L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

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La Terra vista da Anticoli Corrado

 

diario del Prof (scolastico e oltre)

 

marzo 2008

 

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martedì 11 marzo

Vagabondo e Monello

 

11 marzo, in un qualsiasi negozio

 

Eravamo in fila in un alimentari, aspettando il nostro turno, quando sono entrati un uomo e poi una donna, che gli andava dietro. Subito abbiamo visto che erano molto diversi da noi, tutti e due. L’uomo era nero in viso di barba non rasata, ma sotto era giallognolo. Gli spuntavano ciuffi di peli neri dal naso, dalle orecchie, dal dorso delle mani ― grosse come se fossero cresciute per conto proprio su di lui come parassiti ― e sulla testa aveva troppi capelli troppo attaccati insieme, come le setole di uno spazzolone. Era magro dalla testa ai piedi ma grasso in vita, e non faceva che tirarsi sulla pancia i pantaloni troppo larghi; ma le manone, grandi com’erano, non sempre facevano presa. Invece la giacca gli era stretta, e su una spalla aveva un buco, peloso anch’esso. Al posto delle scarpe portava sandali, come un frate, e calzini spessi, irti come la pelliccia di un animale.

 

La donna era pallida e rotonda, come la Luna, ma non brillava, anzi: era smorta in faccia come di paura. I capelli li aveva anche lei troppo neri e troppo folti, troppo lucidi, troppo vivi, come viluppi di serpentelli addormentati, o forse sornioni. Indossava una camicetta rosa, ma così stinta che sembrava color pelle, una gonna lunga e stretta, calze sotto le quali si vedevano con disgusto i peli, lunghi, neri, schiacciati contro le gambe, e poi scarpe dal tacco basso, sformate come se i piedi cercassero di uscirne e far senza.

 

L’uomo camminava a gambe e braccia larghe, quasi annaspasse. Ma forse era perché noi ci scostavamo un poco, intorno a loro: forse era per questo che camminava così, come per tenersi a galla. La donna lo seguiva dappresso, ma non gli si mise accanto nemmeno quando vi si fece spazio: stava dietro e aspettava, impaziente, guardando a terra, mordendosi le unghie. Non aveva trucco, né orecchini, né niente. Era molto brutta.

 

Con occhi bui, enormi, liquidi, sfuggenti, guardavano nessuno e però vedevano tutto. Ma le facce erano smorfie lamentose, come se gli piacesse niente.

 

Si era fatto silenzio. Si udiva di quando in quando solo la voce del padrone, e poi la cliente di turno che ordinava e chiedeva. L’uomo invece parlava alla donna ― moglie o figlia che fosse, sembrava parecchio più giovane di lui ― e la donna gli rispondeva. Noi però non capivamo. Parlavano italiano, ma un italiano strano, il cui tono e le parole erano diversi da quelli a cui eravamo abituati: un italiano volgare, greve, offensivo, come se l’uomo maltrattasse e la donna subisse, ma col malanimo e l’astuzia d’una schiava feroce.

 

L’uomo, a un certo punto, in quello stesso italiano ha domandato un’informazione a un signore anziano, con gli occhiali, che da un pezzo da dietro le lenti guardava agitato di qua e di là come se cercasse qualcosa di vitale. Il signore non ha risposto, ha fatto come se non avesse udito, ma si è capito che non era così perché in quello stesso momento ha smesso di agitare gli occhi e si è come pietrificato. Allora un altro signore, più giovane, si è voltato e gentilmente ha dato l’informazione richiesta.

 

“Ma guardi che lo sa, lo sa...” ha detto allora il signore anziano, seccato. “Lo sa benissimo.”

 

La cosa peggiore era la puzza, che quei due avevano portato con sé nel negozio. Come se venissero da un luogo troppo angusto, pieno, soffocante, buio, e lì si fossero rigirati e rivoltolati a lungo irrimediabilmente. Cresceva, cresceva ― a ogni scambio tra loro di quell’italiano così brutto, che proprio perché incomprensibile sembrava rivolgersi anche a noi, e con violenza ― come se la reciproca volgarità si convertisse in entrambi in emozione, e l’emozione in sudore, e il sudore in fetore... L’avevamo già sentita, quella puzza o una simile, e sempre l’avevamo poi dimenticata perché era essa, ben più del resto, che ci faceva sentire angosciosamente precario il mondo gentile, delicato, profumato e colto che non soltanto era il nostro ― quello dei genitori, dei nonni, degli amici ― ma era per noi il solo umano.

 

Quando finalmente siamo usciti, dopo qualche passo ci siamo voltati a guardare se per caso quei due ci seguissero, ce l’avessero proprio con noi... Poi, come sempre quando ci capita d’imbatterci in tipi del genere, abbiamo chiesto a nostra madre chi fossero. E lei, come sempre, ha storto un po’ il viso, lo sguardo ― quasi che dal fondo del cuore e della mente la chiamasse una consapevolezza a cui voleva far da schermo, per noi, con tutta sé stessa ― e ci ha tirato più vicino a sé con entrambe le mani: “Quelli vengono dalla campagna,” ha detto. “Sono poveri, non sono andati a scuola. Parlano solo il dialetto.”

 

Questa volta, dunque, venivano dalla campagna. Altre volte, per esempio scendendo con noi dall’autobus, li aveva chiamati operai. Ma allora l’odore era stato diverso.

 

(Solo che questa pagina di diario, come l’attento lettore avrà indovinato, è sì dell’11 marzo, ma del 1958...)

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martedì 4 marzo

 

Lara, invece, non sa come liberarsi dai lupi...

 

Scacciare i lupi

 

Giorni fa, abbiamo rivisto con gli alunni Il dottor Živago, che David Lean trasse nel 1965 dall’omonimo capolavoro di Boris Pasternak. E, come sempre accade quando rivediamo un film coi ragazzi ― per quante volte possiamo averlo già visto abbiamo scoperto qualcosa che finora ci era sfuggito: la scena, verso la fine, in cui Živago (Omar Sharif), mentre scrive ― a Varýkino, una notte d’inverno, accanto a Lara (Julie Christie) che dorme ― è interrotto e turbato dagli ululati dei lupi che circondano la casa assediata dal gelo. Esce sulla veranda e alla luce della luna li scorge, non lontani, tra gli alberi. Sono tanti. Lui, però, non sembra aver paura: li guarda, per un attimo, come incantato non dalla loro ferocia e pericolosità, ma dalla bellezza del proprio umano rapporto col mondo, che neanche i lupi riescono a incrinare. Poi spalanca le braccia ― una volta, con calma, con forza ― e i lupi si dileguano nel buio.

 

Ma limmagine è del regista, David Lean. Nel romanzo, invece, un silenzio beato, colmo di felicità, che alita dolcemen-

Jurij Andréevic Živago (Omar Sharif) scaccia i lupi nel film Il dottor Živago, di David Lean (1965), basato sull’omonimo romanzo di Borís Pasternàk (1890-1960). Il libro, pubblicato nel 1957 in Italia da Feltrinelli e poi in tutto il mondo, nel 1958 valse all’autore il premio Nobel per la Letteratura. Ma le autorità sovietiche gli fecero (non troppo velatamente) capire che, se si fosse recato in Svezia per ritirarlo, gli sarebbe stato negato il permesso di tornare in patria. Pasternàk decise di non andare. Morì poco più di un anno dopo, il 30 maggio 1960. (I brani de Il dottor Živago citati nell’articolo sono tratti dall’edizione Einaudi del 1969, riveduta da Mario Socrate, Maria Olsoufieva e Pietro Zveteremich sulla base della traduzione di Pietro Zveteremich del 1957. Il tempo dei verbi, che nel romanzo è al passato, è stato da noi volto al presente.)

Jurij Andréevic Živago (Omar Sharif) scaccia i lupi nel film Il dottor Živago, di David Lean (1965), basato sull’omonimo romanzo di Borís Pasternàk (1890-1960). Il libro, pubblicato nel 1957 in Italia da Feltrinelli e poi in tutto il mondo, nel 1958 valse all’autore il premio Nobel per la Letteratura. Ma le autorità sovietiche gli fecero (non troppo velatamente) capire che, se si fosse recato in Svezia per ritirarlo, gli sarebbe stato negato il permesso di tornare in patria. Pasternàk decise di non andare. Morì poco più di un anno dopo, il 30 maggio 1960. (I brani de Il dottor Živago citati nell’articolo sono tratti dall’edizione Einaudi del 1969, riveduta da Mario Socrate, Maria Olsoufieva e Pietro Zveteremich sulla base della traduzione di Pietro Zveteremich del 1957. Il tempo dei verbi, che nel romanzo è al passato, è stato da noi volto al presente.)

Jurij Andréevič Živago (Omar Sharif) scaccia i lupi nel film Il dottor Živago, di David Lean (1965), basato sull’omonimo romanzo di Borís Pasternàk (1890-1960). Il libro, pubblicato nel 1957 in Italia da Feltrinelli e poi in tutto il mondo, nel 1958 valse all’autore il premio Nobel per la Letteratura. Ma le autorità sovietiche gli fecero (non troppo velatamente) capire che, se si fosse recato in Svezia per ritirarlo, gli sarebbe stato negato il permesso di tornare in patria. Pasternàk decise di non andare. Morì poco più di un anno dopo, il 30 maggio 1960. (I brani de Il dottor Živago citati nell’articolo sono tratti dall’edizione Einaudi del 1969, riveduta da Mario Socrate, Maria Olsoufieva e Pietro Zveteremich sulla base della traduzione di Zveteremich del 1957. Il tempo dei verbi, che nel romanzo è al passato, è stato da noi volto al presente).

te di vita, circonda Jurij Andréevič. La luce della lampada cade con un giallo pacato sul biancore dei fogli e con un riflesso dorato galleggia sulla superficie dell’inchiostro, all’interno del calamaio. Fuori dalla finestra sta l’azzurra notte invernale, di gelo. Jurij Andréevič passa nella stanza accanto, fredda e non illuminata, da cui si vede meglio l’esterno, e guarda dalla finestra. La luce della luna piena fascia la radura nevosa con una vischiosità tattile d’albume o di biacca. La sontuosità della notte di gelo è indescrivibile. La pace è scesa nel suo animo. Torna nella stanza illuminata e calda, e si mette a scrivere. (...)

 

Scrive bene, felicemente, a lungo. Vede sui guanciali, bianchi come la neve, le teste di Lara e di Kàten’ka (la bimba che Lara ha avuto da Pavel Pàvlovič Antipov, il giovane rivoluzionario idealista diventato poi Strél’nikov, spietato combattente bolscevico) addormentate. Il candore della biancheria, la pulizia delle stanze, la purezza dei loro visi, fondendosi con la nitidezza della notte, della neve, delle stelle e della luna in un’unica onda di eguale forza, che filtra attraverso il suo cuore, lo fanno esultare e piangere per la sensazione di trionfante purezza dell’esistenza.

 

“Signore! Signore!  vorrebbe mormorare  E tutto questo a me? Perché mi è dato tanto? Come mi hai lasciato venire a te, concedendomi di camminare su questa tua terra impareggiabile, sotto queste tue stelle, accanto a questa creatura avventata, senza rimpianti, sfortunata, adorata?”

 

Sono le tre di notte, quando alza gli occhi dalla scrivania e dalla carta. Dalla chiusa concentrazione in cui era completamente sprofondato, ora ritorna a sé, alla realtà, felice, forte, tranquillo. All’improvviso, nel silenzio degli spazi lontani che si stendono fuori dalla finestra, ode una nota triste e accorata.

 

Passa nella stanza vicina, buia, per guardare fuori. Durante le ore che ha trascorso scrivendo, i vetri si sono coperti di uno spesso strato di brina e non lasciano distinguere nulla. Scosta il tappeto arrotolato, messo davanti alla porta d’entrata per le correnti d’aria, ed esce sul terrazzino d’ingresso.

 

Lo abbaglia il bianco fulgore che ammanta e fa splendere la neve, senza un’ombra, sotto la luce della luna. Dapprima non riesce a fissare lo sguardo e a vedere nulla. Ma, dopo un istante, affievolito dalla distanza, gli arriva un ululio, prolungato, lamentosamente uterino, e nota allora sull’orlo della radura, al di là del burrone, quattro ombre in lungo, non più grandi di un trattino.

 

I lupi stanno in fila, coi musi rivolti verso la casa e protesi in alto; ululano contro la luna o contro le finestre della casa, che riflettono quella luce argentea. Per alcuni istanti rimangono immobili, ma, nell’attimo in cui Jurij Andréevič capisce che si tratta di lupi, come se il suo pensiero li abbia raggiunti, trottano via dalla radura, le groppe abbassate come cani. (...)

 

Quando, poco dopo, rientra in casa, la lampada arde luminosa e accogliente, come prima. Ma ora non ha più voglia di scrivere. Non riesce a rasserenarsi, non può più pensare a nulla, all’infuori dei lupi e delle altre complicazioni che li minacciano. (...)

 

La sera successiva, sente che il suo sogno di stabilirsi a Varýkino per un lungo periodo non si avvererà e che l’ora della sua separazione da Lara è prossima, che immancabilmente la perderà, e con lei perderà la sua ragione di vita, forse la vita stessa. L’angoscia lo consuma. (...) I lupi, cui ha pensato tutta la giornata, non sono più i lupi sulla neve, al lume della luna: sono diventati il tema dei lupi, una figurazione della forza avversa che si è prefissa di perdere lui e Lara. Non ritroverà più lo stato d’animo della notte precedente.

 

Nel romanzo, dunque, prima cè la perfezione  la donna e la bambina profondamente addormentate, la notte splendida, la scrittura calma, piena, felice  e poi i lupi. E i lupi sciupano irrimediabilmente quel momento. E se ne vanno non perché Živago li scacci, ma così come sono venuti, per loro imperscrutabili necessità su cui nulla possono le forze umane.

 

Che essi trottino via proprio nell’attimo in cui Jurij Andréevič capisce che si tratta di lupi, come se il suo pensiero li abbia raggiunti, può voler dire sia che il suo pensiero  magicamente  li ha davvero raggiunti, sia che si è trattato di una semplice coincidenza. Ma in entrambi i casi la verità è che nel romanzo i lupi non se ne vanno, non abbandonano mai la mente e il cuore di Živago, e ne determinano l’ineluttabile fallimento: egli non salverà Lara né sé stesso, quelli come lui lasceranno forse una testimonianza, un ricordo di ciò che a un essere umano è possibile sognare (come se il suo pensiero li abbia raggiunti...) ma non impediranno alla Rivoluzione di degenerare e capovolgersi nella cinica e brutale dittatura dei Komarovskij. I lupi, cioè, per Živago (e quindi per Pasternàk) sarebbero il Male con la M maiuscola, la forza malefica che dall’inizio dei tempi si contrapporrebbe al Bene in noi e in tutto ciò che esiste, fatalmente corrompendo e guastando ogni nostro tentativo a dispetto dei migliori sforzi.

 

Nel film, invece, calma e bellezza e gioia vengono dopo che Živago ha scacciato i lupi. Ed egli lo fa con un gesto all’apparenza incongruo, inadeguato, impotente  spalancare le braccia che invece è il solo possibile proprio perché è un abbraccio: perché è l’abbracciare il mondo di cui solo noi umani siamo capaci, e che trasforma il mondo reale nella realizzazione del mondo possibile creato dall’immaginazione ch’è solo nostra.

 

È un “tradimento” che avrebbe reso il film superiore all’opera di Pasternak, se David Lean avesse osato condurlo fino in fondo. Come in Buongiorno, notte, il bellissimo film di Marco Bellocchio ― quando Aldo Moro trova aperta la porta della prigione brigatista e se ne va, libero, e nella luce dell’alba, con immenso sollievo, noi (che siamo l’Italia) sentiamo la nostra storia degli ultimi trent’anni diventare un’altra immensamente più felice ― così Živago, se sapesse scacciare i lupi dalla mente e dal cuore, salverebbe Lara (ch’è la Russia) nonostante tutto e tutti: la salverebbe nonostante lei che di liberarsene non è mai stata capace, che da sempre l’ha avuti intorno e addosso, ma che non ha mai rinunciato a immaginare possibile d’esserne libera e sempre ha cercato e continuato a cercare chi sappia aiutarla.

 

È bello pensare che potremmo essere noi, ed esserlo oggi che non è ancora troppo tardi, quelli che questa volta non se la lasceranno portar via, Lara che è l’Italia, perché il 13 e il 14 aprile la libereremo dai lupi proprio così: per aver per anni immaginato e sofferto e immaginato e gioito e poi esserci svegliati un bel mattino all’alba dopo aver sognato di scacciarli aprendo per lei le braccia della mente e del cuore.

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domenica 2 marzo

 

Per Veltroni, noi ci vergognamo. E lui? Come fa a non vergognarsi, lui?

 

Ma come fa a non vergognarsi?...

 

Credevamo di averla ritagliata e conservata, invece non c’è... Ma il perché è chiaro: era troppo triste; inconsciamente non ce la siamo sentita di portarcela dietro.

 

Parliamo dell’intervista che Gerardo D’Ambrosio ― giudice del pool di Mani Pulite  rilasciò a La Repubblica circa un anno dopo il suo ingresso in Parlamento nelle fila dei Ds. Intervista in cui confidava la proprie delusione per aver scoperto che “tutte le scelte ― citiamo a memoria ― erano decise nelle alte sfere del partito” e che la passione e l’esperienza dei “semplici” deputati come lui contavano niente.

 

Ci sono tornate in mente, queste parole ― tremende, ché non descrivono una democrazia ma un feudalesimo, o una camorra ― quando abbiamo appreso della candidatura nelle liste del Pidì (e ai primi posti!) di numerosi giovani provenienti dalla cosiddetta società civile. Tra i quali Antonio Boccuzzi, unico sopravvissuto alla strage della ThyssenKrupp.

 

Ma come fai, Veltroni, a non vergognarti di ingannare dei ragazzi come quelli ― puliti, generosi, pieni di passione e di coraggio ― raccontandogli che saranno ascoltati, che i vari D’Alema e compagnia cantante telefoneranno a loro, non ai banchieri, che la loro immaginazione e intelligenza conteranno davvero qualcosa? Come fai a non vergognarti davanti a un ragazzo come Antonio, che alla ThyssenKrupp ha visto la morte in faccia e fra qualche mese se la rivedrà nel cuore quando la maschera ti cadrà dal viso?

 

Perfino Berlusconi è meno falso. Ché i ragazzi e le ragazze che vanno da lui ― quando non vengono dritti dritti dagli anfratti di qualche villa o dalle mille portinerie e sottoportinerie televisive ― son giovanotti che sanno benissimo di che cosa vanno in cerca e non avranno brutte sorprese, dopo, ché il Pidielle vuole lo stesso che vogliono loro. Ma questi ragazzi qui, Veltroni, questi diciottenni e ventenni e trentenni che son la parte migliore del nostro sfortunato Paese, con che faccia gli vai a raccontare che il Pidì è un partito di sinistra? Con che faccia gli ordinerai di votare, dopo ― ammesso che tu vinca ― per le tue “riforme” concordate con la Binetti, con Rutelli, con Fioroni, con Montezemolo, con Colaninno, con Calearo, con i generali della Nato, con gli Usa, con la Confcommercio e fors’anche con Berlusconi?

 

Non aspettate quel giorno, ragazzi. Non aspettate quella delusione, per poi rilasciare interviste impotenti e sentirvi in trappola com’è accaduto al giudice Gerardo D’Ambrosio (dinanzi al quale i furbetti del partitino avrebbero dovuto togliersi il cappello ogni volta che lo incontravano). Aprite gli occhi prima. Una buona affermazione della Sinistra Vera è necessaria, o non vi sarà più alcuno che si opponga alla definitiva americanizzazione dell’Italia.

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