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venerdì 25 dicembre
Tino Carraro, nella parte di Don Abbondio, ne I Promessi Sposi di Sandro Bolchi (1967), e Joseph Ratzinger, nella parte di Benedetto XVI (2009), durante un’udienza e mentre respinge l’abbraccio della signorina Susanna Maiolo.
Papa Abbondio I?
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Il coraggio, diceva don Abbondio, uno non se lo può dare (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXV). E se non lo poteva don Abbondio parroco, perché dovrebbe poterlo don Joseph papa?
Già. Ma don Abbondio almeno lo ammise, dinanzi al cardinal Borromeo, di essere un fifone. Anzi: arrivò perfino a bofonchiare qualcosa di simile a un’ammissione di colpa: Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Non così il “nostro” superparroco universale e “vicario di Cristo in Terra” Benedetto XVI, che a scusarsi non ci pensa proprio.
Al contrario: con invidiabile disinvoltura ci fa sapere di aver trascorso ― dopo quella che i media si ostinano a chiamare l’aggressione che ha subìto ― un sereno e piacevole proseguimento di giornata, e imperturbabile ostenta già di nuovo in pubblico le sole e ormai note due espressioni di cui dispone: quella che lo fa sembrare attonito (malgrado egli probabilmente la immagini colma di commovente candore) e il ghigno inquietante che forse solo lui, che lo vede “dall’interno”, può scambiare per un affabile sorriso.
Tranquillo ― lo avranno immediatamente informato, per trarlo da una più che probabile prostrazione, che i documenti visivi sono confusi, quasi illeggibili, e che i testimoni oculari dell’evento erano troppo occupati a filmarlo per vederlo, o troppo entusiasti di assistervi per parteciparvi realmente ― Joseph Ratzinger si sentirà ormai sicuro che nessuno si sia accorto della figuraccia che sa bene di aver fatto. Sicuro, in parole povere, di averla sfangata anche questa volta.
Ma è davvero così? Neanche per idea, a nostro non umile avviso.
Sì, d’accordo, forse il povero cardinale Etchegaray non lo citerà in giudizio per i danni materiali e morali (frattura del collo di un femore e coccolone ben più giustificato di quello del suo principale) che il parapiglia ― come i media si ostinano a chiamarlo ― gli ha arrecato fratturandogli un femore. Ma tutti hanno visto, e tutti hanno immediatamente sentito e compreso, che non c’è stata alcuna aggressione. Che la signorina Susanna Maiolo voleva solo sfiorarlo, toccarlo, baciare la sua veste, forse le sue eleganti scarpette rosse, tutt’al più abbracciarlo e baciarlo... e nient’altro.
Inutile prendersela con la scorta, che conosce il suo mestiere e sa distinguere un aggressore da un adoratore: non sono intervenuti perché anche loro, come tutti ― lo ripetiamo: tutti, sul pianeta Terra ― hanno sentito e compreso che quello a cui assistevano era un gesto di affetto. Il gesto di affetto di una persona psicolabile? Certo. Chi, se non uno psicolabile, può a tutti i costi voler abbracciare un papa? Ma pur sempre un gesto di affetto, solo di affetto.
L’unico ― lo ripetiamo: l’unico, sul pianeta Terra ― che l’ha scambiato per un’aggressione è stato il destinatario di tanto (e malriposto) amore. Forse perché una donna che non resiste al desiderio (in questo caso cieco, lo sappiamo, ciechissimo) non può che apparire minacciosa ai membri di un’istituzione fondata sull’impaurita e tremebonda esclusione delle donne? Forse perché scambiare l’amore per odio ― e viceversa ― è pressoché doveroso per individui che diffidano del corpo (umano) e stravedono per lo spirito (divino)? O forse ― più semplicemente ― perché è lui, l’uomo, il Ratzinger, che prende lucciole per lanterne sopra, sotto, a sinistra, a destra e davanti a sé? Non lo sappiamo e poco ce ne importa. Quel che ci sembra chiaro, però, è che il “vicario di Cristo in Terra” ― che passa per il massimo esperto vivente dei moti della cosiddetta “anima” ― non abbia capito un’acca di che cosa volesse da lui la signorina Maiolo. Quel che ci sembra chiaro è che il sullodato si sia spaventato per niente, abbia perso la calma, si sia divincolato e sia stato la prima ― se non l’unica ― causa del “parapiglia” che al povero cardinale Etchegaray potrebbe costare la vita e alla povera signorina Susanna Maiolo ― psicolabile? certo, come no, ma psicolabile affettuosa ― costerà un processo dinanzi alla giustizia vaticana ― ve la raccomandiamo ― e sta già costando un trattamento psichiatrico obbligatorio presso l’ospedale... già, proprio così: presso l’ospedale Angelucci di Subiaco, qui, a un passo da noi, nella Valle dell’Aniene: e non è solo in questo senso che le siamo e ci sentiamo a lei vicini.
Poiché lo abbiamo già detto per il duo Berlusconi-Tartaglia, e non possiamo che ripeterlo per il duo Ratzinger-Maiolo: chi ha bisogno di cure ha il diritto di essere curato, e nel miglior modo possibile, non certo quello di atteggiarsi a supremo reggitore corporale e/o spirituale di popoli o addirittura dell’intera Umanità. Siamo stanchi: vogliamo essere guidati da persone le cui mogli non abbiano motivo di dire che non stanno bene, e che non scambino l’amore per odio e l’odio per amore.
Il coraggio, diceva don Abbondio, uno non se lo può dare. Ma lui, almeno, non pretendeva di fare il papa. Si accontentava di fare il parroco. E perfino quello lo faceva male. |
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Francis, Scottie e Zelda
Babilonia rivisitata
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Rovinato dalla crisi economica, Charlie Wales, di trentacinque anni e “piacevole aspetto” ma con “una ruga profonda tra gli occhi” (ai bei tempi uno dei masters of the Universe della Borsa di New York: “una specie di clan reale, quasi infallibile, circondato da un che di magico”) si sta piano piano riprendendo: è di nuovo “in affari”, questa volta nell’Europa dell’Est, dove gli hanno affidato la rappresentanza di “un paio di ditte” (“laggiù non mi conoscono”, dice: sa che altrimenti non si fiderebbero) e comincia a rivedere un po’ di denaro: non ancora la ricchezza fuor di misura dei giorni delle “banconote da mille regalate a orchestre per aver suonato un singolo pezzo” o delle “banconote da cento messe nelle mani di un portiere per aver chiamato un tassì” ― niente a che vedere con quegli “anni pazzi”, per il momento ― ma abbastanza soldi per sentire “le porte del mondo di nuovo spalancate”.
Per questo ha la forza, dopo tre anni, di tornare a Parigi, dove “ai tempi delle quotazioni in rialzo” si era “ritirato” a sperperare i milioni accumulati in America: perché da un anno e mezzo non beve (“solo un whisky ogni pomeriggio, non una goccia di più”, e anche quello “volutamente, per impedire che la fantasia attribuisca un’importanza esagerata all’idea dell’alcool”); perché “gli affari vanno a gonfie vele”; perché, insomma, “le cose sono cambiate, sono cambiate radicalmente”; e soprattutto perché Charlie ― un uomo nuovo: che ha sofferto e fatto soffrire, ma sente di essersi riscattato dalla pazzia di quegli anni ― vuole ritrovare l’unica persona “che per lui abbia importanza”, l’unica che gli è rimasta: Honoria, una bambina di nove anni che non lo vede da quando ne aveva sei. Da quando Charlie si diede alla fuga, dopo la morte della moglie, lasciando la figlia agli zii materni.
Anche Parigi è cambiata, da prima della crisi. Locali quasi deserti, pullman turistici semivuoti, la notte buia perfino a Montmartre, maître che al passaggio di Charlie si fanno sulla porta a invitarlo dentro, gli “amici” di un tempo scomparsi ― chi gravemente malato, chi dileguatosi seminando assegni a vuoto, chi tornato in America a cercare di rifarsi una vita... Nei ritrovi, solo “giovani donne dalla voce stridula”: “Niente le tocca,” pensa Charlie. “Le azioni salgono o crollano, la gente ozia o lavora, ma loro continuano, imperterrite, come sempre”. Lui invece, che “non ha mai mangiato in un ristorante realmente economico di Parigi”, ora “per qualche strano motivo vorrebbe averlo fatto”.
Ed è ora, nel rammaricarsi di essere tra quelli che non sanno cos’è un ristorante economico, che Charlie comprende, sentendo l’“improvviso provincialismo” della città, (“ora che ci sono così pochi americani in giro”, dirà Marion, la cognata che da tre anni fa da mamma a Honoria, “almeno puoi entrare nei negozi senza che ti credano milionario”) che quello che non c’è più non se n’è solo andato: è stato sprecato. E non per caso, non per il gusto di sprecare, ma perché sprecare significava “annullare”: tutto quel denaro “non è stato dato via per niente; è stato dato, anche la somma sperperata nel modo più pazzo, come un’offerta al destino, perché a Charlie fosse concesso di dimenticare le cose più degne di essere ricordate, le cose che adesso ricorderà sempre... la bambina tolta alla sua autorità di padre, la moglie rifugiatasi in una tomba del Vermont”. Comprende, insomma, con disperato orrore, di “averla guastata lui, per sé, quella città: non se n’era accorto, mentre i giorni si susseguivano gli uni agli altri, e poi, a un tratto, ecco che se n’erano andati due anni: ecco che tutto se n’era andato, compreso lui”.
Ma è proprio così? Charlie e gli altri (i “padroni dell’Universo” degli “anni pazzi”, quelli che “in ultimo”, con la crisi ormai incombente, “non lavoravi neppure e non facevi che arricchire sempre di più”, arricchire e sperperare) davvero le hanno guastate soltanto per sé, le città e le nazioni, o anche e soprattutto per i milioni di donne e di uomini e di bambini che con sé hanno trascinato nella rovina?
Chissà: forse, in un certo senso, è così. Poiché gli altri, le vittime, non solo sono sopravvissuti, ma in qualche modo stanno meglio di lui. Anche ora che Charlie si è ripreso, e già guadagna “il doppio di loro”, gli altri, quelli che ricchi non sono mai stati e nella crisi “hanno tirato avanti risparmiando il centesimo” ― la cognata “dagli occhi preoccupati”, che ha perduto la “bellezza fresca” di prima; suo marito, Lincoln, per tutta la vita un impiegatuccio (o almeno così pare a Charlie, che “si domanda se non possa far qualcosa per toglierlo alla routine della banca”); i due figli, che a scuola non vanno bene: possibile che Marion e Lincoln li abbiano trascurati per Honoria, orfana e abbandonata per colpa del padre? ― tuttavia in qualche modo stanno meglio di Charlie. Poiché da loro “fa caldo, è una casa, persone vicine accanto al fuoco”. I bambini, anziché trascurati, “si sentono molto al sicuro e importanti; la madre e il padre sono seri, vigili. Hanno da fare, per i figli, cose più importanti della sua visita. Non che siano persone insignificanti e noiose, ma si trovano nella morsa della vita e delle circostanze”. E in quella “morsa” non solo “la vita”, non solo “le circostanze”: tutto, a parte la “bellezza fresca”, è più difficile sprecare e annullare. Ecco perché stanno meglio di Charlie, quelli che non hanno mai neanche immaginato di poter essere ricchi come lo è stato lui, e come forse sarà di nuovo ora che la crisi sta forse passando.
Non tutti, però. Stanno bene, pur nella “morsa”, quelli che come Marion (e in parte suo marito) hanno sempre diffidato, sempre rinfocolato l’antipatia che fin dall’inizio li ha divisi da Charlie e da quelli come lui (“le persone di quel genere la sconvolgono fisicamente”, dice Lincoln della moglie, e certo non si riferisce a Charlie... ma in fondo sì, si riferisce anche a lui). Quelli che hanno sempre odiato Charlie e gli altri masters of the Universe, e contro di loro “hanno eretto un muro”. Mentre Helen, la sorella di Marion, che di Charlie s’innamorò perdutamente, e lo sposò, e fece una figlia con lui, e alla fine per lui è morta ― “era malata di cuore”, dice Charlie, poiché sa bene che è morta di crepacuore ― Helen e quelli come Helen non stanno meglio, non sono sopravvissuti: sono morti. Di chi stava con Charlie e gli voleva bene, si è salvata solo sua figlia, che ancora lo ama malgrado tutto. Ma solo perché Lincoln e Marion l’hanno presa con sé, nella “morsa”, togliendola a Charlie e a quelli come lui. Quelli che dalla “morsa” erano “liberi”. “Liberi” di sperperare, di disperdere, di non ricordare. Di annullare.
Ora Charlie ha capito. E rivorrebbe Honoria con sé ― finché ancora è in tempo, per i pochi anni che mancano a quando Honoria “crescerà e conoscerà qualcuno della sua età, e lo sposerà, e dimenticherà di aver avuto un papà” ― rivorrebbe la figliola da lui abbandonata e resa orfana (“non potrò mai dimenticare, finché vivrò”, lo rimprovera Marion, “la mattina in cui Helen venne a bussare alla porta di casa mia, bagnata fino alle ossa e tremante di freddo, e disse che tu l’avevi chiusa fuori”. E Charlie, che ora sa, e ricorda, e forse ha finito di sperperare, non può non riconoscere che sì, è vero, prima della crisi lui e quelli come lui “chiudevano fuori nella neve le mogli” poiché la neve degli anni pazzi “non era neve reale: se non si voleva che fosse vera neve, bastava sborsare un po’ di denaro” e andarsene, “liberi” dalla “morsa” delle mogli e dei figli, col gran codazzo appresso di quelli che come cani seguivano i “padroni dell’Universo”: “le persone incapaci di fare una somma o di mettere insieme una frase coerente; l’ometto con cui Helen aveva accettato di ballare alla festa a bordo del transatlantico, e che l’aveva offesa a tre metri dal tavolo; le donne e le ragazze trascinate fuori dai locali pubblici, strillanti nell’ebbrezza dell’alcool e degli stupefacenti... gli uomini che chiudevano fuori nella neve le mogli...”) poiché, ora che tutto questo è sparito, cosa è rimasto a Charlie del mondo che un tempo spendeva e sprecava come se ne fosse il padrone? Solo Honoria, solo sua figlia. È lei “the Universe”, adesso, ma lui non ne è il padrone. È lei, è l’amore di sua figlia ― salvata da Marion e Lincoln, gente comune, di quelli che hanno sempre “tirato avanti risparmiando il centesimo” ― è il rapporto con Honoria il solo mondo in cui l’ex “padrone dell’Universo” esiste ancora, ancora può fare, ancora è un essere umano, non “un fantasma improvvisamente emerso dal passato”. Poiché l’amore del padre per la figlia non è come l’amore della figlia per il padre. Non lo è mai, non può esserlo, ma in particolare non lo è per questi due: ché l’amore di Honoria è l’amore gratuito di una bambina che ha già tutto poiché non ha ancora cominciato ad annullare e forse mai comincerà (benché il padre si dica certo che “crescerà e conoscerà qualcuno della sua età, e lo sposerà, e dimenticherà di aver avuto un papà”), mentre quello di Charlie per lei è l’amore disperato di chi ha sperperato e annullato tutto, letteralmente tutto ― ha tramutato il mondo in denaro e l’ha speso ― ma per un’inconcepibile, immeritata fortuna ha riavuto salva la figlia, nonostante lui, grazie a due di quelli che ha sempre disprezzato: un uomo e una donna “qualsiasi”, una “qualsiasi” mamma, un “qualsiasi” lavoratore.
Riuscirà Charles J. Wales, di Praga ― uomo forse nuovo, che forse ha più niente a che fare coi Charlie Wales di Wall Street e di Parigi, non beve più, non sperpera, forse non annulla, e “nella bianca, morbida luce che si diffonde all’alba su chi è in bilico tra il sonno e la veglia si sorprende a parlare di nuovo” alla moglie che abbandonò nella neve ― riuscirà a riavere la figlia, a metter sù casa con lei, a “far venire la sorella dall’America” perché lo aiuti, a “non soffocare in alcun modo la personalità” della bambina, a “non amarla troppo”, “con un attaccamento eccessivo”, a “proteggerla” (“si sentiva travolto da un’ondata possente di desiderio di protezione”), a “immettere in lei una piccola parte di sé prima che ella si cristallizzi del tutto”, e però anche ad “aver fede nella sua personalità in quanto elemento eternamente valido”?... Sì, sono belle le immagini, belli i pensieri di Charlie sull’unica realtà al mondo, sua figlia, nella quale egli ancora esiste dopo aver “guastato, per sé,” tutto il resto. Ma egli riavrà Honoria soltanto se riuscirà a render belle le immagini, belli i pensieri su di lui degli altri, di coloro che hanno il potere di restituirgliela o no. E se vi riuscirà o meno vogliamo che sia il lettore di queste righe a scoprirlo da sé, leggendo questo meraviglioso racconto che narra la crisi economica, e ne comprende per intero l’immensa complessità, e la spiega, come nessun altro scrittore ha mai fatto.
Lo storico, naturalmente, ne parla in modo diverso... “In questo clima psicologico e politico, nel pieno di una prosperità in cui alcuni punti d’ombra parevano trascurabili (zone di disoccupazione, eccessi nelle speculazioni finanziarie, aumento della criminalità) viene trionfalmente eletto alla presidenza degli Stati Uniti un repubblicano. [...] Non è facile individuare con esattezza tutte le cause della crisi che, partita dall’America, coinvolse quasi immediatamente i paesi europei e investì con ondate successive il resto del mondo. Le interpretazioni «ufficiali» mettono l’accento sulla folle corsa alle speculazioni finanziarie e borsistiche e sullo spirito d’avventura di improvvisati uomini d’affari statunitensi, (...) che certamente contribuirono ad accelerare i tempi della crisi; ma la sua forza distruttiva e le sue estese ripercussioni risulterebbero in parte inspiegabili se non si tenesse conto: 1, del carattere «subalterno» al capitale americano del capitale europeo, latino-americano, asiatico; 2, delle tendenze economiche prevalenti nel decennio precedente la crisi: scarsi investimenti nei maggiori settori produttivi (...), scarso o fittizio incremento del potere d’acquisto (scarsità camuffata dall’esplosione delle vendite rateali), permanere di una estesa disoccupazione o sottoccupazione, politica di bassi salari; 3, della quasi totale assenza, negli USA come in Europa, di un efficace controllo da parte dello Stato sul sistema bancario privato (ciò che permise alle banche di impegnarsi in iniziative imprenditoriali utilizzando il denaro dei risparmiatori e di manovrare i titoli azionari di cui erano in possesso lanciandosi in imprese speculative azzardate). Solo in questo quadro, che è tuttavia lungi dall’essere completo, possono valutarsi le premesse della crisi” che privò del lavoro decine di milioni di persone in tutto il mondo, spinse sull’orlo del fallimento decine di migliaia di imprenditori e falcidiò le economie di milioni di risparmiatori”.
Ricostruzione esatta, valida, interessante. Ma lo storico non dice tutto, e lo ammette. Manca quel di più che per vederlo, o quanto meno intuirlo, si ha da essere anche “artisti”. Non aver troppo intorbidato, cioè, il “fondo” immaginoso e creativo che è per nascita in ognuno di noi. E poter scorgere, così, o almeno intuire, anche la “neve” in cui i Charlie Wales (poiché tanto “non è neve reale: se non si vuole che sia vera neve, basta sborsare un po’ di denaro”) abbandonano le mogli, le figlie, e milioni di Marion e di Lincoln che “tirano avanti risparmiando il centesimo”. Credendosi, i Charlie Wales, i padroni del mondo. Mentre un mondo, anche se piccolo, può averlo e serbarlo soltanto chi non si fida di loro.
P.s.: Il lettore si sarà reso conto fin dalle prime righe, naturalmente, che la crisi di cui si parla è quella ― cosiddetta ― del ‘29 (che in realtà durò dieci anni e permise al fascismo italiano di dilagare nel nazismo tedesco, e al nazismo di gettare il mondo nella guerra mondiale e nella Shoah). E che i testi citati sono Babilonia rivisitata, bellissimo racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1931 (Francis Scott Fitzgerald, 28 racconti, traduzione di Bruno Oddera, Milano, 1960, Arnoldo Mondadori editore) e la Storia contemporanea di Rosario Villari (Rosario Villari, Storia contemporanea per le scuole medie superiori, Bari, 1970, Editori Laterza). Un “manuale” su cui studiarono molti ragazzi della mia generazione. Un manuale ormai “superato”, certo, come no. Anzi: “rottamato”. Da quelli che delirano che perfino la Storia “non sia Storia reale: se non si vuole che sia vera, basta sborsare un po’ di denaro” e andarsene, “liberi” dalla “morsa”, col gran codazzo appresso di quelli che come cani seguono i “padroni dell’Universo”. |
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Brava Sabina!
“Se mi ha fatto pena vedere Berlusconi ferito? Sì, mi ha fatto moltissima pena. Ho visto il volto insanguinato. Ho visto un vecchio ferito. Quando è uscito per vedere in faccia il suo aggressore ho provato anche stima per la fierezza. E ho visto anche un politico credo per la prima volta. Mi hanno sconvolto quelle immagini e ho provato pena anche se quest’uomo è quello che ci avvelena la vita da vent’anni. Anche se ha distrutto il mio Paese. Provo pena nonostante tutto perché sono umana. Quella stessa pena che Berlusconi non ha provato per le centinaia di persone pestate a sangue a Genova, per le violenze che subiscono Immigrati, Carcerati, i Manifestanti di Chiaiano manganellati. La pena, la solidarietà umana che io e credo molti di voi abbiamo provato non è corrisposta. Noi abbiamo repulsione per la violenza anche nei confronti di un uomo che la pratica, che è il mandante di tanti gesti di violenza. Non ci sono dubbi per me: non avrei voluto che accadesse, non voglio che si ripeta.” (Dal sito di Sabina Guzzanti, 15 dicembre 2009). |
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Uomini da Curare
Non si può che provare dispiacere e sconforto per quel che è accaduto a Milano. Silvio Berlusconi, un uomo che non sta bene (Veronica Lario, 5 maggio 2009, La Repubblica) è stato aggredito e ferito da Massimo Tartaglia, un uomo che non sta bene.
A entrambi, in questo momento difficile delle loro vite, ScuolAnticoli sente di dover esprimere piena solidarietà. Ci auguriamo che siano aiutati nel modo migliore. Che ambedue, quando per motivi diversi compariranno dinanzi a un giudice, siano processati imparzialmente e serenamente. E che non tardi ancora molto ad arrivare ― per loro, per il nostro infelice Paese e per tutti noi ― il giorno in cui la violenza non sarà più possibile tra gli Esseri Umani: né dei potenti contro i deboli, né dei deboli contro i potenti. Ché né gli uni né gli altri sono bestie, e non possono esser trattati come tali senza che chi lo fa (e il Paese, smarrito dietro gli Dei, che non sia mai non se ne curi e non li curi) perdano il senso della propria Umanità. |
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Più cristiani o più leghisti?
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Il 5 dicembre La Padania si domanda se Dionigi Tettamanzi (dipendente dello Stato estero della Città del Vaticano col grado di arcivescovo di Milano) sia un cardinale o un imam. Al quotidiano leghista non piace, a quanto pare, che il Tettamanzi si opponga al razzismo che la Lega diffonde da anni nella Società italiana e difenda pubblicamente i diritti dei Migranti.
Il giorno dopo, intervistato da La Repubblica sulla questione, Roberto Calderoli (leghista, ministro della Semplificazione e portatore di moccichino verde) rincara la dose dichiarando che il Tettamanzi con il suo territorio non c’entra proprio nulla. Sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia.
Gli risponde, in prima battuta, Fare futuro web, un sito definito “vicino” a Gianfranco Fini, ex neofascista, ex aennìno, oggi pidiellìno e presidente della Camera: Questo succede quando la politica prende in prestito la fede per farne uno strumento di odio e di divisione. E poi lo stesso Tettamanzi: Ai vescovi è affidata la custodia del gregge, ossia del popolo di Dio. È una custodia che comporta di riunire il gregge e in particolare di vigilare sul gregge e così difenderlo dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di quei lupi rapaci che sono gli eretici (La Repubblica, martedì 8 dicembre 2009).
Le “idee”, il linguaggio e le velleità del Calderoli e di tutti i portatori di moccichini verdi ricordano sempre più esplicitamente l’ideologia nazista. Ma Fare futuro non sa che i leghisti non “prendono a prestito” la fede come “strumento di odio e di divisione”: le fedi sono strumenti di odio e di divisione.
Lo dimostrano, una volta di più, proprio le parole del Tettamanzi. Che un giorno lamenta la mancanza di “accoglienza” e di “rispetto” verso la “persona” umana, a Milano e altrove, e l’indomani confonde gli Esseri Umani con le pecore (il gregge) e coi lupi rapaci. Solo che il Calderoli non è una bestia, benché “pensi” e dica (e induca a commettere) “bestialità” contro i Migranti, e chiamarlo bestia e lupo rapace è dunque altrettanto insensato e violento che negare i Diritti Umani dei Migranti, cioè il loro essere Umani. E tutto ciò ― il rapportarsi agli Esseri Umani come se fossero animali non umani, sia del Calderoli contro i Migranti sia del Tettamanzi contro il “gregge” e contro il Calderoli ― non è affatto “in contrasto” con la fede, poiché è proprio la fede, proclamando l’Umano inferiore al divino, il fondamento di ogni svalutazione dell’Umano; ed è per fede, dunque, che tutti loro, i Tettamanzi come i Calderoli, confondono l’Umano col non umano.
Rispetto al Tettamanzi, o ai portavoce del Fini, molto meglio Gad Lerner: “La volgarità degli argomenti (del Calderoli) non deve trarre in inganno: c’è del metodo nella provocazione architettata nel dì festivo...Quasi una contro-predica rivolta al gregge della diocesi più grande del mondo, puntando dal trono del governo alla conquista dell’altare in Duomo. La Lega vuole la corona longobarda, che sia cristiana o pagana non le importa. Si erge a potere costituito che ripristina la tradizione perduta. Sente venuto il suo momento e punta al bersaglio grosso. Perciò esercita violenza verbale, scagliandosi contro il cardinale: deve dimostrarci che nulla la potrà fermare, che non ha paura di nessuno (...): la nuova teologia in camicia verde s’impone come energia scaturita dalla volontà popolare” (La Repubblica, martedì 8 dicembre 2009).
Era ora. Finalmente anche qualcun altro comincia a intuire quel che su ScuolAnticoli diciamo da mesi. Lerner non perde tempo a piagnucolare su immaginarie “strumentalizzazioni politiche della fede” da parte leghista. Intuisce che quella è solo l’apparenza, la scorza; la sostanza, il midollo, è la nuova teologia in camicia verde. Al pari del nazismo, il leghismo è esso stesso una fede, si sente tale, forse addirittura sa già di esserlo, e come ogni fede pretende di essere l’unica vera: non solo l’Islam e gli imam, anche il Cristianesimo e i preti come potrebbero non essere invisi ai druidi del leghismo? Riempirsi la bocca di crocifissi e di presepi, come fanno, non è “fraintendimento”, non è “strumentalizzazione”: è ciò che resta della vecchia identità nella nuova, sono i residui, i cascami del cristianesimo e del cattolicesimo che pendono a brandelli dal leghismo come squame dall’epidermide di un serpente dopo la muta.
In Germania, nei primi anni ’30 del secolo scorso, i nazisti pensavano, parlavano e agivano così. Leggiamo qualche riga del fondamentale Come si diventa nazisti, dello storico americano William Sheridan Allen, che per anni lavorò a ricostruire l’avvento del nazismo ― per così dire in vitro ― negli archivi della cittadina di Nordheim, nell’Hannover, (nella prima edizione del libro ribattezzata Thalburg): Né dimenticavano, i nazisti, di fare appello all’elemento religioso di Thalburg, aiutati in ciò dalla paura luterana per i socialdemocratici. L’autunno precedente la congregazione ecclesiastica della contea aveva ascoltato un pastore di Hannover che ammoniva i fedeli di stare in guardia contro il partito socialdemocratico, definendolo “fondamentalmente avverso alla Chiesa”; al suo discorso si era associato il barone von Barten, che aveva esortato i ministri del culto riuniti a lottare contro “il bolscevismo”. Nel febbraio 1932, a una riunione della parrocchia luterana di Thalburg, un altro pastore, collegando fra loro i socialdemocratici e i comunisti, li aveva indicati come la principale forza che era dietro l’ateismo e “la libertà di pensiero”. Il partito socialdemocratico non rilevò nemmeno tali accuse; ma i nazisti si misero subito in moto per sfruttarle: il 12 febbraio 1932 condussero un sacerdote a tenere una conferenza, davanti a uno “scelto” uditorio di “predicatori, anziani della Chiesa, insegnanti e membri di comitati scolastici”, sul tema “Nazionalsocialismo e cristianesimo”. L’oratore dichiarò che la costituzione di Weimar aveva portato un colpo al cristianesimo, puntando ― egli disse ― direttamente verso il bolscevismo; la meta a cui tendeva il nazismo, secondo le sue affermazioni, era “l’uomo timorato di Dio, organico, figlio del suo popolo”. Uno almeno dei pastori presenti si levò per polemizzare, osservando che il programma razziale dei nazisti avrebbe portato “all’idolatria nazionale e all’odio di massa”; ma “quando l’oratore respinse l’obiezione con veemenza, l’uditorio applaudì calorosamente.” (William Sheridan Allen, Come si diventa nazisti. Ascesa e avvento del nazismo in una cittadina di diecimila abitanti, con un’introduzione di Luciano Gallino, Einaudi, Torino, 1968, 1994, pp 80 - 81).
Non si può essere più chiari, più trasparenti, più espliciti di così su quel che si vuol essere e fare: l’uomo timorato di Dio, organico, figlio del suo popolo. Che tradotto significa: non vi è alcun uomo timorato di Dio al di fuori di chi è organico, figlio del suo popolo, cioè nazista.
Il nazismo, come il leghismo, sentiva di essere esso stesso una religione. Per qualche anno, questo suo sentimento si credette cristiano ― anzi: addirittura autenticamente cristiano, cristiano come nessun altro ― e si sforzò, persino con convinzione, di rappresentarsi anche a sé stesso come tale. Poi, a mano a mano che cresceva la sua presa sulla società civile, in breve tempo prese coscienza di sé come fede nuova ed esclusiva e divenne nemico del cristianesimo come ogni religione è nemica di ogni altra. E perseguitò il cristianesimo, poiché vedeva in esso un concorrente al dominio delle menti e dei cuori degli adepti. Come leggiamo, ancora in Allen, nei capitoli dedicati alle azioni dei nazisti dopo la vittoria elettorale del 1933: Gli sforzi dei nazisti per conquistare l’egemonia sociale non si limitarono alle comuni associazioni economiche, patriottiche e di carattere vario. Essi volevano far sentire la propria autorità anche nelle questioni religiose e puramente culturali. (...) Prima dell’avvento del Terzo Reich, (...) i nazisti incoraggiavano la religione come un aspetto della lotta contro “lo Stato di novembre senza religione” (cioè la repubblica di Weimar). In contrasto con la posizione socialista (“la religione è un affare privato”), i nazisti proclamavano: “La religione è un affare del Volk!” (Cioè del Popolo inteso come entità unitaria, fortemente individualizzata rispetto a ogni altra dalle proprie tradizioni, mistica; n.d.r.). (...) (Ma dopo la vittoria elettorale) la campagna prese la forma di un tentativo inteso a far entrare i luterani nel Movimento cristiano tedesco, che veniva presentato come un movimento apolitico guidato da uomini religiosi che erano nazisti solo casualmente, e che s’interessavano soltanto alla riunificazione e al rinnovamento del protestantesimo. (...) Coloro che sostenevano il Movimento cristiano tedesco credevano sinceramente che esso avrebbe appoggiato il protestantesimo. Negli anni successivi, quando il nazismo divenne decisamente antireligioso, alcuni di quegli uomini furono in prima linea nella lotta contro il nazismo e opposero una resistenza coraggiosa; ma la loro cecità nei primi mesi del Terzo Reich diede al nazismo un grande appoggio (Allen, Come si diventa nazisti, cit., pp 221 - 222).
Tutti continuiamo a credere che sia il Berlusconi la peggior minaccia che incombe sul nostro Paese. Ma non è vero. Quasi tutto ciò che poteva fare di minaccioso il berluscismo l’ha già fatto (in trent’anni di pressoché assoluta egemonia massmediatica sull’immaginario popolare) prendendosi gioco di ogni valore, di ogni buon sentimento sano e fin della minima onestà e decenza. Facendo dell’Essere Umano ― di ogni Essere Umano ― una meschina parodia di sé stesso, una caricatura, una buffonesca e spregevole marionetta televisiva che qualsiasi guitto da teleschermo può permettersi di sbertucciare dall’alto in basso dalla mattina alla sera, il berluscismo ha seminato disperazione di sé e del prossimo in tutti gli Italiani, compresi molti degli avversari: ha ridotto il Paese a un circo demenziale senza spettatori, dove ognuno è il pagliaccio e lo zimbello di ogni altro, e lo ha reso tale perché così gli conveniva (chi disprezza sé stesso, lo si vende e lo si compra a meno) e perché così piaceva vederlo a quella specie di Jolly Joker dal ghigno perenne che è il suo capo e ispiratore.
Ma ora che ci ha ridotto così, proprio ora che ci ha ridotti a sua ripugnante immagine e somiglianza, ecco che casca l’asino: ora vorremmo che qualcuno ci tirasse sù, e il berluscismo non ci riesce, non ce la fa, non è capace. È grande nel far dell’uomo un pagliaccio, il berluscismo, ma se il pagliaccio lo implora di rifarlo uomo non sa più dove metter le mani. E così vive alla giornata, inetto, mentre la disperazione di sé degli Italiani cresce. E nella disperazione, come in ogni disperazione, cresce il delirio che solo un rigore assoluto contro noi stessi e contro gli altri (soprattutto contro gli altri, i Migranti, i Poveri, i Lavoratori, le Donne, i Ragazzi: contro chiunque, conservando un po’ di umanità ci ricordi il fragile Essere Umano che non vorremmo più essere, dacché le tv ci hanno indotto a vederlo così spregevole), il delirio che solo un verbo divino che ci sottometta, ci fulmini sulla via di Damasco, ci bruci e ci rigeneri fin nel midollo delle ossa, possa rinnovare ognuno di noi e l’intera società e restituirci, tutti (e guai a chi si sottrae, poiché la minima incrinatura può far crollare l’intero edificio) al rispetto di noi stessi.
Cresce, cioè, il delirio che solo una fede ferocemente severa possa salvare un popolo così malridotto, ma la “fede” che promana dal Ratzinger e dai suoi dipendenti (per quanto si sforzino di far la faccia cattiva nelle questioni cosiddette “etiche”) non appare abbastanza inflessibile (e soprattutto non sembra abbastanza credibile, compromessa com’è con la classe politica sia di destra che di finta “sinistra”) per infondere la sensazione di un’autentica possibilità di pulizia negli Italiani che da trent’anni non vedono sé stessi, nello specchio deformante delle televisioni, altro che come ributtanti fantocci senza dignità. Quegli Italiani vogliono una fede che abbia la forza per far macerie di tutto ciò che ormai sta in piedi solo con lo sputo, e per buttar tutto a mare e ricostruire. Ma soprattutto ― poiché nessuno di loro vuole davvero che le macerie siano quelle dei suoi affaracci e della sua vitaccia ― quegli Italiani vogliono una fede che getti la maschera e si mostri a viso aperto per quel che ogni fede più o meno segretamente è: odio antiUmano che trovi e perseguiti in qualcun altro il capro espiatorio (la pupazza da bruciare in piazza, potremmo dire nella Valle dell’Aniene) al quale far espiare tutte le colpe, tutto il disgusto, tutto il disprezzo. Una fede così vogliono gli Italiani che il berluscismo televisivo ha riempito di disprezzo per sé stessi; una fede così, vogliono gli Italiani in cerca di inermi da mettere in croce dopo aver caricato sulle loro fragili spalle tutto quel disprezzo; e il leghismo ― come un tempo il nazismo ― si candida a essere precisamente una fede così.
Ma cosa andiamo dicendo? Che il berluscismo ha lavorato per l’avvento del neonazismo leghista? Siamo troppo ottimisti. Noi siamo già governati dal neonazismo leghista: è la Lega che detta l’agenda del governo, è la Lega che ne costruisce giorno per giorno la nuova ideologia dal volto inflessibile, così diversa dal buffonesco tirar a campare di prima, è la Lega che già prescrive ai berlus-cloni cosa dire e pensare e fare adesso che le battute da palcoscenico non risollevano il morale più a nessuno. Manca solo che il Berlusconi cada, o muoia di decrepitezza, lui e le sue barzellette, e la Lega salirà in trono; e allora tutti i miserabili tirannelli di villaggio che dal ciondolare al bar son passati al ciondolare in municipio almanaccando persecuzioni contro i Migranti e sentendosi in tal modo rinnovati, purificati, potenti, dotati finalmente di uno scopo nella vita, tutta quella gentucola di perdigiorno e di spostati cui i Bossi e i Calderoli e i Maroni hanno dato a bere di averli tramutati in altrettanti guerrieri padani, saranno pronti a mettersi il Paese sotto i piedi ― nell’impotenza di Istituzioni semidiroccate che il berluscismo ha creduto di minare per i propri scopi, nell’illusione perfino “generosa”, a suo grottesco modo, che sarebbe stato per il nostro bene, per un’Italia Paese dei Balocchi, contro tutto il vecchiume illiberale di una volta ― e a farne religiosamente una caserma, se non addirittura fanaticamente un campo di sterminio.
Se ne rendono conto i vari Napolitano, Fini, Bersani, Casini? Ne hanno una vaga idea? O lo sanno benissimo, ed è proprio il terrore dinanzi al disastro che hanno lasciato maturare, e non l’insipienza, a farli correre di qua e di là come galline decapitate?
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P.s.: Due giorni dopo questo scritto, su La Repubblica di sabato 12 dicembre 2009, leggiamo che in soli 14 mesi, dal luglio 2008 all’agosto 2009, nel solo Nord Italia sono stati emessi 788 (settecentottantotto) provvedimenti comunali contro gli Immigrati (fonte: ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia). Non c’è che dire: i “perdigiorno da bar” tramutati dalla Lega in “perdigiorno da municipio” si danno da fare, e come.
P.p.s.: Tre giorni dopo questo scritto, su La Repubblica di domenica 13 dicembre 2009, Ilvo Diamanti ci dà (con qualche prudenza) ragione: È la Lega degli uomini spaventati, che raccoglie le paure e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce. È la Lega dei localismi, che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Dalla caduta del Muro e dei muri. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica. È la Lega dei cattolici senza fede. Sorta nel vuoto prodotto dall’eclissi del sacro ― per citare Sabino Acquaviva ― e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa. D’altra parte, nella sua base elettorale è maggioritaria la presenza dei cattolici non praticanti. Molti dei quali riducono la religione a una cornice del senso comune. Un sistema di valori e di credenze che usa la tradizione per “difendersi” dalla (post) modernità. Il paradosso è che la Lega, in questo modo, si distacca dal suo specifico territoriale. Non ambisce (solo) alla “corona longobarda”, come ha suggerito Gad Lerner. Sta, invece, mutando in Lega nazionale. Non che avessimo bisogno di conferme, tuttavia fanno sempre piacere. Speriamo solo, adesso, di essere invece smentiti dalla Storia. |
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La direttrice della scuola privata dell’infanzia Cip & Ciop di Pistoia e una sua collaboratrice, presunte colpevoli (sulla base di riprese effettuate dai Carabinieri con telecamere nascoste) di reiterate e sistematiche violenze contro i Bambini loro affidati.
Bello il privato, eh?
Tutto sarà meglio, vero, se a occuparsene sarà il privato? Beato il privato e chi al privato si affida, poiché del privato saranno la Terra e il Cielo! E belli i politici della finta “sinistra”, come quel bel ragazzo di Renzo Berti sindaco di Pistoia, che idolatrano il privato anche più della Destra: il privato è bello, efficiente, saggio, meraviglioso, creatore di ricchezza e benessere.
Certo, come no. In effetti, lo pensiamo anche noi. Sul serio. Fin da bambini. Amiamo la libertà, dunque amiamo il privato. Ma c’è un ma, purtroppo... Quanti, fra i cultori e i praticanti del privato, son sani di mente? Quanti, nel privato (da graziosi pupetti che erano alla Nascita) si son poi ridotti a mentire, a rubare, a imbrogliare, a sfruttare, a violentare, a trattare gli Esseri Umani come animali? Quanti, nel privato, avvelenano i cibi, inquinano l’ambiente, se ne fregano della sicurezza dei Lavoratori e di Tutti? Quanti, nel privato, ammazzano? Quanti, nel privato, son pazzi pericolosi che (sotto una maschera di perbenismo più o meno nazistoide) odiano forsennatamente tutti? Quanti, insomma, nel privato, votano per il Berlusconi o per la Lega per poter continuare a farsi i loro privatissimi affaracci distruggendo il mondo intero?...
Oh sì, bellissimo il privato. Come no. Lo pensiamo anche noi, sul serio, poiché sappiamo che niente è più importante della Libertà... tranne gli Esseri Umani. Tranne ogni Essere Umano sulla faccia della Terra, e tutto ciò che a ogni Essere Umano è caro. Ed è per questo che vorremmo che i cultori e i praticanti del privato si curassero o fossero curati e restituiti alla loro originaria umanità, anche a nostre spese (tanto gli paghiamo già tutto, a quei mantenuti a vita), prima di affidare loro le nostre Vite e i nostri Beni. |
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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