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La televisione danneggia

fisicamente il cervello? Forse sì...

 

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L’abuso di televisione danneggia fisicamente il cervello? Forse sì...

L’abuso di tv come possibile concausa di lesioni cerebrali e demenza

 

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Noi umani, comunicando, diversamente dagli altri animali non ci limitiamo a scambiarci informazioni. Come, per esempio: C’è un predatore! O anche: Voglio copulare con te in questo momento! Oppure: Se fai un altro passo in questa direzione, invadi il mio territorio e mi costringi a reagire! I nostri messaggi, verbali o non verbali che siano, quasi sempre esprimono e propongono anche delle fantasie, che ai destinatari chiediamo di confermare (o smentire) e realizzare (o demolire) insieme a noi. Immagini del mondo che ci aspettiamo siano avvalorate (o contraddette) dal consenso (o dal rifiuto) altrui.

 

In questo senso, quel che diciamo (o mostriamo) è sempre vero. Anche nella più efferata delle menzogne, ingannevole è solo la “scorza” brutalmente informativa, ma la “polpa” è una poderosa e tendenzialmente irresistibile profferta di verità. Sono dalla parte tua, dice il bacio di Giuda al Cristo in uno dei passi più avvincenti del mito evangelico. È una menzogna, come tutti sanno, perché il tredicesimo apostolo in realtà si appresta a tradire. Ma falsa è appunto solo l’informazione ― potremmo definirla la parte non esclusivamente umana del messaggio, se è vero che anche gli altri animali sono in grado di scambiarsi informazioni ― poiché il contenuto fantastico, l’immagine, l’idea (esclusivamente umani) che la comunicazione trasmette sono invece la proposta all’interlocutore di una verità: Sappi, dice a Gesù il bacio di Giuda, che la sola immagine vera del mondo è quella che lo rappresenta come un luogo in cui io sono dalla tua parte.

 

Il bacio di Giuda, in senso stretto, non è un atto. Lo sarebbe se fosse un bacio d’amore, ma non lo è. È “solo” un messaggio. E un messaggio (verbale o non verbale) è sempre un discorso. È sempre, cioè, la proposta, l’offerta (o la richiesta) di una verità.

 

Fa eccezione (parziale) il discorso poetico, il racconto, l’opera d’arte, che propongono una verità fantastica che tanto il mittente quanto il destinatario conoscono e ammettono come artificiale e provvisoria. Ma anche l’opera d’arte, a ben guardare, all’interno dell’involucro d’invenzione contiene un nocciolo (una profferta) di verità: la visione del mondo che l’opera comunica. Anche il discorso poetico, cioè, come ogni altro, vuole indurci a credere qualcosa. Con la differenza, però, che al tempo stesso ci concede il sollievo di saperlo finto.

 

È questa l’ambiguità che fa di un messaggio, verbale o non verbale, un’opera d’arte: il suo non essere univoco senza tuttavia essere contraddittorio e incoerente; il non tentare, o non permettersi, di prescrivere al fruitore una verità; l’imitare ― solo in questo, ma non è affatto poco! ― la cosiddetta vita reale, che per noi umani è sempre da interpretare. Cosa che i messaggi non artistici non sono mai, neanche per un attimo.

 

In questo senso, la più splendida (in quanto la più ambigua, la più interpretabile) delle arti è la musica; ma la più difficile da produrre (e perciò la più alta) è la letteratura.

 

C’è dunque una fondamentale differenza tra la vita e l’arte, da un lato, e dall’altro i messaggi, i discorsi, le lezioni, le informazioni che ci scambiamo. La vita e l’arte ci impongono di interpretarle, di comprenderle, di attribuire loro sensi e significati che non possono (la vita) o non vogliono (l’arte) rendere inequivocabili. Un messaggio non artistico, invece, ci offre un significato estremamente preciso, per niente ambiguo, proposto e imposto come l’unica vera immagine della realtà che descrive, la sola possibile, definitiva, immodificabile. La vita e l’arte ci lasciano liberi, così liberi che talora ci accade di sentire dolorosamente il peso della difficoltà di comprendere e decidere. I discorsi, invece ― chiameremo così, d’ora in poi, ogni atto umano comunicativo non artistico ― a partire dal momento in cui li crediamo veri, ci tolgono la libertà di pensarla altrimenti.

 

“Che quelli che chiami discorsi siano diversi dall’arte mi sta bene, lo accetto” potrebbe obiettare qualcuno, “ma com’è possibile che non siano vita? Quando comunichiamo, allora, non saremmo vivi?!”

 

Ottima domanda. Ma poiché una risposta esaustiva sarebbe un discorso troppo lungo, ci limiteremo a dire, sperando di soddisfare l’interlocutore, che sì, anche i discorsi sono vita in quanto fatti, azioni, espressioni di sentimenti e suscitatori di emozioni; ma come “veicoli” di verità che possiamo solo accettare o respingere invece no, non sono vita: sono morte, anzi, poiché tendono a bloccare, a paralizzare la vita del pensiero. La vita della mente.

 

“Ma siamo noi che chiediamo messaggi di questo genere!” esclama l’implacabile obiettore. “Chiediamo al passante che ore siano o dove si trovi una certa via, domandiamo al professore di matematica di spiegarci il teorema di Pitagora, al biologo di descriverci il funzionamento dei nostri corpi... Se lo facciamo, è perché ne abbiamo bisogno. È perché, per esempio, non sopportiamo la “libertà” di ignorare che ora sia (o magari di non sapere se Giuda ci sia amico o nemico) e vogliamo che qualcuno ce la tolga!”

 

Non c’è dubbio. Vi sono cose (e sono numerose!) che dobbiamo sapere, e se non siamo in grado di scoprirle da soli, le domandiamo ad altri (pratica che può offrire piacevoli opportunità a degli esseri naturalmente sociali quali noi siamo). Anche gli altri animali, del resto, si scambiano informazioni rigorosamente vere perché ne hanno bisogno. E come avrebbero potuto evitare di estinguersi, i nostri progenitori, se non fossero stati capaci di dirsi, per esempio, che il cibo era a un chilometro a est o che a un chilometro a ovest c’erano invece venti leoni e leonesse in sonnacchioso agguato? E se non avessero potuto creder vere queste informazioni e si fossero invece dovuti soffermare, incerti e indecisi, a cercare di interpretarle? Se ogni essere umano avesse dovuto ricominciare e ripercorrere tutto da solo il cammino della conoscenza?... Ma la questione non è se abbiamo o non abbiamo bisogno di fare e ascoltare discorsi non ambigui, poiché non c’è dubbio: ne abbiamo un bisogno immenso. Il problema è quanto a lungo siamo in grado di sopportarli. Poiché i discorsi, imponendo verità, intralciano il pensiero creativo. Paralizzano la mente. Frenano, trattengono, bloccano il cervello. Sono contro la nostra natura.

 

“Eppure un discorso, anche solo informativo, può sempre ispirarci qualche bella idea originale, nostra, nuova anche rispetto a esso.”

 

Verissimo. Ma solo dopo che si è concluso. Quando ce ne separiamo. Quando riprendiamo la nostra libertà. Finché dura, no.

 

Gli esseri umani sono, in effetti, alla ricerca di verità. E per tutta la vita, dalla nascita fino alla morte. Ma, proprio per questo, mentalmente non possono tollerare a lungo, senza frequenti soluzioni di continuità, che tale ricerca gli sia impedita (e la fantasia e il pensiero bloccati) perché la verità si sta dando e non può essere interpretata né modificata finché non smette di darsi.

 

Continuare ad ascoltare un discorso (nel senso, da noi attribuito a questo termine, di atto comunicativo, scevro di qualsivoglia ambiguità, che si propone come vero) che si protrae oltre un certo limite, lo sanno tutti, è una fatica durissima. Tanto più ardua quanto meno il discorso è comprensibile, poiché in tal caso vengono a mancare anche quei minimi appigli (quelle minime ambiguità) che nessuna comunicazione umana riesce a impedirsi di fornire alla fantasia dei destinatari. Rimane solo la struttura del discorso, quando non lo si comprende; e la struttura discorsiva ― percepibile nel tono della voce (o nel “disegno” delle immagini) e nel comporsi dei suoni in parole, in frasi, in periodi ― che altro è se non la forma stessa del discorso in quanto propositore di verità, cioè quel che vi è in esso di più definitivo e immodificabile?

 

La mente umana, a differenza di quelle degli altri animali, è una fonte perenne d’incertezza; e nell’incertezza ― immenso o minuscolo che ne sia l’oggetto ― non può che andar sempre in cerca di verità, che dall’incertezza la tolgano. Ma le verità, quando sembra d’averle trovate ― nell’immediatezza e urgenza di quel che accade, o nella quiete delle nostre riflessioni, o nell’empito trionfante di un momento creativo ― sùbito si trasformano in nuove incertezze, sùbito si fanno, a loro volta, produttrici d’incertezze. Ed è proprio questa la nostra condizione, in quanto animali umani: le certezze non sono impossibili, anche per noi ― sono anzi continue, poiché sicure sono e appaiono le percezioni sensibili, e anche le intuizioni creative sono spesso così perspicue da rendere durevolmente più valido ed efficace il rapporto con la realtà ― e tuttavia sono sempre effimere, provvisorie, più o meno relative. La mente non può esimersi dal tornare di continuo a incrinarle, a cercarvi e immaginarvi sempre nuovi e più vasti, più complessi misteri, sempre nuove e più convincenti soluzioni; ed è proprio questo fenomeno, ciò che chiamiamo la creatività di cui solo noi siamo dotati.

 

Non è affatto una condizione facile ― e non sembrerebbe neanche troppo favorevole alla sopravvivenza, dell’individuo come della specie ― poiché il continuo riprodursi d’incertezza sul significato e le implicazioni di quel che esiste e accade inficia più o meno gravemente l’affidabilità dei nostri sensi, materialmente così precisi. Ma è la condizione fisiologica della mente umana, la sola condizione che permetta al nostro cervello di produrne una e di farla funzionare. E il discorso, pertanto ― quale che sia il medium di cui si serve ― proponendosi (e per ciò stesso imponendosi) come pensiero vero, univoco, a cui sottomettersi così com’è, non può non interferire pesantemente con essa e bloccarla per tutto il tempo che l’imposizione dura.

 

Non vi è che un modo per vivere la condizione umana senza danneggiare il cervello, ed è quello di non contrastarne la continua ricerca sul mondo, sulle menti prodotte dagli altri cervelli e sulla propria. È questo che il cervello umano è fatto per fare, ed è solo nel farlo che esso può dar vita alla mente e agirla in maniera ottimale. Frenare o addirittura paralizzare la creatività che ci contraddistingue imponendo alla mente verità immodificabili è per il cervello ciò che l’immobilità forzata è per il corpo: in entrambi i casi, se l’impossibilità di funzionare liberamente si prolunga oltre un certo limite, il risultato è l’atrofia.

 

“E il riposo? Non hanno forse bisogno di riposo, tanto la mente quanto il corpo?” esclama il severo obiettore che ben conosciamo, friggendo d’impazienza per la forzata immobilità mentale a cui lo costringe il protrarsi di questo nostro discorso senza soluzioni di continuità.

 

Certo! Ma l’immobilità, quando è forzata ― del corpo o della mente che sia ― non è mai riposo. Il riposo della mente è il sonno. Anche perché, nel caso della mente, la presunta immobilità che le impongono i discorsi in quanto veri è piuttosto una sorta di “moto forzato”, rimuginante e ossessivo, tra le ganasce di concetti e proposizioni che non le è concesso di alterare finché non s’interrompono.

 

E tuttavia non sono pochi quelli che dall’incertezza, che di per sé è creativa, cadono piano piano in un groviglio così inestricabile e sinistro di dubbi e di angosce (per il disprezzo, l’abbandono, l’ignoranza a cui furono consegnati fin dalla nascita) che la sottomissione della mente a una fede o a un’ideologia ― che le prescriva per filo e per segno il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il pensabile e l’impensabile ― finisce con l’apparirgli, paradossalmente, come il solo modo per liberarla. Ignorando che così si condannano, invece ― la sottomissione altro non essendo che un impedimento (più o meno saldo) opposto all’immaginazione e al pensiero ― a un più o meno grave e rapido istupidimento. Senza riuscire, però, neanche spingendo il controllo religioso o ideologico sulla mente fino alla santità e alla follia, a domare davvero l’incertezza, poiché essa, in quanto condizione di funzionamento della mente, domata non può essere e di continuo risorge, invincibile e “peccaminosa”, a ogni sia pur momentanea sospensione delle giaculatorie.

 

Anche chi tenta di sottomettersi una volta per sempre a “verità” precostituite e inviolabili, cioè, con grande difficoltà e solo a tratti riesce a tenere la mente sotto l’effetto continuo del discorso che le fa la fede, o l’ideologia, o la moda più o meno culturale, o la struttura dei rapporti interumani istituzionalizzati, alle quali egli si è consegnato. Al contrario: per la maggior parte del tempo, in lui, quelle “verità” devono combattere perfino per essere ascoltate, perché l’incertezza ― che della mente umana, ribadiamolo, è la libertà ― attimo per attimo risorge e attimo per attimo torna a sottrarlo all’oppressione del dover credere costringendolo sempre daccapo a ricominciare la fatica di Sisifo di rendersi schiavo.

 

È la lotta continua contro le “tentazioni” ― e il demonio che le produce ― a cui i mistici medioevali non riuscivano a sottrarsi neanche nel deserto, nemmeno in una grotta sospesa tra il cielo e il più orrido dei baratri. Ignorando che la difficoltà di credere ― tanto più aspra quanto più si delira di dover credere ininterrottamente ― è invece natura e vita delle nostre menti, e che i “demoni” siamo noi stessi: mostruosi, talvolta ― la minoranza che davvero lo sono ― solo per aver troppo a lungo subìto (e accettato) il disprezzo e la diffidenza che prima umiliano e torturano la mente umana, e poi si convincono, odiando ciò che han fatto di essa, di dover metterla sotto controllo per il suo bene.

 

È per sfuggire all’incertezza che ci chiudiamo in città ed edifici squadrati e ordinati riempiendoli di nostre creazioni trasformate in prodotti in serie industriali il cui nome, aspetto e funzione siano per noi del tutto certi, veri, fermi e ferrei come comandamenti divini. Ed è per sfuggire a quell’ordine, che fa male al cervello, che da quelle stesse case, e da tutte le istituzioni che rendono immodificabili i nostri rapporti, cerchiamo poi spesso di evadere per attingere dove che sia un po’ di quell’incertezza che prima ci tormentava, e che poi ci appare invece tanto più autentica delle “certezze” della “verità”.

 

Chi è in grado, dunque, di tenere un cervello umano (il proprio o l’altrui) impegnato senza soluzione di continuità in un discorso e/o in un ordine rigorosamente univoci ― privi cioè di qualsiasi ambiguità, di qualsiasi incertezza ― lo danneggia tanto più gravemente quanto più a lungo riesce a mantenerlo in tale condizione. E lo danneggia fisicamente ― vogliamo sottolinearlo ― proprio in quanto cervello, in quanto organo del corpo, non in quanto mente da esso prodotta. Poiché la mente ― astrattamente intesa come un sistema più o meno strutturato di relazioni tra rappresentazioni e sistemi di rappresentazioni inconsce e coscienti ― può essere danneggiata solo da immagini o idee che confondano e sconvolgano il suo rapporto con la realtà e con sé stessa. Mentre ciò di cui ci stiamo occupando non sono i contenuti che la mente assimila o crea, ma la resistenza che i non ambigui fra essi (i contenuti formati e trasmessi come veri) oppongono al funzionamento del cervello impedendogli di renderli incerti.

 

Non era e non è impossibile, naturalmente, che ciò che si vede e ascolta in televisione sia arte con la stessa frequenza (quale che sia) di ciò che si vede e ascolta al cinema, o a un concerto, o a una lettura poetica. Ma la storia dei media non è andata in questa direzione. Finanziata dagli Stati e da un canone, la televisione avrebbe potuto evitare di rendersi schiava del potere economico; protetta dalle leggi ― e da magistrati indipendenti che ne garantissero il rispetto ― avrebbe potuto resistere alle pressioni del potere religioso, culturale e politico. Se così fosse stato, anzi, la televisione godrebbe oggi di una libertà creativa che le arti non hanno quasi mai potuto neanche sognare. Ma così non è stato, e anche nei paesi dove all’inizio si tentò di assicurarne l’indipendenza, a poco a poco finì poi col prevalere la (trasversale) legione di quanti premevano per fare della produzione televisiva ― sul modello americano, la cui importazione qui da noi dobbiamo soprattutto a Mike Bongiorno e al padre di Walter Veltroni ― un’impresa come le altre, soggetta solo alle leggi del mercato. Tranne che in Italia, dove la soggezione della Rai, vero monstrum (come molte delle nostre cose) è addirittura duplice: al Dio della religione e della politica, oltre che al Mammona del mercato.

 

In queste condizioni, il flusso televisivo si fa discorso allo stato puro, senza più pause, senza più incertezze né ambiguità anche minime, monocorde e ripetitivo come il movimento delle lancette intorno al quadrante di un orologio. Ma capace, a differenza di quest’ultimo, di imprigionare l’attività cerebrale in un’attenzione ininterrotta ed esclusiva.

 

Discorso, naturalmente, è tutta l’informazione televisiva, anche quella più o meno scientifica e “culturale”, poiché pretende di descrivere gli stati delle cose esattamente come sono e di riferire i fatti proprio come si sono svolti. Discorso è tutto ciò che viene trasmesso in diretta, perché fa del telespettatore un testimone oculare degli eventi nel momento e nel luogo in cui si verificano ma costringendolo entro il punto di vista univoco e immodificabile di chi effettua e commenta le riprese. Discorso è la pubblicità, che pretende di rappresentare la realtà delle merci (e della vita umana in quanto consumatrice di merci) né più né meno come le merci sono e come la vita dev’essere per esser degna di chiamarsi tale. E discorso diventano così anche i film e la cosiddetta fiction, che talvolta sarebbero invece arte, perché irregimentati e continuamente “ricondotti alla realtà” dalle interruzioni pubblicitarie.

 

(Chi o ciò che interrompe, infatti ― in televisione come in ogni altro ambito ― è chi o ciò che è, o pretende di essere, più urgente e più importante di chi o ciò che viene interrotto. E il cinema, in televisione, è interrotto sempre, poiché il logo dell’emittente interrompe l’immagine dalla prima all’ultima inquadratura, insieme a sovraimpressioni d’ogni sorta, e gli spot interrompono del tutto la visione a intervalli regolari. Cosicché il telespettatore è continuamente richiamato dall’ambiguità e incertezza dell’arte cinematografica ― dal mondo della fantasia sulla realtà ― all’univocità delle informazioni che le interruzioni gli impongono: al mondo della rappresentazione brutalmente razionale della realtà. Dall’infinito del libero immaginario al finito del preteso vero, inequivocabile, indiscutibile. Poiché, appunto, ciò che interrompe la visione non è davvero la realtà, ma solo un discorso su la realtà. Un discorso che interrompe tutto, e non s’interrompe mai.)

 

Differiscono, tuttavia, i punti di vista delle diverse reti, dei singoli autori e conduttori televisivi? Certo. Ma ciò che non cambia, ciò che è sempre identico, è che la televisione in quanto tale ― quali che siano i punti di vista, il carattere e perfino il valore di chi la fa ― non è vita (“vita”, cioè realtà, sono l’apparecchio, l’oggetto, i suoni e la luce che diffonde, e la tecnologia che in tutto ciò si esprime) e non è nemmeno rappresentazione artistica della vita: è discorso su la vita, e in quanto discorso costringe il cervello a un’immobilità che è per esso tanto più dannosa quanto più il discorso si prolunga.

 

“Ma siccome lo sanno tutti,” obietta il nostro infaticabile avversario, “siccome lo sanno tutti che il flusso televisivo non è rappresentazione vera della realtà ma bensì mero spettacolo e finzione, ecco che nessuno, sapendolo, lo percepisce come discorso, come lezione, come predica, come ininterrotto, stressante susseguirsi di informazioni scevre di ambiguità. E il cervello, quindi, non subisce da esso alcun danno!”

 

Invece è un sapere di cui non tutti dispongono, perché non è facile rendersi conto che ciò che accade sotto i nostri occhi, ciò che vediamo in diretta, non è affatto meno immaginario, meno “costruito” ― non è affatto più vero ― di ciò che vediamo in un film o in un dipinto. Ma quand’anche ne fossero tutti persuasi, non per questo il flusso televisivo cesserebbe di essere per tutti un discorso. Poiché ciò che rende discorso (lezione, predica, informazione) una comunicazione non è il fatto di esser percepita e creduta vera, ma il puro e semplice suo esser costruita come tale. È com’è fatta che la rende discorso anziché arte, non com’è guardata e ascoltata. Proprio come le mura di una galera non sono meno robuste e oppressive, per chi sa di esservi rinchiuso ingiustamente, di quanto lo sono per chi è colpevole.

 

“Ma come mai, allora,” ribatte il nostro sempre vigile critico, “una lezione o una predica divengono presto insopportabili, quando si protraggono ― questo sono disposto a concederlo ― mentre il flusso televisivo può invece essere percepito come gradevole, o addirittura come un indispensabile apportatore di benessere, per un tempo virtualmente illimitato?”

 

La contraddizione è apparente. Quel che esce dal teleschermo non è affatto gradevole, mai, poiché è fatto e s’impone come lezione e predica eterne, come discorso vero che non finisce mai di dirsi e mai lascia vivere. Ma al contempo gode del privilegio ― di cui neanche il più possente dei retori o il più esaltato dei visionari avevano mai fruito prima d’ora ― di poter simulare il fluire della vita per mezzo di quello delle immagini, dei colori, dei suoni, della “diretta” e domani di chissà quali altri effetti speciali sempre più perfezionati. E di simularlo così bene ― vivacizzando e velocizzando il continuum percettivo fino a conferirgli un’assertività e un’urgenza che il reale possiede solo di rado ― da farlo sembrare più significativo, più vitale, più vero della vita vera! Causando in tal modo il fenomeno grottesco, che tutti hanno potuto una volta o l’altra osservare negli altri e in sé stessi, per cui un televisore acceso, a casa o in un locale, riesce con impressionante facilità a distrarre perfino i genitori dai figli e l’innamorato dall’amata.

 

Tenere la televisione sempre accesa, guardarla e ascoltarla ― o anche solo percepirla in sottofondo ― senza soluzione di continuità, diviene allora non solo gradevole ma necessario per chi altrimenti, non avendo più un rosario né un mantra da ripetere ossessivamente, vivrebbe il proprio aggirarsi per la casa o per la città, condiviso o meno che sia da altri esseri umani, come un vano e spossante deambulare in un vuoto affettivo, fantastico e intellettuale pressoché assoluto. Per chi, in casa, è della casa una sorta di fantasma, di morto vivente ― poiché non c’è più amore né lavoro, rapporti né impegni, o perché quelli che ci sono li ha ormai così annullati che gli sembrano finti ― e invece il discorso continuo che fuoriesce dal televisore lo fa sentire vivo e legato alla vita imponendogli un’attenzione che l’apparente varietà, l’accelerazione e l’urgenza fan sembrare vivace come una giostra; un’attenzione che invece è tanto poco un rapporto reale da poter anche essere per la maggior parte del tempo del tutto inconscia, pura forma discorsiva senza contenuto; ma che nondimeno ― in quanto attenzione a un discorso che si vuol vero e come vero è costruito, inequivoco e apodittico come un dogma ― conscia o inconscia costringe il cervello umano a un ininterrotto e ineludibile prestar fede che è contrario alla sua natura, e che perciò tanto più lo danneggia, fisicamente, quanto più si protrae.

 

Se le cose stessero davvero così ― e non sembra proprio che possano stare altrimenti ― un televisore acceso sarebbe molto più pericoloso di una o un milione di sigarette accese, poiché il danno che queste possono infliggere ai nostri cuori e polmoni è solo probabile (quantunque assai probabile) mentre le lesioni che un cervello umano subirebbe dall’ininterrotta e protratta esposizione a un discorso rigorosamente univoco appaiono invece del tutto certe, inevitabili né più né meno quanto lo sarebbero le avarie di un qualsiasi ingranaggio costretto a girare a vuoto da un impedimento irremovibile. E dimostrarlo non dovrebbe essere difficile: basterà tenere sotto osservazione due gruppi abbastanza numerosi di volontari ― composti, l’uno da telespettatori indefessi, l’altro da uomini e donne adulti astinenti da tutti i media, compresi i quotidiani ― e verificare, a distanza di venti o trent’anni, in quanti di essi abbiano cominciato a manifestarsi i sintomi di una demenza senile. Dopo di che, class action miliardarie contro le emittenti televisive private e pubbliche potrebbero essere intentate in tutte le nazioni la cui legislazione le permette, e le emittenti stesse sarebbero costrette dalla legge a rinunciare agli introiti pubblicitari e a programmare solo ed esclusivamente film e sceneggiati di riconosciuto valore artistico.

 

Ma fin da ora, per precauzione, non sarebbe male se fossero obbligate a far precedere ogni trasmissione dall’avviso: Attento! La visione o anche solo l’ascolto in sottofondo di questo programma lede il tuo cervello tanto più gravemente quanto più a lungo e ininterrottamente si protrae!

 

 

(Roma e Anticoli Corrado, 9 settembre 2007 - 9 febbraio 2008)

 

 

L’abuso di televisione danneggia fisicamente il cervello? Forse sì...

 

 

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Un anno senza tv. E scopro... che non mangiar più merda è bellissimo!

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