che nelle sue opere, nel suo dono di poeta, Olimpia stessa parlasse dal suo cuore, che fosse la sua voce quella che risuonava dentro di lui. E doveva essere veramente così, perché Olimpia non pronunciava mai una parola di più di quelle che abbiamo trascritte più sopra. Ma anche se Nataniele, in qualche momento di lucidità, per esempio la mattina appena desto, si ricordava veramente dell’assoluta passività e delle poche parole di Olimpia, finiva lo stesso con l’esclamare: "Che cosa sono le parole? Parole! Lo sguardo dei suoi occhi celesti dice più di qualunque lingua su questa terra. Come può una creatura del genere adattarsi al cerchio ristretto che è stato tracciato dai nostri miseri bisogni terreni?" Il professor Spallanzani sembrava tutto felice per la relazione di sua figlia con Nataniele; dava a quest’ultimo ogni sorta di prove indiscutibili della propria benevolenza; ed un giorno che Nataniele osò finalmente accennare da lontano ad un legame con Olimpia, il viso del professore si coperse di un sorriso di soddisfazione e rispose che avrebbe lasciato sua figlia completamente libera di decidere. Incoraggiato da queste parole, con il cuore in fiamme per il desiderio, Nataniele decise di supplicare subito il giorno successivo Olimpia perché pronunciasse schiettamente, a chiare parole, quello che già da tempo gli avevano detto i suoi dolci sguardi innamorati, e cioè che voleva essere sua per sempre. Cercò l’anello, che sua madre gli aveva dato al momento dell’addio, per offrirlo ad Olimpia come simbolo della sua dedizione e della sua nuova vita che germinava, fioriva con lei. Così gli caddero fra le mani le lettere di Clara, di Lotario, ma le gettò con indifferenza da una parte, trovò l’anello, lo mise in tasca e attraversò di corsa la strada per recarsi da Olimpia. Già sulle scale e nel corridoio udì un fracasso straordinario che sembrava venire dallo studio di Spallanzani: un calpestio sul pavimento, uno scricchiolio, un trapestio, colpi contro la porta, e in mezzo urla e bestemmie: "Lascia, lascia!" "Infame!" "Maledetto!" "Perché ci ho sacrificata tutta la vita!" "Ha ha ha ha!" "Così non era nei patti! Io, io ho fatto gli occhi!" "E chi ha fatto il meccanismo?!" "Vai all’inferno, col tuo meccanismo! Povero somaro d’un orologiaio!" "Vattene, demonio!" "Fermati! Fabbricante di pipe!" "Bestia infernale!" "Ferma!" "Via!" "Lascia!" Erano le voci di Spallanzani e dell’orribile Coppelius che urlavano e si confondevano così. Nataniele si precipitò nella stanza, preso da un’angoscia indicibile: il professore teneva una figura umana per le spalle, l’italiano Coppola l’aveva afferrata per i piedi, e tutti e due la tiravano di qua e di là girandola da tutte le parti, combattendo tutti infuriati per il suo possesso. Terribilmente sconvolto, Nataniele fece un salto indietro quando vide che quella figura era Olimpia. Infiammato, accecato dall’ira, voleva strappare la sua amata ai due litiganti inferociti; ma nello stesso momento Coppola, girandosi con una forza da gigante, strappò la figura dalle mani del professore e gliela dette in testa con un colpo così terribile, che quello ricadde all’indietro sul tavolo dove stavano le fiale, le storte, le serpentine, i cilindri di vetro, perdette l’equilibrio e ruzzolò a terra. Tutti gli arnesi andarono in mille pezzi con uno strepito del diavolo. Allora Coppola si gettò la figura sopra le spalle e, con una orribile risata stridente, si precipitò giù per le scale, sicché i piedi della figura, che gli penzolava tristemente sulla schiena, urtavano sugli scalini con un rumore di legno, facendoli rimbombare. Nataniele era rimasto di pietra. Aveva visto anche troppo chiaramente: il viso di Olimpia, pallido come la cera, come la morte, non aveva più gli occhi, ma due occhiaie vuote e nere; era una bambola inanimata. Spallanzani si rotolava sul pavimento: i frammenti di vetro gli avevano tagliato la testa, il petto e le braccia, il sangue gli zampillava come da una fontana. Ma riuscì a raccogliere le proprie forze: "Corrigli dietro, corrigli dietro! Cosa aspetti? Coppelius, Coppelius! Mi ha rubato il mio automa migliore. Vent’anni di lavoro, la vita ci avevo messo! IL meccanismo, la voce, il passo: mio, tutto mio! Gli occhi, gli occhi ti avevo rubato! Maledetto! Dannato! Corrigli dietro! Riportami Olimpia! Ecco gli occhi!" Nataniele vide sul pavimento due occhi insanguinati, che lo fissavano, e Spallanzani li afferrò con la mano che non era ferita e glieli gettò addosso, colpendolo in mezzo al petto. Allora la follia lo afferrò con i suoi artigli incandescenti e penetrò nel suo cuore, dilaniando i suoi sentimenti, i suoi pensieri: "Hop hop hop! Girati, girati, giro di fuoco, girati, giro di fuoco! Allegro, allegro! Bambola di legno, hop, bella bambola di legno, girati!" E si gettò addosso al professore abbrancandolo per la gola, e lo avrebbe senza dubbio strozzato, ma il fracasso aveva fatto accorrere molta gente, penetrarono nella stanza, tirarono indietro Nataniele furioso e salvarono così il professore, che fu subito medicato. Per quanto fosse robusto, Sigismondo non riusciva a trattenere Nataniele, che continuava a gridare di continuo: "Girati, bambolina di legno, girati!" menando intorno a sé colpi all’impazzata. Finalmente in molte persone riuscirono a sopraffarlo, buttandolo per terra e legandolo. Le sue parole finirono ben presto in un orribile urlo bestiale. E così, in un orribile accesso di pazzia furiosa, fu trasportato al manicomio. Prima di continuare a raccontarti, o benevolo lettore, il resto della storia dell’infelice Nataniele, posso assicurarti, nel caso che tu abbia preso una certa parte al destino dell’abile meccanico e del fabbricante di automi Spallanzani, che egli guarì completamente delle sue ferite. Tuttavia fu costretto ad abbandonare l’università, perché le avventure di Nataniele avevano suscitato molto scalpore e generalmente si riteneva che fosse stato un inganno della peggiore specie avere contrabbandato, in filosofici tè pomeridiani che Olimpia aveva frequentato con successo, una bambola di legno in luogo di una persona vera. Alcuni giuristi, anzi, la definirono una truffa sottile, e che perciò doveva essere punita tanto più rigorosamente, perché era stata organizzata ai danni del pubblico e con tanta astuzia che nessuno, fatta eccezione di alcuni studenti più furbi, se n’era accorto, sebbene ora tutti si dimostrassero molto accorti e citassero questo o quell’episodio che li aveva messi in sospetto. Costoro, però, non poterono rivelare alcun particolare particolarmente piccante. Perché quando mai a qualcuno poteva essere sembrato sospetto, mettiamo, il fatto che Olimpia, secondo la testimonianza dei più eleganti frequentatori di tè, contro tutte le abitudini era più portata a starnutire che a sbadigliare? Questi starnuti, così ragionava l’elegante in questione, erano invece i movimenti della molla segreta del meccanismo che si ricaricava da sé; e si potevano udire chiaramente scricchiolii, ecc., ecc. Il professore di Poesia e di Eloquenza pizzicò una presa di tabacco, richiuse con un colpetto la tabacchiera, tossicchiò e pronunciò solennemente: "Stimatissimi signore e signori, non si sono dunque accorti qual è il veleno dell’argomento? Non si tratta d’altro che di un’allegoria, una metafora continuata. Mi comprendono? Sapienti sat!" Ma molti di questi onoratissimi signori non si tranquillizzarono per questo: l’avventura dell’automa si era profondamente radicata nella loro anima, e difatti incominciò a diffondersi una sfiducia piena di ribrezzo contro le figure umane. Per essere proprio sicuro di non essersi innamorato di una bambola di legno, più di uno spasimante esigeva che la sua bella cantasse e ballasse un poco fuor di tempo, che durante una lettura ricamasse, facesse la calza, giocasse col bassotto, ecc. Ma soprattutto che non si limitasse ad ascoltare, ma che parlasse anche, e in modo che quello che diceva lasciasse supporre che aveva anche sentito e pensato qualche cosa. In queste condizioni i legami amorosi di molti fortunati divennero più solidi e quindi più piacevoli; altri, invece, pian piano si sciolsero. Non si può essere mai sicuri di niente, dicevano questo e quello. Nei primi tempi in tutti i tè si sbadigliava molto e non c’era pericolo di sentire uno starnuto, e così non furono suscitati nuovi sospetti. Mentre Spallanzani, come si è detto, dovette andarsene per sfuggire all’istruttoria iniziata in seguito all’introduzione fraudolenta di un automa nella società umana. E anche Coppola era scomparso... Nataniele si destò come da un incubo pauroso. Riaprì gli occhi e sentì che un indescrivibile senso di gioia lo penetrava con un soave e celeste tepore. Si ritrovò nel suo letto, nella stanza che occupava nella casa paterna; Clara stava chinata sopra di lui; e poco lontano stavano anche la madre e Lotario. "Finalmente, finalmente, Nataniele del mio cuore, ora sei guarito di questa terribile malattia, ora sei nuovamente mio!" Così parlò Clara dal fondo della sua anima, stringendo Nataniele fra le braccia. Ma la grande nostalgia dell’estasi fece sgorgare dagli occhi di quest’ultimo lacrime chiare e cocenti, ed egli gemette profondamente: "Clara, Clara mia!" Sigismondo, che aveva fedelmente curato il suo amico in quei giorni di angoscia, entrò nella stanza. Nataniele gli porse la mano: "Fedele camerata, anche tu non mi hai abbandonato." Ogni tratto di pazzia era scomparso; e ben presto Nataniele riprese le sue forze grazie alle cure premurose della madre, dell’innamorata e dell’amico. Intanto nella piccola casa era venuta davvero la fortuna: perché lo zio, vecchio ed avaro, dal quale nessuno si era aspettato niente, era morto e aveva lasciato alla madre, insieme con un patrimonio non indifferente, anche una villetta in una piacevole posizione non lontano dalla città. Decisero di stabilirvisi, la madre, Nataniele con la sua Clara, che pensavano ormai di sposarsi, e Lotario. Nataniele era divenuto più dolce, quasi più infantile, di quanto fosse mai stato, e solamente ora comprese veramente la magnifica anima pura, celestiale di Clara. Nessuno gli rammentava mai, neppure con la più leggera allusione, il passato. Solo quando Sigismondo si separò da lui, Nataniele gli disse: "Per Dio, camerata, mi ero messo su una brutta strada, ma un angelo mi ha ricondotto a tempo sul sentiero della luce. Ah, è stata la mia Clara!" Sigismondo non gli permise di dire altro, per paura che rinascesse in lui, troppo chiaro e fiammeggiante, qualche ricordo doloroso. Era venuto ormai il momento in cui quelle quattro creature felici avevano deciso di recarsi nella villetta. Verso mezzogiorno si trovarono nel centro della città. Avevano fatto vari acquisti e l’alta torre del municipio gettava la sua ombra gigantesca attraverso il mercato. "Oh," disse Clara, "andiamo ancora una volta là in cima a guardare le montagne lontane!" Detto, fatto. Entrambi, Nataniele e Clara, incominciarono a salire; la madre si avviò verso casa con la servetta; e Lotario, che non aveva voglia di fare tutti quegli scalini, disse che li aspettava da basso. E così i due innamorati si trovarono a braccetto sulla galleria più alta della torre, spaziando con lo sguardo sulla distesa profumata dei boschi in fondo alla quale le montagne azzurre si elevavano come una città di giganti. "Guarda un po’ quello strano ciuffo grigio che sembra venire direttamente addosso a noi!" esclamò Clara. Nataniele mise meccanicamente una mano in tasca e vi trovò il cannocchiale di Coppola. Se lo mise davanti agli occhi, e Clara venne a trovarsi davanti alle lenti: immediatamente sentì come una convulsione nelle vene e nei polsi, incominciò a fissare Clara, pallido come un cadavere; e ben presto negli occhi stralunati gli si accesero come delle correnti di fuoco scintillanti. Si mise ad urlare in un modo terribile, come un animale ferito; poi incominciò a saltare, ridendo paurosamente e gridando a perdifiato: "Gira, gira, marionetta... Gira, gira, marionetta! Girati, bambola di legno! Girati, bambola di legno, girati! Gira, gira, marionetta... Gira, gira, marionetta!" E, con una forza terribile, afferrò Clara tentando di buttarla da basso. Mortalmente spaventata, con uno sforzo disperato, Clara si afferrò alla balaustra. Lotario sentì le urla del pazzo, sentì le grida di angoscia di Clara e i più neri presagi s’impossessarono di lui; salì di corsa nella torre, la porta della seconda scala era chiusa a chiave, più forte si sentivano risuonare le grida terrorizzate di Clara. Pazzo dallo spavento e dal furore, si precipitò due, tre volte contro la porta, che finalmente si spalancò. Sempre più fievole diveniva la voce di Clara: "Aiuto! Aiuto!" si udiva la voce morente nell’aria. "È caduta, assassinata da quel pazzo!" gridò Lotario. Anche la porta della galleria era stata chiusa. Ma la disperazione gli dette forze gigantesche: riuscì a scardinarla e... Dio del cielo! Afferrata da Nataniele impazzito, Clara era sospesa per aria al di sopra della galleria e si teneva ancora afferrata alla ringhiera con una mano sola! Rapido come il fulmine, Lotario afferrò la sorella, la tirò dentro e nello stesso momento colpì in mezzo al viso con tutta la forza il pazzo, che indietreggiò abbandonando la sua preda. Lotario corse giù, stringendo fra le braccia la sorella svenuta. L’aveva salvata. Nataniele smaniava sulla galleria, saltava in alto e gridava: "Gira, cerchio di fuoco! Gira, cerchio di fuoco!" Le sue urla selvagge avevano fatto accorrere ai piedi della torre un gruppo di gente, fra cui si ergeva gigantesca la figura dell’avvocato Coppelius, il quale era arrivato in città in quel momento dirigendosi senz’altro verso la piazza del mercato. Qualcuno voleva salire sulla torre per portare via il povero pazzo; ma Coppelius scoppiò in una risata e disse: "Ha ha ha! Aspettate! Vedrete che viene giù da sé!" e continuò a guardare come gli altri, col naso per aria. Nataniele si arrestò d’un tratto, come incantato; si chinò sulla balaustra, scorse Coppelius e, con un grido atroce: "Ah! Bei oci, bei oci!", saltò giù dalla torre. Nataniele rimase steso sul selciato della piazza con la testa sfracellata; nella confusione, Coppelius scomparve. Vari anni dopo, qualcuno raccontò di aver veduto, in una regione lontana, Clara seduta davanti alla porta di una bella casa di campagna tenendo fra le sue le mani di un uomo simpatico, e guardando due bei bambini che giocavano davanti a lei. Si potrebbe dedurne che Clara era riuscita lo stesso a trovare quella serena felicità domestica che si meritava per il suo animo sereno e vivace, e che mai le avrebbe potuto assicurare Nataniele con la sua natura infelice. *
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