Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La televisione danneggia fisicamente il cervello? Forse sì...
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L’abuso di tv come possibile concausa di lesioni cerebrali e demenza
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Noi
umani, comunicando, diversamente dagli altri animali non ci limitiamo a scambiarci
informazioni. Come, per esempio: C’è un predatore! O anche: Voglio
copulare con te in questo momento! Oppure: Se fai un altro passo
in questa direzione, invadi il mio territorio e mi costringi a reagire!
I nostri messaggi, verbali o non verbali che siano, quasi sempre esprimono e propongono anche delle
fantasie, che ai destinatari chiediamo di confermare (o
smentire) e realizzare (o demolire) insieme a noi. Immagini del mondo che ci aspettiamo siano avvalorate (o contraddette)
dal consenso (o dal rifiuto) altrui.
In
questo senso, quel che diciamo (o mostriamo) è sempre vero.
Anche nella più efferata delle menzogne, ingannevole è
solo la “scorza” brutalmente informativa, ma la “polpa” è una
poderosa e tendenzialmente irresistibile profferta di verità. Sono
dalla parte tua, dice il bacio di Giuda al Cristo in uno dei passi più
avvincenti del mito evangelico. È una menzogna, come tutti sanno, perché
il tredicesimo apostolo in realtà si appresta a tradire. Ma falsa è
appunto solo l’informazione
― potremmo definirla la parte non esclusivamente umana del
messaggio, se è vero che anche gli altri animali sono in grado di scambiarsi
informazioni ― poiché il contenuto fantastico, l’immagine,
l’idea (esclusivamente umani) che la comunicazione trasmette sono invece
la proposta all’interlocutore di una verità: Sappi, dice a Gesù il bacio di Giuda, che
la sola immagine vera del mondo è quella che lo rappresenta
come un
luogo in cui io sono dalla tua parte.
Il
bacio di Giuda, in senso stretto, non è un
atto. Lo sarebbe se fosse un bacio d’amore, ma non lo è. È
“solo”
un messaggio. E un messaggio (verbale o non verbale) è
sempre un discorso. È sempre, cioè, la proposta, l’offerta (o
la richiesta) di una verità.
Fa
eccezione (parziale) il discorso poetico, il racconto, l’opera
d’arte, che propongono una verità fantastica che tanto il
mittente quanto il destinatario conoscono e ammettono come artificiale e
provvisoria. Ma anche l’opera d’arte, a ben guardare, all’interno
dell’involucro d’invenzione contiene un nocciolo (una profferta) di
verità: la visione del mondo che l’opera comunica. Anche il discorso poetico,
cioè, come ogni altro, vuole indurci a credere qualcosa. Con la differenza,
però, che al tempo stesso ci concede il sollievo di saperlo finto.
È
questa l’ambiguità che fa di un messaggio, verbale o non verbale,
un’opera d’arte: il suo non essere univoco senza tuttavia essere
contraddittorio e incoerente; il non tentare, o non permettersi, di prescrivere al
fruitore una verità; l’imitare
― solo in questo, ma non è affatto poco! ― la cosiddetta vita
reale, che per
noi umani è sempre da interpretare. Cosa che i
messaggi non artistici non sono mai, neanche per un attimo.
In
questo senso, la più splendida (in quanto la più ambigua, la più
interpretabile) delle arti è la musica; ma la più difficile da
produrre (e perciò la più alta) è la letteratura.
C’è
dunque una fondamentale differenza tra la vita e l’arte, da un lato, e
dall’altro i messaggi, i discorsi, le lezioni, le informazioni che ci
scambiamo. La vita e l’arte ci
impongono di
interpretarle, di comprenderle, di attribuire loro sensi e significati
che non possono (la vita) o non vogliono (l’arte)
rendere inequivocabili.
Un messaggio non artistico, invece, ci offre un significato estremamente
preciso, per niente ambiguo, proposto e imposto come l’unica
vera immagine della realtà che descrive, la sola possibile,
definitiva, immodificabile. La vita e l’arte
ci lasciano liberi, così liberi che talora ci accade di
sentire dolorosamente il peso della difficoltà di comprendere e
decidere. I discorsi, invece ― chiameremo così,
d’ora in poi, ogni atto umano comunicativo non artistico ―
a partire dal momento in cui li crediamo veri, ci tolgono la
libertà di pensarla altrimenti.
“Che
quelli che chiami discorsi siano diversi dall’arte
mi sta bene, lo accetto” potrebbe obiettare qualcuno,
“ma com’è possibile che non siano vita? Quando comunichiamo,
allora, non saremmo vivi?!”
Ottima
domanda. Ma poiché una risposta esaustiva sarebbe un
discorso troppo lungo, ci limiteremo a dire, sperando di soddisfare l’interlocutore, che sì, anche i discorsi sono vita
in quanto fatti, azioni, espressioni di sentimenti e suscitatori di emozioni; ma come “veicoli” di verità
che possiamo solo accettare o respingere invece no,
non sono vita: sono morte, anzi, poiché tendono a bloccare, a
paralizzare la vita del pensiero. La vita della mente.
“Ma
siamo noi che chiediamo messaggi di questo genere!” esclama
l’implacabile obiettore. “Chiediamo al passante che ore siano o dove
si trovi una certa via, domandiamo al professore di matematica di
spiegarci il teorema di Pitagora, al biologo di descriverci il
funzionamento dei nostri corpi... Se lo facciamo, è perché ne abbiamo
bisogno. È perché, per
esempio, non sopportiamo la “libertà” di ignorare che ora
sia (o magari di non sapere se Giuda ci sia amico o nemico) e
vogliamo
che qualcuno ce la tolga!”
Non
c’è dubbio. Vi sono cose (e sono numerose!) che dobbiamo
sapere, e se non siamo in grado di scoprirle da soli, le domandiamo ad
altri (pratica che può offrire piacevoli opportunità a degli esseri naturalmente
sociali quali noi siamo). Anche gli altri animali, del resto, si
scambiano informazioni rigorosamente vere perché ne hanno bisogno. E
come avrebbero potuto evitare di estinguersi, i nostri progenitori, se
non fossero stati capaci di dirsi, per esempio, che il cibo era a un
chilometro a est o che a un chilometro a ovest c’erano invece venti
leoni e leonesse in sonnacchioso agguato? E se non avessero potuto
creder vere queste informazioni e si fossero invece dovuti soffermare,
incerti e indecisi, a cercare di interpretarle? Se ogni essere umano
avesse dovuto ricominciare e ripercorrere tutto da solo il cammino della
conoscenza?... Ma la questione non è se abbiamo o non abbiamo
bisogno di fare e ascoltare discorsi non ambigui,
poiché non c’è dubbio: ne
abbiamo un bisogno immenso. Il problema è quanto
a lungo siamo in grado di sopportarli. Poiché i discorsi, imponendo
verità, intralciano il pensiero creativo. Paralizzano la mente.
Frenano, trattengono, bloccano il cervello. Sono
contro la nostra natura.
“Eppure
un discorso, anche solo informativo, può sempre ispirarci qualche bella
idea originale, nostra, nuova anche rispetto a esso.”
Verissimo.
Ma solo dopo che si è concluso. Quando ce ne separiamo. Quando
riprendiamo la nostra libertà. Finché dura, no.
Gli
esseri umani sono, in effetti, alla ricerca di verità. E
per tutta la
vita, dalla nascita fino alla morte. Ma, proprio per questo, mentalmente
non possono tollerare a lungo, senza frequenti soluzioni di
continuità, che tale ricerca gli sia impedita (e la fantasia e il pensiero
bloccati) perché la verità si sta dando e non può essere
interpretata né modificata finché non smette di darsi.
Continuare
ad ascoltare un discorso (nel senso, da noi attribuito a questo
termine, di atto comunicativo, scevro di qualsivoglia ambiguità, che si propone come
vero) che si protrae
oltre un certo limite, lo sanno tutti, è una fatica durissima. Tanto più
ardua quanto meno il discorso è comprensibile, poiché in tal caso
vengono a mancare anche quei minimi appigli (quelle minime ambiguità) che nessuna
comunicazione umana riesce a impedirsi di fornire alla fantasia dei
destinatari. Rimane solo la struttura del discorso, quando non lo
si comprende; e la struttura discorsiva ― percepibile nel tono
della voce (o nel “disegno” delle immagini) e nel comporsi dei suoni in parole, in frasi, in periodi ― che altro
è se non la forma stessa del discorso in quanto propositore di
verità, cioè quel che vi è in esso di più definitivo e immodificabile?
La
mente umana, a differenza di quelle degli altri animali, è una
fonte perenne d’incertezza; e nell’incertezza ― immenso o
minuscolo che ne sia l’oggetto ― non può che andar sempre in
cerca di verità, che dall’incertezza la tolgano. Ma le verità, quando
sembra d’averle trovate ― nell’immediatezza e urgenza di
quel che accade, o nella quiete delle nostre riflessioni, o
nell’empito trionfante di un momento creativo ― sùbito si
trasformano in nuove incertezze, sùbito si fanno, a loro volta,
produttrici
d’incertezze. Ed è proprio questa la nostra condizione, in quanto
animali umani: le certezze non sono impossibili, anche per noi ―
sono anzi continue, poiché sicure sono e appaiono le percezioni
sensibili, e anche le intuizioni creative sono spesso così perspicue da
rendere durevolmente più valido ed
efficace il rapporto con la realtà ― e tuttavia sono sempre effimere,
provvisorie, più o meno relative. La mente non può
esimersi dal tornare di continuo a incrinarle, a cercarvi e immaginarvi sempre nuovi e più vasti, più complessi misteri, sempre nuove
e più convincenti soluzioni; ed è proprio questo
fenomeno, ciò che chiamiamo la creatività di cui solo noi siamo
dotati.
Non
è affatto una condizione facile ― e non sembrerebbe
neanche troppo favorevole alla sopravvivenza, dell’individuo come
della specie ― poiché il continuo riprodursi d’incertezza sul
significato e le implicazioni di quel che esiste e accade inficia più o
meno gravemente l’affidabilità dei nostri sensi, materialmente così
precisi. Ma è la condizione fisiologica della mente umana, la sola
condizione che permetta al nostro cervello di produrne una e di farla funzionare.
E il discorso, pertanto ― quale che sia il medium di cui si
serve ― proponendosi (e per ciò stesso imponendosi) come pensiero
vero, univoco, a cui sottomettersi così
com’è, non può non interferire pesantemente con essa e bloccarla per
tutto il tempo che l’imposizione dura.
Non
vi
è che un modo per vivere la condizione umana senza danneggiare il
cervello, ed è quello di non contrastarne la continua ricerca sul
mondo, sulle menti prodotte dagli altri cervelli e sulla propria. È
questo che il cervello umano è fatto per fare, ed è solo nel farlo che
esso può dar vita alla mente e agirla in maniera ottimale.
Frenare o addirittura paralizzare la creatività che ci contraddistingue
imponendo alla mente verità immodificabili è per il cervello ciò che
l’immobilità forzata è per il corpo: in entrambi i casi, se
l’impossibilità di funzionare liberamente si prolunga oltre un certo
limite, il risultato è l’atrofia.
“E
il riposo? Non hanno forse bisogno di riposo, tanto la mente quanto il
corpo?” esclama il severo obiettore che ben conosciamo, friggendo
d’impazienza per la forzata immobilità mentale a cui lo costringe il
protrarsi di questo nostro discorso senza soluzioni di continuità.
Certo! Ma l’immobilità, quando è forzata
― del corpo o della mente che sia ― non è mai riposo. Il riposo
della mente è il sonno. Anche perché, nel caso della mente, la
presunta
“immobilità”
che le impongono i discorsi in quanto veri è piuttosto una sorta di “moto
forzato”,
rimuginante e ossessivo, tra le ganasce di concetti e proposizioni che
non le è concesso di alterare finché non s’interrompono.
E
tuttavia non sono pochi quelli che dall’incertezza, che di per sé è
creativa, cadono piano piano in un
groviglio così inestricabile e sinistro di dubbi e di angosce (per il disprezzo,
l’abbandono, l’ignoranza
a cui furono consegnati fin dalla nascita) che la sottomissione
della mente a una fede o a un’ideologia ― che le prescriva per
filo e per segno il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il pensabile e
l’impensabile ― finisce con l’apparirgli,
paradossalmente, come il solo modo per liberarla. Ignorando che
così si condannano, invece ― la sottomissione altro non essendo
che un impedimento (più o meno saldo) opposto all’immaginazione e al
pensiero ― a un più o meno grave e rapido istupidimento.
Senza riuscire, però, neanche spingendo il controllo religioso o ideologico sulla
mente fino alla santità e alla follia,
a domare davvero l’incertezza, poiché essa, in quanto
condizione di funzionamento della mente, domata non può essere e
di continuo risorge, invincibile e “peccaminosa”, a ogni sia pur
momentanea sospensione delle giaculatorie.
Anche
chi tenta di sottomettersi una volta per sempre a “verità” precostituite e inviolabili,
cioè, con grande difficoltà e solo a tratti riesce a tenere la
mente sotto l’effetto continuo del discorso che le fa la fede,
o l’ideologia, o la moda più o meno culturale, o la
struttura dei rapporti interumani istituzionalizzati, alle quali egli si è consegnato. Al contrario: per la maggior parte del tempo, in lui,
quelle “verità” devono combattere perfino per essere ascoltate, perché l’incertezza ― che della mente umana,
ribadiamolo, è la libertà ― attimo per attimo
risorge e attimo per attimo torna a sottrarlo all’oppressione del dover
credere costringendolo sempre daccapo a ricominciare la fatica di Sisifo
di rendersi schiavo.
È
la lotta continua contro le “tentazioni”
― e il demonio che le produce ― a cui i mistici
medioevali non riuscivano a sottrarsi neanche nel deserto, nemmeno in
una grotta sospesa tra il cielo e il più orrido dei baratri. Ignorando
che la difficoltà di credere ― tanto più aspra quanto più
si delira di dover credere ininterrottamente ― è invece natura
e vita delle nostre menti, e che i “demoni” siamo noi stessi:
mostruosi, talvolta ― la minoranza che davvero lo sono ―
solo per aver troppo a lungo subìto (e accettato) il
disprezzo e la diffidenza che prima umiliano e torturano la mente umana, e
poi si convincono, odiando ciò che han fatto di essa, di dover metterla
sotto controllo per il suo bene.
È
per sfuggire all’incertezza che ci chiudiamo in
città ed edifici squadrati e ordinati riempiendoli di nostre
creazioni trasformate in prodotti in serie industriali il cui nome, aspetto e
funzione siano per noi del tutto certi, veri,
fermi e ferrei come comandamenti divini. Ed è per sfuggire a
quell’ordine, che fa male al cervello, che da quelle stesse case, e da
tutte le istituzioni che rendono immodificabili i nostri rapporti,
cerchiamo poi spesso di evadere per attingere dove che sia un po’ di
quell’incertezza che prima ci tormentava, e che poi ci appare invece tanto più autentica delle “certezze” della “verità”.
Chi
è in grado, dunque,
di
tenere un cervello umano (il proprio o l’altrui) impegnato senza
soluzione di continuità in un discorso e/o in un ordine rigorosamente
univoci
― privi cioè di qualsiasi ambiguità, di qualsiasi incertezza
― lo danneggia tanto più gravemente quanto più a lungo riesce a
mantenerlo in tale condizione. E lo danneggia fisicamente ―
vogliamo sottolinearlo ― proprio in quanto cervello, in
quanto organo del corpo, non in quanto mente da esso prodotta. Poiché
la mente ― astrattamente intesa come un sistema più o meno
strutturato di relazioni tra rappresentazioni e sistemi di
rappresentazioni inconsce e coscienti ― può essere danneggiata solo
da immagini o idee che confondano e sconvolgano il suo rapporto con
la realtà e con sé stessa. Mentre ciò di cui ci stiamo occupando non
sono i contenuti che la mente assimila o crea, ma la
resistenza che i non ambigui fra essi (i contenuti formati e
trasmessi come veri) oppongono al funzionamento del cervello
impedendogli di renderli incerti.
Non
era e non è impossibile, naturalmente, che ciò che si vede e ascolta in televisione sia arte con la stessa frequenza (quale
che sia) di ciò che si vede e ascolta al cinema, o a un concerto, o
a una lettura poetica. Ma la storia dei media non è andata in
questa direzione. Finanziata dagli Stati e da un canone, la
televisione avrebbe potuto evitare di rendersi schiava del potere
economico; protetta dalle leggi ― e da magistrati indipendenti che
ne garantissero il rispetto ― avrebbe potuto resistere alle
pressioni del potere religioso, culturale e politico. Se così
fosse stato, anzi, la televisione godrebbe oggi di una libertà creativa
che le arti non hanno quasi mai potuto neanche sognare. Ma così non è
stato, e anche nei paesi dove all’inizio si tentò di assicurarne
l’indipendenza, a poco a poco finì poi col prevalere la (trasversale)
legione di quanti premevano per fare della produzione televisiva ―
sul modello americano, la cui importazione qui da noi dobbiamo
soprattutto a Mike Bongiorno e al padre di Walter Veltroni ― un’impresa
come le altre, soggetta solo alle leggi del mercato. Tranne che in Italia, dove la soggezione della Rai, vero monstrum
(come molte delle nostre cose) è addirittura duplice:
al Dio della religione e della politica, oltre che al Mammona del mercato.
In
queste condizioni, il flusso televisivo si fa discorso allo stato
puro, senza più pause, senza più incertezze né ambiguità anche
minime, monocorde e ripetitivo come il movimento delle lancette intorno
al quadrante di un orologio. Ma capace, a differenza di quest’ultimo,
di imprigionare l’attività cerebrale in un’attenzione ininterrotta
ed esclusiva.
Discorso,
naturalmente, è tutta l’informazione televisiva, anche quella più o meno
scientifica e “culturale”, poiché pretende di descrivere gli stati
delle cose esattamente come sono e di riferire i fatti proprio come si
sono svolti. Discorso è tutto ciò che viene trasmesso in
diretta, perché fa del telespettatore un testimone oculare degli eventi nel momento e nel luogo in cui si
verificano ma costringendolo entro il punto di vista univoco e
immodificabile di chi effettua e commenta le riprese. Discorso è la pubblicità, che pretende di
rappresentare la realtà delle merci (e della vita umana in quanto
consumatrice di merci) né più né meno come le merci sono e come la vita
dev’essere per esser degna di chiamarsi tale. E discorso
diventano così anche i film e la cosiddetta fiction, che
talvolta sarebbero invece arte, perché irregimentati e continuamente
“ricondotti alla realtà” dalle interruzioni pubblicitarie.
(Chi
o ciò che interrompe,
infatti ― in televisione come in ogni altro ambito ―
è chi o ciò che è, o pretende di essere, più urgente e più
importante di chi o ciò che viene interrotto. E il cinema, in
televisione, è interrotto sempre, poiché il logo dell’emittente
interrompe l’immagine dalla prima all’ultima
inquadratura, insieme a sovraimpressioni d’ogni sorta, e gli
spot interrompono del tutto la visione a intervalli regolari. Cosicché il telespettatore è continuamente richiamato
dall’ambiguità
e incertezza
dell’arte cinematografica ― dal mondo della fantasia
sulla realtà ―
all’univocità
delle informazioni che le interruzioni gli impongono: al mondo della
rappresentazione brutalmente razionale della realtà.
Dall’infinito del libero immaginario
al finito
del preteso vero, inequivocabile, indiscutibile. Poiché, appunto,
ciò che interrompe la visione non è davvero la realtà, ma
solo un discorso su la realtà. Un discorso che interrompe tutto, e non s’interrompe mai.
Differiscono,
tuttavia, i punti di vista delle diverse reti, dei singoli autori e
conduttori televisivi? Certo. Ma ciò che non cambia, ciò che
è sempre identico, è che la televisione in quanto tale ― quali
che siano i punti di vista, il carattere e perfino il valore di chi la
fa ― non è vita (“vita”, cioè realtà, sono l’apparecchio, l’oggetto, i suoni e la luce che diffonde, e la
tecnologia che in tutto ciò si esprime) e non è nemmeno
rappresentazione artistica della vita: è discorso su la
vita, e in quanto discorso costringe il cervello a un’immobilità che
è per esso tanto più dannosa quanto più il discorso si prolunga.
“Ma
siccome lo sanno tutti,” obietta il nostro infaticabile avversario,
“siccome lo sanno tutti che il flusso televisivo non è rappresentazione vera
della realtà ma bensì mero spettacolo e finzione, ecco che nessuno,
sapendolo, lo percepisce come discorso, come lezione, come predica, come
ininterrotto, stressante susseguirsi
di informazioni scevre di ambiguità. E il cervello, quindi, non subisce
da esso alcun danno!”
Invece è un
sapere di cui non tutti dispongono, perché non
è facile rendersi conto che ciò che accade sotto i nostri occhi, ciò
che vediamo in diretta, non è affatto meno immaginario, meno
“costruito” ― non è affatto più vero ― di ciò che
vediamo in un film o in un dipinto. Ma quand’anche ne fossero tutti
persuasi, non per questo il flusso televisivo cesserebbe di essere per
tutti un discorso.
Poiché ciò che rende discorso (lezione, predica, informazione)
una comunicazione non è il fatto di esser percepita e creduta
vera, ma il puro e semplice suo esser costruita come tale. È
com’è fatta che la rende discorso anziché arte,
non com’è guardata e ascoltata. Proprio come
le mura di una galera non sono meno robuste e oppressive, per chi sa di
esservi rinchiuso ingiustamente, di quanto lo sono per chi è
colpevole.
“Ma
come mai, allora,” ribatte il nostro sempre vigile critico, “una
lezione o una predica divengono presto insopportabili, quando si
protraggono ― questo sono disposto a concederlo ―
mentre il flusso
televisivo può invece essere percepito come gradevole, o addirittura
come un indispensabile apportatore di benessere, per un tempo
virtualmente illimitato?”
La
contraddizione è apparente. Quel che esce dal teleschermo non
è affatto gradevole, mai, poiché è fatto e s’impone come lezione e predica
eterne, come discorso vero che non finisce mai di dirsi e mai lascia
vivere. Ma al contempo gode del privilegio ― di cui neanche il più
possente dei retori o il più esaltato dei visionari avevano mai fruito prima d’ora
― di poter simulare il fluire della vita
per mezzo di quello delle immagini, dei colori, dei suoni, della “diretta” e
domani di chissà quali altri effetti speciali sempre più
perfezionati. E di simularlo così bene ―
vivacizzando e velocizzando il continuum percettivo fino a
conferirgli un’assertività e un’urgenza che il reale possiede solo
di rado ― da farlo sembrare più significativo, più vitale, più
vero della vita vera! Causando in tal modo il fenomeno grottesco,
che tutti hanno potuto una volta o l’altra osservare negli altri e in
sé stessi, per cui un televisore acceso, a casa o in un locale, riesce con impressionante facilità a distrarre perfino i
genitori dai figli e l’innamorato dall’amata.
Tenere la televisione sempre accesa, guardarla e ascoltarla ― o anche solo percepirla in sottofondo ― senza soluzione di continuità, diviene allora non solo gradevole ma necessario per chi altrimenti, non avendo più un rosario né un mantra da ripetere ossessivamente, vivrebbe il proprio aggirarsi per la casa o per la città, condiviso o meno che sia da altri esseri umani, come un vano e spossante deambulare in un vuoto affettivo, fantastico e intellettuale pressoché assoluto. Per chi, in casa, è della casa una sorta di fantasma, di morto vivente ― poiché non c’è più amore né lavoro, rapporti né impegni, o perché quelli che ci sono li ha ormai così annullati che gli sembrano finti ― e invece il discorso continuo che fuoriesce dal televisore lo fa sentire vivo e legato alla vita imponendogli un’attenzione che l’apparente varietà, l’accelerazione e l’urgenza fan sembrare vivace come una giostra; un’attenzione che invece è tanto poco un rapporto reale da poter anche essere per la maggior parte del tempo del tutto inconscia, pura forma discorsiva senza contenuto; ma che nondimeno ― in quanto attenzione a un discorso che si vuol vero e come vero è costruito, inequivoco e apodittico come un dogma ― conscia o inconscia costringe il cervello umano a un ininterrotto e ineludibile prestar fede che è contrario alla sua natura, e che perciò tanto più lo danneggia, fisicamente, quanto più si protrae.
Se le cose stessero davvero così ― e non sembra proprio che possano stare altrimenti ― un televisore acceso sarebbe molto più pericoloso di una o un milione di sigarette accese, poiché il danno che queste possono infliggere ai nostri cuori e polmoni è solo probabile (quantunque assai probabile) mentre le lesioni che un cervello umano subirebbe dall’ininterrotta e protratta esposizione a un discorso rigorosamente univoco appaiono invece del tutto certe, inevitabili né più né meno quanto lo sarebbero le avarie di un qualsiasi ingranaggio costretto a girare a vuoto da un impedimento irremovibile. E dimostrarlo non dovrebbe essere difficile: basterà tenere sotto osservazione due gruppi abbastanza numerosi di volontari ― composti, l’uno da telespettatori indefessi, l’altro da uomini e donne adulti astinenti da tutti i media, compresi i quotidiani ― e verificare, a distanza di venti o trent’anni, in quanti di essi abbiano cominciato a manifestarsi i sintomi di una demenza senile. Dopo di che, class action miliardarie contro le emittenti televisive private e pubbliche potrebbero essere intentate in tutte le nazioni la cui legislazione le permette, e le emittenti stesse sarebbero costrette dalla legge a rinunciare agli introiti pubblicitari e a programmare solo ed esclusivamente film e sceneggiati di riconosciuto valore artistico.
Ma fin da ora, per precauzione, non sarebbe male se fossero obbligate a far precedere ogni trasmissione dall’avviso: Attento! La visione o anche solo l’ascolto in sottofondo di questo programma lede il tuo cervello tanto più gravemente quanto più a lungo e ininterrottamente si protrae!
(Roma e Anticoli Corrado, 9 settembre 2007 - 9 febbraio 2008)
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