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2 Racconti
Traduzione di Giuseppe Trevisani
1966 - Arnoldo Mondadori Editore
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La copertina del libro. |
Due giovani: Ernest Hemingway e Benito Mussolini.
Una domenica di primavera, verso la metà degli anni ’20, Ernest Hemingway ventiseienne scendeva in macchina verso La Spezia in compagnia di un amico. Avevano una vecchia Ford coupé. Tra le montagne, mentre attraversavano a passo d’uomo la piazza di un paese, un giovane con una valigia si staccò da una piccola folla, venne verso l’automobile e chiese loro di portarlo alla Spezia. “Abbiamo solo due posti e sono occupati”, disse Ernest. “Monterò sul predellino”, disse il giovane. Introdusse un pacchetto attraverso il finestrino, strinse loro la mano, spiegò che per un fascista e uomo abituato a viaggiare come lui non era una gran cosa e, mentre due uomini legavano la sua valigia dietro alla macchina sopra le altre, saltò sul predellino sinistro dell’automobile tenendosi aggrappato con il braccio dentro il finestrino aperto. La folla agitò le braccia in segno di saluto. Egli rispose con la mano libera. La strada seguiva il corso di un fiume. Al di là si alzavano i monti. Il sole scioglieva la brina sui prati. Il tempo era luminoso, ma faceva molto freddo e l’aria gelata passava attraverso il parabrezza aperto. |
“Credi che stia bene lì fuori?” Guido, l’amico di Ernest, fissava la strada. La vista, dalla sua parte, gli era impedita dall’ospite. Il giovane sporgeva dal lato della macchina come una figura scolpita sulla prora di una nave. Si era tirato sù il bavero del cappotto e abbassato il cappello fino agli orecchi; aveva il naso rosso nel vento. “Ne avrà abbastanza”, disse Guido. “È dalla parte della gomma guasta”. “Oh, ci lascerebbe sùbito se forassimo” disse Ernest. “Non vorrebbe impolverarsi il vestito da viaggio”. “Bene, non me ne importa” disse. “Però, ha un modo di sporgersi alle curve...” Dopo l’ultima salita sopra La Spezia e il mare, la strada scese con strette e ripide curve. L’ospite veniva spinto in fuori alle svolte e tirava quasi via la calotta dell’automobile. “Non si può dirgli di non farlo” disse Ernest a Guido. “È il suo istinto di conservazione”. “Il grande istinto degli Italiani”. “Il più grande istinto degli Italiani”. Vicino alla città la strada divenne pianeggiante. L’ospite ficcò la testa nel finestrino. “Voglio fermarmi”. “Ferma” disse Ernest a Guido. Rallentarono, al lato della strada. Il giovane scese, andò dietro alla macchina e sciolse la valigia. Poi Ernest gli porse il suo pacchetto ed egli se lo mise in tasca. “Quanto vi devo?” “Niente”. “Perché niente?” “Non saprei” rispose Ernest. “Allora grazie” disse; non “vi ringrazio” o “molte grazie” o “grazie mille”, tutto quello che si diceva un tempo in Italia a chi vi porgeva un orario o v’indicava la strada. Il giovane pronunziò la forma più corta di ringraziamento e li guardò sospettosamente mentre Guido rimetteva in moto la macchina. Ernest lo salutò con la mano. Era troppo dignitoso per rispondere. Proseguirono per La Spezia. “È un giovane che farà molta strada in Italia” disse Ernest a Guido. “Eh” rispose “ha già fatto venti chilometri con noi”. A La Spezia sui muri delle case si vedevano dei ritratti stampigliati di Mussolini con gli occhi paurosamente aggrottati, e sotto scritto “evviva”, la “W” dipinta in nero che sgocciolava la tinta giù per il muro. “Andiamo a mangiare in un posticino alla buona” disse Guido. Una donna che stava sulla soglia di una trattoria gli sorrise, e loro entrarono. Era buio dentro e in fondo alla sala tre ragazze sedevano a un tavolino insieme a una vecchia. Davanti a Ernest e Guido, a un altro tavolo, sedeva un marinaio. Stava seduto lì senza mangiare, né bere. Ancora più in là, a un terzo tavolino, stava scrivendo un giovane vestito di blu. Con i capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, aveva un aspetto impeccabile. Una ragazza venne a prendere gli ordini mentre un’altra ragazza stava sulla porta. Notarono che non portava niente sotto il vestito da casa. La ragazza che era venuta a prendere gli ordini mise il braccio al collo di Guido mentre stavano guardando il menu. Poi, quando tornò dalla cucina con gli spaghetti, li posò sulla tavola, portò una bottiglia di vino rosso e sedette vicino a loro. “Bene” disse Ernest a Guido “volevi mangiare in un posticino semplice”. “Questo non è per niente semplice. È complicato”. La ragazza indossava un abito a un sol pezzo. Si piegò in avanti sul tavolo, si mise le mani sui seni e sorrise. Sorrideva meglio da una parte che dall’altra e voltava verso Ernest e Guido la parte migliore. Il fascino della parte migliore era aumentato dal fatto che qualche incidente le aveva spianato l’altro lato del naso come se fosse stato cera calda. Il suo naso tuttavia non sembrava di cera calda. Aveva anzi un aspetto freddo e ben solido, ma era come piallato. “Dille che dobbiamo andarcene” disse Guido “dille che siamo malatissimi e che non abbiamo denaro”. “Il mio amico è un misogino” disse Ernest. “Digli che l’amo” disse la ragazza. Ernest glielo disse. “Vuoi deciderti a chiudere la bocca e andarcene?” esplose Guido. “Non vorrei doverti lasciar qui”. “Non saprei” disse Ernest. “La Spezia è un bel posticino”. “La Spezia” disse la vecchia. “State parlando della Spezia”. “È un bel posticino” ripeté Ernest in italiano. “È il mio paese. La Spezia è la mia casa e l’Italia è il mio paese”. “Dice che l’Italia è il suo paese” tradusse Ernest. “Dille che lei somiglia al suo paese” disse Guido. “Senti” disse alla vecchia il giovanotto impeccabile dal tavolo dove stava scrivendo. “Lasciali andare. Tanto son senza un soldo”. Ernest e Guido pagarono il conto e si alzarono. Le tre ragazze, la vecchia e il giovanotto impeccabile sedevano insieme allo stesso tavolo, ora. Il marinaio stava seduto con la testa tra le mani. Nessuno gli aveva rivolto la parola per tutto il tempo. La ragazza portò il resto che la donna le aveva contato e tornò al suo posto. Lasciarono una mancia sul tavolo e uscirono. Quando erano già seduti in macchina pronti a partire, la ragazza uscì e si mise sulla porta. Partirono e Ernest la salutò con la mano. Non rispose, ma rimase a guardarli mentre si allontanavano. Passarono Genova sotto un violento temporale. Poi si fermarono di nuovo a mangiare a Sestri Ponente. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano molto tristi. Avevano vicino una valigia. Ernest e Guido avevano i giornali ed Ernest lesse forte a Guido il resoconto dei combattimenti a Shangai1. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva ed Ernest pulì con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore della Ford. Quando Guido tornò, voltarono la macchina e partirono. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente. “Ti ricordi per quale ragione siamo venuti in questo paese?” disse Guido. “Sì” rispose Ernest “ma non siamo riusciti a nulla”. “Ne saremo fuori stanotte”. “Se possiamo arrivare dopo Ventimiglia. Vedi ancora Genova?”. “Oh, sì” disse Ernest. “Il prossimo promontorio dovrebbe coprircela”. “La vedremo ancora a lungo. Dietro vedo ancora la punta di Portofino”. Lungo il mare, dopo che il vento aveva asciugato il fango, la macchina cominciò a sollevare la polvere. Su un tratto pianeggiante li sorpassò un fascista in bicicletta con una grossa rivoltella nella fondina. Andava in mezzo alla strada e dovettero sterzare di lato per sorpassarlo a loro volta. Li guardò mentre passavano. Più avanti arrivarono a un passaggio a livello proprio quando le sbarre si stavano abbassando. Mentre aspettavano, il fascista in bicicletta li raggiunse. Il treno passò e Guido rimise in moto. “Un momento” gridò il ciclista dietro la macchina “la vostra targa è sporca”. Ernest scese con uno straccio. Aveva pulito la targa quando si erano fermati a mangiare. “Si può leggere il numero” disse Ernest. “Credete davvero?” “Lo legga”. “Non posso. È sporco”. Ernest lo strofinò col cencio. “Com’è ora?” “Venticinque lire”. “Cosa?” disse Ernest. “Potevate leggerlo benissimo. È solo sporco per lo stato delle strade”. “Non vi piacciono le strade italiane?” “Sono sporche”. “Cinquanta lire”. Sputò in terra. “La vostra macchina è sporca e anche voi siete sporco”. “Bene. Mi dia la ricevuta con sopra il suo nome”. Tirò fuori un blocco di ricevute fatte in doppia copia e forate così da poterne staccare e darne una a chi cadeva in contravvenzione e una, riempita, da tenere come matrice. Non c’era però la carta carbone per registrare ciò che veniva scritto sulla prima. “Datemi cinquanta lire”. “Scrisse con un lapis copiativo, strappò il foglietto e lo porse a Ernest, che lo lesse. “Qui c’è scritto venticinque lire”. “Mi sono sbagliato” disse, e corresse venticinque in cinquanta. “E ora scriva sulla parte che resta a lei. Ma ci scriva cinquanta”. Sorrise con un bel sorriso italiano e scrisse qualcosa sulla matrice, tenendola in modo che Ernest non riuscisse a vedere. “Andate” disse “prima che la targa si sporchi di nuovo”. Seguitarono ancora per due ore dopo che era già scesa la sera, e quella notte dormirono in territorio francese, a Mentone. Gli sembrò allegra, pulita e deliziosa. Erano andati in macchina da Ventimiglia a Pisa e Firenze e attraverso la Romagna, fino a Rimini e al ritorno passando per Forlì, Imola, Bologna, Parma, Piacenza e Genova e di nuovo a Ventimiglia. L’intera gita era durata solo dieci giorni. Naturalmente, in così poco tempo, Ernest e Guido non avevano avuto modo di farsi un’idea del paese né dei suoi abitanti.2 Non è vero. Un’idea del paese e dei suoi abitanti in quell’anno 1925 Ernest e Guido ce l’hanno, e molto precisa. La gita è durata solo dieci giorni, e il racconto ― nel nostro Oscar Mondadori n°64, acquistato in un’edicola di Frascati il 12 luglio 1966 ― solo dieci pagine, ma ai due giovani son più che sufficienti per decidere di interrompere la gita e di scappare dall’Italia fascista, e a noi per sentirci come alla fine di Shining3, quando nell’Overlook Hotel deserto, muovendoci come spettri tra gli spettri, scoprimmo fra centinaia di vecchie fotografie un’immagine degli anni ’20 che testimoniava che Jack Torrance, scrittore pazzo e padre e marito assassino, era già lì a quei tempi, era sempre stato lì: ci bastano, cioè, per capire che i fascisti di ottantacinque anni fa erano gli stessi di oggi, e che la loro Italia ― l’Italia fascista, non la fantastica Italia che attrasse Ernest e Guido nel 1925 e che immaginiamo e amiamo noi nel 2010 ― era la stessa dei fascisti di oggi, comunque si chiamino e azzurre o verdi che siano le loro camicie, le loro cravatte e i moccichini che portano infilati nei taschini delle giacche. Ci bastano per capire che il titolo di questo bellissimo e doloroso racconto, Che ti dice la Patria?, che Hemingway volle in italiano, è bello e doloroso come il racconto perché è la domanda che ancora oggi ci poniamo dinanzi ai milioni di nostri compatrioti che ubbidiscono infatuati a un richiamo d’oltretomba: Che vi dice la Patria?, vorremmo chiedere loro. È mai possibile che sia la stessa che parla anche ai nostri cuori e alle nostre menti, l’Italia inconcepibilmente “non morta” che vi chiama a rifarvi fascisti e nazisti dopo quasi un secolo? Da quell’Italia Ernest e Guido stanno scappando perché non è il Paese ove sono nati, non è la Patria; a loro dice solo l’orrore che emana, che quasi li vince, che a ogni curva della ripida discesa verso La Spezia quasi li spinge a buttar giù dall’auto il giovane fascista sul predellino: perché paghi non solo per la folla che riempiva la piazza per lui, e muta, inguardabile, segretamente violenta, non li lasciava passare se non lo prendevano con sé, ma per tutto ciò che hanno visto e sentito nei nove giorni precedenti. Un’Italia dove quel ch’è pubblico va in rovina ― le strade che un po’ di pioggia rende impraticabili, i fiumi che escono dagli argini mal tenuti, i veicoli che schizzano fango sui passanti come se non li guidassero mani umane, i muri sbrecciati e imbrattati ― quel ch’è privato è quasi sempre sporco, turpe, rapace, imbroglione ― le trattoriole bisunte che invece sono bordelli, i locali pubblici senza gabinetti, gli appartamenti da cui spiano, torvi, occhi di ladri ai quali chiunque passi sembra un ladro ― e che è la stessa che oggi riemerge non-morta dal passato ― con le stesse facce, gli stessi sguardi maligni, le stesse truffe, le stesse minacce, la stessa ignoranza, lo stesso odio, lo stesso abbandono e spreco di Esseri Umani, la stessa infelicità ― e senza pudore, senza sentimenti, senza sapere quello che fa impesta l’Italia che immaginavamo di poter amare, l’Italia che volevamo far bella e generosa per i nostri figli: Ernest e Guido, lasciandosela alle spalle, voltandosi a guardarla solo per il sollievo di vederla a poco a poco sparire, incontrano gli stessi uomini, le stesse donne, che di lì a vent’anni indurranno Vittorini, e dopo un altro mezzo secolo noi, a domandarci senza poter credere a noi stessi: ma sono Uomini o No? Inquietante, in loro, è fin dal primo momento la stranezza. Il giovane fascista sul predellino, per esempio, è uomo o no? In quell’atto insensato, in quella cieca, furiosa tenacia, così diversa dall’umana morbidezza che Ernest e Guido non pèrdono neanche nella tensione della fuga, egli esibisce forse una “maschia, possente bellezza” ― si esprimeva così la retorica insieme omosessuale e omofoba del fascismo ― emana, forse, una vitalità irresistibile ― disumana, però, nel suo poter fare a meno del rapporto ― ma perché rischia la vita per arrivare a tutta velocità a La Spezia? Quale indegnità, quale abiezione si è radicata in lui, che lo fa correre a un comando come un cane senza alcun riguardo per sé? E alla fine non solo vuol pagare, per il passaggio che in fondo ha estorto, ma non capisce perché Ernest e Guido non vogliano che paghi, né perché allontanandosi lo salutino con la mano, né perché ― insomma ― tra gli Umani come loro si creino e resistano relazioni alla cui importanza essi tributano rispetto fin nei minimi gesti reciproci: è strano come un alieno, è diverso, è al di là di qualcosa che non sapremmo definire, ma di cui sappiamo che non la si può oltrepassare senza precipitarsi per una china in fondo alla quale non ci sono che mostruosità e catastrofi: di tutto ciò che si diceva e si capiva un tempo in Italia, la Patria fascista a poco a poco e impercettibilmente gli ha detto altro, gli ha versato nelle orecchie un veleno che va al cervello rendendolo incomprensibile perfino e innanzi tutto a sé stesso: come dev’esserlo una macchina, appunto, da cui non si vuol altro che funzioni come si deve quando la si mette in moto. E la ragazza che invece è una prostituta, la ragazza ch’è bella dal suo lato migliore e mostruosa dall’altro? Tutto ci parla di come sarebbero potute essere, lei e l’Italia, se il fascismo non le avesse violentate entrambe: il suo star sulla porta come una donna libera, i sorrisi, il braccio al collo di Guido, l’atto di sedersi vicino ai due giovani, parlare con loro, toccarsi il seno ― non sarebbe una donna bellissima, una giovane donna stupenda da incontrare, se non fosse una giovane donna annientata e uccisa? Il fascino della sua parte migliore è stato distrutto, un incidente le ha spianato metà della faccia come cera calda: la sua morbida cera ― l’umana affettività che nei bambini, nei paesi violenti come quell’Italia lì, l’odio religioso contro l’Umano pietrifica mentre le botte cambiano i connotati per sempre, e che in Ernest e Guido è stata rispettata, invece, da madri e padri come quelli che in paesi non violenti chiamavano il ’900 agli inizi “il secolo dei bambini” ― è stata riplasmata in una maschera mostruosa (era, da sempre, la “chirurgia plastica” dei poveri) per far di lei una prostituta. E forse proprio da quel giovane in blu, coi capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, dall’aspetto impeccabile, che a un tavolino scrive e fa i conti di quanto gli ha reso e gli rende, giorno dopo giorno, la distruzione della sorella... Non sono, le loro, le stesse facce di ragazze e di giovani “plastificati” che “decorano” oggi certe convention, che spiccano come prede in catene in certi cortei al seguito, che riempiono certi programmi televisivi di disperata fatuità stando sempre ben attenti a mostrarsi alle telecamere dal loro lato migliore e a nascondere, dall’altro, le cicatrici dell’intervento (oggi non è più un “incidente”) che li ha tramutati in ultracorpi? E la vecchia, orrenda, che sorveglia le ragazze nelle trattoria che invece è un bordello, non è l’esatto presentimento di certe madri e certi padri di oggi che commerciano in figlie? Che addirittura minacciano il suicidio ― straordinari venditori e venditrici senza più cuore né mente a intralciare la dedizione al profitto che da un Essere Umano si può trarre ― se per qualche contrattempo non riescono a venderle? Non vi piacciono le strade italiane? dice il fascista in bicicletta, tutto rivoltella, bel sorriso italiano, corruzione e miserabile protervia. È quel che sempre insinuano i fascisti contro chi non riesce a celare la propria sofferenza per l’orrore di cui pervadono l’Italia: voi diffamate la Patria, dunque non l’amate; ed è proprio in questo ― non amando, soffrendo, sentendo dolore per la Patria ― che voi vi rivelate ancora umani, non cristiani; ancora umani, non patrioti; ancora umani, non fascisti; proprio non riuscendo a nascondere che non vi piacciono le strade, il fango, la sporcizia, lo squallore ― come domani soffrirete per la cementificazione e l’istupidimento ― proprio in questo rivelate di non essere strade, cemento, squallore, parti della macchina, ingranaggi ciecamente determinati: siete esseri umani, vi denuncia il vostro dolore, e proprio per questo si può e si deve farvi quel che non si farebbe neanche alle bestie. Eppure, nell’Italia fascista da cui Ernest e Guido fuggono voltandosi soltanto per vederla sparire alle loro spalle, non tutti gli Italiani sono come il giovane sul predellino, o lo sfruttatore delle sorelle nella trattoria-bordello, o la guardia infame e pezzente che arranca in bicicletta in cerca di vittime: ci sono anche l’uomo e la donna che nella seconda trattoria siedono all’estremità più lontana della sala. Già dal loro isolarsi ― come, a La Spezia, dal tragico silenzio del marinaio seduto con la testa fra le mani, senza mangiare, senza bere, e a cui nessuno rivolge la parola ― capiamo che fanno parte dell’altra Italia, dell’Italia che si poteva amare e sognare, prima che fosse sconfitta e umiliata; e allora ci accorgiamo che hanno vicino una valigia, una sola valigia, che mangiano senza parlare, che la donna è bella ma che l’uomo guardandola scuote la testa, che entrambi sembrano molto tristi, e comprendiamo che non sono qui per il loro amore, ma come si è in un incubo finché l’incubo dura, e quindi per far sentire a noi, da personaggi di una storia quali essi sono, che è di un incubo che stiamo leggendo, che quel che la Patria ti dice, quando la Patria è fascista, te lo versa nelle orecchie mentre dormi, notte dopo notte, per far sì che un brutto mattino tu ti svegli uguale a loro, dai tuoi sonni agitati, ed è arrivato l’invasor perché da quel mattino in poi l’invasore sei anche tu: per questo hanno l’aria stanca di chi non dorme da tempo, per questo l’uomo e la donna scappano anche loro dall’Italia senza voltarsi indietro: non sopportano più neanche la vista degli Italiani, ormai per loro son tutti complici, tutti colpevoli anche solo per non aver il coraggio almeno di sedersi in fondo alle sale, sempre, per testimoniare che perfino trovarsi casualmente insieme a un fascista nello stesso ristorante crea sofferenza in chi non è capace di cercar di non essere umano. Ernest e Guido non possono far niente per loro: solo rattristarsi. Americani, non italiani, da stranieri sentono e sanno che la salvezza dell’Italia non può venire da fuori dell’Italia, perché sarebbe come se alla prima curva, scendendo verso La Spezia, si fossero scrollati via come un insetto molesto il fascista sul predellino: sarebbe la guerra. Che è peggio, sempre, di ciò che tenta di combattere. Anzi: in un’Italia così ridotta, già la loro presenza ― sia pure come giovani, inermi turisti ― è un atto di guerra, e ben glielo fa capire la guardia vigliacca col suo odio istintivo, a prima vista, e poi con la grossa pistola che da un momento all’altro potrebbe spianargli contro, incredibile a dirsi, per legittima difesa: Ernest e Guido sono nemici per il fatto stesso di essere diversi, irraggiungibili, impossibili da prendere pian piano nella notte versando loro nelle orecchie il veleno di quel che dice la Patria fascista; perché a uno straniero come può la Patria parlare, dirgli di non essere umano, se lui, in quanto umano, non capisce la lingua? Possono solo scappare, Ernest e Guido, per risparmiare all’Italia un tempo amata almeno di macchiarsi del delitto di ucciderli a tradimento. Scappare e poi voltarsi a guardarla ― purché da così lontano che gli occhi non la vedano più ― immaginando che non vista stia concependo una nuova nascita: la venuta di un giorno in cui anche l’Italia, come Mentone, sarà di nuovo allegra, pulita, deliziosa.
*
Uomini o No? si domanderà Vittorini vent’anni dopo, e noi dopo sessantacinque ancora. Ma nessuno è No, finch’è vivo e non morto. Non è possibile non essere umani, se si è animali umani. La lotta è sempre tra umani, umani da entrambe le parti, e dubitarne vorrebbe dire che i fascisti, benché sconfitti, avrebbero vinto: avrebbero lasciato viva in noi, pur morendo loro, l’idea che si possa e si debba riuscire, prima o poi, a non essere umani, e che questo e non altro sia il senso dello stare al mondo: preparare e forzare, per noi e per gli altri, l’avvento di un’altra vita, di un aldilà, in cui dell’umano non vi sia più traccia.
*
Nell’estate del 1914, quando la Grande Guerra era appena cominciata e l’intervento degli Stati Uniti (e di Ernest Hemingway sul fronte italiano) erano ancora di là da venire, il futuro scrittore ― che allora aveva circa sedici anni e si chiamava Nick Adams ― andò qualche giorno da solo a pescare sul Gran fiume dai due cuori.4 Scese dal treno, in un luogo dove una volta c’era un villaggio abbastanza grande per avere un albergo, e la prima cosa che vide fu che adesso era solo rovine, solo pietra scheggiata e spezzata dal fuoco. Quello era tutto quanto restava del paese di Seney. Perfino la superficie era scomparsa dal terreno nell’incendio; e la vista di tanta distruzione, all’inizio di un racconto apparentemente luminoso e felice, è come la faccia spianata come cera calda della bella e orribile ragazza della trattoria a La Spezia: un orrore segreto, mostrato per un momento e poi sùbito nascosto di nuovo, che non dovremmo dimenticare ― noi lettori ― neanche se poi ci convincessimo che perfino lo scrittore se n’è dimenticato. Nick era felice. Accomodò le cinghie del sacco intorno al fagotto, tirandole bene, si gettò il sacco sulla schiena, infilò le braccia nelle bretelle e liberò le spalle da una parte della tensione appoggiando la fronte contro una larga striscia di stoffa. Pure, era troppo pesante. Era davvero troppo pesante. Aveva in mano l’astuccio delle canne da pesca e chinato avanti per tenere in alto sulle spalle il peso del sacco Nick s’incamminò lungo la strada che correva parallela ai binari, lasciandosi alle spalle nel sole il paese bruciato, e svoltò poi intorno a una collina prendendo una strada che tra due colline alte e scarnite dal fuoco si spingeva verso l’interno. Camminò lungo quella strada, sentendo male per la tensione delle cinghie del sacco sulle spalle. La strada si arrampicava ripida. Era faticoso camminare in salita. I muscoli gli dolevano e faceva un gran caldo, ma Nick si sentiva felice. Sentiva di aver lasciato tutto dietro di sé, il bisogno di pensare, il bisogno di scrivere, gli altri bisogni. Tutto era dietro di lui. La meticolosità di ogni azione di Nick, e la meticolosità con cui le descrive, è la stessa di cui è fatto il mondo. Come lui tira bene le cinghie del sacco, come lui è bravo e sa cosa fare per liberare le spalle da una parte della tensione, come lui si china in avanti per tenere in alto il peso, così la grossa trota che ha visto poco prima dal ponte scatta contro corrente con un forte angolo quando l’ombra dell’uccello pescatore passa sul fiume, e soltanto la sua ombra segna l’angolo, poi perde l’ombra quando compare alla superficie dell’acqua, nel sole; poi, quando torna sott’acqua, l’ombra sembra trasportata giù sopraffatta dalla corrente fino a ridursi di nuovo sotto il ponte, dove si ferma stretta accanto al pilone fronteggiando la corrente. E il cuore di Nick batte, come se comunicasse con il corpicino della trota. Poiché il mondo e tutti gli esseri che ne fanno parte costituiscono un’immensa unità immensamente complessa ma anche estremamente esatta, da sé stessa perfettamente regolata ― da sé stessa, certo, ché in questo mondo per buona sorte, benché vi siano fascisti, almeno non vi è traccia di dei ― e quindi perfettamente comprensibile. E che anche Nick ne sia parte lo comprendiamo dal fatto che egli non commette sbagli che lo rendano strano, diverso, inquietante rispetto al mondo: Nick è bravo, questo vediamo, capisce sempre quel ch’è bene fare e lo fa; l’accuratezza ch’è segno che il mondo è sensato, e che sensato lo conserva, è anche di Nick e fa sì che egli è e sarà sempre uno degli Uomini, mai dei “No”. Quando Nick fa una sosta e si siede, appoggiandosi a un ceppo carbonizzato, a fumarsi una sigaretta, il suo sacco è piazzato su un ceppo, con le cinghie pronte e una cavità modellata dalla schiena. Quando si rimette in cammino, mantiene la direzione osservando il sole. Sa in quale punto vuol raggiungere il fiume, e sarà lì e non altrove che lo raggiungerà. E intanto coglie rami di felci selvatiche e li pone sotto la cinghia del sacco: lo sfregamento li schiaccia ed egli sempre camminando ne sente il profumo. Poi, quando arriva nel luogo prefissato, Nick mette a terra il sacco e l’astuccio delle canne e cerca uno spazio di terreno pianeggiante. Ha molta fame, ma vuol piantare la tenda prima di far da mangiare. Fra due pini il terreno è quasi sgombro. Nick prende dal sacco un’accetta ― immaginiamo la cura con cui sarà stata scelta, le discussioni con gli amici su quale sia l’accetta migliore, l’attenzione con cui sarà stata riposta nel sacco in modo che sia sempre pronta e facile a tirarsi fuori ― e recide due radici che sporgono. Ne risulta uno spazio di terreno abbastanza ampio per potervi dormire. Nick spiana con le mani il suolo sabbioso e strappa con le radici tutte le felci. Le mani hanno un buon odore di felci ― ogni operazione esattamente compiuta ricava dal mondo il proprio piccolo o grande premio ― e Nick spiana il terreno dove ha tolto le radici. Non vuole punti duri sotto le coperte. Quando ha ben spianato il terreno distende le tre coperte. Ne piega una in due, la prima sul suolo, e vi distende sopra le altre due. Con l’accetta stacca poi una grossa scheggia di pino da uno dei ceppi e ne fa paletti per la tenda. Li vuole lunghi e robusti perché si conficchino bene. Slegata la tenda e stesala per terra, il sacco appoggiato a un pino sembra molto più piccolo ― c’è addirittura un che di autistico in questa osservazione: il sacco gli appare più piccolo, a un tratto, come se Nick non sapesse più che è stato lui stesso a renderlo tale. Quindi Nick lega a un pino la corda che serve da sostegno alla tenda, e ne lega l’altra estremità a un altro albero sollevando così la tenda dal suolo. La tenda rimane sulla corda come un lenzuolo di tela messo ad asciugare. Nick mette sotto la tela un palo che ha tagliato e ne fa una tenda fissandone i lembi al suolo. Tira bene la stoffa e ficca profondamente nel terreno i paletti battendoli con la parte piatta dell’accetta finché gli anelli delle corde sono interrati e la tela tesa come un tamburo. La precisione, l’abilità, la bravura di Nick ― il suo sapere come si sta al mondo ― sono quasi irresistibili per noi: ricordiamo le mille conversazioni, soprattutto fra maschi, a cui abbiamo assistito e partecipato, ritroviamo quella stessa ricerca e quello stesso vanto quasi ossessivi della perfezione nel fare, qualsiasi cosa si faccia, e sentiamo che sì, è vero, l’abbiamo sempre saputo: è così che si sta al mondo perché il mondo è così ― implacabilmente perfetto, e immancabilmente generoso con chi non perde il passo con la sua perfezione ― e dunque è solo così che si è Uomini, solo così non si diventa “No”, solo così non ci si sveglia un brutto mattino da sonni agitati per entrare in un incubo che da quel momento siamo anche noi a render tale anche se non vogliamo. E solo così si può ottenere quel poco di felicità che la vita può dare, se i “No” non vengono a sfregiarla: la stessa per ogni vivente, umano o non umano che sia ― come la piccola trota di cui, il mattino dopo, Nick sentirà, sfiorandola con la mano, il senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua ― che del mondo riesce a rimanere parte: nell’interno della tenda la luce filtra attraverso la tela scura. C’è un buon odore di tela. Già c’è un che di domestico e di misterioso. Muovendosi carponi sotto la tenda Nick si sente felice. Non è mai stato infelice, durante tutta la giornata. Questo però è diverso. Ora la cosa è fatta. C’era questa cosa da fare e ora è fatta. È stata una marcia dura. È molto stanco ma la cosa è fatta. Si è fatta la tenda. Si è piazzato. Niente può più toccarlo. Quello è un posto buono per piantare la tenda.5 È lì, nel posto buono. È in casa sua dove se l’è costruita. C’è voluto tempo per diventare così bravo da essere così perfettamente nel mondo da ricavarne quel po’ di felicità che se ne può trarre. Mentre si prepara da mangiare, per esempio, Nick a un certo momento resiste alla fame perché sa che i fagioli e gli spaghetti sono ancora troppo caldi. Guarda il fuoco, poi la tenda, non vuole rovinare tutto scottandosi la lingua. E ricorda che per anni non ha potuto gustare le banane fritte perché non è mai stato capace di aspettare che si raffreddino. La sua è una lingua molto delicata. C’è voluto tempo, sì, ma oggi, finalmente ― a soli sedici anni, del resto ― Nick è diventato così bravo che la delicatezza della realtà ― l’infinita delicatezza dell’organismo del mondo, di cui la sua lingua fa parte come tutto il resto ― più niente ha da temere dalle sue azioni, dai suoi gesti, perfino dai suoi pensieri: Nick è un Uomo, ora, il che vuol dire che è quel che è non con la mente, non col corpo, e neppure con la mente e col corpo, ma semplicemente come una lingua è una lingua e una trota è una trota: come ogni ente che ha da esser sé stesso e non un “No”, per esser nel mondo, così Nick è Nick, un uomo. Più tardi attraverso l’imboccatura della tenda Nick osserva il bagliore del fuoco quando il vento della notte vi soffia sopra. È una notte calma. La palude è silenziosa. Nick si distende comodamente sotto le coperte. Una zanzara gli ronza vicino a un orecchio. Nick si siede e accende un fiammifero. La zanzara è sulla tela sopra la sua testa. La zanzara nella fiamma produce un sibilo soddisfacente. Il fiammifero si spegne. Nick si sdraia di nuovo sotto la coperta. Si volta sul fianco e chiude gli occhi. Ha sonno. Sente il sonno arrivare. Si rannicchia sotto la coperta e si addormenta. Il gran fiume dai due cuori è un racconto di venti pagine: il doppio di Che ti dice la Patria?, ma non lunghissimo. Eppure si divide in due parti, che però furono pubblicate insieme. Dunque il motivo della suddivisione è interno al racconto: il sonno di Nick non dev’essere disturbato, per questo Il gran fiume dai due cuori s’interrompe la sera e riprende il mattino dopo. Quando il sole è alto e la tenda comincia a riscaldarsi, Nick esce fuori a osservare il mattino. Poi fa colazione, si prepara, prende con sé quel che gli occorre, cattura una cinquantina di cavallette, le chiude in una bottiglia con una scheggia di pino come turacciolo, in modo da non farle scappare ma da lasciare spazio per il passaggio dell’aria ― insomma: fa ogni cosa alla perfezione, come la sera prima, e con la contentezza, col pieno sentimento di sé nel mondo che la perfezione nell’agire gli dà ― e finalmente, sentendosi professionalmente felice, va a pescare. Si dà prova di sapere come si sta al mondo non soltanto in quel che riguarda sé stessi, in ciò che si fa per sé, ma anche ― e forse soprattutto ― in ciò che si fa nei confronti degli altri. Il giorno precedente, per esempio, durante il cammino, Nick a un certo momento ha allungato una mano e ha afferrato una cavalletta per le ali. L’ha rovesciata, con tutte le zampine che si muovevano nell’aria, e ha osservato l’addome segmentato. Poi: “Vai, insetto” ha detto. “Vola via in qualche posto”. Ciò non vuol dire, naturalmente, che Nick sia san Francesco. La zanzara infatti l’ha uccisa, non l’ha invitata affabilmente a uscire, sorella zanzara, dalla tenda. E ucciderla non ha significato escludersi ― farsi strano e violento, fuori e contro l’ordine delle cose ― poiché è stata piuttosto la zanzara a mettersi fuori e contro il mondo disturbando il sonno di Nick. Ma come, si dirà, Nick può cibarsi delle trote ma le zanzare non possono cibarsi del suo sangue? Proprio così, poiché è così che il mondo è: fra tutti gli esseri, solo Nick è dotato di ragione, solo Nick può ricostruire l’ordine del mondo e apprendere a rispettarlo, e perciò solo Nick è in grado di decidere, per non infrangerlo, cosa si possa o non si possa fare. Si può uccidere la zanzara, dunque ― anzi: si deve farlo, o privati del sonno non si sarà presenti a sé stesso l’indomani ― ma certo non si può togliere la vita alla cavalletta quand’è ancora lontano il momento in cui si avrà bisogno di essa come esca. Lo stesso, naturalmente, vale per le trote: Nick sente uno strappo al filo. Tira. È il primo colpo. Tenendo contro corrente la canna ora viva, ritira il filo con la mano sinistra. La canna si curva a scatti, come la trota punta contro corrente. Nick capisce che è una trota piccola. Solleva diritta la canna, che si curva per la tensione. Vede nell’acqua la trota puntare a scatti col muso e col corpo contro la mutevole tangente del filo nel fiume. Nick prende con la sinistra il filo e tira alla superficie la trota che si dibatte estenuata contro corrente. Ha il dorso colore chiaro dell’acqua tra i sassi, i fianchi luccicano al sole. Con la canna sottobraccio Nick immerge nell’acqua la mano destra. Tiene con la mano bagnata la trota che guizza e stacca l’amo dalla bocca del pesce e lo lascia ricadere nel fiume. La trota oscilla nella corrente, poi si ferma sul fondo dietro un sasso. Nick allunga la mano per toccarla, infila nell’acqua il braccio fino al gomito. La trota è immobile nel fiume in movimento, se ne sta sulla ghiaia dietro un sasso. Quando le dita di Nick la toccano, toccano il suo senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua, la trota guizza e scompare, veloce come un’ombra sul fondo del fiume. Sta benone, Nick pensa. Era soltanto stanca. Si è bagnato la mano prima di toccare la trota in modo da non rovinare il muco delicato che la copre. Se si tocca una trota con la mano asciutta, un fungo bianco attacca il punto rimasto senza protezione. Anni prima, quando pescava su fiumi frequentati, con pescatori a monte e a valle di lui, a Nick è capitato moltissime volte di trovare trote morte, pelose per il fungo bianco, portate alla deriva contro una roccia oppure galleggianti col ventre in aria in qualche stagno. A Nick non piace pescare quando c’è altra gente sul fiume. A meno che siano della vostra comitiva, rovinano tutto. La piena validità di ogni azione di Nick nel Gran fiume dei due cuori è come la danza perfetta del torero dinanzi al toro: entrare “in risonanza” col toro, muoversi ― il torero e il toro ― come se fossero un unico essere, è il solo modo per vincerlo degnamente: entrare nel mondo del toro, esser con lui in esso. Ma le comitive, è chiaro, sono due: la comitiva di chi sa stare al mondo, con gli Esseri umani e con gli altri esseri, e la comitiva di chi non sa. Quelli che non sanno son quelli che non hanno voluto apprendere a farlo, che volontariamente ― fortuna e sfortuna non esistono nel mondo di Nick: o si vuol esser bravi, e prima o poi vi si riesce, o non lo si vuole, e prima o poi lo si ottiene ― si sono esclusi e messi fuori e contro l’ordine delle cose. Essi pertanto non sono semplicemente sgradevoli: sono pericolosi. Non solo per le trote, ma per il mondo intero. Lucidamente rinunciando al posto ch’è solo dell’Uomo nell’Universo, cioè a essere Dio ― poiché non vi è altro Dio che l’Uomo, nel mondo di Nick ― essi si son resi simili a demoni: se dispettosi o malvagi, se attaccabrighe o feroci, se pasticcioni o devastatori, dipende solo dalle circostanze. E dunque può ben accadere che Nick ― il cui saper stare al mondo lo rende capace di combattere con assoluta efficienza, invariabilmente fa di lui il vincitore, e soprattutto gli conferisce il diritto di uccidere (stavamo per scrivere la licenza, in fondo James Bond gli è fratello minore) ― si trovi un giorno a dover entrare in guerra contro di essi dopo aver visto e sentito, in Italia, cos’ha detto loro la Patria; e che in guerra, come a pesca ― nella piena capacità e legittimità, che il suo saper stare al mondo gli conferisce, di stabilire chi possa sopravvivere e chi debba morire ― uccida quanti più fascisti gli è possibile.6 Poiché Nick è Adams: Nick, figlio di Adamo, è l’Uomo, custode dell’Universo. Mentre i fascisti sono l’altra comitiva: quelli che ucciderebbero anche la più piccola delle trote, pur di sentirsi non umani. Ma se le cose stanno così, se Nick è così bravo, se la sua bravura, lungamente e duramente appresa, lo rende così infallibile nel capire e nel fare, se la sua battaglia come la sua pesca, sempre perfettamente condotte, sono anche sempre perfettamente vincenti, come mai al mondo vi sono ancora ― non trote, che a pieno titolo sono parte dell’ordine del mondo e lo saranno per sempre, finché vi sarà Nick a restituire al fiume le troppo piccole e a bagnarsi le mani prima di toccarle ― ma come mai al mondo vi sono ancora tanti cattivi pescatori, tanti che delle trote distruggono perfino le uova e mutano i fiumi in deserti d’acqua, come mai al mondo vi sono ancora tanti fascisti anche se Nick li ha sconfitti una volta per sempre sessantacinque anni fa? Come mai l’Overlook Hotel è ancora in piedi e Jack Torrance è ancora lì, dopo ottantacinque anni, a tramutare l’ordine in disordine come se Nick non fosse mai esistito? Peggio: com’è potuto accadere che Nick in persona sia stato talvolta un fascista, in Vietnam e in Irak? E a questa terribile domanda ― per quanto sia doloroso entrare in conflitto con uno come Nick, che sul Gran fiume dai due cuori ci ha insegnato a stare al mondo, in Che ti dice la Patria? a riconoscere i fascisti d’allora e di oggi, e ne Il Vecchio e il Mare, se vogliamo, perfino a star al mondo da vecchi ― come possiamo non rammentare che questo racconto inizia in un luogo dove non c’è paese, ci son solo i binari e la campagna bruciata? Dei tredici negozi che si allineavano lungo la strada principale di Seney non vi è più traccia. Le fondamenta dell’albergo Maison House sorgono dal terreno. La pietra è scheggiata e spezzata dal fuoco. Questo è quanto rimane del paese di Seney. Perfino la superficie è scomparsa dal terreno nell’incendio. Dunque è accaduto qualcosa, prima, che ha devastato il punto di partenza, l’origine dell’avventura di Nick sul Gran fiume dai due cuori. Ma cosa? Perché proprio in un luogo di distruzione e di morte egli è venuto al mondo in cui poi ha imparato a stare così validamente? È per la sua nascita disgraziata, allora, che il tempo invariabilmente tramuta in fallimenti i suoi invariabili successi? Tre racconti precedenti, ma anch’essi del 1925 ― La fine di qualcosa, Tre giorni di burrasca e Neve fra due paesi ― rispondono che no, Nick non è nato disgraziato. Niente può non andare nell’origine, nessuna storia può davvero iniziare in un paese distrutto o incendiato: Nick è nato, come ognuno nasce, perfettamente umano. Ma dopo, un giorno, ha fatto qualcosa per cercare di esserlo meno. Non per non esserlo più, o non saremmo qui a parlar con lui, ma per esser meno umano quel tanto che basta ― ammesso e non concesso che nella diminuzione di sé ci si possa fermare dove si vuol fermarsi ― a incardinarsi senza troppe pretese trasformative in un ordine del mondo che in sé è della Natura, non dell’Uomo.7 Anche il primo racconto, La fine di qualcosa, inizia con un paese che non c’è più: Hortons Bay, che molti anni fa era un paese rumoroso, è morto quando non vi furono più tronchi per far legna: le case dormitorio a un piano, la mensa, il magazzino della compagnia, gli uffici del mulino e il mulino stesso rimasero abbandonati in mezzo alla distesa di segatura che copriva il terreno paludoso presso la spiaggia della baia. Lo dicevamo poc’anzi: è come se non possa non esservi una distruzione, là dove la vicenda di Nick ― la vicenda umana ― ha origine. E tuttavia ne La fine di qualcosa, nonostante la rovina di Hortons Bay e del titolo stesso del racconto, l’inizio non è nella rovina, non è nella fine, ma nell’unico suo opposto possibile: nel rapporto uomo-donna. Con Nick, infatti, all’inizio c’è Marjorie. E Nick e Marjorie vanno a pescare assieme, e Marjorie non è meno brava di Nick, anzi: lo è almeno altrettanto. Sta sempre attenta alla canna, anche mentre parla. Le piace pescare. Le piace pescare con Nick. E non è brava solo nella pesca: dopo, Marjorie va a prendere nella barca una coperta; e poiché la brezza della sera porta il fumo del fuoco verso la punta, Marjorie distende la coperta tra il fuoco e il lago... Ma allora, se Marjorie non è meno perfetta di Nick, perché Nick deve lasciarla? Non potrebbe restare con lei per sempre? Andar con lei a pescare sul Gran fiume dei due cuori? Con lei in Italia nel 1925 (con lei aveva parlato d’andare in Italia insieme, dirà Nick in Tre giorni di burrasca) a riconoscere l’orrore fascista? Non potrebbe vincere con lei, nel 1945, in modo che i fascisti non tornino mai più? “Che cos’hai, insomma?” dice Marjorie. “Non lo so.” “Invece lo sai.” “No, io no.” “Avanti, dillo.” Nick guarda la luna, che sale in alto sopra le colline. “Non è più divertente” dice. Ma ha paura di guardare Marjorie. E poi ammette: “Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo.” Marjorie non sta lì a pregarlo. Perfetta anche in questo, semplicemente prende la barca e se ne va. Ma Nick non la chiama. Rimane disteso per molto tempo. È ancora disteso quando sente Bill giungere allo scoperto dal bosco. Sente Bill avvicinarsi al fuoco. Non si muove, non gli importa di Bill. “Allora è andata via?” dice Bill. “Sì” Nick dice, disteso, con la faccia sulla coperta. “Successe scene?” “No, nessuna scena.” “Come ti senti?” “Oh, va’ via, Bill! Va’ via per un po’.” Bill sceglie un sandwich dal cestino della cena e si muove per andare a dare un’occhiata alle canne. Sembra proprio che non vi sia alcun motivo per lasciare Marjorie. Niente non va, in lei. Niente importa a Nick di Bill. E Nick, dopo, è infelice per averla lasciata. Ma allora perché lasciarla? E perché “sostituirla” con Bill, perché pescare con lui invece che con Marjorie, se di Bill non gli importa? Nel racconto successivo, Tre giorni di burrasca, Nick e Bill, soli in casa di Bill mentre il padre di Bill è a caccia, si ubriacano con estrema bravura, mantenendo perfettamente il controllo e vantandosi per questo con sé stessi e reciprocamente. Ma il whisky in qualche modo riesce lo stesso a farli star male, pur senza che se ne accorgano e che alcun segno esteriore lo manifesti, e star male li induce a parlare di quella che è stata, per entrambi, la fine di qualcosa: la cacciata di Marjorie dal mondo. Dice Bill: “Hai fatto proprio bene.” “A far cosa?” chiede Nick. “A piantarla con quella faccenda di Marge” dice Bill. “Credo anch’io” dice Nick. “Era l’unica cosa da fare. Se non l’avessi fatto, adesso saresti a casa a cercar di far soldi per sposarti.” Nick non dice niente. “Quando un uomo si sposa è fregato per sempre” Bill continua. “Non gli resta altro. Niente. Un accidente di niente. È fregato. Forse è stato poco bello piantar tutto” Bill dice. “Ma si finisce sempre per prendere un’altra cotta e tutto si aggiusta. Va bene prender le cotte, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne.” “Sì” dice Nick. Il whisky è passato, l’ha lasciato solo. Bill non è presente. Egli non è più seduto davanti al fuoco, non andrà a pescare il giorno dopo con Bill o suo padre o chi altro. Non è ubriaco: è tutto finito. Tutto quel che sa è che una volta aveva Marjorie e che ora l’ha perduta. Ora lei se n’è andata, è stato lui a mandarla via. Questo soltanto conta. Probabilmente mai più la rivedrà. Finito. È finito tutto. (Anni dopo, in Neve fra due paesi, Nick si sposerà perfino. Con una certa Helen, in Europa. E tuttavia incredibilmente si rammaricherà, quando lei aspetterà un bambino e dovranno tornare negli States, di dover per questo interrompere l’amata consuetudine di recarsi a sciare con l’amico George...). Non le donne, dunque, sono sparite dalla vita di Nick, quando egli ha lasciato Marjorie. Non con le donne è finito tutto, quella sera sul lago. È sparita la donna. È finita con la donna. E per non altro motivo che questo: che Marjorie, la donna, è la donna. E che con la donna non si può stare, al mondo. Questa è la fine di Hortons Bay, questo l’incendio che rade al suolo Seney e con Seney perfino la superficie del suolo: imparare a stare al mondo, alla maniera di Nick e dell’America di Hemingway e del mondo ch’è il nostro che dall’America viene, semplicemente non si può, se c’è Marjorie. Non perché vi sia in Marjorie qualche difetto ― Bill pagherebbe per pescare come lei, George per sciare, e Helen, probabilmente, per saper posizionare una coperta in modo che niente disturbi, mentre si fa l’amore ― ma proprio perché Marjorie è donna. Solo perché è donna, e a maggior ragione quanto più perfettamente lo è. Poiché non tutte le donne ― poche, forse ― sono o son riuscite a rimanere così donne che sia impossibile star con loro, se si vuol stare al mondo e andare a pesca e a caccia di fascisti bene come lo fa Nick. E allora non possiamo non domandarci: che cosa, nella donna, la rende così incompatibile con un saper del mondo e un saperci stare che pure è così valido che non solo non commette alcun errore, nel rapporto col mondo e con i viventi e con gli umani, ma soprattutto riconosce i fascisti per quel che sono? Va bene prendere le cotte, dice Bill, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne. Quel che porta alla “rovina”, dunque, non è stare con le donne, e nemmeno prendersi delle cotte per loro. È stare con la donna in un modo che va oltre lo stare con lei, che va oltre il prendersi una cotta per lei: è stare con una donna, e una donna con un uomo, in un modo che, per il suo essere oltre, non può non portare entrambi ― anche se la donna è brava, anche se pesca bene come Marjorie, anche se non commette alcun errore, né più né meno che il più in gamba degli uomini ― su un piano di realtà che non è compatibile con lo stare al mondo come vi stanno tutti gli altri esseri e tutte le cose; e dunque alla rovina, al fallimento di quell’esatto rapporto col mondo che è il solo modo di starci da uomini. Con tutto ciò che esiste al mondo, Nick, l’uomo, non solo può ma deve stare interamente e totalmente, con tutto sé stesso, se vuol essere un uomo, se vuol restare umano, se non vuole ― come quelli dell’altra comitiva ― render sé stesso non umano. Solo con la donna, fra tutte le creature e le cose del mondo, invece è il contrario: solo con la donna, per saper stare al mondo, bisogna stare non del tutto, non con tutto sé stesso, ma solo fino a un certo punto. E questo ― se addirittura non significa che quelli dell’altra comitiva ne sono entrati a far parte proprio per non aver saputo o voluto restare al di qua di quell’oltre, nel rapporto con la donna: ma che significhi ciò come si può ammetterlo, senza che il conflitto con Nick diventi totale? ― significa che Marjorie, la donna, per Nick, per Hemingway, per l’America di Hemingway e per noi che (anche) da quell’America veniamo, non è nel mondo, è estranea al mondo, introduce nel mondo un disordine che, per quanto sia doloroso perderla, non averla più ― poter prendersi d’ora in poi solo cotte ma non poter più essere con lei fino in fondo ― ciò nondimeno rende impossibile portarla nel mondo con sé senza perdere sé stessi. La chiave che apre la porta della comprensione del delirio è proprio in quell’oltre, in quello star troppo intensamente con una donna di cui però non si sa descrivere la misura, di cui si può parlare solo vagamente, come di un troppo, appunto, ma senza poter dire esattamente quanto: andare oltre con una donna, cioè ― e d’altra parte soltanto con una donna questo può accadere, ché con tutto il resto, l’abbiamo visto, solo e proprio il massimo della sintonia è la perfezione ― significa entrare in una realtà di cui non son possibili misurazioni, dove non valgono le leggi della fisica deterministica (ma di un’altra fisica forse sì...) e dove quindi non si può che perdere il rapporto col mondo perché il mondo invece è misurabile, esattamente conoscibile, razionale, mentre con una donna, se si va oltre, si va nell’irrazionale. E nell’irrazionale non si corre il rischio di distrarsi e dimenticare, una volta o l’altra, di bagnar la mano nell’acqua prima di toccare una piccola trota? O forse no? O forse è vero assolutamente l’opposto? O forse proprio il continuo, ossessivo controllo razionale della realtà è il mostro che alla lunga ci opprime, ci soffoca, ci estranea dall’irrazionale nostra natura umana e prima o poi, per stanchezza e insofferenza, innesca e fa esplodere la ribellione del matto, fascista e nazista, di non esser più umani e sterminarli tutti? Il fallimento, l’impotenza non tanto di Nick o di Hemingway quanto di un’intera Società maschile, sincronicamente e diacronicamente, non a riconoscere i fascisti, non a distinguersi da essi, non a combatterli e sconfiggerli (quasi) ogni volta, ma a far sì che non vi siano più, ha qui e non altrove la sua vera origine: nell’idea insensata che si possa essere uomini, umani, non dell’altra comitiva, solo se dall’interezza e completezza tenacemente perseguite dello stare al mondo l’uomo altrettanto tenacemente esclude l’interezza e completezza dello star con la donna (e la donna dello star con l’uomo) che dal mondo, come se l’uno per l’altra non ne fossero parte anch’essi, ineluttabilmente li porterebbero fuori. Come se solo l’umano, diverso da ogni altro vivente, trovasse sé stesso nel non esser pienamente sé stesso, nel non essere fin in fondo con sé stesso, l’uomo con la donna e la donna con l’uomo. Come se quel che ci rende animali umani ― il poter immaginare e realizzare di andare oltre ― sia invece un subdolo nemico da tener lontano e a bada l’uno nell’altro: l’uomo nella donna, la donna nell’uomo, e tutti contro tutti. Dunque nessuna zanzara, se dipendesse da noi, Nick troverebbe in tenda al momento di coricarsi. Bravo com’è, non può aver commesso lo sbaglio di lasciarla entrare fissando male o troppo tardi la zanzariera. Eppure quella zanzara non è lì per un errore di Hemingway, ma per un motivo preciso: distrarre Nick ― e noi ― dal ricordo di Marjorie, dal pensiero, dal dolore, di averla cacciata dal mondo e perduta per sempre. Questo sì che non lo farebbe dormire, altro che la zanzara! La zanzara non avrebbe alcun potere sulla stanchezza di un ragazzo di sedici anni che ha marciato tutto il giorno nei boschi. Ma Hemingway non vuole che Nick ― e noi, che poche pagine fa abbiamo letto La fine di qualcosa ― pensiamo più a Marjorie, altrimenti... Altrimenti cosa? La pesca domani andrebbe male? Nick perderebbe la seconda guerra mondiale? L’America dovrebbe dire addio al suo posto nel mondo? O piuttosto entrerebbe in crisi, in Nick e in noi, il pensiero millenario ― che anche Nick come tanti si è rassegnato a far proprio dimezzandosi la complessità, la profondità, l’intensità, la bellezza della vita ― che per stare al mondo da umani, per non piombare nell’orrore fascista e nazista di non voler esserlo più, si debba riuscire... a non essere umani fin in fondo, fin in quell’irrazionale oltre che umani ci rende? E perciò si debba riuscire a tenere a bada, lontano da sé, l’altro essere umano, la donna per l’uomo, l’uomo per la donna, che è il solo al mondo con cui non si possa stare senza essere umani fino in fondo? E si debba rinunciare, dunque, la donna con l’uomo, l’uomo con la donna, ad attingere quell’assoluta estraneità, rispetto al fascismo e al nazismo di non voler più essere umani affatto, che senza guerra, senz’armi, senza fare una sola vittima, eradicherebbe una volta per sempre il fascismo e il nazismo dalla faccia della Terra? Nella notte, sul Gran fiume dai due cuori, Nick potrebbe capire tutto questo, se il dolore per la sparizione di Marjorie dal suo mondo, una buona volta, si facesse così intenso da non lasciarlo dormire. Ma Ernest Hemingway, che veglia su di lui, gli manda una zanzara da uccidere per poi addormentarsi tranquillo. E fa sparire la notte, dividendo la prima dalla seconda parte del Gran fiume dei due cuori, non per proteggere i bei sogni di Nick dai nostri sguardi indiscreti, ma per non dover ammettere che invece sono incubi. Gli incubi che versa la Patria ― la Terra dei Padri ― nelle orecchie degli uomini senza donne.
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Poi, certo, molta acqua è passata sotto i ponti sul Gran fiume dai due cuori. Si è capito che qualcosa non andava. Si è inventato perfino l’antieroe. Ma a chi va oltre, guarda caso ― un uomo con una donna, una donna con un uomo ― si continua ottusamente a minacciar sfracelli, se appena osano.
(Anticoli Corrado, 29 giugno – 8 luglio 2010)
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Note
[1] Dunque potremmo essere alla fine di maggio del 1925, quando la polizia britannica a Shangai sparò contro una dimostrazione di studenti nazionalisti e comunisti, o nel 1927, quando, dopo la rottura tra i nazionalisti e il partito comunista, i comunisti di Shanghai, di Canton e di Pechino furono massacrati dai nazionalisti. Per ovvi motivi, propendiamo per il 1925.
[2] Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, traduzione di Giuseppe Trevisani, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1966. Il testo completo del racconto, Che ti dice la Patria? (in italiano nell’originale) ― pubblicato per la prima volta in New Republic il 18 maggio 1927, col titolo Italy, e il 14 ottobre 1927 nella raccolta Men Without Women (Uomini senza donne) cliccando qui.
[3] di Stanley Kubrick (Gran Bretagna, 1980), con Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny Lloyd e Scatman Crothers.
[4] Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, traduzione di Giuseppe Trevisani, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1966. Il testo completo del racconto, Il gran fiume dai due cuori (Big two-hearted River) ― pubblicato per la prima volta in This Quarter nel maggio 1925, e nell’ottobre dello stesso anno nella raccolta Nel nostro tempo (In our time) cliccando qui.
[5] Un posto pulito, illuminato bene...
[6] Come “Nick” farà, sotto un altro nome, in Per chi suona la campana.
[7] Non per niente l’uomo di Hemingway, antropologicamente, non esce mai dagli inizi dell’avventura della nostra specie: cacciatore e raccoglitore, non ha ancora neanche immaginato di poter trasformare il panorama del mondo; grande narratore, senza dubbio, ma del mondo com’è, non di mondi immaginari.
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Ernest Hemingway
2 Racconti
traduzione di Giuseppe Trevisani 1966, Arnoldo Mondadori Editore
Che ti dice la Patria?
La strada che scendeva dal passo era dura e liscia e non ancora polverosa nelle prime ore del mattino. Sotto a noi sorgevano colline piene di boschi di querce e di castagni, e in basso, più lontano, si scorgeva il mare. Dall’altra parte le montagne erano bianche di neve. Scendevamo dal passo attraverso una campagna boscosa. Sacchi di carbone erano ammucchiati ai lati della strada e attraverso gli alberi si potevano vedere le baracche dei carbonai. Era domenica e la strada, ora in salita e ora in discesa, ma sempre calando verso la pianura dall’altezza del passo, attraversava macchie e villaggi. Fuori dei villaggi c’erano vigneti. Il terreno era scuro e le viti scabre e fitte. Le case erano bianche e gli uomini, nei loro vestiti della domenica, giocavano a bocce in mezzo alla strada. Contro i muri di qualche casa erano piantati dei peri, parevano candelabri sullo sfondo delle bianche facciate. I peri erano stati medicati e i muri delle case erano chiazzati del verdazzurro metallico del solfato. Piccole radure coltivate a viti circondavano i villaggi, dopo ricominciavano i boschi. In un paese a venti chilometri dalla Spezia c’era una piccola folla sulla piazza e un giovane con una valigia venne verso la nostra automobile e ci chiese di portarlo alla Spezia. “Abbiamo solo due posti e sono occupati” dissi. Avevamo una vecchia Ford a coupé. “Monterò sul predellino.” “Starete scomodo.” “Non fa niente. Devo andare alla Spezia.” “Lo prendiamo?” chiesi a Guido. “Tanto sembra deciso.” Il giovane introdusse un pacchetto attraverso il finestrino. “Mettetelo in qualche posto” disse. Due uomini legarono la sua valigia dietro alla macchina, sopra le nostre. Egli strinse la mano a tutti, spiegò che per un fascista e uomo abituato a viaggiare come lui non era una gran cosa e saltò sul predellino sinistro dell’automobile tenendosi aggrappato con il braccio dentro il finestrino aperto. “Potete partire” disse. La folla agitò le braccia in segno di saluto. Egli rispose con la mano libera. “Cosa ha detto?” mi chiese Guido. “Che possiamo partire.” “Com’è gentile” osservò Guido. La strada seguiva il corso di un fiume. Al di là di questo si alzavano i monti. Il sole faceva sciogliere la brina sui prati. Il tempo era luminoso ma faceva molto freddo e l’aria gelata passava attraverso il parabrezza aperto. “Credi che stia bene li fuori?” Guido fissava la strada. La vista, dalla sua parte, gli era impedita dal nostro ospite. Il giovane sporgeva dal lato della macchina come una figura scolpita sulla prora di una nave. Si era tirato sù il bavero del cappotto e abbassato il cappello fino agli orecchi; aveva il naso rosso nel vento. “Ne avrà abbastanza” disse Guido. “È dalla parte della gomma guasta.” “Oh, ci lascerebbe subito se forassimo” dissi.”Non vorrebbe impolverarsi il vestito da viaggio.” “Bene, non me ne importa” disse. “Però, ha un modo di sporgersi alle curve.” I boschi erano finiti; la strada aveva lasciato il fiume per salire nuovamente, il radiatore stava bollendo. Il giovane guardava seccato e sospettoso il vapore e gli schizzi di acqua rossastra; il motore sbuffava, con tutti e due i piedi di Guido sul pedale della prima marcia, sempre più sù, faticosamente, perdendo di giri e tornando a riprendersi, e finalmente fermo. Il motore smise di sbuffare e nell’improvviso silenzio si sentì nel radiatore un forte gorgoglio spumeggiante. Eravamo in cima all’ultima salita sopra la Spezia e il mare. La strada ora scendeva con strette e ripide curve. Il nostro ospite veniva spinto in fuori alle svolte e tirava quasi via la calotta dell’automobile. “Non si può dirgli di non farlo” dissi a Guido. “È il suo istinto di conservazione.” “Il grande istinto degli Italiani.” “Il più grande istinto degli Italiani.” Scendemmo a zigzag in mezzo al polverone che imbiancava le foglie degli ulivi. La Spezia si stendeva sotto a noi lungo il mare. All’esterno della città la strada divenne pianeggiante. L’ospite ficcò la testa nel finestrino. “Voglio fermarmi.” “Ferma” dissi a Guido. Rallentammo, al lato della strada. Il giovane scese, andò dietro alla macchina e sciolse la valigia. “Mi fermo qui così non avrete noie per il passaggio” disse. “Il mio pacchetto.” Glielo porsi e se lo mise in tasca. “Quanto vi devo?” “Niente.” “Perché niente?” “Non saprei” risposi. “Allora grazie” disse; non “vi ringrazio” o “molte grazie” o “grazie mille”, tutto quello che si diceva un tempo in Italia a chi vi porgeva un orario o v’indicava la strada. Il giovane pronunziò la forma più corta di ringraziamento e ci guardò sospettosamente mentre Guido rimetteva in moto la macchina. Lo salutai con la mano. Era troppo dignitoso per rispondere. Proseguimmo per la Spezia. “È un giovane che farà molta strada in Italia” dissi a Guido. “Eh” rispose “ha già fatto venti chilometri con noi.”
Un pranzo alla Spezia
Arrivammo alla Spezia e cercammo un posto per mangiare. Le strade erano larghe e le case alte e gialle. Seguimmo le rotaie del tram fino al centro della città. Sui muri delle case si vedevano dei ritratti stampigliati di Mussolini con gli occhi paurosamente aggrottati, e sotto scritto “evviva”, il “W” dipinto in nero che sgocciolava la tinta giù per il muro. Strade laterali scendevano al porto. Era una bellissima giornata e la gente era tutta fuori di casa a passare la domenica. Il lastricato era stato annaffiato e c’erano dei tratti umidi nella polvere. Passammo rasente al marciapiede per evitare un tram. “Andiamo a mangiare in un posticino alla buona” disse Guido. Ci fermammo in faccia a due insegne di trattoria. Eravamo dall’altro lato della strada e stavo comprando dei giornali. Le due trattorie erano accanto. Una donna che stava sulla soglia di una ci sorrise, e noi attraversammo ed entrammo. Era buio dentro e in fondo alla sala tre ragazze sedevano a un tavolino insieme a una vecchia. Davanti a noi, a un altro tavolo, sedeva un marinaio. Stava seduto lì senza mangiare, né bere. Ancora più in là, a un terzo tavolino stava scrivendo un giovane vestito di blu. Con i capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, aveva un aspetto impeccabile. La luce entrava dalla porta e dalla finestra dove ortaggi, frutta, bistecche e braciole erano accomodate in una vetrina. Una ragazza venne a prendere gli ordini mentre un’altra ragazza stava sulla porta. Notammo che non portava niente sotto il vestito da casa. La ragazza che era venuta a prendere gli ordini mise il braccio al collo di Guido mentre stavamo guardando il menu. C’erano in tutto tre ragazze e andavano a turno sulla porta. La vecchia che era al tavolo in fondo alla stanza disse loro qualcosa ed esse le si sederono nuovamente accanto. Nessuna porta conduceva fuori della sala tranne quella della cucina, davanti alla quale pendeva una tenda. La ragazza che aveva preso gli ordini tornò dalla cucina con gli spaghetti. Li posò sulla tavola, portò una bottiglia di vino rosso e sedette vicino a noi. “Bene” dissi a Guido “volevi mangiare in un posticino semplice.” “Questo non è per niente semplice. È complicato.” “Cosa state dicendo?” chiese la ragazza. “Siete tedeschi?” “Tedeschi del Sud” risposi. “I Tedeschi del Sud sono persone gentili e amabili.” “Non capisco” essa disse. “Come usa, in questi locali?” chiese Guido. “Devo lasciarmi mettere il braccio intorno al collo?” “Certamente” risposi. “Mussolini ha abolito i casini. Qui siamo in una trattoria.” La ragazza indossava un abito a un sol pezzo. Si piegò in avanti sul tavolo, si mise le mani sui seni e sorrise. Sorrideva meglio da una parte che dall’ altra e voltava verso di noi la parte migliore. Il fascino della parte migliore era aumentato dal fatto che qualche incidente le aveva spianato l’altro lato del naso come se fosse stato cera calda. Il suo naso tuttavia non sembrava di cera calda. Aveva anzi un aspetto freddo e ben solido, ma era come piallato. “Ti piaccio?” chiese a Guido. “L’adora” risposi “ma non sa parlare in italiano.” “Ich spreche Deutsch” essa disse e gli accarezzò i capelli. “Parla alla signora nella tua lingua nativa, Guido.” “Da dove venite?” domandò la donna. “Da Potsdam.” “E ora resterete qui per un poco?” “In questa Spezia così deliziosa?” chiesi. “Dille che dobbiamo andarcene” disse Guido “dille che siamo malatissimi e che non abbiamo denaro.” “Il mio amico è un misogino” dissi “un vecchio tedesco misogino.” “Digli che l’amo.” Glielo dissi. “Vuoi deciderti a chiudere la bocca e andarcene?” esplose Guido. “Digli che è mio.” Glielo dissi. “Vuoi deciderti ad andarcene?” “State litigando” disse la donna. “Non vi volete bene.” “Siamo tedeschi” dissi orgogliosamente “vecchi tedeschi del Sud.” “Digli che è un bel ragazzo” disse la donna. Guido ha trentotto anni e tiene abbastanza al fatto che in Francia molti lo prendono per un commesso viaggiatore. “Sei un bel ragazzo” dissi. “Chi lo dice?” chiese. “Tu o lei?” “Lei. Sono il tuo interprete. Non è per questo che mi hai condotto in questa gita?” “Son contento che l’abbia detto lei. Non vorrei doverti lasciar qui.” . “Non saprei. La Spezia è un bel posticino.” “La Spezia” disse la signora.”State parlando della Spezia.” “È un bel posticino” ripetei in italiano. “È il mio paese. La Spezia è la mia casa e l’Italia è il mio paese.” “Dice che l’Italia è il suo paese.” “Dille che lei somiglia al suo paese” disse Guido. “Cosa avete di frutta?” chiesi. “Abbiamo banane.” “Le banane vanno benissimo” disse Guido. “Hanno la buccia.” “Oh, prendi le banane!” esclamò la signora e abbracciò Guido. “Cosa dice?” domandò tenendo il viso lontano dalla sua portata. “È contenta perché prendi le banane.” “Dille che non prendo le banane.” “Il signore non prende le banane.” “Ah!” esclamò la signora sconcertata “non prende le banane.” “Dille che prendo un bagno freddo tutte le mattine” disse Guido. “Il signore prende un bagno freddo tutte le mattine.” “Non capisco” disse la signora. Il marinaio che sedeva davanti a noi non si era mosso. Nessuno nella sala gli prestava la minima attenzione. “Desideriamo il conto” dissi. “Oh, no, dovete restare.” “Senti” disse il giovanotto impeccabile dal tavolo dove stava scrivendo. “Lasciali andare. Tanto son senza un soldo.” La donna afferrò la mia mano. “Non volete restare? Non vuoi chiedergli di restare?” “Dobbiamo andare” dissi. “Dobbiamo arrivare a Pisa o se fosse possibile a Firenze stanotte. Possiamo divertirci in queste città quando sarà buio. Ora è giorno. Durante il giorno dobbiamo viaggiare.” “Restare un altro poco sarebbe bello.” “Viaggiare è necessario quando c’è luce.” “Senti” disse il giovanotto impeccabile. “Smettila di parlare con questi due. Ti dico che son senza un soldo e io lo so.” “Portaci il conto.” Ci portò il conto consegnatole dalla vecchia e si rimise a sedere al tavolo. Un’altra ragazza uscì dalla cucina. Attraversò la sala e si mise sulla porta. “Smettila di stare con questi due” disse il giovanotto impeccabile in tono annoiato. “Vieni a mangiare. Non hanno un soldo.” Pagammo il conto e ci alzammo. Le tre ragazze, la vecchia e il giovanotto impeccabile sedevano insieme allo stesso tavolo, ora. Il marinaio stava seduto con la testa tra le mani. Nessuno gli aveva rivolto la parola per tutto il tempo che stavamo pranzando. La ragazza ci portò il resto che la donna le aveva contato e tornò al suo posto. Lasciammo una mancia sul tavolo e uscimmo. Quando eravamo già seduti in macchina pronti per partire, la ragazza usci e si mise sulla porta. Partimmo e la salutai con la mano. Non rispose, ma rimase lì a guardarci mentre ci allontanavamo.
Dopo la pioggia
Pioveva a dirotto quando passammo per i sobborghi di Genova e anche andando molto piano dietro ai tram e ai camion, il fango schizzava sul marciapiede così che la gente si affrettava a rifugiarsi nelle porte delle case quando ci vedeva arrivare. A Sampierdarena, il sobborgo industriale di Genova, c’è una larga strada con delle rotaie da una parte e dall’altra, e ci tenemmo nel mezzo per evitare d’infangare gli uomini che tornavano a casa dal lavoro. Alla nostra sinistra avevamo il Mediterraneo. C’era mare grosso, le onde si rompevano e il vento ne portava gli spruzzi fino all’automobile. Il letto di un fiume che quando eravamo passati venendo in Italia era largo, asciutto e pieno di pietre, adesso scorreva in piena e l’acqua arrivava fino agli argini. Quest’acqua fangosa scolorava quella del mare e quando le onde rompendosi si assottigliavano e diventavano bianche, anche l’acqua gialla si schiariva e fiocchi di spuma, portati dal vento, volavano attraverso la strada. Una grossa automobile ci sorpassò ad alta velocità e una cortina d’acqua fangosa ricoperse il parabrezza e il radiatore. Il tergicristallo automatico si muoveva avanti e indietro appannando il vetro. Ci fermammo a mangiare a Sestri. Non c’era riscaldamento nella trattoria e tenemmo addosso pastrano e cappello. Potevamo vedere la macchina fuori, attraverso la finestra. Era coperta di fango e stava accanto a barche tirate in secco lontano dalle onde. Nella trattoria il nostro fiato faceva nuvolette. La pastasciutta era buona; il vino sapeva d’aceto e lo allungammo con l’acqua. Dopo il cameriere portò una bistecca con patate fritte. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano molto tristi. Avevano vicino una valigia. Avevamo i giornali e lessi forte a Guido il resoconto dei combattimenti a Shanghai. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva e io pulii con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore. Quando Guido tornò voltammo la macchina e partimmo. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente. “Sebbene non ne veda la ragione, dato che non sono un fontaniere, si aspettavano che rubassi qualcosa” disse Guido. Quando arrivammo in cima a un promontorio passata la città, un colpo di vento prese in pieno la macchina e per poco non la fece rovesciare. . “Meno male che ci spinge dal lato opposto del mare” disse Guido. “Già” dissi io “nello stesso modo annegò Shelley da queste parti.” “Fu vicino a Viareggio” disse Guido. “Ti ricordi per quale ragione siamo venuti in questo paese?” “Sì” risposi “ma non siamo riusciti a nulla.” “Ne saremo fuori stanotte.” “Se possiamo arrivare dopo Ventimiglia.” “Vedremo. Non mi piace guidare di notte lungo questa costa.” Erano le prime ore del pomeriggio e splendeva il sole. Sotto, il mare era azzurro, pieno di creste bianche di spuma verso Savona. Lontano al largo del promontorio l’acqua giallastra e quella azzurra si fondevano. Davanti a noi un piroscafo mercantile navigava lungo la costa. “Vedi ancora Genova?” chiese Guido. “Oh, sì.” “Il prossimo promontorio dovrebbe coprircela.” “La vedremo ancora a lungo. Dietro vedo ancora la punta di Portofino.” Finalmente non riuscimmo più a scorgere Genova. Guardai indietro quando girammo la punta del promontorio ma non vidi che il mare e sotto, nella baia, una fetta di spiaggia piena di barche da pesca e sopra, sul fianco della collina, un paese e promontori a perdita d’occhio lontano, lungo la costa. “Non la vedo più” dissi a Guido. “Oh, è già parecchio ora che non la possiamo vedere.” “Sì, ma non potevamo esserne sicuri finché la strada non si è spinta in avanti sul mare.” C’era un segnale con una grande S dipinta e scritto sotto “Svolta Pericolosa". La strada girò intorno al promontorio e il vento soffiò attraverso l’apertura del parabrezza. Passato il promontorio c’era un tratto di strada pianeggiante lungo il mare. Il vento aveva asciugato il fango e la macchina cominciava a sollevare la polvere. Nel tratto pianeggiante ci sorpassò un fascista in bicicletta con una grossa rivoltella nella fondina. Andava in mezzo alla strada e dovemmo sterzare di lato per sorpassarlo. Ci guardò mentre passavamo. Più avanti trovammo un passaggio a livello e arrivammo proprio quando le sbarre si stavano abbassando. Mentre si aspettava, il fascista in bicicletta ci raggiunse. Il treno passò e Guido rimise in moto il motore. “Un momento” gridò il ciclista dietro la macchina “la vostra targa è sporca.” Scesi con uno straccio. Avevo pulito la targa quando ci eravamo fermati a mangiare. “Si può leggere il numero” dissi io. “Credete davvero?” “Lo legga.” “Non posso. È sporco.” Lo strofinai col cencio. “Com’è ora?” “Venticinque lire.” “Cosa?” dissi. “Potevate leggerlo benissimo. È solo sporco per lo stato delle strade.” “Non vi piacciono le strade italiane?” “Sono sporche.” “Cinquanta lire.” Sputò in terra.”La vostra macchina è sporca e anche voi siete sporco.” “Bene. Mi dia la ricevuta con sopra il suo nome.” Tirò fuori un blocco di ricevute fatte in doppia copia e forate così da poterne staccare e darne una a chi cadeva in contravvenzione e una, riempita, da tenere come matrice. Non c’era però la carta carbone per registrare ciò che veniva scritto sul nostro foglio. “Datemi cinquanta lire.” Scrisse con un lapis copiativo, strappò il foglietto e me lo porse. Lo lessi. “Qui c’è scritto venticinque lire.” “Mi sono sbagliato” disse, e corresse venticinque in cinquanta. “E ora scriva sulla parte che resta a lei. Ma ci scriva cinquanta.” Sorrise con un bel sorriso italiano e scrisse qualcosa sulla matrice, tenendola in modo che non riuscissi a vedere. “Andate” disse “prima che la targa si sporchi di nuovo.” Seguitammo ancora per due ore dopo che era già scesa la sera, e quella notte dormimmo a Mentone. Mi sembrò gaia pulita e deliziosa. Eravamo andati in macchina da Ventimiglia a Pisa e Firenze e attraverso la Romagna, fino a Rimini e al ritorno passando per Forlì, Imola, Bologna, Parma, Piacenza e Genova di nuovo a Ventimiglia. L’intera gita era durata solo dieci giorni. Naturalmente, in così poco tempo, non avevamo avuto modo di farci un’idea del paese né dei suoi abitanti.
*
Il gran fiume dai due cuori
Prima parte
Il treno si allontanò lungo il binario, scomparendo alla vista dietro la collina dai tronchi bruciati. Nick sedeva sul fagotto della tenda e delle coperte che l’uomo del bagagliaio gli aveva calato giù dallo sportello. Non c’era paese, c’erano soltanto i binari e la campagna bruciata. Dei tredici negozi che si allineavano lungo la strada principale di Seney non era rimasta traccia. Le fondamenta dell’albergo Maison House sorgevano dal terreno. La pietra era scheggiata e spezzata dal fuoco. Quello era tutto quanto restava del paese di Seney. Persino la superficie era scomparsa dal terreno nell’incendio. Nick guardò il fianco bruciato della collina, dove s’era aspettato di vedere le case sparse del paese, poi s’incamminò lungo le rotaie verso il ponte sul fiume. Il fiume c’era. Formava vortici intorno ai piloni di legno del ponte. Nick guardò giù l’acqua limpida e bruna, che i sassi del fondo coloravano, e vide le trote mantenersi ferme nella corrente muovendo le pinne. Guardandole vide che mutavano posizione con angoli improvvisi, per mantenersi ferme nella corrente veloce. Nick rimase a guardarle per molto tempo. Le osservò fronteggiare col muso la corrente, molte trote nell’ acqua veloce e profonda, appena deformate dal fatto che egli le guardava da lontano attraverso la superficie dell’acqua, superficie convessa per la pressione esercitata contro i piloni di legno del ponte. In fondo al fiume c’erano le trote grosse. Nick non le vide subito. Poi le scorse sul fondo, grosse trote che si tenevano sul fondo di sassi, in un misto di sassi e di terriccio che la corrente sollevava a spruzzi. Nick guardava nell’acqua dal ponte. Era una giornata calda. Un uccello pescatore arrivò in volo sul fiume. Era molto tempo che Nick non vedeva un fiume e delle trote nell’acqua del fiume. Era sempre una soddisfazione. Quando l’ombra dell’uccello pescatore passò sul fiume, una grossa trota scattò contro corrente con un forte angolo, e soltanto la sua ombra segnava l’angolo, poi perse l’ombra quando comparve alla superficie dell’acqua, nel sole; poi, quando tornò sott’acqua; l’ombra sembrò trasportata giù sopraffatta dalla corrente fino a ridursi di nuovo sotto il ponte dove si fermò stretta accanto al pilone fronteggiando la corrente. Il cuore di Nick batté quando la trota si mosse. Di nuovo provava le sensazioni di un tempo. Si voltò ed osservò il fiume a valle. Si allontanava col fondo di sassi, alte rive a strapiombo ed un profondo stagno dove girava ai piedi di uno sperone. Nick ritornò lungo le traversine fin dove il suo sacco era posato tra la cenere accanto ai binari della ferrovia. Nick era felice. Accomodò le cinghie del sacco intorno al fagotto, tirandole bene, si gettò il sacco sulla schiena, infilò le braccia nelle bretelle e liberò le spalle da una parte della tensione appoggiando la fronte contro una larga striscia di stoffa. Pure, era troppo pesante. Era davvero troppo pesante. Aveva in mano l’astuccio delle canne da pesca e chinato avanti per tenere in alto sulle spalle il peso del sacco Nick s’incamminò lungo la strada che correva parallela ai binari, lasciandosi alle spalle nel sole il paese bruciato, e svoltò poi intorno a una collina prendendo una strada che tra due colline alte e scarnite dal fuoco si spingeva verso l’interno. Camminò lungo quella strada, sentendo male per la tensione delle cinghie del sacco sulle spalle. La strada si arrampicava ripida. Era faticoso camminare in salita. I muscoli gli dolevano e faceva un gran caldo, ma Nick si sentiva felice. Sentiva di aver lasciato tutto dietro di sé, il bisogno di pensare, il bisogno di scrivere, gli altri bisogni. Tutto era dietro di lui. Dal momento in cui era sceso dal treno e l’uomo del bagagliaio gli aveva calato il sacco dallo sportello aperto del vagone tutto era stato diverso. Seney era bruciata, la campagna era bruciata e mutata, ma non importava. Non poteva essere bruciato tutto. Nick lo sapeva. Marciava lungo la strada, sudando al sole, salendo per attraversare la catena di colline che separavano la ferrovia dalla pianura dei pini. La strada continuava, con brevi tratti di discesa ma salendo sempre. Nick continuava a salire. Infine la strada dopo aver proceduto di costa sul fianco bruciato della collina raggiunse la sommità. Nick si appoggiò ad un ceppo e si liberò dalle cinghie del sacco. Davanti, fin dove giungeva il suo sguardo, aveva la pianura dei pini. Il paesaggio bruciato si fermava a sinistra con la catena delle colline. Davanti, isole di pini scuri sorgevano nella pianura. Lontana a sinistra era la linea del fiume. Nick la seguì con lo sguardo e scorse i riflessi dell’acqua sotto il sole. Non c’era davanti a lui altro che la pianura dei pini, fino alle colline azzurre che indicavano il Lago Superiore. Poteva scorgerle appena, sbiadite e distanti nella gran luce calda che sovrastava la pianura. Se le guardava troppo fisso sparivano. Ma se gettava appena uno sguardo erano là, le lontane colline del Lago Superiore. Nick sedette appoggiandosi al ceppo carbonizzato e fumò una sigaretta. Il sacco era piazzato sul ceppo, con le cinghie pronte, ed una cavità modellata dalla schiena. Nick sedeva fumando e guardando il paesaggio. Non aveva bisogno di tirar fuori la cartina. Capiva dov’era dalla posizione del fiume. Mentre con le gambe tese avanti fumava scorse una cavalletta muoversi sul terreno e cominciare ad arrampicarsi sul suo calzettone di lana. Era una cavalletta nera. Durante il cammino Nick aveva fatto saltar fuori dalla polvere della strada molte cavallette; ed erano tutte nere. Non erano le grosse cavallette con ali gialle e nere o rosse e nere che in volo si protendono fuori della corazza nera per muoversi vorticosamente. Erano cavallette comuni, ma tutte di color nero fuliggine. Nick camminando le aveva notate, con un certo stupore, ma senza pensarci molto. Ora, guardando la cavalletta nera che cercava di rosicchiare la lana del suo calzettone, comprese che diventavano nere perché vivevano nella campagna bruciata. Rifletté che l’incendio doveva esser avvenuto l’anno prima ma che le cavallette erano ancora tutte nere. Si chiese per quanto tempo sarebbero state così. Cautamente allungò la mano ed afferrò la cavalletta per le ali. La rovesciò, con tutte le zampine che si muovevano nell’aria, ed osservò l’addome segmentato. Sì, era nero anch’ esso, ma iridescente mentre il dorso e il capo erano opachi. “Vai, insetto” disse Nick parlando per la prima volta a voce alta. “Vola via in qualche posto.” Gettò in aria la cavalletta e la guardò volare fino ad un ceppo carbonizzato sull’altro lato della strada. Nick si alzò. Si appoggiò contro il peso del sacco che era in bilico sul ceppo ed infilò le braccia nelle cinghie. Fu in piedi col sacco in spalla sulla cresta della collina e guardò la campagna verso il fiume lontano, poi cominciò a scendere il fianco della collina abbandonando la strada. Su quel terreno si camminava bene. Duecento metri più giù, sul fianco della collina, si fermava la linea dell’incendio. Si camminava poi tra felci morbide, alte fino alla caviglia, e gruppi di pini, una lunga campagna ondulata con frequenti salite e discese, e terreno sabbioso; il nuovo paesaggio vivente. Nick manteneva la direzione osservando il sole. Sapeva in quale punto voleva raggiungere il fiume e continuava il cammino attraverso la pianura dei pini, salendo una montagnola per vederne altre davanti a sé e qualche volta dalla sommità di una montagnola vedere a destra o a sinistra una grande compatta isola di pini. Colse rami di felci selvatiche e li pose sotto la cinghia del sacco: lo sfregamento li schiacciò ed egli sempre camminando ne sentì il profumo. Era stanco ed aveva molto caldo, marciando attraverso l’interminabile assolata pianura dei pini. Sapeva di poter raggiungere il fiume quando voleva, voltando a sinistra. Non poteva essere più lontano di un chilometro. Ma continuò verso nord per arrivare sul fiume quanto più a monte fosse possibile con una sola giornata di marcia. Per qualche tempo Nick camminando aveva scorto una delle grandi isole di pini ergersi sopra il terreno ondulato che attraversava. Discese e quando fu lentamente salito in cima alla montagnola voltò e si diresse verso i pini. Non c’era sottobosco nell’isola dei pini. I tronchi degli alberi salivano diritti oppure inclinati l’uno verso l’altro. Erano diritti e scuri senza rami. I rami erano in alto. Alcuni s’intrecciavano formando un’ombra compatta sul terreno scuro. Intorno al gruppo dei pini c’era una zona bruna. Nick la senti soffice sotto i piedi mentre l’attraversava. Era la continuazione del tappeto d’aghi di pino, che si stendeva oltre l’ombrello dei rami. Gli alberi erano cresciuti e i rami erano saliti in alto lasciando al sole quello spazio brullo che un tempo avevano coperto con la propria ombra. Bruscamente al margine di quella striscia cominciavano le felci. Nick si sfilò il sacco e si sdraiò all’ombra. Rimase disteso supino e guardò i rami degli alberi. Il collo la schiena le reni di Nick si riposavano mentr’egli si stirava. Era piacevole la terra sotto la schiena. Guardò il cielo attraverso i rami, poi chiuse gli occhi. Li apri e guardò di nuovo in alto. C’era vento in alto tra i rami. Chiuse di nuovo gli occhi e si addormentò. Si svegliò indolenzito. Il sole era quasi tramontato. Il sacco era pesante e le cinghie gli fecero male quando lo sollevò. Si chinò col sacco in spalla, raccolse il fodero di cuoio delle canne ed usci dai pini attraversando la distesa di felci, verso il fiume. Sapeva che non poteva essere più lontano di un chilometro.
Dal fianco di una collina coperta di ceppi d’albero discese in
un prato. Al margine del prato scorreva il fiume. Nick fu
contento d’esser arrivato al fiume. Attraversò il prato
dirigendosi verso monte, i calzoni gli s’inzuppavano di rugiada
mentre camminava. Dopo la giornata calda la rugiada era venuta
presto ed abbondante. Il fiume non faceva rumore. Era troppo
veloce e tranquillo. Al margine del prato, prima di salire su un
rialzo di terreno per piantarvi la tenda, Nick guardò nel fiume
le trote che affioravano. Venivano alla superficie per gli
insetti che al calar del sole giungevano dalla palude posta
oltre il fiume. Le trote saltavano fuori dell’acqua per
afferrarli. Mentre Nick percorreva la stretta striscia di prato
lungo il fiume, alcune trote erano saltate alte fuor d’acqua.
Ora, mentre guardava il fiume, gli insetti dovevano essersi
disposti su tutta la superficie, perché in tutta l’acqua le
trote si muovevano alla conquista del Il rialzo, di sabbia e d’arbusti, sorgeva a dominare il prato, il tratto di fiume e la palude. Nick mise a terra il sacco e l’astuccio delle canne e cercò uno spazio di terreno pianeggiante. Aveva molta fame e voleva piantare la tenda prima di far da mangiare. Fra due pini il terreno era quasi sgombro. Nick prese dal sacco un’accetta e recise due radici che sporgevano. Ne risultava uno spazio di terreno abbastanza ampio per potervi dormire. Spianò con le mani il suolo sabbioso e strappò con le radici tutte le felci. Le mani avevano un buon odore di felci. Spianò il terreno dove aveva tolto le radici. Non voleva punti duri sotto le coperte. Quand’ebbe ben spianato il terreno distese le tre coperte. Ne piegò una in due, la prima sul suolo, e vi distese sopra le altre due. Con l’accetta staccò una grossa scheggia di pino da uno dei ceppi e ne fece paletti per la tenda. Li voleva lunghi e robusti perché si conficcassero bene. Slegata la tenda e stesala per terra, il sacco appoggiato a un pino sembrava molto più piccolo. Nick legò a un pino la corda che serviva da sostegno della tenda, e ne legò l’altra estremità ad un altro albero sollevando cosi la tenda dal suolo. La tenda rimase sulla corda come un lenzuolo di tela messo ad asciugare. Nick mise un palo che aveva tagliato sotto la tela e ne fece una tenda fissandone i lembi al suolo. Tirò bene la stoffa e ficcò profondamente nel terreno i paletti battendoli con la parte piatta dell’accetta finché gli anelli delle corde furono interrati e la tela tesa come un tamburo. Sull’imboccatura della tenda Nick fissò una rete per le zanzare. Strisciando passò sotto la zanzariera con diverse cose del sacco da mettere accanto al letto sotto la tela inclinata. Nell’interno della tenda la luce filtrava attraverso la tela scura. C’era un buon odore di tela. Già c’era un che di domestico e di misterioso. Muovendosi carponi sotto la tenda Nick si sentì felice. Non era mai stato infelice, durante tutta la giornata. Questo però era diverso. Ora la cosa era fatta. C’era stata questa cosa da fare ed ora era fatta. Era stata una marcia dura. Era molto stanco ma la cosa era fatta. Si era fatta la tenda. S’era piazzato. Niente poteva più toccarlo. Quello era un posto buono per piantare la tenda. Era lì, nel posto buono. Era in casa sua dove se l’era costruita. Ora aveva fame. Uscì, strisciando carponi sotto la rete. Fuori era quasi buio. C’era più luce sotto la tenda. Nick si accostò al sacco e prese, cercando con le dita, un lungo chiodo da un sacchetto di carta in fondo al sacco. Lo piantò in un pino, tenendolo con una mano e con l’altra battendo piano con l’accetta. Al chiodo appese il sacco. Aveva nel sacco tutte le sue provviste. Ora erano sollevate da terra ed al sicuro. Nick aveva fame. Gli pareva di non aver avuto mai tanta fame. Aprì nella padella una scatola di carne di maiale con fagioli ed una scatola di spaghetti. “Ho ben diritto di mangiar questa roba se me la sono portata in spalla io” disse Nick. La voce risuonò stranamente nel bosco sempre più buio. Nick non parlò più. Accese un fuoco con delle schegge di pino che con l’accetta staccò da un ceppo. Sul fuoco mise una graticola, ficcandone in terra col tacco della scarpa le quattro gambe. Sulla graticola sopra la fiamma mise la padella. Aveva sempre più fame. I fagioli e gli spaghetti si scaldarono. Nick li mescolò insieme. Cominciarono a friggere, facendo piccole bollicine che venivano faticosamente alla superficie. L’odore era buono. Nick estrasse una bottiglia di tomato catchup e tagliò quattro fette di pane. Le bollicine ora erano in numero maggiore. Nick si sedette accanto al fuoco e prese in mano la padella. Versò nel piatto di stagno metà del contenuto, che distese lentamente. Nick sapeva che era troppo caldo. Versò sopra un po’ di tomato catchup. Sapeva che i fagioli e gli spaghetti erano ancora troppo caldi. Guardò il fuoco, poi la tenda, non voleva rovinare tutto scottandosi la lingua. Per anni non aveva potuto gustare le banane fritte perché non era stato mai capace di aspettare che si raffreddassero. La sua era una lingua molto delicata. Aveva una gran fame. Sulla palude oltre il fiume, nel buio quasi, vide levarsi la foschia. Guardò di nuovo la tenda. Bene. Prese una cucchiaiata dal piatto. “Gesù, Gesù” disse. “Gesù, Gesù” disse felice. Mangiò tutto il contenuto del piatto prima di ricordarsi del pane. Finì col pane il secondo piatto, pulendolo perfettamente. Non aveva preso altro dopo una tazza di caffè e un panino al prosciutto al buffet della stazione di St-Ignace. Era stata una bella esperienza. Già altre volte aveva avuto una fame simile ma non era stato capace di saziarla. Avrebbe potuto piantare la tenda alcune ore prima, se avesse voluto. C’erano tanti bei posti dove piantar la tenda in riva al fiume. Ma questo era buono. Nick ficcò sotto la graticola due grosse schegge di pino. Il fuoco divampò. Si era dimenticato di . prendere l’acqua per il caffè. Dal sacco estrasse un secchio pieghevole di tela e s’incamminò scendendo verso il margine del prato e verso il fiume. L’altra riva era nascosta dalla foschia bianca. L’erba era umida e fresca quando egli s’inginocchiò sulla riva e immerse il secchia di tela nel fiume. Il secchio si gonfiò e la corrente lo trascinava via. L’acqua era fredda come ghiaccio. Nick sciacquò il secchie, lo portò, pieno, fino alla tenda. Via dal fiume, l’acqua non era tanto fredda. Nick estrasse un altro grosso chiodo e appese il secchio pieno d’acqua. Vi tuffò la caffettiera riempiendola a metà, mise dell’altra legna sotto la graticola e vi mise sopra la caffettiera. Non ricordava in che modo fare il caffè. Ricordava una discussione con Hopkins, ma non che posizione avesse preso. Decise di farlo bollire una volta. Si ricordò che quello era il sistema di Hopkins. C’era stato un periodo in cui discuteva con Hopkins per qualunque cosa. Mentre aspettava che il caffè bollisse aprì una scatola piccola di albicocche. Gli piaceva aprire scatole. Vuotò la scatola di albicocche in una tazza di stagno. Guardando il caffè sul fuoco, bevve lo sciroppo delle albicocche, dapprima con cura per non versarne, poi con attento studio, succhiando le albicocche. Erano meglio di albicocche fresche.
Il caffè bollì mentr’egli guardava. Il coperchio si sollevò ed
il caffè traboccò dal recipiente. Nick tolse la caffettiera
dalla graticola. Era un trionfo per Hopkins. Mise zucchero nella
tazza delle albicocche vuota e versò un po’ di caffè che si
raffreddasse. Era troppo caldo da versare e Nick si servì del
berretto per afferrare il manico della caffettiera. Non avrebbe
lasciato che si sciupasse nella caffettiera. La prima Nick bevve il caffè, caffè preparato col metodo di Hopkins. Il caffè era amaro. Nick rise. Questa poteva essere una buona fine per il racconto. La testa cominciava a funzionare, ma Nick sapeva di poterne fare a meno perché era stanco abbastanza. Versò il caffè dalla caffettiera e gettò i granelli nella fiamma. Accese una sigaretta ed entrò nella tenda. Si tolse le scarpe e i calzoni, seduto sulle coperte, arrotolò le scarpe dentro i calzoni per farsi un guanciale e s’infilò sotto le coperte. Fuori attraverso l’imboccatura della tenda osservò il bagliore del fuoco, quando il vento della notte vi soffiava sopra. Era una notte calma. La palude era silenziosa. Nick si distese comodamente sotto le coperte. Una zanzara gli ronzò vicino a un orecchio. Nick si sedette ed accese un fiammifero. La zanzara era sulla tela sopra la sua testa. La zanzara nella fiamma produsse un sibilo soddisfacente. Il fiammifero si spense. Nick si sdraiò di nuovo sotto la coperta. Si voltò sul fianco e chiuse gli occhi. Aveva sonno. Sentiva il sonno arrivare. Si rannicchiò sotto la coperta e si addormentò.
Seconda parte
Al mattino il sole era alto e la tenda incominciava a riscaldarsi. Nick strisciò sotto la rete per le zanzare tesa all’imboccatura della tenda ed uscì fuori a osservare il mattino. Uscendo sentì l’erba umida sotto le mani. Teneva in mano i calzoni e le scarpe. Il sole era appena sopra la collina. Nick vide il prato, il fiume, la palude. Vide alcune betulle nel verde della palude al di là del fiume. Il fiume era limpido e scorreva tranquillo nel primo mattino. Duecento metri più a valle c’erano tre tronchi che sbarravano da una riva all’altra il fiume. Prima dei tronchi l’acqua era profonda e senza onde. Mentre Nick guardava, un visone passò sui tronchi attraversando il fiume e scomparve nella palude. Nick era emozionato. Lo emozionavano il primo mattino e il fiume. Aveva troppa fretta per far colazione, ma capiva che sarebbe stato meglio. Fece un fuocherello e vi mise sopra la caffettiera. Mentre l’acqua si scaldava nella caffettiera, Nick prese una bottiglia vuota e scese nel prato. Il prato era umido di rugiada e Nick voleva prendere cavallette per esca prima che il sole asciugasse l’erba. Trovò molte ottime cavallette. Erano alla base degli steli d’erba, qualcuna si teneva aggrappata allo stelo. Erano fredde e bagnate, non potevano saltare prima di essere state riscaldate dal sole. Nick le raccoglieva, prendendo solo quelle scure di media grandezza, e le metteva nella bottiglia. Smosse un tronco e al riparo appena sotto il margine del legno c’erano diverse centinaia di cavallette. Era un albergo per cavallette. Nick ne mise nella bottiglia una cinquantina, scure e di media grandezza. Mentre le raccoglieva le altre si riscaldavano al sole e cominciavano a saltare. Saltando si mettevano a volare. Dopo il primo volo atterravano rigide e restavano immobili come morte. Nick sapeva che nel tempo in cui egli avrebbe finito di far colazione quelle cavallette sarebbero tornate vive come sempre. Senza rugiada nell’erba gli sarebbe stato necessario un giorno intero per riempire di cavallette una bottiglia ed avrebbe dovuto schiacciarne parecchie, prendendole a colpi di berretto. Si lavò le mani nel fiume. Lo emozionava la vicinanza dell’acqua. Poi tornò alla tenda. Le cavallette stavano già saltando nell’erba. Nella bottiglia, che il sole riscaldava, saltavano tutte insieme. Nick vi mise come turacciolo una scheggia di pino. Chiudeva abbastanza bene la bocca della bottiglia, in modo da non far scappare le cavallette ma da lasciare spazio sufficiente per il passaggio dell’aria. Aveva rimesso a posto il tronco e sapeva che avrebbe potuto trovare cavallette in quel posto ogni mattina. Nick appoggiò ad un tronco di pino la bottiglia piena di cavallette che saltavano. Rapidamente mescolò farina di grano con acqua e girò, una tazza d’acqua e una tazza di farina. Mise nella caffettiera una manciata di grani di caffè, prese da un barattolo un pezzetto di grasso e lo spalmò sulla lastra di metallo già calda. Sulla lastra versò l’impasto di farina. Si stendeva come lava, ed il grasso friggeva. Ai margini la focaccia cominciò a diventare dura, poi scura, poi a incresparsi. Bollicine venivano alla superficie. Nick infilò sotto la focaccia un rametto fresco di pino. Scosse ai due lati la lastra e la focaccia si staccò. Non cerchiamo di farla saltare, pensò Nick. Infilò sotto la focaccia il pezzo di legno pulito e la voltò. Quando fu cotta la prima, Nick ingrassò di nuovo la lastra di metallo. Usò tutta la farina impastata. Fece un’altra focaccia grossa ed una piccola. Nick mangiò una delle grosse e quella piccola spalmandole di marmellata. Mise la marmellata sulla terza focaccia, poi la piegò in due, l’involtò in carta oleosa e se la mise nella tasca della camicia. Rimise nel sacco il barattolo della marmellata e tagliò pane per due sandwich. Nel sacco trovò una grossa cipolla. La tagliò in due e pelò il primo involucro sottile. Poi afferrò una delle due metà e fece due sandwich alla cipolla. Li involtò in carta oleosa e se li mise nell’altra tasca della camicia kaki. Voltò sul fuoco la lastra di metallo, bevve il caffè, dolce e di un bruno giallastro per il latte condensato che conteneva; poi rimise in ordine il campeggio. Era un campeggio mica male. Nick prese la canna da pesca dall’ astuccio di cuoio, ne unì i pezzi e rimise l’astuccio nella tenda. Sistemò il rocchetto e fece passare il filo attraverso le guide. Doveva passarlo da una mano all’altra, mentre lo infilava, altrimenti sarebbe stato tirato indietro dal suo stesso peso. Era un filo pesante e rinforzato. Nick l’aveva pagato otto dollari molto tempo prima. Era pesante perché fosse possibile lanciarlo lontano. Nick aprì la custodia d’alluminio delle lenze. Le lenze erano arrotolate in mezzo alla flanella umida. Nick aveva bagnato la flanella sul treno a St-Ignace. Nella stoffa umida le lenze si erano ammorbidite e Nick ne svolse una e la fissò con un cappio all’estremità del filo. In fondo alla lenza fissò un amo. Era un amo piccolo; molto sottile ed acuminato. Nick lo prese dal libretto degli ami, stando seduto con la canna posata sulle gambe. Provò il nodo e la tensione della canna arrotolando strettamente il filo. Fu una sensazione piacevole. Fece attenzione a non pungersi il dito con l’amo. S’incamminò verso il fiume con la canna in mano e la bottiglia delle cavallette appesa al collo con un laccio. Alla cintola teneva appesa la rete. Sulla schiena aveva un lungo sacco da farina legato agli angoli con una corda che gli passava sopra le spalle. Il sacco gli batteva sulle gambe. Con tutto quell’equipaggiamento su di sé Nick si sentiva impacciato e professionalmente felice. La bottiglia delle cavallette gli batteva sul petto, La colazione e il libretto degli ami gli gonfiavano le tasche della camicia. Entrò nell’acqua. Fu un colpo freddo. I calzoni gli aderivano alle gambe. Sotto le scarpe sentiva la ghiaia. L’acqua era un colpo freddo, prolungato. La corrente premeva contro le gambe di Nick. Dov’era entrato, l’acqua gli arrivava alle ginocchia. Nick camminò seguendo la corrente. Sentiva la ghiaia fuggire sotto le scarpe. Guardò i mulinelli che l’acqua formava intorno a ciascuna delle sue gambe e stappò la bottiglia per prendere una cavalletta. La prima cavalletta saltò al collo della bottiglia e cadde in acqua. Fu succhiata nel mulinello presso la gamba destra di Nick e ricomparve alla superficie un po’ più a valle. Galleggiava veloce, muovendo le zampe. In un circolo improvviso che ruppe la superficie liscia dell’acqua, scomparve. Era stata presa da una trota. Un’altra cavalletta mise la testa fuori della bottiglia. Agitò le antenne. Stava mettendo fuori le zampe anteriori per spiccare il salto. Nick la prese per la testa e la tenne ferma mentre le infilava l’amo sotto il mento facendolo passare attraverso il torace e giungere fino agli ultimi segmenti dell’addome. La cavalletta afferrò l’amo con le zampe anteriori sbavando un sugo color tabacco. Nick la tuffò nell’acqua. Tenendo la canna con la destra mollò del filo alla cavalletta portata dalla corrente. Con la sinistra svolse del filo dal rocchetto e lo lasciò libero: vedeva la cavalletta sulle piccole onde della corrente. Poi sparì alla vista. Sentì uno strappo al filo. Nick tirò. Era il primo colpo. Tenendo contro corrente la canna ora viva, ritirò il filo con la mano sinistra. La canna si curvava a scatti, come la trota puntava contro corrente. Nick capiva che era una trota piccola. Sollevò diritta la canna, che si curvò per la tensione. Vide nell’acqua la trota puntare a scatti col muso e col corpo contro la mutevole tangente del filo nel fiume. Nick prese con la sinistra il filo e tirò alla superficie la trota che si dibatteva estenuata contro corrente. Aveva il dorso colore chiaro dell’acqua tra i sassi, i fianchi luccicavano al sole. Con la canna sottobraccio Nick immerse nell’acqua la mano destra. Tenne con la mano bagnata la trota che guizzava e staccò l’amo dalla bocca del pesce e lo lasciò ricadere nel fiume. La trota oscillò nella corrente, poi si fermò sul fondo dietro un sasso. Nick allungò la mano per toccarla, infilando nell’acqua il braccio fino al gomito. La trota era immobile nel fiume in movimento, se ne stava sulla ghiaia dietro un sasso. Quando le dita di Nick la toccarono, toccarono il suo senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua, la trota guizzò e scomparve, veloce come un’ombra sul fondo del fiume. Sta benone, Nick pensò. Era soltanto stanca. Si era bagnato la mano prima di toccare la trota in modo da non rovinare il muco delicato che la copriva. Se si tocca una trota con la mano asciutta, un fungo bianco attacca il punto rimasto senza protezione. Anni prima quando pescava su fiumi frequentati, con pescatori a monte e a valle di lui, a Nick era capitato moltissime volte di trovare trote morte, pelose per il fungo bianco, portate alla deriva contro una roccia oppure galleggianti col ventre in aria in qualche stagno. A Nick non piaceva pescare quando c’era altra gente sul fiume. A meno che fossero della vostra comitiva, rovinavano tutto. Camminò nel fiume, immerso nell’acqua fino alle ginocchia, traversando i cinquanta metri di acqua bassa prima della diga di tronchi che sbarrava il fiume. Non rimise l’esca sull’amo e lo tenne in mano mentre camminava. Nell’acqua bassa sapeva di poter prendere trote piccole ma non le voleva. Non potevano esserci trote grosse nell’acqua bassa a quell’ora. L’acqua divenne più alta, fredda intorno alle cosce. Davanti a lui c’era il flusso compatto dell’acqua oltre i tronchi. L’acqua era scura e senza onde; a sinistra c’era la riva bassa del prato; a destra la palude. Nick puntò i piedi contro corrente e prese una cavalletta dalla bottiglia. Infilò la cavalletta sull’amo e ci sputò sopra per scaramanzia. Poi mollò dal rocchetto parecchi metri di filo e lanciò la cavalletta nell’acqua scura e veloce. La cavalletta galleggiò verso i tronchi, poi il peso del filo tirò l’esca sott’acqua. Nick tenne nella mano destra la canna, lasciando scorrere tra le dita il filo. Sentì un lungo strappo. Nick tirò e la canna diventò viva, si piegò in due, col filo pericolosamente teso. Nick sapeva in che momento la lenza poteva spezzarsi per l’aumento della tensione e mollò filo. Col rocchetto quasi vuoto, sentendo il cuore fermo per l’emozione e puntando i piedi nell’acqua gelata che gli arrivava alle cosce, Nick cercò di fermare il rocchetto col pollice. Non era facile tenere il pollice infilato nel rocchetto.
Mentre Nick cercava di tirare, la tensione aumentò
improvvisamente e una grossa trota saltò fuori dell’acqua.
Vedendo il salto Nick abbassò l’estremità della canna. Ma sentì
mentre l’abbassava che la tensione era troppo forte. Logicamente
la lenza si rompeva. Non c’era da sbagliarsi quando il filo Con la bocca secca e il cuore in gola Nick ritirò il filo facendo girare il rocchetto. Non aveva mai visto una trota così grossa. Aveva un tal peso, una forza ed un volume tale che non si poteva frenare mentre saltava. Pareva grossa come un salmone. A Nick tremava la mano, mentre riavvolgeva lentamente il filo. L’emozione era stata troppo forte. Egli si sentì vagamente a disagio, come se avesse voglia di mettersi seduto. La lenza s’era rotta dov’era attaccato l’amo. Nick la prese in mano. Pensò alla trota chissà dove sul fondo, che si teneva giù sulla ghiaia, lontano dalla luce sotto i tronchi, con l’amo in bocca. Nick sapeva che l’amo si sarebbe piantato irrimediabilmente nel palato della trota. Ci avrebbe scommesso che la trota era infuriata. Si sarebbe infuriata qualunque cosa che fosse di quelle dimensioni. Che trota. Ancorata forte. Come uno scoglio. Uno scoglio pareva, prima che si liberasse. Per Dio, se era grossa. Per Dio, era la più grossa che avesse mai sentito. Nick si arrampicò sul prato e rimase in piedi, con l’acqua che gli scorreva dai pantaloni e dalle scarpe. Andò a sedersi sui tronchi. Non voleva affrettare le proprie sensazioni. Mosse le dita dei piedi nell’acqua dentro le scarpe ed estrasse una sigaretta dal taschino della camicia. L’accese e gettò il fiammifero nell’acqua che scorreva veloce sotto i tronchi. Una minuscola trota venne a galla per prenderlo e gli girò intorno nella corrente. Nick rise. Prima voleva finire la sigaretta. Rimase seduto sui tronchi, fumando, lasciandosi asciugare al sole, il sole caldo sulla schiena, il fiume basso prima d’infilarsi curvando tra i boschi, grandi scogli lisciati dalle acque e luccicanti al sole, cedri lungo la riva e betulle bianche, i tronchi tiepidi al sole lisci da starei seduti, senza corteccia, grigi da toccare; lentamente il senso di disillusione gli passò. Scomparve lentamente, il senso di disillusione seguito al momento d’emozione che gli aveva fatto dolere le spalle. Ora tutto era passato. La canna posata sui tronchi, Nick legò alla lenza un amo nuovo, fissandolo con un nodo molto stretto. Mise l’esca, poi prese la canna e si diresse versa l’altra estremità dei tronchi per scendere nel fiume dove l’acqua non era troppa profonda. Sotto i tronchi c’era una stagno profondo. Nick fece il giro nell’acqua bassa costeggiando la palude e ritrovandosi sul letto poco profondo del fiume. Sulla sinistra, dove finiva il prato e incominciavano i boschi, c’era un grande olmo sradicato. Caduto durante un temporale, era disteso nel bosco, con le radici piene di melma e di erba, formando una riva compatta per il fiume. Il fiume scorreva in margine all’albero sradicato. Nick dal punto dov’era scorgeva solchi fondi come carreggiate che la corrente aveva scavato nel letto del fiume. Dov’egli stava il fiume era piena di ciottoli; dove il fiume girava intorno alle radici dell’albero il letto era melmoso e tra i solchi scavati nel fondo si muovevano con la corrente ciuffi d’erba verde. Nick appoggiò sulla spalla e spinse avanti la canna, e il filo lanciato avanti depose la cavalletta su uno dei solchi profondi tra l’erba. Abboccò una trota e Nick tirò. Tenendo la canna puntata versa l’albero caduto e indietreggiando nella corrente Nick manovrò la trota tirandola fuori dal pericolo delle erbe nel fiume aperto. Tenendo la canna che si agitava come viva contro corrente Nick tirò la trota, che si dibatteva ma lentamente si avvicinava; la punta della canna s’impigliava nell’erba, ogni tanto scompariva sott’acqua, ma sempre tirava. Nick indietreggiò e tenendo la canna alta sopra il capo guidò la trota sopra la rete, poi la sollevò. La trota era pesante nella rete, aveva il dorso screziato ed i fianchi argentei tra le maglie. Nick la staccò dall’amo; fianchi grossi, facili da tener con la mano, grandi mandibole. La fece scivolare nel lungo sacco che dalle spalle gli pendeva in acqua. Nick aprì incontro alla corrente la bocca del sacco che si riempì gonfiandosi d’acqua. Lo sollevò, lasciandone la parte inferiore nel fiume, e l’acqua si versò dai fianchi. Dentro sul fondo c’era la grossa trota, viva nell’acqua. Nick si mosse verso la valle. Il sacco gli pendeva pesante dalle spalle in acqua. Cominciava a far caldo, sentiva il sole scottare sulla nuca. Nick aveva preso una trota buona. Non gl’importava di prenderne molte. Ora il fiume era ampio e poco profondo. C’erano alberi su entrambe le rive. Gli alberi della riva sinistra gettavano ombre corte nella corrente al sole di mezzogiorno. Nick sapeva che in ciascuna di quelle ombre c’erano trote. Nel pomeriggio, quando il sole sarebbe andato verso le colline, le trote sarebbero state nelle ombre fresche dell’altra parte del fiume. Le più grosse stavano distese molto vicine alla riva. Era sempre lì che si pigliavano sul Fiume Nero. Quando il sole era tramontato tutte si spostavano nella corrente. Proprio quando il sole rendeva accecante l’acqua col suo bagliore prima di tramontare, era quello il momento in cui in qualunque punto del fiume si potevano prendere trote grosse. Era quasi impossibile pescare allora, la superficie dell’acqua era accecante come uno specchio di sole. Naturalmente si poteva pescare in mezzo al fiume, ma in un fiume come il Nero, o come questo, bisognava camminare contro corrente in un punto profondo, e l’acqua vi premeva addosso. Non era divertente pescare in mezzo al fiume con una corrente tanto forte. Nick camminava sul fondo basso cercando buchi profondi presso le rive. Un faggio cresceva accanto al fiume, protendendo i rami sull’acqua. Il fiume si spingeva un pezzo sotto le foglie. Quelli erano posti dove c’erano sempre trote. Nick non aveva voglia di pescare in quel buco. Era sicuro di restare impigliato nei rami. Sembrava profondo, però. Nick lasciò cadere la cavalletta in modo che la corrente la portasse sott’acqua, sotto i rami sporgenti. Il filo si tese e Nick tirò. La trota si dibatteva violentemente, fuor d’acqua a metà tra le foglie e i rami. Il filo s’impigliò; Nick tirò forte e la trota fu libera. Nick riavvolse il filo e tenendo l’amo in mano, si mosse verso valle. Davanti a lui, presso la riva sinistra, c’era un grosso tronco. Nick vide che era cavo; la corrente vi entrava liscia, con piccole crespe soltanto ai due lati del tronco. L’acqua si faceva più profonda. La superficie del tronco cavo era grigia ed asciutta. Il tronco era quasi tutto all’ombra. Nick tolse il turacciolo alla bottiglia delle cavallette. Una cavalletta rimase afferrata al turacciolo. Nick la prese, l’infilò sull’amo, e lanciò l’amo in acqua. Tese avanti la canna in modo che la cavalletta galleggiando sulla corrente entrasse nel tronco cavo. Ci fu un forte strappo. Nick tirò in senso contrario. Sembrava che l’amo si fosse impigliato nel legno del tronco, se non ci fosse stata una sensazione di cosa vivente. Nick cercò di trascinare il pesce nella corrente, e faticosamente vi riuscì. Il filo si allentò improvvisamente e Nick credette che la trota si fosse staccata. Poi la vide, molto vicina nella corrente, scuotere il muso cercando di liberarsi dall’amo. Teneva la bocca serrata e si dibatteva attaccata alla lenza nell’acqua limpida in movimento. Tenendo il filo con la sinistra Nick girò la canna per tendere il filo e cercò di tirare verso la rete la trota, ma questa scomparve alla vista tirando a strappi il filo. Nick manovrò contro corrente, facendo in modo che la trota si portasse presso l’estremità della canna. Poi passò la canna nella mano sinistra, trascinando la trota la fece entrare nella rete. La sollevò dall’acqua, semicerchio pesante nella rete, la rete gocciolante, la staccò dall’amo e la mise nel sacco. Spiegò l’imboccatura del sacco e guardò le due grosse trote, vive néll’acqua. Camminando nell’acqua sempre più profonda, Nick si diresse verso il tronco cavo. Si tolse il sacco sfilandolo dalla testa, le trote si dibattevano uscendo dall’acqua, e lo appese in modo che le trote restassero ad una buona profondità. Poi si tirò sul tronco e si sedette, dalle scarpe e dai calzoni gli scorse l’acqua del fiume. Depose la canna, si spostò verso l’estremità in ombra del tronco, ed estrasse dalla tasca della camicia i sandwich. Bagnò i sandwich nell’acqua fredda. La corrente trascinò via le briciole. Mangiò i sandwich e riempì d’acqua il cappello per bere, l’acqua scorreva dal cappello mentr’egli beveva. Faceva freddo all’ombra, seduti sul tronco. Nick tirò fuori una sigaretta e sfregò un fiammifero per accenderlo. Il fiammifero affondò nel legno grigio, graffiandolo. Nick si chinò da un lato, cercando un punto duro ed accese il fiammifero. Rimase seduto fumando ed osservando il fiume. Più avanti il fiume si stringeva ed entrava in una palude. Il fiume diventava liscio e profondo e la palude appariva fitta di cedri, tronchi vicini e rami intrecciati. Non era possibile camminare in una palude come quella. I rami crescevano troppo in basso. Bisognava camminare quasi a fior di terra per potersi muovere. Attraverso i rami non ci si poteva far strada. Per questo forse gli animali che vivono in palude sono fatti così, Nick pensò. Avrebbe voluto aver portato qualcosa da leggere con sé. Aveva quasi voglia di leggere. Non aveva voglia di entrare nella palude. Osservò il fiume. C’era un grosso cedro che sbarrava il fiume. Oltre quello il fiume entrava nella palude. Nick non aveva voglia di entrarci. Pensava con disagio al cammino da compiere nell’acqua profonda, con l’acqua alle ascelle, per prendere trote grosse in posti dov’era impossibile portarle a terra. In palude le rive erano spoglie, i grandi cedri si univano stretti sopra il capo, il sole non batteva che a macchie; nella penombra e nell’acqua fredda e veloce la pesca avrebbe preso un tono tragico. Pescare in palude era un’avventura drammatica. Nick non ne aveva voglia. Non aveva più voglia per quel giorno di scendere in acqua. Estrasse il coltello, lo apri e lo piantò nel tronco. Poi tirò a sé il sacco, vi frugò dentro e tirò fuori una delle trote. Tenendola presso la coda, difficile da tenere, viva, in mano, la sbatté sul tronco. La trota con un fremito s’irrigidì. Nick la posò all’ombra sul banco e spezzò nello stesso modo il collo all’altro pesce. Le dispose l’una accanto all’altra sul tronco. Erano belle trote. Nick le pulì, aprendole dal ventre alla bocca. Tutte le interiora uscirono in un blocco solo. Erano due maschi; lunghe strisce grigiastre di latte, lisce e pulite. Tutte le interiora erano pulite e compatte, uscendo fuori insieme. Nick gettò i rifiuti sulla riva dove li avrebbero trovati i visoni. Lavò le trote nel fiume. Mentre le teneva nell’acqua sembravano pesci vivi. Il loro colore non era ancora scomparso. Nick si lavò le mani e le asciugò sul tronco. Poi posò le trote sul sacco disteso sul tronco, ve le involtò, legò il rotolo e lo mise nella rete. Il coltello era ancora con la lama piantata nel tronco. Nick lo pulì sul legno e se lo mise in tasca. Si alzò in piedi sul tronco, tenendo in mano la canna e la rete pesante alla cintola, poi entrò nell’acqua e venne a riva. Tagliando attraverso i boschi si diresse verso la montagnola. Tornava alla sua tenda. Si voltò a guardare. Il fiume si scorgeva appena tra gli alberi. C’erano ancora tanti di quei giorni per pescare in palude. |
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Ernest Hemingway
Ernest Hemingway nacque a Oak Park, Illinois, nel 1898.
Nel 1917 si arruolò volontario sul fronte italiano e nel 1920 si stabilì a Chicago. Al primo libro, Tre racconti e dieci poesie, del 1923, ne seguirono altri finché, trasferitosi a Parigi, nel 1926 pubblicava Fiesta, che gli diede subito vasta fama, nel 1929 Addio alle armi e nel 1932 Morte nel pomeriggio.
Nel 1936 partecipò alla guerra civile spagnola, concludendo poi il decennio più produttivo della sua carriera letteraria con I quarantanove racconti, del 1939, e Per chi suona la campana, del 1940.
Dopo la seconda guerra mondiale si stabilì a Cuba, dove scrisse Il vecchio e il mare, per il quale gli fu assegnato nel 1953 il premio Pulitzer, seguito l’anno dopo dal Nobel per la letteratura.
Si suicidò a Cuba il 2 luglio 1961.
(Dalla seconda di copertina dell’Oscar Mondadori n°64, 12 luglio 1966). |
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