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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Massimiliano Novelli intervista Luigi Scialanca

 

sulla Televisione

 

 

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Massimiliano Novelli intervista Luigi Scialanca sulla Televisione

 

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Com’era la prima televisione che ti ricordi? Come è cambiata nel corso degli anni, dal tuo punto di vista?

 

La televisione della mia infanzia e adolescenza ― più o meno fino alla fine degli anni ’60, diciamo, o se vuoi fino a quando era ancora solo Rai 1 ― non fingeva di non essere quel che la televisione è: un’agenzia di indottrinamento. Chi la faceva ― ho conosciuto nel 1972 Angelo Romanò, poeta, critico letterario e importante dirigente Rai della “sinistra” democristiana ― lo ammetteva tranquillamente. Solo che non lo dicevano così, pane al pane e vino al vino. Dicevano che la televisione “deve avere una funzione educativa”. Essere, cioè, una specie di scuola. Anche perché, così dicendola e così facendola, riuscivano quasi sempre a non scontentare né la Chiesa cattolica (e con essa la Democrazia cristiana, il partito che per più di quarant’anni ha governato il Paese) né la Chiesa comunista (cioè il Partito comunista, che era, da solo, quasi tutta l’opposizione); le quali, in quanto chiese, avevano col popolo italiano un solo tipo di rapporto: pedagogico e didattico, di insegnamento della realtà e di insegnamento a vivere. Ed erano, entrambe, assolutamente certe di insegnare al popolo italiano l’unica Verità possibile, l’unica Verità vera. (Che poi erano meno diverse l’una dall’altra di quanto si può credere: condividevano, per esempio, una visione dei rapporti ― uomo-donna, genitori-figli, Stato-società civile ― che era la più tradizionale e moralistica e soffocante che si possa immaginare, e il fatto che in cima alla piramide dei rapporti interumani ci fosse Dio per l’una e il Sol dell’avvenire per l’altra non li rendeva poi molto diversi per chi in quei rapporti aveva la parte “soccombente”: in particolare le donne e i giovani).

 

Guardare la televisione dunque, a quei tempi, è come andare a scuola. A parte Non è mai troppo tardi, la celeberrima trasmissione del maestro Alberto Manzi, a parte La Tv dei Ragazzi ― che sono scuola a tutti gli effetti ― ogni programma è così. La pubblicità (che comunque è “pedagogica” anch’essa, e lo vedremo tra poco) è limitata a cinque minuti al giorno (tutti in una volta, alle 20:30, dopo il telegiornale: il famoso Carosello) perché a scuola non si fa pubblicità: non starebbe bene, non sarebbe dignitoso, e soprattutto sarebbe diseducativo, se un insegnante, dopo aver parlato di cose serie e importanti, si mettesse a gridare come un venditore al mercato esortando gli allievi a comprare questo e quello. E tutto il resto del tempo è dedicato a trasmissioni di alto livello culturale: dibattiti letterari, scientifici, politici, concerti di musica classica e operistica, teatro, cinema d’autore ― “cosette” come Il settimo sigillo e Il posto delle fragole in prima (e unica, non c’erano altri canali) serata, ma te l’immagini?...

 

Bekim Fehmiu (Ulisse) e Barbara Bach (Nausicaa) nell'"Odissea" diretta da Franco Rossi e prodotta dalla Rai nel 1968.

Bekim Fehmiu (Ulisse) e Barbara Bach (Nausicaa) nell’Odissea diretta da Franco Rossi e prodotta dalla Rai nel 1968.

 

Però c’era anche l’intrattenimento...

 

Certo: Lascia o raddoppia, Canzonissima, il Festival di Sanremo... Ma anche quello è subliminalmente pedagogico: dalle calzamaglie delle ballerine ai testi degli sketch umoristici, dai contenuti delle canzoni (non solo le parole: anche le musiche!) al modo di muoversi e di comportarsi reciprocamente dei conduttori e degli ospiti, tutto è studiato per indurre gli spettatori al relax (uso volutamente una terminologia dell’epoca) e al sorriso, com’è ovvio, ma al contempo per istillare in loro educazione, cortesia, tolleranza, raffinatezza di gusti e di modi. Una scuola di buone maniere, ecco cos’è l’intrattenimento televisivo degli anni ’50 e ’60, e ti assicuro che le maniere son così buone che in molte case i più sensibili fanno confronti e si vergognano delle proprie, assistendovi! E naturalmente, attraverso l’educazione, il decoro, il rispetto, la morigeratezza, anche una scuola di sottomissione alle autorità e ai depositari della verità ― due categorie che nell’immaginario popolare in gran parte si sovrappongono. Nemmeno ai comici è consentito varcare questi limiti: si concede loro di essere un po’ “sbracati”, ma a mo’ di pagliacci: facciano ridere, sì, ma solo di sé stessi e in maniera un po’ malinconica, pedagogica anch’essa. La satira, politica o anche solo di costume, è del tutto vietata: Dario Fo, che si azzarda a farla, è licenziato in tronco. Non perché il potere la tema (solo le mezze calzette temono la satira) ma perché in televisione, come in una facoltà universitaria, come in un’accademia, si può bensì ridere, se del caso, ma non di ciò che è serio.

 

Mike Bongiorno no, certo. Lui non fa scuola, anche se certi quiz vengono fatti passare, ma da altri, per “serbatoi” di cultura generale: Mike Bongiorno è l’eccezione. Viene dall’America, lui, e il suo compito (la missione affidatagli dalla Cia?) è quello di americanizzarci e globalizzarci. Un compito, anch’esso, da insegnante? Sì ― la tv non può che insegnare, come vedremo ― ma che, per aver successo, dev’essere svolto senza sembrare in alcun modo un professore. E Bongiorno, a non sembrare un professore ― anzi: a sembrare il meno dotato dei compagni degli ultimi banchi ― è un autentico asso. Lui in televisione è un berluscista ante litteram, in anticipo di decenni: il primo e per molto tempo l’unico (anche Mario Riva, un po’, ma Riva è molto più raffinato, non è capace di farsi passare per un cafone e un cretino) divo (altra parola antiquata) della tv che non sembra un docente, non incute soggezione, non suscita nella maggioranza dei telespettatori un sentimento di inferiorità, ma bensì di superiorità su di lui.

 

E questo ci permette di rispondere (se non andiamo errati) a una domanda molto importante: perché la Rai dei primi tempi ingenera in metà degli Italiani un odio feroce e duraturo contro di essa? Un odio così potente che ancora oggi, in Italia, milioni di donne e di uomini (insieme ai loro figli) solo raramente e assai malvolentieri pigiano i tasti 1 e 2 (non parliamo del 3) del telecomando? E questo, bada bene, per così dire per principio? O per tigna, come si dice a Roma?

 

La risposta, a mio giudizio, è che fino alla fine degli anni ’60, i milioni di Italiani che non sanno leggere né scrivere, che mai hanno preso in mano un libro o un giornale, e che non vogliono farlo, non desiderano apprendere, istruirsi, poiché odiano il desiderio stesso, il sentimento di dipendenza (da chi può soddisfarlo) che il desiderio di apprendere porta con sé ― e sono milioni e milioni, da non confondere con gli altri milioni che invece riescono a lasciarsi andare al desiderio e umilmente seguono il maestro Alberto Manzi e affollano le scuole serali per lavoratori o quelle allestite nelle sezioni del Partito comunista ― odiano la Rai perché essa li fa sentire ciò che sono: non solo incolti, non solo ignoranti, ma quel ch’è peggio rozzi, sgarbati, insensibili, violenti, resi di pietra dalle traversie della povertà e della guerra e soprattutto dal non essere riusciti a tirarsi fuori da infanzie distrutte dal disprezzo religioso per i piccoli umani, dai musi duri e dalle male parole come unica tipologia di comunicazione, dalle percosse, dagli abusi sessuali. Milioni di Italiani che scoprono, guardando i programmi Rai, di non farcela nemmeno a comprenderne il linguaggio. Di non capire nemmeno cosa dicono i personaggi degli sceneggiati, i conduttori delle trasmissioni di intrattenimento, talvolta perfino i comici, mentre dalle finestre aperte di altre case arrivano commenti e risate che lasciano intuire che altri, invece, capiscono. Questi milioni di Italiani odiano la tv come un tempo odiarono la scuola e il maestro; peggio: come odierebbero la scuola se fossero costretti a tornarvi ora che vi si sono sottratti una volta per sempre. Ed è un odio talmente profondo che nei sopravvissuti, e nei loro figli e nipoti, dura tuttora.

 

A questa gente il Berlusconi ha dato ciò che non avevano mai avuto: una televisione accuratamente studiata per farli sentire superiori agli esemplari umani che essa esibisce loro. Una tv di mostri, in cui non si presentano che casi pietosi, buffoni, miserabili, puttane, sconfitti, ignoranti senza rimedio, disonesti, truffatori, malati, rabbiosi, violenti, pazzi. Mai una donna, mai un uomo, che in chi guarda possa suscitare ammirazione, desiderio di realizzare rapporti, interessi, capacità analoghi ai loro ― neanche i bambini, che nelle trasmissioni che li sfruttano non sono oggetto di tenerezza, ma di sberleffi. E milioni di Italiani, fin da prima che “scendesse in campo”, amano il Berlusconi proprio per questo, per lo stesso motivo per cui hanno odiato e odiano la Rai: perché ha dato loro una televisione che da trent’anni non istilla che disprezzo per gli Esseri Umani, è vero ― del resto, quale religione non lo fa? ― ma che in compenso fa sentire ognuno di quei disprezzati, nel chiuso di casa propria, superiore a tutti gli altri.

 

Attenzione, però: il sentimento di disprezzo per gli Esseri Umani, che la tv commerciale istilla nei “fedeli” con efficacia forse addirittura superiore a quella delle ideologie religiose, solo in apparenza e sul momento si traduce in sentimento di superiorità sugli altri: in realtà, non è possibile sminuire il genere umano senza sminuire anche sé stessi. Alla lunga, pertanto, la tv induce i suoi adepti a una depressione senza vie di scampo. Tranne una, per qualche tempo: fare acquisti. Ma quando anche questa si rivela illusoria, e il disprezzo di sé e degli altri ― di tutti ― tocca il livello di guardia, ecco che nella mente comincia a prender forma l’idea delirante che solo la sottomissione a un potere irresistibile ― religioso, ideologico, statale, o tutti e tre insieme come nel fascismo e nel nazismo ― possa costringere creature così spregevoli a rigare dritte. (Che è poi quel che vediamo purtroppo in Italia in questi mesi, col berluscismo sempre più comandato a bacchetta dal neonazismo leghista... Ma non è solo in Italia: in tutto l’impero mondiale della tv la richiesta di “purificazione” autoritaria religiosa e politica è in continua crescita da anni. Anche se “alla periferia dell’impero”, nella Valle dell’Aniene, molti riescono ancora a “purificarsi” alla casareccia andando in processione alla Santissima Trinità, e tornandone “rigenerati”...)

 

Però a volte in televisione si vedono dei buoni film...

 

È vero: si potrebbe obiettare che almeno i film, anche nella televisione di oggi, propongono talvolta realizzazioni e relazioni umane che inducono chi vi assiste a provare sentimenti diversi e più sani del disprezzo, e a creare per proprio conto immagini e idee di analogo valore per la propria realizzazione. Ma non è così, perché i film, nella televisione di oggi, sono resi anch’essi mostruosi ― oggetti di disprezzo in blocco, nella loro interezza, per così dire a priori, cioè prim’ancora e indipendentemente dalla qualità della visione che ne scaturirà ― per mezzo delle interruzioni pubblicitarie.

 

Interrompere, infatti, è sempre manifestare disprezzo. Chi viene interrotto è per ciò stesso additato come inferiore ― meno importante, meno valido, meno interessante, e soprattutto meno vero ― rispetto a chi lo interrompe. La pubblicità, in televisione e ovunque (perfino nel godimento delle bellezze di una città d’arte, o del paesaggio ai lati di una strada) interrompe solo e precisamente per questo: per accreditare la merce che pubblicizza come superiore e più importante, più interessante, più vera di qualsiasi altra cosa al mondo. Parallelamente, tutto ciò che da essa è interrotto viene invece stigmatizzato come inferiore alla merce pubblicizzata. Cosa che fa soffrire i milioni di telespettatori che desiderano trovare spunti di creatività e di realizzazione nelle immagini che vedono (anche a costo di sentirsi piccoli e modesti dinanzi a esse e alla fantasia che le ha prodotte) ma che non dispiace a quegli altri milioni che invece, come abbiamo detto, sono stati ormai assuefatti come a una droga al miserabile “piacere” di sentirsi gli unici grandi in un mondo di spregevoli. Ma anche loro pagano un prezzo: quello di sentirsi inferiori, se non altro, a chi già possiede quelle merci così importanti da interrompere tutto, foss’anche il funerale di un papa. Ma che importa? In fondo, è un sentimento di “inferiorità” che basta un pensierino al conto in banca (per chi l’ha pingue) a dissolvere fino al momento in cui, uscendo dal centro commerciale carichi di pacchi e di pacchetti, non si sentiranno insoddisfatti e rabbiosi finché la prossima interruzione pubblicitaria non gli spiegherà che cosa gli manca...

 

Cosa pensi del mezzo televisivo?

 

Da quel che ho scritto rispondendo alla prima domanda, può sembrare che io consideri il “mezzo” televisivo come uno strumento la cui “natura” può cambiare a seconda di chi lo usa. Per cui, per esempio, la Rai degli inizi (non certo quella di oggi, che a parte qualche programma di “nicchia”, di cui da destra si chiede a gran voce la soppressione, è ormai quasi del tutto omologata) “faceva” una televisione didattica, mentre Mediaset e la Rai di oggi “fanno” una televisione che sta ben attenta a non insegnar più alcunché, anzi: a mostrarsi sempre ancor più ignorante di chi la guarda.

 

In realtà, la differenza è apparente: la televisione, come ho detto all’inizio, ha un’unica natura: è un’agenzia di indottrinamento, è una scuola, e non può essere altro. Certo: è cambiata la “materia” di insegnamento. La tv di oggi (la berluscista in blocco, la Rai ormai quasi del tutto) insegna solo a disprezzare gli Esseri Umani. Ma anche se cambiano le “materie”, guardare (o anche solo ascoltare distrattamente, mentre si fa altro) la televisione è sempre seguire più o meno attentamente una lezione. Quali che siano i contenuti, le forme, le intenzioni di ciò che viene trasmesso e di chi lo produce. Non vi sarebbe che un modo perché così non sia: trasmettere solo film, senza interruzioni. E dipinti, sculture, architettura, musica. Opere d’arte, realizzazioni della creatività umana. Una televisione-museo? No, perché anche un museo è scuola: il suo allestimento si presenta come il solo punto di vista possibile sulle opere esposte, dunque è una lezione. Solo opere, una dopo l’altra, senza criterio alcuno (la sequenza potrebbe essere random ― si dice così? ― stabilita da un computer): il telespettatore, fornito di un elenco, sceglierebbe di vedere solo ciò che gli va di vedere, sarebbe ― cioè ― libero di esprimere i propri desideri, ed essi sarebbero a volte soddisfatti e a volte no. Come nella vita. Come, timidamente, tenta di fare l’ala più creativa di Internet. Di cui tu, Massimiliano, qui ad Anticoli sei forse il solo esponente.

 

Ho spiegato perché guardare la televisione sia sempre seguire una “lezione” ― perché, in altre parole, la visione televisiva (finché non si realizzerà l’utopia di cui alle righe precedenti) non possa in alcun modo distinguersi da un’esperienza di apprendimento passivo di forme e contenuti creduti veri e indubitabili ― in un mio scritto di un paio d’anni fa, Labuso di tv come possibile concausa di lesioni cerebrali e demenza, che per ovvie ragioni non tenterò neppure di riassumere qui. Mi preme solo dire che se guardare la televisione, sempre, indipendentemente da chi la fa e come la fa, è “come andare a scuola” (e io non ho dubbi che sia così: proprio questo la rende così religiosamente vera per chi la guarda, e così potente per chi è capace di sfruttare questa sua caratteristica senza sembrare un docente, anzi: convincendo l’ignaro discente di sapere e valere molto di più del suo non riconosciuto docente) è anche vero che nell’andare a scuola, in fondo ― se gli insegnanti sono validi e le lezioni interessanti e importanti ― che ci sarebbe di male?

 

Niente di male, certo: ma a tre condizioni (che la scuola vera soddisfa, o dovrebbe soddisfare, tutte): 1°. Essere consapevoli che si è a lezione; cioè che (oltre a vivere l’esperienza reale e concreta del culo su una poltrona e degli occhi sul teleschermo) si sta subendo (quantunque così ben mascherata e resa così vivace e verosimile da sembrare anch’essa un’esperienza reale) l’immissione nella mente di una “verità” altrui che non ha niente a che spartire con la visione di fatti reali nell’esperienza reale, poiché la propria esperienza reale e concreta è (di momento in momento) unica, mentre le “verità” sono tante quante sono le menti che le producono; 2°. Essere informati del fatto che una lezione, ancorché ben confezionata e vivace, se si protrae troppo a lungo e ininterrottamente non può che danneggiare un cervello che è fatto per creare, non per subire passivamente l’immissione di contenuti come la memoria di un computer; 3°. Essere capaci di ridurre l’esposizione alla tv a seconda delle proprie condizioni di salute, come si fa con i cibi ipercalorici il cui sapore gradevole ne cela la pericolosità.

 

Trovi che il linguaggio televisivo sia deformante e superficiale a priori, o che lo sia per colpa di chi la fa?

 

Il “linguaggio televisivo”, in senso assoluto, non so cosa sia. Suppongo che sia il linguaggio di chi fa televisione. In tal senso ― sempre parlando in generale ― andrebbe giudicato caso per caso, autore per autore. (Se vi fossero diversi autori. Ma non vi sono. L’ultimo, alla Rai, è stato il grande Renzo Arbore. In Mediaset, forse, Antonio Ricci; anche se ripugna elargire il nobile appellativo di autore a chi ha dedicato la carriera a mostrare gli Esseri Umani sempre e soltanto dal lato peggiore). Una cosa è certa: la televisione ideologico-commerciale di oggi (e anche quella ideologico-didattica del passato, come ho detto, benché in quella fosse ancora possibile distinguere differenti impronte creative) ha un unico linguaggio. Non solo come se fosse fatta da un’unica persona, ma come se in quell’unica persona non si verificasse alcuna evoluzione, mai. E questo linguaggio unico, monocorde, non è affatto deformante. Magari lo fosse: rispecchierebbe la personale visione di chi lo parla, che è sempre in qualche modo “deformante” poiché ciò che è personale è sempre creativo, mai piattamente riproduttivo. Invece no, il linguaggio è unico (anche se nel corso degli anni si è sempre più “perfezionato”) ed è fatto per insegnare, per convincere, per indottrinare. È un linguaggio fatto per dire: Stai vivendo un’esperienza reale (ed è una bugia: stai assistendo a uno spettacolo, sempre, perfino quando guardi il telegiornale, che è uno spettacolo costruito come un collage con spezzoni di riprese di eventi più o meno realmente accaduti) e vivendo un’esperienza reale non puoi dubitare (o saresti matto) di quel che i tuoi stessi occhi di testimone oculare ti dicono: che gli Esseri Umani fanno schifo (ed è una bugia mostruosa, che fa della “fidelizzazione alla tv” una fidelizzazione religiosa).

 

Superficiale sì, questo sì. E ciò che lo rende un linguaggio superficiale (e così pericoloso) è proprio il suo non essere deformante. La pretesa di mostrare la realtà così come veramente è (a proposito: per non cadere sotto i miei stessi colpi, mi sembra il momento di dire che le mie idee sulla tv sono per l’appunto idee, cioè una mia rappresentazione soggettiva della realtà, una “verità” mia, che non esime nessuno dal compito di farsi la propria) è sempre imbrogliona, poiché esiste un’unica realtà come veramente è, ed è quella che ognuno vive momento per momento; è sempre superficiale, poiché la “verità” di un solo (foss’anche un genio) non può che essere un dettaglio nel quadro complessivo dell’immaginario umano, che è infinito; ed è sempre autoritaria, poiché se ci credi ― se ti bevi, cioè, che la realtà sia proprio così, e basta ― perdi ogni contatto con la tua immaginazione, che vorrebbe creare la tua verità, e diventi lì per lì uno schiavo mentale. Come ce ne sono tanti, in giro, che non solo son tutti uguali perché ripetono pedissequamente quel che dice la tv, ma perché si muovono, si atteggiano, si rapportano gli uni agli altri in maniera rituale, cioè come se stessero sempre e ininterrottamente celebrando, tutti insieme, la “messa” della “verità” televisiva. E perché in tutti è più o meno evidente lo sconcio del vuoto: il non immaginato, il non pensato, sostituiti dal più o meno grande buco nero del creduto, che sempre cancella, nell’Essere Umano, tutto ciò che in lui gli si sottomette.

 

Credi che la tv sia il nuovo oppio dei popoli?

 

Certo che sì. Con la differenza che l’oppio, per qualche tempo, prima di ammazzarti, ti dava sensazioni “gradevoli” (anche se distruttive psichicamente e fisicamente). La tv, invece, prima di ridurti in pappa il cervello per tutto il tempo che ti resta da vivere, ti fa anche sentire un essere spregevole tra esseri spregevoli.

 

Secondo te il potere enorme che ha la televisione in Italia è dovuto alla pigrizia di molti nel cercare forme alternative di intrattenimento? O ad altre cause?

 

Il potere della televisione è tanto meno resistibile quanto più l’immaginazione di chi la guarda è stata spaventata e dissuasa. E l’immaginazione di chi guarda è stata tanto più spaventata e dissuasa quanto più ha dovuto subire, nei primi anni di vita, rapporti interumani permeati di religiosità. La religione non sopporta la libera immaginazione umana, e fa di tutto per “cauterizzarla”. Chi non riesce a resistere all’antiumanesimo religioso, si ritrova con un’immaginazione sempre più annullante, cioè sempre più portata a sottomettersi a rappresentazioni semplificate, piatte, univoche, della realtà. Si può dire che quanto più si è religiosi, tanto più ci si consegna ― legati mani e piedi ― al potere televisivo. Potrebbe essere un buon sistema, anche per chi si crede ateo, per misurare la propria religiosità residua: verificare quanto ancora si dipende dalla tv.

 

Guardi spesso la tv? Se sì, cosa preferisci guardare?

 

Dopo alcuni anni in cui ho guardato solo film, ma con sempre maggiore sofferenza per le interruzioni, oggi mi sono completamente “svezzato” dalla tv. Vedo solo dvd, su un monitor scollegato dall’antenna, o mi rivedo qualcuna delle circa 3.000 videocassette registrate tra il 1990 e il 2007. Ma in questo periodo neanche quello: la sera leggo. E se leggo romanzi e racconti, faccio anche bei sogni.

 

Ma se la tv di oggi, come dici, spinge al disprezzo contro gli Esseri Umani, come mai gli inetti che la popolano diventano per molti telespettatori dei punti di arrivo e dei modelli?

 

È un’osservazione molto acuta. Secondo me, però, la contraddizione è solo apparente. E mi spiego.

 

Quel che tu osservi è verissimo: la tv ― proprio perché fa in modo che quel che “televediamo” non ci appaia uno spettacolo, una serie di invenzioni più o meno creative (quale in realtà è) o in ogni caso l’espressione di un punto di vista individuale sulla realtà, ma che al contrario ci sembri accadere proprio dinanzi ai nostri occhi di diretti "testimoni", un’indiscutibile “esperienza diretta” dal vero (non si può dubitare dei propri occhi e orecchie, vorrebbe dire essere pazzo), una parte del nostro “vissuto” giornaliero (con l’unica eccezione, abbiamo detto, dei film e della fiction, dai quali siamo però “risvegliati” ogni pochi minuti per essere rigettati nella “realtà” e nell’“esperienza vissuta” dagli spot pubblicitari ― la tv, dunque, appare a tutti così vera in ogni suo istante, che per molti finisce per essere religiosamente vera. Non metaforicamente ma letteralmente, secondo uno schema di “pensiero” (più o meno inconscio) che è all’incirca il seguente: quel che vedo in tv sta accadendo sotto i miei occhi, dunque è vero; ma io lì dentro non ci sono, non appaio mai in tv, dunque sono io che non sono vero; la mia vita è uno schifo, non è vera vita, la vita vera è quella che si svolge in tv; la mia vita è il purgatorio, o l’inferno, mentre la vita in tv è il paradiso; ah, come vorrei essere in paradiso, invece che qui!

 

Dunque, obietti tu, dov’è il disprezzo per i “protagonisti” (in realtà personaggi) della tv? Quella di cui parli, caro prof, è adorazione, non disprezzo! Hai ragione, ma... hai anche torto. In realtà, il disprezzo convive senza problemi con l’adorazione, perché l’oggetto dell’adorazione non è il “protagonista” (in realtà personaggio) della “vita” televisiva (in realtà finzione), ma la “splendida” vita “vera” che egli (o ella) conduce in essa. Il “protagonista” è disprezzatissimo, proprio come sostengo io, tant’è vero che il telespettatore, novantanove volte su cento, pensa: “Quelle quattro scemenze che sa fare lui, io le saprei fare molto meglio: dovrei starci io in paradiso, non lui!”

 

La maggioranza dei telespettatori, caro Massimiliano, è indotta in una condizione paragonabile a quella dei servi della gleba che di tanto in tanto, spiando i nobili nel castello, pensavano: “Ah, dovrei esserci io là, nel lusso e nei piaceri! Io sarei molto più in gamba di lui, io sì! Mentre lui, quella schifezza umana, dovrebbe essere qui, al mio posto, nel fango, a far la vita spenta che faccio io!”

 

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