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domenica 21 marzo
Poiché il Jolly è la carta da cui ogni altra è sostituita e annientata, il Jolly è l’unica carta che esprime un sentimento. E il sentimento è l’odio.
Come vota chi impazzisce d’odio?
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Qualche tempo fa, su La Repubblica, Aldo Schiavone si è domandato e si è risposto: Perché non scatta irresistibile un’onda di rifiuto? Perché la misura non è mai colma? (...) L’investimento simbolico che una parte significativa del Paese ha fatto su Berlusconi scegliendolo come proprio leader va al di là del giudizio sui suoi comportamenti e sulla sua anomalia, esprime una identificazione più profonda che non dipende (o dipende assai poco) da quello che oggi egli dice o fa. È una scelta in cui si è condensato tutto il fondo irrisolto della nostra doppia transizione, politica e sociale, postdemocristiana e postindustriale. Un accumulo di elementi di cultura, di costume, di autorappresentazioni di ceti e di gruppi che hanno costituito la potente eredità dell’anticomunismo italiano, e che si sono trovati sbalzati di colpo nel vortice di mutamenti degli anni novanta. Questo mondo, prim’ancora che compimento democratico, chiedeva modernizzazione liberista (la prima globalizzazione) e continuità moderata. Berlusconi in qualche modo ha risposto, mettendo così il suo sigillo su un’epoca di cambiamenti ― la nostra grande trasformazione ― e questo ha collocato la sua figura al centro di un autentico spostamento emotivo di massa: una proiezione tutta “ideologica”, giocata sul piano degli stati d’animo e dei rispecchiamenti ― vecchio moderatismo politico e nuovo estremismo sociale. (La Repubblica, domenica 7 febbraio 2010).
Sarà. A noi, tuttavia, che di berluscìsti sfegatati ne abbiamo ― nostro malgrado ― conosciuti parecchi, viene assai più naturale immaginarli come altrettanti Pjotr Aleksandrovic Valkovskij. Che era un principe, però, mentre un berluscìsta sfegatato è l’opposto assoluto di un gentiluomo. Ma anche Valkovskij, in fondo, era principe soltanto di nascita e ― quando voleva ― di modi, non certo di cuore e di mente... Si diceva che egli, un uomo sempre così distinto ed elegante in società, amasse, a volte, ubriacarsi di notte, e poi, ubriaco fradicio, in segreto, abbandonarsi a ogni depravazione, come il più ripugnante crapulone. Si sentivano, sul suo conto, orribili voci. E un giorno, in una saletta riservata di un ristorante, accorgendosi con un sorriso maligno che l’uomo seduto dinanzi a lui ― un giovane scrittore di nome Vanja ― era, sia pure per una briciola, in suo potere, immediatamente decise di farglielo sentire. Cambiò tono di colpo, facendosi sempre più esplicito, beffardo, troppo sfrontatamente confidenziale; e sogghignando in modo ripugnante, strizzando gli occhi, talvolta mettendosi a ridere in tono disgustoso, godendo delle proprie beffe, giocando con quel giovane come il gatto gioca col sorcio, godendosi il suo stupore, il suo orrore, disprezzandolo schiettamente, ridendo di lui, ricavando piacere e fors’anche una specie di perverso godimento dall’insolenza, dall’impudenza, dal cinismo con cui gli parlava, gli disse:
“Desidero parlare come voglio io e come mi piace e, in realtà, così dev’essere. (...) Non vi meravigliate di me; mi sono definitivamente venute così a noia tutte queste innocenze, tutte le pastorellerie di mio figlio, tutto questo schillerismo, tutte le nobili squisitezze del suo maledetto legame con Natascia (ragazza, del resto, graziosissima), così che a dir la verità sono lieto mio malgrado di avere un’occasione di fare un po’ di smorfie su tutto ciò. (...) Uno dei miei godimenti più vivi è sempre stato di saper fingere sul principio tale atteggiamento, entrare in quel tono, accarezzare, incoraggiare qualche Schiller eternamente giovane, e poi, a un tratto, alzare di colpo la maschera davanti a lui e invece del viso entusiasmato fare una smorfia, mostrargli la lingua proprio nel momento in cui meno si aspetta una simile sorpresa.”
Intanto il suo viso era cambiato e aveva assunto una strana espressione malvagia. Era ovvio che aveva voglia di ferire, di picchiare, di mordere, di beffarsi. (...)
“Amico mio,” cominciò, ovviamente soddisfatto di sé, “vi ho fatto or ora una confidenza che, forse, era fuori di posto, raccontandovi che a volte mi viene il bisogno irresistibile, in un caso determinato, di mostrare la lingua a qualcuno. (...) Sapete che una volta, per capriccio, mi sono dato perfino allo studio della metafisica, e alla filantropia, e poco è mancato che coltivassi le stesse idee che ora sono le vostre? (...) E invece cominciai una vita di facili avventure. Ricordo che una pastorella aveva per marito un bellissimo contadinello. Lo castigai severamente e volevo mandarlo a fare il soldato (divertimenti del passato, poeta mio!), ma a mandarlo a fare il soldato non ci riuscii. Morì nel mio ospedale. Sappiate che avevo in campagna un ospedale, per dodici letti, attrezzato magnificamente, grande pulizia, pavimenti di parquet. Del resto già da tempo l’ho distrutto, ma allora ne andavo fiero: ero filantropo; ma il contadinello fu da me picchiato quasi a morte a causa della moglie... Ebbene, perché fate di nuovo una smorfia? Sentite ribrezzo nell’ascoltarmi? I vostri nobili sentimenti protestano indignati? Ma su, ma su, calmatevi! È acqua passata. Queste cose le facevo quando ero un romantico e volevo essere il benefattore dell’Umanità; volevo fondare una società filantropica... Ecco su quale via ero capitato. Ed era allora che percuotevo i contadini. Ora non lo farei, ora bisogna fare le smorfie, i tempi sono cambiati. Ma più di tutto mi fa ridere adesso quell’imbecille di Ichmenev. Sono convinto che conosceva l’episodio del contadinello... Ebbene? Per la bontà del suo cuore (fatto, pare, di melassa) e perché allora si era innamorato di me e cantava le mie lodi con sé stesso, decise di non credere al fattaccio e realmente non ci credette; cioè non credette al fatto e per dodici anni mi difese a spada tratta fino al giorno in cui toccò a lui. Ah ah ah! Ebbene, ma tutte queste sono stupidaggini! Beviamo, mio giovane amico. Ascoltate: vi piacciono le donne? (...)
A me piace parlare di donne, a cena. Mi piacerebbe presentarvi dopo cena a una certa m.lle Philiberte. Che ne pensate? Ma che avete? Non volete neanche guardarmi... hm! (...) Sono convinto che voi, in questo momento, mi chiamate peccatore, fors’anche vigliacco, mostro di depravazione e vizio. (...) Vi è una particolare voluttà in questo togliersi di colpo la maschera, in questo cinismo, nel quale l’uomo, a un tratto, si manifesta davanti a un altro uomo col suo vero aspetto, e anzi non si degna di vergognarsene, davanti a lui. Vi racconterò un aneddoto. Viveva a Parigi un funzionario pazzo; in seguito, quando tutti si convinsero che era pazzo, fu messo al manicomio. Ebbene, impazzendo, ecco che cosa aveva inventato per il proprio divertimento: si spogliava a casa, rimanendo nudo come Adamo, teneva soltanto le scarpe, si avvolgeva in un ampio mantello che gli arrivava fino alle calcagna e, con una espressione grave e maestosa sul viso, usciva in strada. Chi lo guardava di fianco vedeva un individuo come gli altri, che passeggiava in un ampio mantello per il proprio divertimento. Ma appena gli capitava d’incontrare qualche passante, in qualche posto solitario, così che non vi fosse nessuno intorno, lo seguiva in silenzio, con aria seria di un uomo immerso profondamente nei propri pensieri, e ad un tratto si fermava davanti a lui, apriva il suo mantello e si faceva vedere in tutta la sua... purezza. Questo durava un momento, poi si avvolgeva di nuovo nel suo mantello e in silenzio passava accanto allo spettatore rimasto ammutolito dallo stupore e si allontanava con aria grave e con passo leggero come l’ombra di Amleto. In tal modo si comportava con tutti, con uomini, con donne e con bambini, e in ciò consisteva tutto il suo divertimento. Ecco, una parte di questo piacere si può provare quando, di colpo, si ama sbalordire uno Schiller qualsiasi mostrandogli la lingua nel momento in cui meno se lo aspetta. (...)
Io già da un pezzo mi sono liberato da tutte le catene e perfino da tutti gli obblighi. Mi sento legato soltanto quando ciò mi porta un qualche vantaggio. (...) La vita è un patto commerciale; non buttate denaro inutilmente, ma pagate magari per un favore, e avrete adempiuto a tutti i vostri obblighi nei riguardi del vostro prossimo: ecco la mia morale, se già ne avete bisogno a ogni costo, benché vi confesso che, secondo me, è meglio non pagare nulla al prossimo, ma sapere, invece, costringerlo a fare per voi le cose gratuitamente. (...) Amo la fama, i titoli, la vita in un palazzo o nei Grand Hôtel; mi piace puntare somme enormi sulle carte (amo terribilmente le carte). Ma l’essenziale, l’essenziale, per me sono le donne, e le donne di tutti i tipi; ho una grande passione, anzi, per la depravazione tenuta segretamente in ombra, e che sia la più strana e più originale, perfino con un po’ di sudiciume, tanto per cambiare un po’. Ah ah ah! Osservo il vostro viso: con quale disprezzo mi guardate, in questo momento! (...)
Voi mi disprezzate perché coltivo certi pregiudizi, perché tengo a certe condizioni e cerco di avere una posizione importante nella società; vedo bene che vivo in una società vuota; ma, intanto, vi si sta bene al calduccio e io la approvo, questa società, fingo di difenderla a spada tratta. Se dovesse essere il caso, io per primo la abbandonerei. Conosco tutte le vostre idee, pur non avendo mai sofferto per esse, e non ce ne sarebbe motivo. Non ho mai avuto rimorsi. Sono disposto a tutto a patto di trarne vantaggio, e di tipi come me ce ne sono legioni e davvero stiamo bene al mondo. Tutto nel mondo può perire, noi soli non periremo, mai. Esistiamo dacché esiste il mondo. Il mondo intero può sprofondarsi e sparire, ma noi torneremo a galla, noi torneremo sempre sù. A proposito: guardate, già, questo solo fatto: come vivono a lungo gli uomini come noi. Non siamo, forse, resistenti in modo fenomenale, eccezionale? Non vi ha mai colpito, questo fatto? Viviamo fino a ottanta, fino a novant’anni! Ciò significa che la stessa natura ci protegge. Ah ah ah! Voglio assolutamente vivere fino a novant’anni. (...) Ma al diavolo la filosofia! Buvons, mon cher. Non abbiamo ancora parlato delle bambine graziose...1”
A individui così non accade spesso di poter gettare la maschera impunemente, senza dover temere conseguenze molto sgradevoli. A meno di ammattire ― come il “distinto funzionario” che a Parigi “si esibiva in tutta la sua... purezza dinanzi a uomini, donne, bambini” ― i Valkovskij erano e sono costretti a nascondersi, a portare una maschera, a fingere per tutta la vita. Non a rinunciare ad agire l’odio che li rode, no. Ma ad agirlo nell’ombra. A non poter mai togliersi la sanguinolenta soddisfazione di mordere sul volto di un altro ― sano d’umanità e di mente ― la sofferenza e lo sdegno di chi nulla può fare per mettere in condizioni di non nuocere il mostro che in segreto gli si rivela.
Dove, come, a chi rivelarsi, se non si ha tra le mani un giovane Vanja che non può scappare? In confessione? Non c’è gusto: il prete è invisibile dietro la grata, e del resto è con ogni probabilità più matto perfino di un Valkovskij. Dinanzi a un dipendente, a un servo che trema di paura? A una misera prostituta istupidita dal disprezzo di sé e dalle droghe? Si, è possibile, ma quanti Valkovskij son principi? Quanti mostri son così ricchi e potenti da non dover temere di essere smascherati e denunciati dai succubi dinanzi ai quali si lasciano andare a esibirsi? I Valkovskij sono legioni, dice Pjotr Aleksandrovic, ma la stragrande maggioranza di essi son uomini e donne comuni ― assai più uomini che donne, e naturalmente nessun bambino ― per i quali sarebbe troppo rischioso denudarsi in pubblico.
A meno che...
A meno che la Società non li fornisca di tribune da cui esibirsi e obblighi tutti gli altri ad assistere alle loro esibizioni. E da quelle tribune, dopo le esibizioni ― e mentre gli effetti di esse si diffondono ovunque sotto forma di ulteriore pazzia, odio, violenza ― gli conceda di allontanarsi indisturbati, per tornarsene alle loro vite insospettabili, senza che nessuno possa mai identificarli per i mostri che sono. Né mai accusarli, o anche solo lasciar intravedere i propri sospetti nei loro confronti.
A meno che, intendiamo, i Valkovskij non vengano invitati, con tutti gli onori e ogni sorta di nobili o ignobili lusinghe, a manifestare impunemente il loro odio al riparo delle cabine elettorali.
Un tempo nemmeno lì ― protetti dalla più inviolabile segretezza che la Società abbia mai offerto ― i Valkovskij osavano mostrarsi per quelli che erano. Perfino nella cabina elettorale, ancora mezzo secolo fa, chi impazziva d’odio contro gli altri aveva paura di esser visto. Di essere scoperto. O perché reso troppo diffidente dall’esperienza del fascismo ― dall’aver constatato che il potere può non aver limiti, ed essere perciò onnipresente ― per credere che il voto fosse davvero segreto; o, più verosimilmente, perché troppo conformista per non nascondere perfino a sé stesso d’aver la bava alla bocca e digrignare i denti; fatto sta che il mostro, in cabina ― anche se qualche candidato si prestava a essere scelto in segno d’odio e disprezzo contro i concittadini ― quasi mai osava votarlo. Le elezioni le vincevano i sepolcri imbiancati, i democristiani: l’ipocrisia, anche nell’urna, era un omaggio che il vizio neppure immaginava di poter non accordare alla virtù. Poiché l’odio non osava riconoscersi come tale nemmeno fra sé e sé.
Da vent’anni, invece ― dapprima solo in Italia, poi, sempre più, anche negli Stati Uniti e altrove, in una sorta di metastasi dell’orrenda seduzione che il nostro Paese esercitò per la prima volta sul mondo durante il fascismo ― il pazzo d’odio ha perduto il ritegno a rivelarsi a sé stesso che il moralismo di un tempo consentiva solo a pochi di superare: si accetta, si piace, si esalta, a ogni barriera affettiva e intellettuale che l’odio infrange nella sua mente, come se ogni volta stabilisse un primato; e nella cabina elettorale, profanata da decenni di intrusioni delle mafie e degli apparati di partito, è fiero e gode di essere come è. Ancor più che il luogo in cui nessuno può spiarlo, essa è il luogo in cui lo vede soltanto chi è come lui, chi condivide e assapora la sua piena disinibizione per il disumano. Votare da pazzo è finalmente possibile, oggi, per i Valkovskij che intorno a Noi son legioni, non perché nessuno li vede, ma al contrario perché con gli occhi della mente li vede benissimo chi è come loro: il mostro si toglie la maschera, facendo la croce sul nome di chi incarna il suo odio, e inconsciamente sente ed è certo che quelli come lui in quel momento lo vedono ― solo loro, tutti loro ― e con lui si uniscono e fanno massa nell’odio.
Il voto, così, diventa un’offerta di sé, un congiungersi ed entrar a far parte del Moloch di un “popolo”, temuto da tutti, di odianti invisibili. E il votato ― cioè, nell’Italia di oggi che una volta di più è d’esempio al mondo, Silvio Berlusconi ― non è un essere umano reale ma un rivolo di bava che cola dalla bocca del votante, un digrignar di denti, un urlo, uno sputo, un ceffone, un calcio, una bastonata, una ferita di coltello, una pallottola, una sventagliata di mitra, un campo di sterminio che apre i cancelli come braccia mostruose: qualunque atto, qualunque oggetto che il votante pazzo d’odio immagini di scagliare sui concittadini odiati ― sugli Esseri umani odiati ― nell’atto di far sul nome del Berlusconi la propria croce. E il Berlusconi e ogni berluscìsta lo sa ― o, per meglio dire, lo intuisce, lo sente senza saperlo come un altro sé oscenamente ghignante che sempre più spesso e più invasivamente prende il sopravvento in lui ― e ubbidiente come una marionetta, quasi non più umano, quasi addirittura nemmeno più organico, di volta in volta si fa rivolo di bava, sputo, urlo, bastonata, lager che si apre mostruoso: in pubblico, senza vergogna, pur di esser davvero, carne e ossa, ogni pazzo d’odio che si è incarnato in lui.
Ma chi sono costoro? Chi i Valkovskij? Chi i pazzi d’odio il cui voto va soltanto a chi fa di sé l’illimitato mostro in cui essi possano incarnarsi, nelle cabine elettorali, come in un rito vodoo?
Non tutti, naturalmente, quelli che votano per il Berlusconi, per i berluscìsti e i leghìni-nordìni. Forse, anzi, neanche la maggioranza di chi li vota. Solo una parte, ma di fondamentale importanza: i loro grandi elettori. Quelli, intendiamo, che nel gioco immenso e infinitamente complesso delle relazioni sociali non si fanno scrupolo di giocare il Berlusconi come la più odiosa delle carte: il Jolly.
In effetti, solo i pazzi d’odio godono nel giocare il Jolly. Poiché il Jolly Joker ― l’Allegro Giocatore, detto anche la matta, da matar, uccidere ― nei giochi di carte rappresenta la ghignante prepotenza che Pjotr Aleksandrovic Valkovskij chiama la smorfia, lo sberleffo che un impeto irresistibile scaglia da dentro di lui a impadronirsi delle sue fattezze esteriori: è la carta che vince senza merito, senza denaro, senza forza ― addirittura, contrariamente alle apparenze, senza fortuna, poiché l’averla in sorte nulla può se non si è così vili da giocarlo, ai sani di mente resta in mano e toglie punti ― che vince, cioè, solo per l’odio di chi la lancia di voler cancellare e annientare tutte le altre, dal 2 all’Asso, quale che ne sia il valore.
I grandi elettori del berluscìsmo e del leghìsmo-nordismo, i Pjotr Aleksandrovic Valkovskij, i pazzi d’odio, giocano il Jolly Berlusconi in ogni campo: talvolta perfino senza rendersene conto (come quel pidiellìno milanese che si è fatto beccare con una tangente di 5.000 euro e: non so che cosa mi abbia preso, ha detto, mi son rovinato con le mie mani) essi hanno il Jolly Berlusconi nel cuore, nella mente e nella mano che protendono ogni volta che superano un limite, infrangono una barriera, annichiliscono uno scrupolo, un pudore, un impulso generoso, un ricordo, anche solo la fioca reminiscenza di una remota carezza, che altrimenti li tratterrebbe da quel gesto irrevocabile, irrimediabile. È il Jolly Berlusconi che “consente” loro di fare ciò che Noi non faremmo, ciò che essi stessi non avrebbero fatto fino a un attimo prima. Giocandolo dentro di sé, facendo sì che scenda in campo nel suo cuore e nella mente, il matto ― dallo spagnolo matar, ammazzare ― uccide quel poco che restava in lui del Bambino di un tempo, che giocava senza odio. E vince sempre, perciò, e sempre trionfa a mani basse sugli altri ― su di Noi ― proprio perché non si fa scrupolo, non ha paura, di giocare tra sé e sé quel Jolly Berlusconi che orribilmente è toccato a tutti, in questo povero Paese, ma che Noi continuiamo a tenerci in mano perché abbiamo orrore anche solo dell’immagine ― anche solo dell’inconscio presentimento ― di Noi stessi che lo giochiamo.
Gli altri ― i milioni che votano il Berlusconi perché infatuati di un’immagine che realizza quelle a cui furono asserviti da bambini, o perché ingannati, o impauriti, o sottomessi, o solo per lucrare, illudendosi di non pagar pegno, qualche minuscolo interesse momentaneo ― all’istante smetterebbero di votarlo se quelli che giocano il Jolly non se li tirassero dietro ammaliandoli, o imbrogliandoli, o mettendogli paura, o asservendoli, o soddisfacendo loro qualche minuscolo bisogno del momento.
E sia l’uno che l’altro ― il Valkovskij come chi lo segue, il grande elettore del Berlusconi né più né meno che tutto il suo “popolo” ― è quel che è per la sua storia, per com’è stata la sua vita e per ciò che egli ha saputo farne dal primo giorno fino a oggi: l’odio che divora il primo, la stupidità che abbrutisce il secondo, non sono reazione a un torto subìto da Noi, non son “colpa” Nostra: a meno che non sia un torto, e una “colpa”, che Noi non si sia riusciti a portarli con Noi, il giorno che ci passarono accanto...
Sia come sia, i pazzi d’odio a uno a uno giocano il Jolly Berlusconi come nei secoli bui si vendeva l’anima al diavolo. Poi ― convinti, una volta giocatolo, di esser diventati invulnerabili, di non aver più limiti, di poter tutto osare ― si azzardano a immaginare e a pensare e ad agire come se quella carta facesse di ciascuno di loro un Onnipotente. E tuttavia si nascondono, dissimulano, non si mostrano come gli Uomini e le Donne nuovi e liberi in cui si stanno trasformando; soprattutto non in pubblico, nei luoghi in cui sanno o fantasticano che ci siamo anche Noi. Ci temono, infatti, poiché oscuramente sentono di non aver completato la mutazione mentale che cancellerà in loro, una volta per sempre, ogni residua somiglianza con Noi: il timore è quel che gli rimane degli affetti che li legavano a Noi come loro simili, come Umani insieme a essi. Ed è questo residuo d’affetto che li trattiene dallo scagliarsi fisicamente contro di Noi per farci sparire dalla faccia della Terra: ma che al tempo stesso, in quanto timore di esser da Noi ritrovati, di non aver varcato il punto di non ritorno, di poter tornare a essere quelli di prima, continuamente li fa sentire in pericolo ― i comunisti sono ancora qui, ci minacciano, sono ovunque! ― e furiosamente accresce il loro odio per il mancato o quanto meno incompleto funzionamento della matta: hanno o non hanno giocato il Jolly Berlusconi? Perché le altre carte continuano a valere, non si annientano, non spariscono? Perché ci sono ancora “comunisti”, e giudici, e migranti, e poveri, e disoccupati ― esseri, insomma, che li fanno sentire ancora umani, non del tutto vincitori su sé stessi, suscitando in loro quell’umano sentimento di timore? Bisogna dunque far peggio? Ci vuole un Jolly ancor più mostruoso?
E il Berlusconi lo sa, lo sente, intuisce la delusione che serpeggia nel suo “popolo” di scoprirsi ancora troppo poco liberi, ancora troppo umani: per questo “dà di fuori”, per questo si fa sempre più mostruoso e porta il rito fino al limite estremo della civiltà, fino a un passo dall’aizzare il suo “popolo” al sacrificio umano. Eppure forse non vuole davvero varcarlo, quel limite, o s’illude di rimanere in equilibrio esattamente su di esso: come l’omicida, o il suicida, che crede di star solo fingendo d’impugnare l’arma che tra un momento, sparando, lo sorprenderà sinceramente. Ma il fatto è che il suo “popolo” è ormai così prossimo a varcarlo, che se il Berlusconi andrà troppo oltre, o se dalla crisi mondiale balzerà fuori un drago che con una zampata scaraventerà al di là di esso ogni Paese che vi si sia spinto troppo vicino ― allora quel limite sarà oltrepassato, dal Berlusconi o da un altro peggiore di lui, e il sacrificio avrà inizio.
A meno che ognuno di Noi, senza perdere un minuto di più, non ritrovi finalmente il coraggio e l’intelligenza di giocar davvero tutti i suoi Cuori contro i Jolly di chi impazzisce d’odio.
L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio slogan ufficiale della manifestazione del Pidièlle e della Lega Nord a piazza san Giovanni, a Roma, sabato 20 marzo 2010.
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1. Fëdor Michajlovic Dostojevskij, Umiliati e offesi, traduzione di Eva Amendola Kühn, Firenze, 1972, parte terza, capitolo X. |
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Silvio Esageroni
Mercoledì 10 marzo 2010, la conferenza stampa del duo Berlusconi - La Russa è interrotta da un contestatore. Contro il quale un collaboratore del premier, tale Sestino Giacomoni, a microfoni aperti consiglia prudenza: “Presidente, non esageri...”
La domanda è: Affideresti i tuoi figli a un uomo sempre accompagnato da qualcuno che cerca di tenerlo calmo? Se la tua risposta è No, per favore, smetti di affidargli il Paese dei tuoi figli.
(Appello di ScuolAnticoli ai meno malati tra gli Elettori di destra). |
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Il Presidente della Repubblica Italiana è stato minacciato?
Circa il decreto governativo cosiddetto “salva liste”, o ad listas, due uomini abituati a misurare le parole, Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky, parlano entrambi di minacce: Berlusconi lo ha preteso, scrive il fondatore de La Repubblica, facendo balenare la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato.
Ma è mai possibile, ci domandiamo noi, che la prospettiva di un conflitto istituzionale tra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica ― allarmante, certo, ma pur sempre compatibile con la “fisiologia” della democrazia ― sia bastata a indurre Giorgio Napolitano a firmare un decreto che fa strame dell’uguaglianza dei partiti (cioè dell’uguaglianza dei Cittadini) nella competizione elettorale e vìola la legge (la n°400 del 1988 sulla decretazione d’urgenza, art. 15, comma 2) che vieta ai governi di ricorrere a decreti “in materia elettorale”?
No. A noi non sembra possibile. Non ci sembra possibile che un uomo come Giorgio Napolitano ― col quale da sempre non andiamo molto d’accordo, ma di cui non possiamo e non vogliamo disconoscere la lealtà alla Costituzione e alle istituzioni democratiche ― si sia lasciato indurre ad andare contro l’Eguaglianza dei Cittadini, contro la Costituzione e contro la legge solo per non litigare con un individuo come il Berlusconi.
Riteniamo, al contrario, che la minaccia (se minaccia vi è stata, certo; ma deve esserci stata, o il comportamento di Napolitano sarebbe incomprensibile) possa essere stata incomparabilmente più grave di quella adombrata da Scalfari.
Come sembra ritenere anche l’insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Consulta, che intervistato da Liana Milella (sempre per La Repubblica di domenica 7 marzo 2010) dichiara: Ciascuno di noi è libero di preferire (sottinteso: da parte del presidente della Repubblica, n.d.r.) un comportamento a un altro. Ma è facile, da fuori, pronunciare sentenze. La politica è l’arte di agire per i giusti princìpi nelle condizioni politiche date. Queste condizioni non sempre consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. La violenza è la fine della democrazia. Il Capo dello Stato fa benissimo a operare affinché non abbia mai a scoppiare.
Zagrebelsky dunque, come sempre molto chiaro e netto, ci “conforta” (si fa per dire, ché nulla potrebbe essere meno confortante) in quel che anche a noi pare verosimile: 1. Il Presidente della Repubblica Italiana può essere stato minacciato; 2. La minaccia può essere stata quella di una violenza tale da ledere non tanto la sua persona fisica e/o morale, quanto piuttosto la democrazia; 3. Giorgio Napolitano si sarebbe dunque trovato costretto a cedere pur di scongiurare il ricorso della Destra alle armi.
È una supposizione gravissima? Certo che lo è. Tale ― se ritenuta, quantunque non dimostrabile, tuttavia realistica ― da imporre la massima vigilanza democratica? Certo che sì. Tale da richiedere ― da parte delle forze politiche di opposizione e di tutti i Cittadini onesti ― le più energiche contromisure non violente compatibili con la legalità? Come, per esempio, uno sciopero generale a oltranza? Certo che sì; e se non ora quando?
E se invece la minaccia di violenza contro la democrazia non vi fosse stata? Allora il Presidente della Repubblica Italiana avrebbe ceduto per motivi risibili o inconfessabili. E noi, francamente, tra un Giorgio Napolitano capace di tanto o un trio Berlusconi-Maroni-La Russa capace di emulare Pinochet, riteniamo di gran lunga più probabile il secondo scenario. Con il seguente, fondamentale corollario: chi in queste ore se la prende con Napolitano è un pusillanime che non ha il coraggio di vedere la gravità della situazione e di prendere le decisioni che una situazione così grave richiede. |
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L’Istituto che quasi Mi uccise
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Nel 2010 Mario Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, scrisse per L’Osservatore Romano l’elogio funebre del gesuita Franco Rozzi, antico preside del liceo classico dell’Istituto Massimiliano Massimo di Roma: Ho frequentato l’Istituto Massimo per dieci anni: negli ultimi cinque, del ginnasio e del liceo classico, il preside era padre Rozzi. Erano anni in cui si passava molto tempo a scuola: lo sport, le altre attività portavano spesso la giornata scolastica al tardo pomeriggio. Gli incontri con padre Rozzi erano frequenti: da quelli con contenuti prevalentemente disciplinari ad altri in cui voleva essere informato dell’andamento scolastico. La sua autorità era indiscussa, la sua giustizia veniva amministrata con lucidità ed equilibrio, era ben spiegata, spesso temperata dall’ironia, sempre un’occasione per trasmettere il suo messaggio educativo, che ha inciso in profondità generazioni di alunni: la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale. Curiosa coincidenza. In quegli anni (Draghi è del ‘47, chi scrive del ‘51) anch’io fui costretto dai genitori in un luogo del genere: gli ultimi due delle elementari, i tre delle medie e i due del ginnasio. Non dai gesuiti e non al Massimo, però, ma nel non meno prestigioso Istituto dei “padri” cristaldi. “Ti saranno vicini per tutta la vita” disse mia madre a me che non avevo ancora nove anni. Non intendeva i preti ― ne aveva un’immagine assai più ingenua di quella della “cara” cugina che l’aveva convinta a togliermi dalla Scuola statale ― ma i nuovi compagni, di nobili o ricche famiglie, che secondo lei sarebbero stati i miei più veri e solidali amici fino alla morte. E che invece mi mostrarono che l’abiezione di molti Italiani dinanzi ai potenti ha spesso inizio dinanzi a individui miserabili, capaci di apparire grandi e spaventosi solo a un bambino abbandonato a tremare nel buio delle loro ombre. Come il Massimo, l’Istituto si trasferì nel 1960 dal centro di Roma all’EUR. Lo stesso fecero i miei: a secondo trimestre appena iniziato dovetti lasciare la mia buona e brava maestra, Tecla Cilento, della scuola Principessa Mafalda (in una parallela di viale Bruno Buozzi), i compagni dei primi anni, l’amico più caro, la mia cameretta (dove rimase invece imprigionato, causa la misteriosa scomparsa di una chiave proprio il giorno del trasloco, il mio cagnolino di stoffa preferito) e rassegnare l’infanzia e poi l’adolescenza alle architetture fasciste di quel quartiere allora di moda. Le stesse, “virili” architetture (così virili da non poter ammettere, evidentemente, che il mio cagnolino continuasse a trattenermi al di qua del mio maschio futuro) che anche l’Istituto aveva scelto come panorama per le sue nuove finestre, nell’anno di quel governo Tambroni sorretto dai fascisti di cui l’Italia riuscì a liberarsi e io invece no, troppo piccolo anche solo per accorgermi di quanto quell’assurda cesura ai miei pochi anni mi faceva soffrire: finii la terza elementare presso certe suore (attratte all’EUR come nere mosche, anch’esse, su una carta moschicida) e ai primi di ottobre le porte a vetri dell’Istituto (così moderne, così americane, così tecnocratiche a paragone della cupa demenza barocca dell’edificio in cui l’Istituto aveva consumato il secolo precedente) oscillarono e gracchiarono per la prima volta intorno a me. Consegnato ai preti senza che nessuno al mondo, che io sappia, vi trovasse qualcosa da ridire. Almeno non ero stato rinchiuso in collegio: ogni giorno, dopo la giornata scolastica ― che però, anche nel mio caso, le altre attività portavano spesso al tardo pomeriggio ― mi era concesso di tornare a casa. Non so, altrimenti, cosa ne sarebbe stato di me. Anzi, lo so benissimo: l’Istituto mi avrebbe ucciso. Così, invece, anche se tentò di farlo, per un soffio fallì. Le ore che trascorrevo lontano da esso, le vivide e instancabili letture entro le quali facevo sparire i compiti assegnatimi ― che da un certo momento in poi furono per me, quantunque inconsapevole, come una quotidiana dose di bastonate a cui dovevo a ogni costo e con ogni astuzia riuscire a sottrarre la mia psiche ― le notti che prolungavo con una radiolina sotto il cuscino, sintonizzata sul Notturno dall’Italia, che con immenso e gratuito affetto nei miei confronti ritardava il momento in cui il sonno mi avrebbe consegnato in un istante al risveglio e al ritorno a scuola, il diario che cominciai a tenere ogni giorno per conservare a me stesso l’intangibile mia continuità ― e che non a caso mi divenne superfluo, nel 1967, pochi mesi dopo aver lasciato l’Istituto ― l’attesa dell’estate, i giorni che mi separavano da essa cancellati a uno a uno su un fogliaccio stropicciato che per nove mesi era il mio consolatore, e poi l’estate stessa con le sue bellissime bambine, di cui in così tenera età m’innamoravo ― ora lo so ― soprattutto per scrivere i loro nomi sui libri e sui vocabolari e pensare a loro quando non volevo ascoltare né vedere ― soprattutto non vedere ― i maestri dell’Istituto religiosi e “laici” dalla voce chioccia, o dall’occhio spento, o dall’aria cupa, o dal ghigno furbastro, o dai modi troppo suadenti... Tutto questo ― e tanto altro che forse non saprò mai neanche immaginare ― mi salvò la vita. Nel senso che l’Istituto non riuscì a farne una non-vita come le altre che sfornava senza calore, bianche e mineralizzate come pagnotte ritrovate in una cripta. E nel senso che non morii. L’Istituto, naturalmente, odiava le bambine e le ragazze. Gli unici esseri di sesso femminile tra le sue mura erano alcune silenziose monache dalla faccia grigia, alle quali erano generosamente riservate le faccende ― per così dire ― domestiche, e le povere serve divelte da remoti villaggi che talvolta scorgevo, in fondo al buio di un corridoio sotterraneo, come prefigurazioni dei remoti fantasmi che per tutta la vita sarebbero state per me le donne reali, se l’Istituto avesse trionfato, viste dall’immaginario pieno di disprezzo che la loro esclusione da una scuola così prestigiosa mirava a coltivare nella mia mente. Tutti maschi, dai 6 ai 19 anni, incolonnati nel librino che ogni anno pubblicava urbi et orbi i nostri nomi, cognomi, indirizzi e numeri telefonici così come in colonna percorrevamo i corridoi sopraelevati per i quali gli insegnanti, i prefetti e i “padri” cristaldi ci pascolavano dalla mattina al tardo pomeriggio dalla chiesa in classe, dalla classe in palestra, dalla palestra in refettorio, dal refettorio ai campi, dai campi all’atrio ― a ognuno di noi non era permesso vedere che i capelli tagliati cortissimi dell’altro che camminava davanti a lui, o che in aula sedeva al banco singolo dinanzi al suo. E talora neanche quelli, se il cognome lo condannava a essere il primo della colonna, il bambino che solo una fila di pannelli gialli guidava fin in fondo ai corridoi ― in quell’edificio fatto di corridoi come di ossa è fatto uno scheletro ― separando i passaggi riservati agli alunni da quelli per i sacerdoti, che tra le nostre due file avevano ritegno a camminare come se non fossero umani, sotto le tonache, e fantasticassero che lo sapevamo. Meglio però aver davanti sempre la stessa testa, o un corridoio vuoto, che dover vedere anche solo una volta il cranio senza più capelli del povero bambino che un giorno mi trovai davanti io. Ormai avevamo paura di pensare a lui, per quanto era stato via. Poi ci dissero che era stato malato, in fin di vita, ma adesso era guarito e da un giorno all’altro sarebbe tornato. E tornò, e capitò in fila dinanzi a me, e non posso non immaginare, benché mi sembri assurdo, che ci si mise apposta ― non si poteva scegliersi il posto mai, nell’Istituto, ma chissà, forse a lui era stato concesso come una sorta di ultimo desiderio, e lui aveva desiderato di stare proprio vicino a me ― fatto sta che non passò un attimo, il tempo di constatare con orrore com’era diafano il suo piccolo cranio, com’erano esili le braccia e le gambe, com’erano ancor più grotteschi, in lui a un tratto così vecchio, i calzoni corti che esibivano ai preti l’incapacità di noi tutti di avere ragione delle nostre madri, come sembrava che egli non toccasse, camminando, il pavimento emanante calore che la mia accusava di levar polvere ma non osava pensare che lo facesse per farci ammalare ― il tempo di pregare (sì, in quinta elementare mi rivolgevo ancora al Nulla, ma per me era solo scaramanzia, solo uno scongiuro) che non si voltasse, non mi guardasse, non mi mostrasse anche i suoi occhi ― ché non ce n’era bisogno, ché tanto avevo già capito che quel che teneva a dirci, prima di andarsene, era che ci avevano mentito, che lui stava morendo, e che ce lo facevano vedere, smentendo la loro stessa menzogna, per l’odio di voler spaventarci, di voler farci star male, perché erano cattivi, cattivi, cattivi ― ed ecco che lui si voltò, mi guardò negli occhi, sforzandosi di simulare la dolcezza degli angeli, e con lo sguardo mi avvertì che come lui potevo morire anch’io, lungo quei corridoi senza confessabili mete, se non mi fossi difeso. E forse anche se mi fossi difeso. La mia quinta all’Istituto finì così. Come se l’EUR clericofascista fosse Castle Rock, ma non ne Il Signore delle Mosche: in Stephen King, dove è con i piccoli che i mostri ce l’hanno, per quanto odiano rivedere in loro, senza più poter piangere per essersi perduti, quelli che anch’essi furono. Altri bambini morirono, mentre l’Istituto li teneva o dopo che aveva finto di lasciarli. Di alcuni ho saputo ― uccisi, anche adulti, da tumori cominciati lì ― di altri no, e ne soffro come si soffre di non conoscere i nomi delle vittime della Shoah. Quando ero in seconda media, un ragazzo dell’ultimo anno si ammazzò in moto, con tale violenza che non gli si poté togliere il casco da ciò che rimase della sua testa, a un metro dall’incrocio tra la via dell’Istituto e la via di casa sua e della sua infanzia perduta: il più bravo e il più bello della scuola, dissero. Poi toccò a me, ma io mi salvai. Forse, anche perché il bambino senza più capelli aveva avvisato proprio me, fra tanti, che lungo quei corridoi dalle inconfessabili mete era in agguato la morte. Ero andato sempre bene, a scuola. Desideravo apprendere. A cinque anni già leggevo. A sette, mio padre mi regalò la sua monumentale Storia d’Italia di Paolo Giudici ― uscita a puntate settimanali negli anni VII-XI dell’Era fascista, zeppa di illustrazioni patriottiche di un certo Tancredi Scarpelli che a nessun personaggio storico aveva risparmiato il mascellone ingrugnito da perfetto idiota del “Duce degli Italiani” ― e ne lessi tutto il primo volume, dal 753 a.C. a Romolo Augustolo. In Terza elementare entrai con sei 10. In prima media con due 9 e due 10: fui premiato con un costosissimo tomo di Astronomia di mille pagine e passai l’estate a leggerlo e a scrutare il cielo, da una buia torretta di Grottaferrata, con un telescopio donatomi dal nonno materno. A undici, dodici, tredici anni, niente era per me più piacevole che entrare nella libreria del signor Cucinella, in viale Europa, e spendere in libri per ragazzi tutto il mio denaro. A quattordici, quando uscirono gli Oscar Mondadori settimanali, non me ne perdevo uno e li leggevo tutti. Riferisco ciò non per vantarmi ― non ve ne sarebbe motivo: non ero un’eccezione e non lo sarei neanche oggi ― ma per mostrare che se alle medie smisi di fare i compiti e di studiare non fu per aver perduto il desiderio di conoscere; anzi: continuavo ad abbeverarmi, con inestinguibile sete, a ogni fonte di sapere che scoprivo, dall’Enciclopedia dei Ragazzi ― che tentai di emulare su quadernini a quadretti piccoli che compilavo con molta cura ― al Manuale del Pescatore che rubai a uno zio non perché mi attraeva la pesca, ma per il suo intrigante aspetto di ricettacolo di nozioni biologiche, paesaggistiche e tecniche d’ogni sorta; dai testi di Astronomia ― ispirandomi ai quali redigevo un giornalino che si chiamava Il piccolo astronomo: copia unica, passava di mano in mano tra i miei parenti al prezzo di 100 lire ― ai fumetti di Paperino e di Nembo Kid. No, smisi di fare i compiti e di studiare perché i compiti e lo studio dell’Istituto mi erano diventati solo obbedienza, docilità, schiavitù: una soma sotto la quale l’Istituto mi schiacciava perché non fossi più me stesso, poiché com’ero non gli piaceva. Non che lo capissi: semplicemente, un’interna forza irresistibile mi spingeva ogni giorno a chiudere i libri di scuola e i quaderni per aprire i miei e su di essi leggere e scrivere, giocherellando col sintonizzatore della radiolina, fino all’ora di cena e anche dopo. Fu una ribellione, insomma, ma così mite che non mi accorsi di ribellarmi ed ero, anzi, pieno di vergogna e paura per i compiti non fatti e per i sotterfugi con cui sfuggivo ai controlli. E nondimeno imparavo così tanto liberamente e per conto mio, mentre mi sottraevo a ciò che mi era imposto, che solo agli esami di terza media l’Istituto scoprì che in tre anni non avevo appreso niente di quel che mi veniva da lui. So, oggi ― scopro solo oggi ― che alle medie l’Istituto mi prese in tale antipatia e odio, che preti e professori vollero mettermi in condizione di farmi espellere o schiattare. E che la mia ribellione, il mio rifiuto dei compiti e dello studio, scaturirono dal non percepire quell’antipatia e quell’odio, ben dissimulati com’erano, altro che nella fredda costrizione a cui compiti e studio a un tratto si ridussero, venendo da quei preti e professori, dopo che per cinque anni erano stati un gioco e un piacere. E quantunque continuassero misteriosamente a esserlo, purché ad assegnarmeli fossi io e non loro! Ma come mi ero attirato tanta avversione? Il fatto è che metà del mio disprezzo mi si leggeva in faccia, malgrado la maschera da giocatore che credevo di aver sempre sul viso; e l’altra metà, quella che da ingenuo piccolo spaccone verbalizzavo, veniva sùbito riferita a chi di dovere da questo o quello dei miei coetanei ascoltatori. Il disprezzo, per esempio, per i ridicoli tic, la malvagità o la sfacciata depravazione della maggior parte degli insegnanti ― il depresso che in classe non faceva che gemere come se la nostra vista lo torturasse; il vecchio fascista obeso che girava con una verga camuffata da bastone da passeggio e all’improvviso la sbatteva sulla cattedra per spaventarci nel bel mezzo di un compito; il demente che, fatto scacciare un bravo insegnante d’inglese con una spiata sui suoi titoli di studio, ne aveva preso il posto solo per dedicarsi, credendo che la cattedra lo nascondesse, alla prediletta attività d’infilarsi una penna nei pantaloni per poi annusarla. Il disprezzo che lasciavo scorgere nella noia in cui sprofondavo durante la messa obbligatoria ogni mattina, dal lunedì al sabato, e nell’indifferenza con cui ripetevo a pappagallo i salamelecchi e le giaculatorie che dovevamo mimare e salmodiare al seguito del celebrante. Il disprezzo che traspariva dalle mie “confessioni”, rapide e stereotipate come se ne avessi una provvista di fotocopie. Il disprezzo evidente nella mia mancanza di entusiasmo per la miriade di attività che portavano spesso la giornata scolastica al tardo pomeriggio a maggiore scempio delle nostre menti e a maggior lucro delle casse dell’Istituto. Il disprezzo con cui evitavo i più esaltati o ipocriti fra i miei compagni, i Virginio, i Pio, faccia e corporatura e maniere grottescamente femminee, che in chiesa si percuotevano il petto e guaivano Domine, non sum dignus con la più penosa delle voci ― falsificata dall’odio di sé: la voce del vinto dall’odio pretesco per l’umano ― e poi, dopo la quotidiana comunione, tornavano ai banchi con occhi spiritati di cui io, più che riderne, non riuscivo a non meravigliarmi, e non solo tra me, illudendomi che il mio sconcerto sarebbe rimasto fra me e loro. Ma quel che più mi rese inviso all’Istituto fu che a un certo momento, in prima media, io mi lamentai in confessione (e con mia madre, che aggravò il mio sbaglio andando a parlarne col preside) poiché i più strani fra quei santarellini erano i “cocchetti” di alcuni insegnanti e di certi “padri” cristaldi. Non so cos’avessi intuito e non ricordo bene cosa pensavo: so soltanto che essi mi allarmavano e mi affascinavano (poiché li vedevo, sì, grottescamente contraffatti e perciò sconvenienti, ma al tempo stesso, comprendo oggi, constatavo che dagli adulti ottenevano in cambio un riguardo, una sollecitudine, che forse li risarcivano di quella deformazione e li preservavano da ciò che soffrivo io) e che una certa parola, che avevo captato senza capirla davvero, mi era sembrata adatta non solo a designarli, ma anche a stigmatizzarli, nella speranza che fossero rimessi al loro posto fra noi tutti, e soprattutto a proteggere me, chiudendomi in una corazza di sdegno, dal rischio di diventare come loro. Certo, chiamando un rischio l’interesse suscitato in me dai loro strani modi sembro voler accreditare il significato spregiativo dell’epiteto con cui allora li marchiai presso chiunque, grande o piccolo, fosse disposto ad ascoltarmi: epiteto che oggi, invece, giustamente e civilmente, nessuno osa scagliare su chicchessia. Ma è pur vero che quelli erano ragazzini di undici, dodici, tredici anni, mentre chi li portava in palma di mano lusingandoli ad atteggiarsi come monachelle erano uomini adulti. E che un ragazzino ero anch’io, e non avevo altra via, per difendermi da quella lusinga, che farne, ai miei occhi innanzi tutto, uno stigma ripugnante che per niente al mondo avrei desiderato condividere. Non accadde alcunché. Nessuno fu danneggiato dalle mie accuse. Nessuno dovette cambiare atteggiamento. Il preside tranquillizzò mia madre dicendole che quei casi erano noti all’Istituto, il quale opportunamente vigilava su di essi; mia madre si tranquillizzò e mi propose di tranquillizzarmi a mia volta; e tutto sembrò finire lì. Ma da quel momento fu su di me che l’Istituto vigilò. Dall’oggi al domani, senza che nulla fosse detto né alluso, non solo divenni un sorvegliato speciale, per aver osato smascherare (sia pur con i miei poveri mezzi) le relazioni distruttive e autodistruttive tra quei ragazzini e quegli adulti, ma ogni rapporto con me ― dei prefetti, degli insegnanti, dei “padri” cristaldi e di quasi tutti i compagni, che sùbito ne percepirono la mutata natura ― si fece strano in modo indefinibile. Come se fossi io, ora, che camminavo dinanzi agli altri senza poter nascondere il mio piccolo cranio senza un capello. In “compenso”, due “padri” tentarono di far di me una pecorella e ricondurmi all’ovile. Uno, l’insegnante di religione, mi propose di meritarmi un 10, e di capovolgere così la mia immagine agli occhi dell’Istituto, imparando a memoria il Discorso della Montagna: beati i poveri in ispirito, ecc. ecc. Solo che, data la sua lunghezza, non poteva sacrificare un’intera lezione per interrogarmi in classe, davanti a tutti: dovevo tornare nel pomeriggio e recitarlo dinanzi a lui, in privato, in camera sua. Io acconsentii, imparai a memoria la sfilza delle beatitudini e verso le sei, attraversato l’EUR sul 97, mi presentai a scuola e chiesi di lui. Egli venne a prendermi e mi fece strada. Faceva buio, ma in tutto l’Istituto erano accese solo poche lampade qua e là: sembrava deserto. Il “padre”, camminando a grandi passi a cui facevo un po’ fatica a tener dietro, mi condusse per corridoi e corridoi senza luce fino a pianterreno di un edificio in cui non ero mai entrato, il più alto dell’Istituto: solo lì incontrammo un altro “padre”, che senza una parola ma con un lieve e indecifrabile sorriso prese l’ascensore con noi portandosi in camera, un po’ come il primo portava me, un fiasco nero senza etichette che immaginai di vino. E sùbito mi ritrovai in una stanzetta angusta, con un’unica finestra che dava sulla campagna, e nella luce sempre più scarsa che ne veniva ― io in piedi, il “padre” seduto dinanzi a me ad ascoltarmi ― snocciolai senza incertezze e perfino con sfrontatezza il Discorso della Montagna e ottenni il 10 che mi era stato promesso. Non so, a tutt’oggi, cosa mi salvò. Fu come nei documentari di Super Quark, quando il piccolo gnu sfugge ai leoni e si ricongiunge alla madre e al branco mentre Piero Angela, affabile, commenta che la vita dei predatori non è meno dura di quella delle prede, poiché il più delle volte restano a bocca asciutta. L’altro, invece (ma già al ginnasio) fui io a cercarlo, anche se malvolentieri: per accontentare mia madre, che dalla sua “cara” cugina aveva saputo che era un “padre” straordinario, amato da tutti gli alunni dell’Istituto per la bonomia e la capacità di comprendere i giovani e perfino di condividerne le idee e il linguaggio, e che già molti ragazzi in difficoltà aveva aiutato con successo a uscirne e a star di nuovo bene con gli altri e con sé stessi. Andai: per far contenta mia madre, appunto, e tuttavia non così scettico, data la mia generosità e innocenza di ragazzino non ancora perduto, da aspettarmi ciò che trovai. Anche questa volta da solo, anche questa volta in una stanza, anche se non da letto, che un’unica finestra illuminava poco, fui ricevuto da un “padre” così obeso che mi domandai come potesse districarsi dalla scrivania a cui sedeva: obeso perfino nelle mani, nelle dita, nelle guance, negli occhi, nella testa, nei ciuffi di capelli rigogliosi ma così distanziati da non poter uscire che da bulbi enormi, mi guardò attraverso occhiali così spessi e neri che non mi parve possibile che mi vedesse e disse: “Allora, cosa c’è che non va?” “Non lo so...” dissi io. E lui: “Ti masturbi?” Dopodiché, sebbene non conoscessi ancora (avevo già quattordici anni, ma erano altri tempi) né la parola né ciò che significava, eppure come per magia lo intuii, benché pur sempre confusamente, come se quell’incomprensibile domanda avesse all’improvviso messo in relazione e in moto, nella mia mente, tutto quello che avevo già udito in proposito senza capirlo. E mi sentii così a disagio che con la scusa che non mi sentivo bene ― il peggior pretesto possibile, vista l’agitazione in cui lo mise dinanzi a mia madre, che mi attendeva nell’atrio e dovette salire a prendermi ― mi congedai da lui e me ne andai anche da quella stanza per non tornarci mai più. Ma nessun bambino esce senza ferite da una scuola come l’Istituto, “laica” o religiosa che sia. Già “solo” dover pagare, per un’istruzione che a ogni altro è donata per l’amore della Società per i suoi figli, fa del rapito alla Scuola di Tutti non soltanto un bambino abbandonato ed escluso, ma già un piccolo sfruttato nell’età che a tutt’oggi è l’unica che fra mille perduranti resistenze siamo riusciti a sottrarre alla riduzione degli esseri umani a oggetti, a mezzi per far soldi. Se poi il bambino abbandonato, oltre che pagare, deve anche credere, allora la condizione d’inferiorità ― a cui il suo essere sfruttato lo abbandona per un tempo che benché della massima importanza, in quanto dovrebbe essere dedicato alla sua realizzazione, tuttavia non è che una parte della sua giornata ― da parziale si fa totale: egli non viene diminuito solo per alcune ore a fini di lucro, egli è reso inferiore di fatto, se non trova la forza di rifiutarsi di credere al “divino”, e ai suoi “rappresentanti”, che nella sua mente si rendono a lui superiori una volta per sempre. Ma soffre anche se resiste, e tanto più quanto più resiste, poiché resiste costringendosi a fare a meno di coloro a cui resiste pur non potendo fare a meno dell’affetto, della comprensione e dell’aiuto che non avrà da altri, finché non sarà libero di cercarne altrove. E così il bambino, abbandonato, sfruttato, restituito a Dio, resistendo si avvia talora a morire fisicamente per non morire dentro (come per poco non accadde a me) poiché la sua resistenza acuisce l’odio per l’umano su cui gli Istituti si fondano, e tanto più quanto più essa inconsapevolmente è perspicace e smaschera la dissimulata violenza di rapporti resi i più distruttivi dall’annullamento dell’umano. Apparentemente, solo i compiti e lo studio (quelli che non mi assegnavo io stesso) erano diventati miei nemici. Nella realtà, invece, era l’atmosfera dell’Istituto ad avercela con me. Qualcosa ― emanato dagli sguardi e dai modi dimessi, come velati da un sapere troppo penoso per essere condiviso, dei “padri” cristaldi e degli insegnanti nei miei confronti ― passava senza che me ne accorgessi nei miei quaderni e nei libri di testo e li rendeva insopportabili al mio sguardo e ai miei pensieri come lo ero io, ignaro di esserlo, per gli insegnanti e per i “padri”. E lo stesso qualcosa passava nei miei compagni, senza che neanche loro se ne accorgessero, e prendeva nelle loro menti la forma di un’incapacità di amicizia per me che forse li turbava, a cui forse desideravano essere aiutati a opporsi, ma che i loro confessori preferiti invece assolvevano senza disapprovarla. Solo un bambino o due, immuni a quell’influsso per chissà quale “magia” che inconsapevolmente tenevano viva, continuavano a essermi amici facendosi esclusi insieme a me. Ma finite le medie fummo separati e io fui assegnato alla quarta di Dario Rigorini, un insegnante così rigido, invasivo, sarcastico e psichicamente violento che già dopo poche settimane nessun alunno, in sua presenza o meno, riusciva più a rimanere in rapporto con altri che con lui. Al quale fui certo presentato, prim’ancora che mi conoscesse (al pari di David Copperfield, mandato in collegio con un cartello al collo: attenzione, morde!) come una sorta di corpo estraneo che bisognava arrivare a espellere: prima di tutto per quel ch’ero andato insinuando alle medie su certi bambini e le relazioni con loro di certi insegnanti e certi “padri”; poi perché non ero religioso, fingevo di esserlo; e infine per la sfrontata astuzia con cui avevo rubato l’ammissione agli esami di licenza e la promozione in quarta dando a bere a tutti per ben tre anni di meritare voti che non meritavo, poiché non facevo i compiti e non studiavo. E Rigorini mi prese sùbito di mira: mi avvisò, già al primo appello, che mi avrebbe tenuto d’occhio, e da allora non perse occasione per deridermi non solo per i compiti non fatti e le scene mute alle interrogazioni, ma anche per l’aspetto fisico, i modi, il tono della voce, il sorriso ― le rare volte che in quella classe si aveva l’occasione di sorridere non contro qualcuno ― e perfino per gli sbadigli, che benché tenessi la bocca ermeticamente chiusa non riuscivo a nascondergli. Ma nonostante ciò non poté mai darmi meno di 8 nei temi d’italiano, benché non meritassi mai più di 4 in tutto il resto. E per questa mia lieve difformità dall’immagine che l’Istituto aveva di me, anziché domandarsi se tale immagine non fosse almeno in parte malevola, mi odiò così tanto, perfino più di quanto gli era richiesto, che mi separò anche fisicamente dai miei compagni isolandomi vicino a una finestra (all’altezza della cattedra, ma lontano perfino da essa) in modo che tutti potessero constatare che più nessuno mi era ancora vicino. Non è meno doloroso oggi di allora (e neanche è diventato meno difficile) realizzare quanto soffrivo, in quella situazione, a dispetto della durezza con cui guardavo fuori e dentro di me nel tentativo di fingere, anche ai miei occhi, di non star poi così male e anzi di cavarmela, in qualche modo, contro tutti e tutto. Quanto soffrivo per non poter prendermela che con me stesso, poiché nessuno apparentemente aveva colpa se io non studiavo, e se non studiando facevo arrabbiare genitori e insegnanti, e se meritando continue punizioni diventavo oggetto di sempre più intensa diffidenza per i compagni che sempre più temevano il mio contagio, e se la solitudine in cui sempre più venivo allontanato fin quasi a sparire all’orizzonte mi incattiviva al punto di voler scientemente far peggio ancora, per infuriare e perdere una volta per sempre tutti quelli che mi legavano a quella situazione, i “padri”, gli insegnanti, i compagni, i genitori, e così restar solo davvero e del tutto. Quanto soffrivo per non aver la benché minima idea, per non poter neanche immaginare che dopo tutto potevo anche non esser io quello che non riusciva a esser altro che la causa di tutto ciò: quello che soltanto andandosene e perdendo tutti una volta per sempre, se solo ne avesse avuto il coraggio, avrebbe potuto dimenticare di essere qual era. Cominciai a “provare”, sempre più spesso, la fuga almeno da scuola, e mi sembrò che “funzionasse”: da solo su un autobus pieno di estranei che non si curavano di me, da solo su una corriera o un treno che si allontanavano nella campagna, da solo su una panchina in un parco o in riva al mare, fuoriuscire dalla situazione di cui non potevo accusare che me stesso mi faceva sentire “bene”, per qualche ora, tra me e me, per quanto era possibile sentirmi bene sapendo che tutto sarebbe ricominciato l’indomani mattina. Ma le mie continue assenze da scuola invece aggravarono quella situazione, poiché mi resero ancor più evidentemente colpevole agli occhi di tutti, me compreso, e di conseguenza ancor più giustificati il disprezzo, il dileggio o come minimo l’imbarazzato distacco di cui ero oggetto. Finché, a metà della Quinta, tentai davvero di scappare di casa gettando nell’angoscia i miei genitori. Finché giunsi, facendo leva sul potere che la loro angoscia mi conferiva, a rifiutarmi di continuare ad andare a scuola anche a costo di perdere l’anno; e così mi tolsi, senza rendermene conto, oltre che dalla scuola anche dalla vita, mettendomi in una sorta di “animazione sospesa” in cui più niente alla vita mi legava se non quel che inconsapevolmente mi era forse rimasto, come un segreto che la mente e il cuore fossero riusciti a serbare a tutti e perfino a me stesso, dei lontani primi nove anni in cui l’Istituto non mi aveva ancora preso. Finché un giorno ― attraversando la strada di corsa per prendere un autobus che niente, nella mia situazione, mi autorizzava a sperare che avrebbe aspettato a ripartire per uno come me ― fui investito da una macchina e per un soffio, per un millimetro, per un millesimo di secondo mi ruppi solo qualche osso e non ci lasciai la pelle. Ma fui ricoverato in ospedale, e per alcuni giorni, pallido come un morto e istupidito dagli anestetici, ebbi anch’io nello sguardo la mostruosa dolcezza degli angeli a cui il bambino senza più un capello non aveva potuto sfuggire. Tanto che perfino mia madre riuscì a vederla, una buona volta, e le porte dell’Istituto si chiusero per sempre alle mie spalle. L’anno dopo ― ammesso in un Liceo Classico (un Liceo dello Stato che è di Tutti) dopo aver studiato come un Leopardi per l’intera estate e aver superato a settembre con voti più che buoni, in quello stesso Liceo, l’esame di Quinta ― cominciai a poco a poco a ritrovare interesse e piacere nell’andare a scuola, nel fare amicizia con i miei compagni (e compagne!) e perfino nel riuscire ― cosa che ero giunto a credere impossibile ― a stimare qualche insegnante. All’esame di maturità, nel 1970, fui il secondo su venticinque con 52/60: non eccelso, lo so, ma tuttavia ottimo ― io dico e rivendico ― per un ragazzo che in Quarta e Quinta ginnasio era arrivato a prendere pagelle il cui voto più alto era 4, a parte l’8 in Italiano scritto. E all’Università ― benché con l’annosa lentezza e cautela di chi continua a vedere un possibile nemico in chiunque eserciti una qualsiasi autorità ― mi laureai in Filosofia moderna e contemporanea solo con 110, senza la lode, poiché mi ostinai a scrivere la tesi senza alcun aiuto da parte del professor Nicolao Merker, il relatore, e addirittura contro le sue idee su Thomas Hobbes ― a mio avviso il maggior teorico di tutti i tempi del controllo religioso della mente ― e su come si debba scrivere una tesi di laurea. Niente di eccezionale, lo so, ma pur sempre un risultato abbastanza dignitoso per un ragazzo che l’Istituto aveva quasi ucciso. Anche se quei sette anni di lotta per la sopravvivenza, quei sette anni tra i 9 e i 16 della mia infanzia e della prima adolescenza ― so anche questo ― sono ancor’oggi quelli che per tutta la vita mi mancheranno ad arrivare a essere qualcosa di più di ciò che sono. Si conclude qui, finalmente ― in vecchiaia e su queste pagine ― la storia dei miei rapporti con l’Istituto e con le nere ombre dei “padri” cristaldi. Manca solo l’epilogo, che adesso arriva... Nel 1987, insegnante da soli tre anni, accompagnai a Venezia la Classe 1984-1987 della Scuola media di Roviano. Io e loro. Risparmiando due notti d’albergo, all’andata e al ritorno dormimmo in cuccetta su un treno (oggi soppresso) che partiva da Termini alle undici di sera e arrivava a Santa Lucia alle sei del mattino. I ragazzi, com’è facile immaginare, si addormentarono piuttosto tardi ― se si addormentarono: è un mistero ancora irrisolto ― e io mi svegliai (se mi svegliai) piuttosto presto: alle cinque ero già nel corridoio e mi fumavo la prima gauloise senza filtro della giornata cercando di soffiar via il fumo da uno spiraglio del finestrino senza far entrare l’aria fredda del mattino, quando da uno scompartimento uscì un signore fra i trenta e i quaranta, mi venne vicino, mi guardò negli occhi e disse: “Ma davvero non mi riconosci? Sono Marco Pellicani.” Lo riconobbi sùbito: non era cambiato molto. La sera prima non l’avevo riconosciuto ― e lui, come mi disse, aveva temuto che non volessi riconoscerlo ― poiché come sempre ero troppo concentrato sugli alunni e su ciò che poteva in un modo o nell’altro riguardarli, per accorgermi di qualsiasi altra cosa. Ma quando mi apostrofò lo riconobbi, sùbito: era Marco Pellicani, uno dei pochi che in Quarta e Quinta ginnasio ― nell’Istituto dei “padri” cristaldi, nella classe di Dario Rigorini ― non era arrivato nei miei confronti a un aperto disprezzo, non si era sganasciato alle battute di quel mentecatto sulla qualità più o meno umana del mio sorriso, ma era riuscito a limitarsi a un imbarazzato distacco. “Sai”, mi disse vent’anni dopo mentre il treno, su cui ci trovavamo per motivi del tutto diversi, si avvicinava a Mestre, “sento che devo dirti che mi dispiace per come mi comportai allora. Per come tutti ci comportammo. Tu avevi ragione, e Rigorini e gli altri torto. Ci tenevo a dirtelo. A dirti che mi dispiace molto, mi è sempre dispiaciuto, sapere che non fui capace di avere per te alcuna solidarietà”. Fu bello sentirglielo dire. Gliene fui grato, e gliene sarò sempre. Fu bello soprattutto perché in quel momento, mentre lo diceva, i ragazzi dormivano tranquilli a un metro da noi, nessuna ombra nera di “padre” turbava i loro sogni, e io capivo e sapevo che era stato per aver visto com’ero io con gli alunni che il mio antico compagno Marco Pellicani, fin dalla sera prima, aveva desiderato dirmi quel che mi stava dicendo. D’altra parte sono lieto, oggi, di aver appreso che l’Istituto Massimo e i “padri” gesuiti sono per Mario Draghi (potente fra i potenti per meriti certo mille volte più ragguardevoli di quello di aver frequentato una scuola così prestigiosa) ricordi assai migliori di quanto lo sono per me l’Istituto di cui non faccio il nome e i “padri” cristaldi. È bello sapere che non tutti erano infelici, quando alla nera ombra dei “padri” lo ero io così tanto da non veder più luce nel mondo, ovunque guardassi, che quell’ombra non oscurasse e insozzasse. Sì, ne sono proprio contento per lui. E però sento di dover dire che non cambierei la mia vita con quella di Mario Draghi, potente fra i potenti per meriti certo mille volte più ragguardevoli di quello di essersi adattato ai suoi “padri” gesuiti mentre io non riuscivo ad adattarmi ai padri “cristaldi” e ai loro cocchetti: non la cambierei ― la mia vita con la sua ― poiché, se lo facessi, anch’io crederei che la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non sia solo terrena, ma spirituale. E se lo credessi, come sarei infelice! Come sarei infelice, se cercar di far bene quel che faccio non mi venisse naturale come a un gatto o a un delfino cercar di far bene quel che fanno loro, ma fosse per me responsabilità, un continuo costringermi a corrispondere a volontà superiori, anziché uno spontaneo mettermi in rapporto con realtà umane. Come sarei infelice, se il mio lavoro non mi venisse naturale come a un castoro far la diga o a una rondine il nido, ma fosse per me dovere, continuo comandare a me stesso secondo gli ordini di volontà superiori. Come sarei infelice, se l’evoluzione umana non mi avesse reso terrenamente del tutto adeguato al rapporto con gli altri, con me stesso, col mondo, e fossi invece costretto, dal primo all’ultimo giorno di vita, a continui sforzi, mai coronati da pieno successo, per adeguarmi al modello chiamato spirito che nere ombre impongono e gestiscono in qualità di “rappresentanti di Dio”. No, grazie. Non mi cambierei con un uomo che crede cose come queste, o che non può dire liberamente che non ci crede. Neanche se quell’uomo, nell’infanzia e nell’adolescenza, fosse stato molto più felice, nell’Istituto Massimo e coi suoi “padri” gesuiti, di quanto lo fui io nell’Istituto di cui non faccio il nome e coi “padri” cristaldi.
Poi, certo, posso aver frainteso e sbagliato tutto. Forse anche l’Istituto di cui non faccio il nome era un’ottima scuola, e ottimi educatori i “padri” cristaldi e i loro insegnanti. In fondo gli Istituti e i “padri”, si chiamino gesuiti o si chiamino cristaldi, hanno dalla loro parte fior di testimonial prestigiosi come Mario Draghi, arrivato dov’è arrivato. Sì, effettivamente posso aver frainteso e sbagliato... Però non sono solo, nel mio fraintendere e sbagliare. Anch’io ho dalla mia un testimonial, e anche più prestigioso di un Mario Draghi qualsiasi: Francis Scott Fitzgerald. Che nel 1924 dedicò ai suoi “padri” e alla loro nera ombra uno straordinario e bellissimo racconto: Assoluzione.
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C’era una volta... ― comincia così, come una fiaba, il racconto Assoluzione che Francis Scott Fitzgerald scrisse nel 1924 a ventotto anni: C’era una volta un sacerdote dagli occhi freddi e umidi che, nel silenzio della notte, versava fredde lacrime. E c’era un ragazzino bellissimo e molto vivace, dell’età di undici anni, che un pomeriggio entrò nella sua stanza stregata... “Padre” Schwartz (così si chiama il sacerdote dagli occhi freddi: dal tedesco schwarz, nero, come del resto lo sono tutti) esce il meno possibile dalla stanzetta in cui cerca una piena unione mistica con Nostro Signore. Ma in estate ― è estate, infatti, per sua disgrazia ― dalle quattro del pomeriggio al crepuscolo una calda follia lo raggiunge anche lì: un profumo di saponette a buon mercato, un fruscio di fanciulle svedesi sul sentiero accanto alla sua finestra, la terribile dissonanza delle loro risa argentine, il terribile frumento del Dakota che gremisce la valle del Fiume Rosso... “Padre” Schwartz, allora, prega a voce alta affinché scenda presto il crepuscolo. E poiché la preghiera non ha effetto, angosciato ― è la vita che lo angoscia, e nella vita soprattutto i segni insopprimibili della presenza umana ― abbassa lo sguardo sul disegno del tappeto e porta la sua mente a cupe meditazioni in labirinti grotteschi. Finché, un pomeriggio, alla porta della stanzetta ― che è stregata dal cupo meditare del “padre” l’unione con Dio e il perdersi dei rapporti umani in labirinti grotteschi ― bussa un ragazzino bellissimo e molto vivace di undici anni, a nome Rudolph Miller. Perché bellissimo?, non possiamo non domandarci, sùbito inquieti. Non c’è che “padre” Schwartz nella stanzetta, dunque è per lui che Rudolph è bellissimo. Lo sarebbe anche per noi, ché i bambini sono tutti bellissimi. Ma poiché lo è, invece, soltanto negli occhi freddi del “padre” (dove non dovrebbe, poiché il “padre” è angosciato da quel che è umano e bello) come non spaventarci? Dato che qui, in questo mondo, c’è “padre” Schwartz, la bellezza di Rudolph non può più essere una delle infinite umane bellezze delle quali noi, i lettori, siamo felici come del frumento maturo del Dakota o della dissonanza delle risa delle fanciulle: in un mondo in cui a trovarlo bellissimo ci sono gli occhi freddi di un “padre” Schwartz, la bellezza di Rudolph ci fa temere per lui. Entra dunque nello studio del “padre” un ragazzino bellissimo e molto vivace, e il “padre”, sorprendendosi a fissare i suoi occhi accesi da puntini splendenti di luce color cobalto, è spaventato dalla loro espressione. Ma poi si accorge che il piccolo visitatore è in uno stato di abietta paura, e questo ― che in noi accresce l’inquietudine ― nel prete ha un effetto tranquillizzante: nel mondo capovolto di “padre” Schwartz, la bellezza di un ragazzino è angosciosa e spaventosa, la sua abietta paura rassicurante. Qualche tempo prima, entrato in un granaio, Rudolph aveva udito un tale e una ragazza dirsi cose impure e li aveva ascoltati sentendosi pulsare forte i polsi per una strana, romantica eccitazione. Per un mese, dopo, era riuscito a non andare a confessarsi. Ma un sabato suo padre lo aveva agguantato per il collo mentre giocava: “Vacci subito” aveva detto. “Non tornare finché non ti sarai confessato.” E Rudolph aveva dovuto ubbidire, poiché non ci sono vie di fuga per un bambino, quando i genitori sono dalla parte delle ombre nere: si era recato in chiesa, era entrato nella grande bara collocata perpendicolarmente del confessionale, dove “padre” Schwartz lo attendeva sotto forma di smorta ombra immobile dietro la grata, e aveva confessato per primi i “peccati” più lievi, i più facili da ammettere. Poi quello di non credere di essere il figlio dei suoi genitori ― “Hai pensato, vuoi dire, di valere troppo per poter essere il figlio dei tuoi genitori?” aveva domandato il “padre” ― e infine, con uno sforzo, l’episodio del granaio. Ma dei polsi che pulsavano forte non era riuscito a parlare. E nondimeno, quando “padre” Schwartz alla fine gli aveva chiesto se non avesse detto bugie, Rudolph aveva risposto: “Oh, no, padre, non dico mai bugie.” Ma non era vero: non aveva parlato dell’eccitazione che lo aveva pervaso; e perciò, negando di aver detto bugie, si era macchiato di un peccato terribile: aveva mentito in confessione. Sul momento, tornando a casa di suo padre (non a casa sua: di suo padre) sollevato di essere passato dalla chiesa opprimente a un aperto mondo di campi di frumento e di cielo ― lo stesso frumento del Dakota che per “padre” Schwartz è terribile ― Rudolph aveva rinviato la piena consapevolezza di ciò che aveva fatto. Poi, riempiendosi i polmoni d’aria pungente, aveva ripreso il proprio vero nome, Blatchford Sarnemington ― il nome di un bambino che vale troppo per poter essere Rudolph Miller, figlio dei suoi genitori ― e come Blatchford era entrato nell’angoletto segreto della sua mente in cui era al sicuro da Dio, in cui architettava i sotterfugi con i quali, non di rado, truffava Dio; e celato in quell’angoletto aveva riflettuto sul modo per meglio evitare le conseguenze della bugia. E lo aveva trovato: il giorno dopo, avendo sulla “coscienza” il “peccato” di aver “mentito” in confessione, doveva a tutti i costi evitare la comunione. Troppo grande sarebbe stato il rischio a cui si sarebbe esposto se avesse fatto infuriare Dio fino a quel punto: la comunione fatta senza essersi purificata l’anima gli si sarebbe tramutata in bocca in veleno ed egli avrebbe dovuto allontanarsi insozzato e dannato per sempre dalla balaustra dell’altare. Bisognava, dunque, che l’indomani mattina bevesse acqua “per sbaglio”, ponendosi così, secondo le leggi della Chiesa, nell’impossibilità di ricevere quel giorno la comunione. (Da bambini non si può non imbrogliare Dio, se si ha cuore sé stessi, la salute mentale, la sopravvivenza psichica e talvolta anche fisica. Ma come imbrogliare, bambini, il sentimento di bassezza insinuato fin dai primi anni dall’idea di Dio? Sia la schiavitù, che sembra alleviarlo, sia la ribellione, che sembra liberarne, invece lo accrescono: senza il genio dell’immaginazione, senza un atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo che è il mio ― dal labirinto non si esce). Suo padre, però, lo aveva scoperto. Carl Miller ― un uomo che due cose legavano alla vita: la fede nella Chiesa Cattolica Romana e una mistica adorazione per James J. Hill, il costruttore dell’Empire; non il figlio, no, né un qualsiasi altro animale umano o non umano realmente esistente: per vent’anni egli aveva vissuto solo con il nome di Hill e con Dio, e per tutta la vita non aveva fatto che rielaborare decisioni prese da tempo da altri: mai aveva saggiato nelle proprie mani l’equilibrio di una sola cosa ― Carl Miller aveva udito un suono furtivo giungergli dalla cucina, era stato in ascolto, la leggerezza dei passi gli aveva detto che non si trattava di sua moglie, e allora, con la bocca lievemente socchiusa ― immagine del godimento di chi ha scoperto, prima o poi, che colpire e ferire e uccidere almeno col pensiero nel nome di Dio è l’unico sollievo possibile dal sentimento della propria bassezza, se non si esce dal labirinto ― si era precipitato giù per le scale e aveva spalancato la porta della cucina. Sorpreso col bicchiere in mano, Rudolph, tradito, come ogni innocente dinanzi all’aguzzino, dalla sincerità della propria immaginazione, aveva commesso uno sbaglio: aveva detto di essersi dimenticato di dover fare la comunione ― e questa, come sappiamo, era una bugia ― ma che non aveva ancora bevuto neanche una goccia d’acqua: e questa era la verità ma lo costringeva a comunicarsi, cioè a indurre in tentazione i fulmini ricevendo il Corpo e il Sangue del Cristo con il sacrilegio nell’anima. E così era stato aspramente redarguito per una negligenza di cui non era colpevole ― Se sei così smemorato da non ricordare la tua religione, aveva detto suo padre, bisognerà fare qualcosa di drastico al riguardo. Cominci col trascurare la tua religione e sùbito dopo diventi un bugiardo e un ladro, e allora ti aspetta il riformatorio! ― mentre per la sincerità la sua situazione non era migliorata in alcun modo. Sincerità incompleta, certo ― irrisoria, anzi: non aveva bevuto, solo questo aveva detto a suo padre di tutto ciò che gli era accaduto e lo tormentava, solo questo minuscolo pegno era riuscito a pagare alla sincerità di cui il rapporto tra un padre e un figlio (come potrebbe essere) era colmo nella sua immaginazione ― ma come avrebbe potuto dire tutto, come essere così pazzo da fare come se non fosse vero Dio e fosse vero il padre ideale che non esisteva che nella sua immaginazione? Sarebbero state percosse feroci, lo sapeva, e ― ciò che più paventava ― sarebbe stata la ferocia selvaggia, sfogo dell’uomo incapace (cioè dell’uomo reso impotente dal disprezzo religioso per sé stesso) che dietro le percosse si sarebbe celata. Eppure la lealtà di Rudolph verso il padre era stata totale, alla fine, anche se solo entro i confini del rapporto con lui, quando un’enfasi non voluta nel tono di voce di quest’ultimo ― E in chiesa, prima di fare la comunione faresti bene a inginocchiarti e a chiedere a Dio di perdonare la tua sbadataggine ― aveva agito come una sostanza catalizzatrice con la confusione e con il terrore del bambino: un’ira sfrenata e orgogliosa si era gonfiata in lui, egli non l’aveva nascosta (così manifestando al padre con piena sincerità quel che sentiva) e con rabbia aveva scagliato il bicchiere nel lavandino. Era stato brutalmente picchiato, per aver per un attimo creduto più in suo padre che in Dio: il tonfo sordo di un pugno sul lato della testa, trascinato o sollevato quando istintivamente si avvinghiava a un braccio, conscio del vivo dolore di colpi e torsioni. Aveva respinto la madre, disprezzandone la nervosa impotenza, quando ella aveva tentato di applicargli sul collo la tintura d’arnica. E poi, in chiesa, prima della comunione, lo aveva colmato una lagrimosa esultanza. Mai più sarebbe riuscito a porre con facilità un’astrazione di fronte alle esigenze della sua quiete e del suo orgoglio. Un confine invisibile era stato oltrepassato, ed egli era divenuto consapevole del proprio isolamento... conscio del fatto che esso si applicava non solo ai momenti in cui era Blatchford Sarnemington, ma anche a tutta la sua vita interiore. Fino a quel momento, fenomeni come le “folli” ambizioni, i meschini pudori e timori, altro non erano stati se non riserve private, non riconosciute dinanzi al trono della sua anima ufficiale. In quel momento capì inconsciamente che le sue riserve private si identificavano con lui stesso: la pressione dell’ambiente lo aveva spinto sulla strada solitaria e segreta dell’adolescenza. Così ― mentre suo padre (troppo tardi per non pensare, noi lettori, che non sia che un fatuo ghiribizzo da demente) guardandolo inginocchiarsi dinanzi all’altare si sentiva orgoglioso di lui e incominciava a essere sinceramente, e non solo formalmente, dispiaciuto di quel che aveva fatto ― Rudolph rabbrividiva udendo la campanella della comunione. Non c’era motivo per cui Dio non dovesse fermargli il cuore, aveva pensato. Nelle ultime dodici ore aveva commesso una serie di peccati mortali, uno più grave dell’altro, e stava ora per coronarli con un empio sacrilegio. “Domine, non sum dignus...” Ma ormai era Blatchford Sarnemington per sempre, il ragazzino che valeva troppo per esser figlio di Carl Miller, e la sua vera identità era il suo isolamento: aveva preso la comunione e poi, solo con sé stesso, madido di sudore, immerso fino al collo nel peccato mortale, tornando al banco aveva udito il picchiare secco dei suoi zoccoli biforcuti risuonare forte sul pavimento e aveva saputo che era il nero veleno chiuso nel suo cuore. Domine, non sum dignus... Il ragazzino Rudolph Miller ― il ragazzino Blatchford Sarnemington ― porta fino in fondo la ribellione comunicandosi immerso fino al collo nel peccato mortale ma... non la porta fino in fondo. Non osa il Non est Dominus, sum dignus, l’atto creativo più potente dell’onnipotente ― Dio non c’è, nel mondo che è il mio ― non osa disconoscere la creazione del mondo ricreandolo per sé senza Dio, e dal labirinto non esce. E nel labirinto dove si può andare a finire se non nelle fauci del Minotauro ― dell’uomo che la volontà di unirsi a Nostro Signore ha separato dall’essere umano ― e cioè nella stanzetta stregata di “padre” Schwartz? Dio abbandona ai “padri” i figli che i padri abbandonano a Dio, se i figli non riescono a farsi padri di sé stessi e creatori del proprio mondo. E Rudolph infatti è lì, ora: il bellissimo ragazzino dagli occhi di smalto celeste, dalle ciglia che si aprono intorno a quegli occhi come petali di fiori, ha confessato a “padre” Schwartz il proprio peccato. [...] I gelidi, umidi occhi di “padre” Schwartz sono fissi sul disegno del tappeto [...] e dalla brutta stanza [...] si alza una rigida monotonia frantumata di tanto in tanto dai riverberi nell’aria secca del picchiare di un lontano martello. I nervi del sacerdote sono tesi fino al punto di rottura e i chicchi del suo rosario strisciano e si contorcono come serpenti sul panno verde che riveste la scrivania. Il sacerdote non riesce a ricordare cosa dovrebbe dire. Tra tutte le cose esistenti nella sperduta cittadina svedese, egli è soprattutto conscio degli occhi di quel ragazzino... gli occhi bellissimi con le ciglia che se ne staccano con riluttanza incurvandosi all’indietro come per riunirsi di nuovo a essi... Non vi dirò cosa accade dopo. Lascerò “padre” Schwartz lì dov’è ― mi piacerebbe che il lettore di queste righe senta, ora (come ho sentito io leggendo Assoluzione) che non si può non accorrere a difesa, padre o non padre che si sia, là dove un “padre” e un bambino sono soli l’uno dinanzi all’altro, e che senza perdere un istante corra a continuare da sé queste pagine ― e aggiungerò, con Francis Scott Fitzgerald, solo che Rudolph, qualsiasi cosa accada nella stanzetta stregata, sente che le proprie intime convinzioni sono state confermate: esiste in qualche luogo qualcosa di ineffabilmente splendido, e questo qualcosa non ha niente a che vedere con Dio. E intanto, fuori della finestra, lo scirocco turchino tremola sul frumento, e fanciulle dai capelli gialli camminano con sensualità lungo strade che annodano i campi, gridando cose innocenti, eccitanti, ai giovani che lavorano nei solchi tra il frumento. Gambe si delineano sotto la cotonina non inamidata e le vesti sono calde e umide sull’orlo delle scollature. Per cinque ore la vita ardente e fertile ha bruciato nel pomeriggio. Di qui a tre ore scenderà la notte, e in tutta la regione quelle bionde fanciulle nordiche e quegli alti giovani delle fattorie andranno a coricarsi accanto al frumento, sotto la luna.
Vincent Van Gogh, La Méridienne o La Sieste, 1890, particolare; olio su tela, 73 x 91 cm, Paris, Musée d’Orsay.
(Anticoli Corrado, 14 febbraio – 8 marzo 2010) |
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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