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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

L'immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell'artista danese Viggo Rhode (1900-1976). L'ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

La Terra vista da Anticoli Corrado

nellagosto del 2013

 

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La mia “politica” a scuola

La mia "politica" a scuola. (Giovedì 29 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word).

(Immagine originale)

 

 

Da bambino e da ragazzo mi sentivo in prigione, a volte. Spesso, anzi. Iniziò verso gli undici anni e continuò fin dopo i sedici. Poi cominciai ad andare dove volevo, a fare quel che mi pareva, e in parte “mi passò”. Ma mai del tutto: ancora oggi, di quando in quando, qualcuno tenta di imprigionarmi.

 

I miei “carcerieri”, quand’ero piccolo, erano mio padre e mia madre. Nonché, a partire dalla quarta ginnasio, una scuola e un insegnante1 che mi odiavano. Dei quali, ai miei occhi, i miei genitori erano complici. E non solo ai miei occhi: erano complici di fatto, benché non ne fossero i mandanti. Non capendo, mia madre e mio padre ― non potevano capirlo più di quanto io capisca la teoria delle stringhe, e forse anche meno ― che quella scuola e quel professore mi odiavano. E io vedevo che i miei non capivano ciò e che non sarei mai riuscito a farglielo capire; e questo, oltre che prigioniero, mi faceva sentire solo. Peggio che in prigione: in cella d’isolamento. Sapendo di essere innocente, eppure avendo tutti contro.

 

Quel che non vedevo ― ci son voluti decenni, perché lo capissi ― era che anche mio padre e mia madre soffrivano. Per me e con me. Come se fossero chiusi ― ma a me invisibili ― nella mia stessa cella.

 

Incredibile: i miei erano d’accordo con la “scuola” e con l’“insegnante”, prendevano sempre le loro parti contro di me ― e dunque erano loro, mia madre e mio padre, che mi avevano chiuso in prigione e buttato via la chiave ― ma soffrivano, vedendomi soffrire, forse non meno di quanto soffrivo io!

 

È la prima cosa: quando un bambino è prigioniero e nessuno lo aiuta, chi non l’aiuta sono in primo luogo i genitori (anche se non sempre entrambi allo stesso modo). Ma talvolta anch’essi sono in prigione con lui, e se ci tengono il figlio è perché credono di non poter uscirne neanche loro. Che uscirne sia impossibile. O perfino che non ci sia altro luogo dove andare.

 

Mio padre e mia madre mi chiusero in prigione, in quella “scuola” e nelle grinfie di quell’“insegnante”, credendo che non ci fossero alternative. Credendo addirittura di farlo per il mio bene. Ma soffrivano, vedendomi soffrire. La “scuola” e l’“insegnante” invece non soffrivano. Anzi: godevano della mia sofferenza. Poiché, odiando il libero “cucciolo” umano che ero, avevano piacere che il mio incupirmi e chiudermi in me stesso cominciasse invece a rendermi simile al servile, stupido, disumano adulto in cui volevano tramutarmi. Perciò non erano prigionieri con me, come i miei genitori, ma carcerieri a tutti gli effetti.

 

È la seconda cosa: i bambini prigionieri lo sono soprattutto di chi, intorno a loro, non soffre per la loro prigionia. Di chi anzi ― sotto sotto ― ne trae un perverso piacere.

 

Ma cos’è questa prigionia? In che senso molti bambini sono prigionieri? Di chi? E perché?

 

È la terza cosa: il carcere dei bambini è la costrizione al già deciso. All’immutabile. Peggio: a esser loro stessi già decisi. E perciò a essere niente: copie di copie il cui solo “valore” è quello di servire da ubbidienti trastulli finché son carini e da ubbidiente forza-lavoro quando carini non sono più.

 

La costrizione ― non necessariamente con le cattive: in genere, con un accorto dosaggio di “carota e bastone”, altrimenti detti “amore e timore” ― a uniformarsi a chi si uniformò prima di loro.

 

Come se il mondo non fosse umano ― o non lo fossero loro ― i bambini prigionieri non possono toccare alcunché né inventarsi niente. Devono rassegnarsi. Ripetere i “destini” mentali dei genitori. Esserne, “dentro”, le copie conformi. Magari altrove, magari con maggior “successo” (solo i peggiori vogliono i figli falliti anche materialmente per farne i propri schiavi) ma chiusi nelle stesse impotenze intime dei padri e delle madri, nelle stesse “figure” di rapporto più o meno fallimentari, nelle stesse, tristi pantomime reciproche ripetute all’infinito. Come dirlo più “terra-terra”? I bambini prigionieri, con le buone e con le cattive, a poco a poco son costretti a trattare sé stessi e gli altri con la disumana mancanza di riguardo, d’affetti, d’interesse, di comprensione, di stima, che i carcerieri ormai non sentono più.

 

I miei genitori non erano come li vedevo io: a loro dispiaceva la mia prigionia in quella “scuola” e nelle grinfie dell’“insegnante” a cui mi avevano consegnato affinché uccidessero, in me, il “cucciolo” umano che credevano pericoloso per sé e per gli altri. Loro gemevano come me, per l’antipatia che in quanto umano io suscitavo nei carcerieri, anche se la provavano anch’essi e si sentivano in colpa di provarla meno intensamente di quelli. Poiché è tutto qui, non c’è altro da capire: ai carcerieri sei antipatico, tu, piccolo umano “difficile” da uniformare. E come a loro, se non riusciranno a domarti, così sarai antipatico a ogni carceriere ― capo, capetto, vicecapo o sottopancia di capo ― che incontrerai finché vivi. E che sempre, come i primi, cercherà di distruggerti. Mentre tu, come da bambino, fino a cent’anni ti aggrapperai “al papà e alla mamma” ― cioè agli amici, ai fratelli, ai figli, ai compagni ― e: “Non lasciate, vi prego!” griderai. “Non lasciate che mi facciano questo!”. E loro non sempre capiranno, e tra sciocchi consigli e crudeli abbandoni si faranno complici dei carcerieri, come un tempo i miei genitori, credendo che restare umani, liberi, “irriducibili” in quanto sé stessi, non sia possibile; e che chi pretende di non indossare, rapato a zero, le grigie casacche da recluso tutte uguali (o “diverse” solo per gli stupidi gadget con cui le adorna chi si fa schiavo del denaro per poter acquistarli) sia condannato a morte o a sofferenze di gran lunga peggiori ― l’incubo di mia madre era che “finissi” come Don Chisciotte, e aveva ragione: proprio così son “finito”, e senza scudiero né cavallo, e se tu sapessi, mamma, quanto son soddisfatto di me perfino quando me ne dolgo! Così i miei poveri genitori credevano e temevano, e per questo mi ingiungevano di rassegnarmi e cercavano per me, nella scuola e nella vita, chi li aiutasse a domarmi.

 

Questa è la “politica” che da insegnante faccio a scuola: pur insegnando ― pur obbligando i bambini, cioè, a parlare e leggere e scrivere come tutti fanno e come la Società e lo Stato vogliono che si faccia; pur pretendendo che apprendano ciò che per legge devono conoscere; pur non facendo lo stupido “sessantottino” suicida e omicida che “per salvarli” fa loro intorno il Paese dei Balocchi: perché sì, insegnare è anche imporre, c’è poco da fare, ed è quindi anche costrizione a un’uniformità che per i bambini sani è durissima ― ho però sempre cercato, fin dal mio primo giorno di scuola il 1° ottobre 1984, di aiutarli a scoprire che del sapere ― benché imposto, e per quanto uniforme ― non ci si deve per forza far prigionieri capaci solo di ripeterlo: che il sapere è servo, sì, ma può servire altrettanto bene e anzi meglio, invece che al credere e al ripetere che uccidono, al pensare che fa restare umani.

 

Che il pensare non permette di ripetere né tanto meno di copiare. Che il pensare ― essendo solo umano, sì, ma del corpo umano ― è diverso in ognuno e non può appartenere che a chi lo pensa. E che chi pensa, dunque, in niente è uguale ad alcun altro che mai sia stato, sia o sarà.

 

Così, fin dal 1984-85, fin da quando varcai la soglia dei trentatré anni senza ripetere la morte di Cristo, alla mia prima classe proiettai Il Cucciolo per dirle l’opposto di ciò che quella brutta storia “carceraria” ha inculcato in generazioni di piccoli umani con la complicità di genitori e insegnanti: per dirle che il “cucciolo” non deve essere ucciso, e che la pretesa dei genitori di Jody che il figlio spari al cerbiatto “per diventare grande” (balle: per diventare un adulto razionale e anaffettivo, un “perfetto” ingranaggio di una Società disumana) è il più mostruoso tradimento che un padre e una madre possano perpetrare.

 

Questo è il mio cineforum scolastico iniziato nel 1984. Questo sono i film e i romanzi che “impongo” agli alunni mentre doverosamente impongo loro il parlare, lo scrivere e il sapere di cui mi servirei, se fossi un carceriere, per imprigionarli ancor più duramente: un’“ora d’aria” nel cortile del carcere; una rivolta (ma legale, non distruttiva né autodistruttiva) all’uniformità; una “materiachenoncè” che, guardandosi bene dal farli restare per sempre bambini, li aiuta a restare umani offrendo loro esempi della libertà che è solo umana. Di quella libertà d’immaginazione e di pensiero che è, dalla nascita, prerogativa umana. Il “cucciolo” umano che ai carcerieri è sempre antipatico. Insopportabile. Da uccidere.

 

Governi “di sinistra” e “di destra”, servi della razionalità finanziaria globale, hanno derubato i bambini di ore preziose ― e imposto loro un’uniformità più asfissiante che mai per mezzo delle cosiddette “prove di valutazione” ― proprio per togliere alla Scuola la possibilità materiale, grazie a quegli insegnanti che non si son lasciati ridurre a carcerieri, di non essere solo una prigione: per toglierle la possibilità (che una Scuola senza fini di lucro ha, se non si fa schiava dell’ideologia che la vuole carcere) di ergersi intorno ai bambini come mura possenti non per imprigionarli, ma per proteggerli ― almeno per qualche anno ― da chi vuol farli prigionieri. E tutto, purtroppo, “si tiene”: i “genitori” e gli “insegnanti” e gli istituti “scolastici” carcerieri si fanno alleati di governi disumani, e i governi disumani trovano servi fedeli, o piuttosto ingranaggi disumanizzati, in adulti diventati carcerieri. Per far dei bambini ― dagli umani che per nascita sono ― il niente che devono essere: copie di copie, ubbidienti trastulli finché son carini e ubbidiente forza-lavoro quando carini non saranno più.

 

Io resisto, come facevo da bambino. Agli uni e agli altri: a chi cerca di farmi prigioniero “dall’alto” e a chi tenta d’incarcerarmi “dal basso”, a certe autorità e a certi genitori (e talvolta, duole dirlo, anche a certi ragazzini) ai cui occhi io sono ancora il bambino antipatico ― in quanto irriducibilmente umano ― di quando ero bambino davvero. Più antipatico, anzi: poiché non solo son rimasto tale, ma ho realizzato un’identità e una professionalità che mi permettono di difendermi e perfino di difendere altri. Catcher in the rye, cerco di salvare i bambini dal precipizio: questa è la mia “politica” a scuola.

 

Penso che possa capirlo chiunque, anche il più “frastornato”: nella Scuola si deve “far politica”, e precisamente la “politica” ― appassionata, rigorosa, durissima ― della resistenza umana. Insegnare, indicandone gli esempi, che non uniformarsi è possibile. Che ogni “cucciolo” d’uomo può e deve vivere con ogni altro. Che nessun bambino deve morire da piccolo murato vivo nella copia di un altro.

 

(I miei, dopo avermi incarcerato perché, secondo loro, “non c’erano alternative”, poi non solo soffrivano ma ― come tutti i genitori che si alleano coi carcerieri ― morivano di paura: che io sotto i colpi crollassi; che perciò impazzissi; o che mi ammalassi e morissi; o che diventassi un delinquente; o che mi drogassi; o che mi mettessi coi terroristi; o... chi più ne ha più ne metta. Be’: non è accaduto. A niente di tutto ciò mi sono mai avvicinato di un passo. Ho preferito rimanere antipatico. E sulla mia lapide vorrei che si scrivesse così: riuscì a restare antipatico e cercò d’insegnare ai bambini a restarlo anche loro).

 

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(Giovedì 29 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).


[1] “Andavo” dai preti, allora. O meglio: non ero io che ci andavo, erano i miei che mi costringevano ad andarci. Ma su ciò non mi dilungo, perché ho già raccontato quegli anni, i peggiori della mia vita, ne L’Istituto che quasi Mi uccise.

 

*

 

C’è del marcio: c’è per caso un Amleto?

"C'è del marcio: c'è per caso un Amleto?" Ovvero: È sulla scena che (anche nei piccoli comuni) si può mettere a nudo la coscienza dei re. (Con tre esempi di soggetti che sulla pubblica piazza di un piccolo comune potrebbero essere rappresentati, se lo si facesse con adeguata passione, in modo da risultare sconvolgenti per alcuni e indimenticabili per tutti). (Mercoledì 21 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

Ovvero: È sulla scena che (anche nei piccoli comuni) si può mettere a nudo la coscienza dei re. (Con tre esempi di soggetti che sulla pubblica piazza di un piccolo comune potrebbero essere rappresentati, se lo si facesse con adeguata passione, in modo da risultare sconvolgenti per alcuni e indimenticabili per tutti).

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A torto o a ragione, Amleto dubita che suo padre, re di Danimarca, sia stato ucciso dal fratello Claudio, zio di Amleto; e che sua madre Gertrude, vedova dell’assassinato, abbia sposato Claudio dopo poche settimane di lutto perché da tempo sua amante nonché sua complice nell’orribile delitto.

 

Non ne ha la certezza. È vero che gliel’ha detto lo spettro del padre in persona, ma ― dubita Amleto dubitando anche di sé ― “lo spirito che ho veduto, può essere un diavolo, e il diavolo ha il potere di prendere una forma piacente, sì, e forse a causa della mia debolezza e della mia malinconia, poiché è su tali spiriti che egli ha più influenza, m’inganna per dannarmi”1.

 

Come dimostrare ― a sé stesso, almeno ― la colpevolezza di Claudio? Del delitto (se delitto è stato) non vi sono testimoni. Né si può contare ― nel buio Medio Evo danese, o nella Londra elisabettiana ― su impronte digitali, intercettazioni telefoniche e analisi del dna. L’unica sarebbe che il fratricida e usurpatore crollasse sotto il peso della colpevolezza e si smascherasse da sé. Ma come ottenerlo?

 

Dicono che l’Amleto ― rappresentato per la prima volta a Londra nel 1600 o nel 1601, quando Shakespeare aveva 36 o 37 anni ― sia il dramma “dell’indecisione”. Dell’incapacità di Amleto di agire: di vendicare il padre, cioè ― come lo spettro gli ha chiesto ― e di ripulire la Danimarca dal “marcio” in cui sta rapidamente imputridendo. Lo pensa e se lo rimprovera Amleto stesso! E dopo di lui lo hanno pensato e gliel’hanno rimproverato quasi tutti per più di quattro secoli.

 

Sarà così. Ma non tra la fine del secondo atto e la metà del terzo, quando Amleto decide in un batter d’occhi ― senza indugi, senza incertezze ― non solo che la colpevolezza dello zio, per poter agire contro di lui, dev’essere dimostrata, ma anche con quali mezzi si possa ― senza perder tempo ― dimostrarla.

 

Accade quando entrano Rosencranz e Guildenstern. I quali, dopo uno scambio di convenevoli e qualche tentativo di Amleto di sondarne le intenzioni, annunciano al principe l’arrivo a palazzo di una compagnia di attori. La decisione di Amleto è immediata: “Quello che fa la parte del re sarà il benvenuto”2. Segno che il piano che fra poco metterà in atto sta già prendendo forma nella sua mente.

 

Un istante dopo, gli attori arrivano. Sùbito, Amleto ne mette alla prova la bravura: se fossero dei “cani”, infatti, come potrebbero sconvolgere Claudio fino a indurlo a tradirsi? Ma anzi: son così bravi, che l’esame a cui li sottopone mette in difficoltà più lui che loro: “Oh, quale ribaldo e vile servo son io! Non è mostruoso che questo commediante, in una pura finzione, in una passione solo sognata, possa forzare la sua anima ad aderire alla sua fantasia, così che sotto l’operare di essa tutto il suo volto impallidisce, gli occhi gli s’inondano di lacrime, la faccia viene stravolta, la voce rotta, e tutta la sua azione si conforma all’idea; e tutto questo per niente! Per Ecuba! Che cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, perché egli debba piangere per lei? Come si comporterebbe se avesse il motivo e lo stimolo alla passione che ho io?”3

 

Eppure Amleto sta agendo. La comparsa degli attori gli ha suggerito di servirsene per ottenere la prova che cerca, e immediatamente all’idea è seguita l’azione: “Ho sentito dire che gli uomini in colpa, assistendo a una rappresentazione, sono stati colpiti [naturalmente se gli attori riescono a “colpirli”, ma di ciò Amleto si è appena accertato, n.d.r.] dall’inganno della scena fin nel profondo dell’anima, tanto da gridare sùbito i loro misfatti; perché l’assassinio, se anche non ha lingua, può parlare con un organo miracolosissimo [For murder, though it have no tongue, will speak With most miraculous organ]. Da questi attori farò recitare qualcosa che assomigli all’assassinio di mio padre, davanti a mio zio, e io osserverò le mosse del suo viso, lo sonderò nel profondo e, se egli avrà un sussulto, saprò come dovrò agire. [...] Voglio agire su prove più sicure di quelle che ho sinora: la scena è quello che ci vuole per mettere a nudo la coscienza del re [the play’s the thing Wherein I’ll catch the conscience of the king]”4.

 

C’è una teoria del teatro molto poco “amletica”, nella così poco scientifica teoria “criminologica” di Amleto: che il teatro ― se recitato con passione ― possa cambiare il mondo sull’istante [presently]!

 

Un’idea illusoria? Peggio: consolatoria? Può darsi. Ma estremamente decisa, in compenso, su come si debba fare teatro. Il teatro può, dice Amleto, e guai se non lo fa: “Scopo del teatro è, ora come sempre, [both at the first and now, was and is: com’è poco “indecisa”, questa indicazione di tempo!] quello di reggere, si potrebbe dire, lo specchio alla natura [to hold, as ’twere, the mirror up to nature], per mostrare alla virtù il suo volto, alla follia la sua immagine, e a questo nostro tempo e società la sua forma e impronta [to show virtue her own feature, scorn her own image, and the very age and body of the time his form and pressure]”5.

 

Su tante altre cose, Amleto avrà anche le idee confuse, non dico di no. Ma non sul teatro. Si può non essere d’accordo con lui, naturalmente, ma non lo si può accusare di non sapere che cosa ne pensi.

 

Claudio, il fratricida e usurpatore, ha del teatro tutt’altra idea. Quando Polonio e Rosencrantz gli annunciano che Amleto “ha dato ordine di dare spettacolo davanti a lui” quella sera stessa, il re non nasconde la propria soddisfazione: “È motivo di grande gioia per me apprendere che egli ha simile inclinazione. Buoni signori, aguzzate ancor più questo suo desiderio e indirizzate l’animo suo a questi piaceri [drive his purpose on to these delights]”6.

 

Mentre per Amleto il teatro svela la verità e costringe a vederla e a riconoscerla anche chi meno vorrebbe farlo ― per Claudio, al contrario, il teatro distrae dalla ricerca della verità, fa dimenticare che essa esiste, “consola” per la sua perdita e ne “cura” il tormentoso desiderio. Come se il desiderio di verità fosse una malattia mentale da cui si deve, con l’aiuto del piacere che il teatro suscita, cercar di guarire.

 

Quante volte si fa teatro proprio come lo vuole Claudio, in Danimarca, in tutto il mondo, e giù giù fin nelle pubbliche piazze assonnatamente estive di tanti piccoli o minuscoli comuni italiani!

 

Ma non questa volta. Questa volta, Claudio sarà profondamente deluso dagli attori che, per essere stati da lui tollerati e ospitati e pasciuti e pagati, non per questo si considerano suoi servi:

 

Ofelia Il re si alza!

Amleto Come? Spaventato da un colpo a salve?

[...]

Re Datemi una luce! Via!

Polonio Luce, luce, luce! (Escono tutti fuorché Amleto e Orazio)”7.

 

Aveva detto, poco prima, il re: “Conoscete l’argomento? Non c’è nulla che offenda?”8. Ché il disumano non soffre perché è disumano ― se soffrisse per questo, sarebbe ancora umano ― ma perché viene pubblicamente smascherato come tale. Per il disumano, essere smascherato non è un’occasione di curarsi, di ritrovare la propria umanità: è un’offesa.

 

Domande: ci sarà ancora qualcuno oggi, in Italia, sulle pubbliche piazze di migliaia di piccoli comuni, che fa teatro come lo intende Amleto nell’Amleto di Shakespeare? O lo faranno tutti come l’intende, lo vuole e lo pretende Claudio fratricida e usurpatore?

 

Mi spiego meglio. Se dai l’Amleto all’Argentina, a Roma (ma neanche questo mi pare che accada spesso) è possibile che “Claudio” ― ovunque si trovi: al Quirinale, in Vaticano, alla Banca centrale europea, alla Goldman Sachs, o magari al Bilderberg ― domandi più o meno ansiosamente: “Conoscete l’argomento? [Allude per caso a me?] Non c’è nulla che [mi] offenda?”...

 

Lo so, sono troppo ottimista: è difficile credere che quando il primo attore, istruito da Amleto, “versa il veleno nell’orecchio del re addormentato”, qualcuno nel palco reale ― oggi presidenziale ― sussulti e impallidisca al pensiero ― che so io? ― di come indusse il Parlamento a eludere la volontà popolare chiaramente espressa dal voto del 28 febbraio 2013. Tuttavia non è impossibile.

 

Ma se dai l’Amleto in piazza in un piccolo comune (ad Anticoli Corrado, per esempio, nella “suggestiva cornice” di piazza di Santa Vittoria) chi mai ne resterà “colpito” e “sconvolto”? Chi chiederà “Luce!” per sé affinché cali il buio su tutti gli altri? Il Padron de’ padroni del luogo? Il sindaco? Il parroco? Il comandante dei carabinieri? Il preside della locale scuola elementare e media? Nessuno farà una piega.

 

Dai l’Amleto ad Anticoli Corrado, sia pure con Laurence Olivier redivivo, e sarà come se Amleto, in Elsinore, mettesse in scena Cappuccetto Rosso e il lupo: Claudio (a meno che non sia anche pedofilo, oltre che fratricida e usurpatore) continuerà a dormire sonni tranquilli.

 

Si obietterà, forse, che le compagnie locali vorrebbero coraggiosamente attaccare i colpevoli altrettanto locali di questo o quel crimine o nefandezza. Vorrebbero, le compagnie locali (anziché sbeffeggiare senza rischio potenti remotissimi, come un Berlusconi o un Letta o un Napolitano, che di essere “smascherati” in una delle mille piazzette d’Italia non s’accorgono più di quanto s’accorga un leone di una pulce in lontananza) attaccare eroicamente i potenti vicini, seduti lì davanti a loro, magari in prima fila. Ma non possono, povere compagnie locali, poiché nessuno scrive per loro, come fece Amleto per i suoi bravi attori, qualcosa di così puntuto da perforare le durissime cotiche degli scellerati di paese.

 

Detto fatto, ecco tre soggetti di mia invenzione che mi paiono atti a far gridare “Luce!” a non pochi “insospettabili” marpioni locali in molte parti d’Italia. Sono pronto, su richiesta, a trarne in breve tempo sceneggiature complete, con finali tragici o lieti a seconda delle preferenze del committente.

 

E se qualche signora o signore li giudicasse insopportabilmente “penetranti”, si abbia fin d’ora la risposta di Amleto a Ofelia: “Troppo pungente, signora? Vi costerebbe un gemito smussarmi la punta”.

 

1. Lo schiavista. ― 2. La lega dei picchiatori di mogli. ― 3. Gli avvelenatori di bambini.

 

Lo schiavista

In un piccolo comune, un uomo diventa così potente che quasi tutti lavorano per lui. E chi ancora non lo fa lo spera, per sé o per i figli. L’uomo, scellerato, ne approfitta per imporre la sua volontà: si mette in testa che la piazza del paese, bellissima e da tutti amata, debba essere distrutta per erigervi un orribile monumento al suo bisnonno (fondatore della famiglia e ancor più scellerato di lui) e ingiunge a tutti i dipendenti di votare a favore del progetto, o farà in modo che non lavorino mai più né per lui né per altri. Uno solo ha il coraggio e l’umana dignità di resistergli, e il potente lo riduce alla fame, senza casa, e costretto all’elemosina per sopravvivere, con tutta la famiglia, in un pollaio in mezzo alle galline. E ogni sera il riccone va a trovarlo, e ogni volta la sua vittima si umilia e in ginocchio gli chiede perdono, ma invano. Finché, una sera, il figlio maggiore del poveretto, cogliendo un’orribile occhiata del padrone alla sorella non ancora adolescente, caccia di tasca un coltello e si avventa su di lui...

 

La lega dei picchiatori di mogli

In un piccolo comune, trenta capifamiglia uniti in una turpe lega picchiano ogni sera le mogli come facevano i padri, i nonni e i bisnonni prima di loro: per mantenersi sempre così cattivi, così disumani, che tutti in paese ne abbiano istintivamente paura ― pur senza conoscerne l’orrendo segreto ― e non osino né oggi né mai ribellarsi ai loro ordini. Capo della lega, e picchiatore più d’ogni altro, è il padrone di tutti i pozzi del paese, da lui avvelenati ogni notte, dopo aver picchiato la moglie, con una sostanza che inebetisce l’intera popolazione impedendole di reagire. Le povere donne, rintronate dal veleno e dalle botte, subiscono mordendosi le labbra per impedirsi di gridare, i mariti le colpiscono badando solo a non lasciare segni, e i figli maschi imparano a far come loro e cominciano già ad imitarli picchiando le sorelle e terrorizzando i compagni più piccoli. Finché una notte la moglie del capo, approfittando del duro sonno senza sogni del marito ubriaco di potere e d’odio, avvelena con l’arsenico il pozzo della lega...

 

Gli avvelenatori di bambini

In un piccolo comune un falso medico e uno stregone, in combutta con certe madri pazze che non sopportano e detestano i figli, li avvelenano giorno per giorno somministrando loro psicofarmaci potentissimi. Che li tramutano in passive marionette ma, al tempo stesso, a poco a poco mostruosamente accumulano odio e violenza nelle loro giovani menti, condannandoli a un futuro spaventoso. Il malvagio stregone si procura così un docile gregge infantile per i suoi riti superstiziosi e le sue turpi voglie, mentre il falso medico si procaccia in paese un occulto “prestigio” di esperto manipolatore mentale a cui tutti s’inchinano e credono come a un oracolo, e di qui un potere perfino superiore a quello dello stregone. Finché una giovane maestra, insospettita dal comportamento di molti alunni, segretamente indaga, scopre la verità e una gelida sera d’inverno s’incammina verso il comando dei carabinieri per denunciare i criminali. Non sapendo, povera, che i due turpi individui l’attendono dietro un angolo buio armati di coltelli...

 

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(Mercoledì 21 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).


[1] William Shakespeare, Amleto, traduzione di A. Meo, Garzanti, Milano, 1974, atto secondo, scena seconda, p. 47.

[2] Amleto, atto secondo, scena seconda, p. 39.

[3] Ibidem, p. 46.

[4] Ibidem, p. 47.

[5] Amleto, atto terzo, scena seconda, p. 53. Si noti: non “reggere lo specchio alla natura” e basta, tanto per farlo e per far vedere quanto si è bravi a rispecchiarla; ma per “mostrare alla virtù il suo volto, alla follia la sua immagine, e a questo nostro tempo e società la sua forma e impronta”. E accada poi quel che può.

[6] Amleto, atto terzo, scena prima, p. 48.

[7] Amleto, atto terzo, scena seconda, p. 61. Si noti: un’intera Corte abbandonda la scena in pochi attimi alla luce delle torce. E s’immagini il tumulto. Suscitato dalla rappresentazione ― appassionata ― della verità.

[8] Amleto, atto terzo, scena seconda, p. 60.

 

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Il voto di scambio nei piccoli comuni

"Il voto di scambio nei piccoli comuni" - (Giovedì 8 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com). (Nell'immagine: Anticoli Corrado, 1963, gli elettori al seggio)

(Anticoli Corrado, 1963: gli elettori al seggio)

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“Il voto di scambio è un sistema criminale che uccide la democrazia al suo più importante livello, nel suo luogo più importante: nella libertà del seggio elettorale” (corsivi miei).

 

Lo ha scritto Roberto Saviano su La Repubblica del 24 luglio: il voto di scambio non è una ragazzata, è un crimine; non arreca alla democrazia danni limitati, la uccide; e uccidendola annienta la libertà.

 

Ma cos’è il voto di scambio? Cosa riceve, in cambio, chi scambia il proprio voto con qualcos’altro?

 

L’articolo 416 ter del Codice penale dice che “la pena stabilita dal primo comma dell’art. 416-bis [cioè la pena prevista per chi “fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone”] si applica anche a chi ottiene la promessa di voti [...] in cambio [...] di denaro” (corsivi miei).

 

Per la legge, cioè, solo chi promette denaro in cambio di voti è un criminale. Finora.

 

Oggi, invece, accogliendo il pressante invito di numerose associazioni di cittadini, si vuole integrare l’art. 416 ter con le parole “...o di altra utilità”: “Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti”, cita Saviano nell’articolo di cui sopra, “con le modalità previste dal terzo comma dell’art. 416 bis in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La stessa pena si applica a chi procaccia voti con le modalità indicate dal primo comma” (corsivo mio).

 

Se tale modifica verrà approvata, d’ora in poi sarà voto di scambio ― crimine che uccide la democrazia e annienta la libertà ― qualsiasi scambio tra il voto e qualsiasi altra cosa.

 

Si discute ― e la discussione, pur motivata, sta fornendo un pretesto all’ennesimo rinvio ― sull’avverbio consapevolmente e sul sostantivo procacciamento. C’è chi (per esempio, Saviano) ritiene che quei termini mirino a togliere alla legalità più di quello che apparentemente le si concede...

 

Sia come sia, resta il fatto importantissimo che perfino a legislatori quali quelli che ci siamo dati sta diventando chiaro (e il nuovo articolo 416 ter lo stabilirà, si spera, una volta per tutte) ciò che al buon senso dei cittadini rimasti umani è chiaro da sempre: che il crimine del voto di scambio non si commette “solo” acquisendo e cedendo il voto in cambio di denaro (cosa che accade raramente) ma anche e soprattutto acquisendo e cedendo il voto in cambio di altre utilità: posti di lavoro ottenuti o mantenuti, appalti, lavori pubblici, licenze, facilitazioni amministrative, favori d’ogni genere.

 

Lo ripeto: qualsiasi utilità promessa o accettata in cambio del voto è un crimine. Cosa, dunque, non è crimine, quando si vota? Non è crimine solo il voto per motivi ideali. Non è crimine solo il voto affettivo, motivato dalla speranza che gli eletti agiscano per il bene e il meglio di tutti i cittadini.

 

Ma in che modo il criminale che promette o accetta voti in cambio di altre utilità (posti di lavoro ottenuti o mantenuti, appalti, lavori pubblici, direzione di uffici pubblici, consulenze, licenze, facilitazioni amministrative, favori d’ogni genere) uccide la democrazia e annienta la libertà?

 

Risposta: dove il voto viene scambiato ― non importa quanti voti: ne basta uno ― nessuno è più libero. Non è più libero, cioè, non “solo” chi ha scambiato il proprio voto, ma tutti i cittadini.

 

La democrazia, infatti, è la libertà di tutti solo se il potere di ognuno è uguale al potere di ogni altro. Se invece il potere di alcuni è maggiore (perché controllano più di un voto) e il potere di altri è minore (perché controllano solo il proprio, o neanche quello) l’uguaglianza del potere non c’è più. E se il potere non è più uguale (anche se, apparentemente, solo “pochi” ne hanno più di altri o meno) la libertà non c’è più. La libertà, infatti, come la vita, non può essere parziale, limitata, un po’: o c’è ― tutta ― o non c’è.

 

Esempio: sei libero di camminare se, quando incontri il boss del paese, devi cedergli il passo? Evidentemente no. Qualcuno dirà: “Ma il boss del paese lo incontro una volta all’anno...” Non importa: anche le altre volte, tu sai che puoi andare dove vuoi solo perché non c’è lui sulla tua strada. Anche le altre volte, cioè, la tua “libertà” è limitata, condizionata, dipendente dal boss e dal caso: non è mai in te.

 

La stesso accade col potere sovrano ― “la sovranità appartiene al popolo” ― che la Costituzione ti assegna e che tu eserciti votando. Se uno ha più potere di te, poiché controlla anche il voto di un altro, il tuo potere non è che diminuisca: scompare del tutto. Che tu voti come vuole il padrone o che voti come vuoi tu, lui ha il potere (criminale) di rendere il risultato più favorevole a sé stesso e tu non ce l’hai.

 

Dove uno o più voti vengono scambiati, dunque, il risultato elettorale è diverso da quello vero. E questo è un danno morale e materiale immenso non “solo” perché nessuno più è libero tranne il criminale che lo ha alterato, nessuno più è sovrano tranne il criminale che di esso si è reso padrone, ma anche e soprattutto perché rende finta l’intera scena politica e amministrativa.

 

L’amministrazione della Cosa pubblica, nei paesi dove i voti scambiati alterano il voto, si tramuta cioè in una finzione, in una scena, in un orribile “scherzo” in cui gli ingannatori (il padrone e quelli che col padrone hanno scambiato il voto) prendono in giro gli ingannati, e gli ingannati (quelli che non l’hanno scambiato) son presi in giro dagli ingannatori; dove gli ingannatori contano e gli ingannati no; dove gli ingannatori vivono e si muovono in un paese reale, autentico (anche se schiavo) e gli ingannati, invece, in un paese fasullo dove perfino le pietre si fanno beffe di loro.

 

E ciò è ancor più grave nei piccoli comuni. Poiché nelle città gli ingannati possono tentare di costruirsi piccole “isole” (immaginarie?) d’intatta umanità reciproca. Ma nei piccoli comuni dove scappano? La falsificazione della vita collettiva causata dall’alterazione del voto, la trasformazione del paese reale in paese finto, nei piccoli comuni non riguarda “solo” la vita politico-amministrativa, ma diffondendosi a macchia d’olio inquina tutti i rapporti interumani, anche quelli che sarebbero potuti essere profondi e felici. Nei piccoli comuni dove si son scambiati i voti, nessuno è più certo di sapere con chi ha a che fare, con chi parla, chi ha sposato, chi ama. Nessuno gioisce più del rapporto interumano sentendolo sincero, poiché al sentire (anche al sentire più certo) sempre si mescola, inquinatore, il sospetto che invece anche lì si nasconda un non detto. Quel non detto che si tenta poi di sconfiggere a forza di pettegolezzi e chiacchiere rendendo invece ancor più intricato, così, il viluppo di mezze verità in cui tutti si dibattono.

 

Finché in ogni luogo, per la via, in piazza, al bar, nei negozi, al mercato, nei campi, ovunque e sempre, e forse per alcuni perfino nel sonno, le mascelle si contraggono e le tempie si gonfiano di sangue (e di emicrania) per lo scrupolo estremo dovuto da tutti ― anche dai più fragili, anche dai bambini ― alla confezione di ogni discorso, di ogni saluto, di ogni sguardo, di ogni gesto, in funzione della recita collettiva che si sostituisce alla vita. E che invece a ogni costo sarebbe dovere di tutti interrompere e far fallire.

 

E la cosa peggiore ― il crimine che moltiplica il crimine ― è che nei piccoli comuni questa falsificazione della vita collettiva suscita la maggior sofferenza, e causa il più profondo disagio mentale, soprattutto in chi più necessita, invece, di rapporti sinceri e fiduciosi: cioè nei bambini. I quali, per la propria intatta umanità e sensibilità, sentono e patiscono più di ogni altro la falsità in cui sono continuamente immersi; e al tempo stesso, per mancanza di esperienza, meno la capiscono e più son portati a fidarsi, per venirne a capo, delle “spiegazioni” corrotte, patologiche e patogene, che i grandi forniscono loro sia per (mostruosamente) “tranquillizzarli” (cioè disumanizzarli) sia, e forse è ancora peggio, per “schierarli” come soldatini nelle complesse operazioni “sociali” (in realtà antisociali) con cui rendono ancora più finta, ancora più ingannatrice, la vita collettiva: le complicatissime vicende, le faide annose, addirittura le genealogie che “giustificherebbero” gli inganni e la sfiducia reciproci risalendo fino al Diluvio universale ― tutta l’immensa “cronaca” immaginaria di fatti e misfatti che nei piccoli comuni inquinati viene sostituita, a forza di chiacchiere velenose, alla semplice (ma indicibile, impensabile) verità: “Siete figli di chi non è capace di verità, libertà, identità, dignità. Di chi non è capace di sottrarsi alla finzione, interrompere la recita, ritrovare sé e gli altri. Cercate di restare, come siete, migliori di noi. Cercate di restare umani”.

 

(Conosco l’obiezione: nei piccoli comuni il voto di scambio sarebbe di natura “familiare” e “tradizionale”. E perciò accettabile. BALLE. La famiglia allargata dei piccoli comuni ― “piccola” piovra, con tentacoli ovunque, di cui ognuno è parte fin da prima di nascere (e nel cui mantenimento in vita è pesante la responsabilità di certi “cultori” di tutto ciò che è de ‘na vota) ― proprio quella mostruosa famiglia onnipresente che altro è, se non un groviglio di affetti e utilità, che inquina gli affetti con le utilità e camuffa le utilità da affetti? Un groviglio assassino, ecco cos’è la famiglia allargata dei piccoli comuni: e così inestricabile che i pochi giovani che cercano di liberarsi dalle sue spire, non sapendo più distinguere “i lacci dagli abbracci”, finiscono spesso col reciderli entrambi, si isolano mentalmente o anche fisicamente chissà dove, e “in esilio” rischiano d’impazzire di anaffettività per aver tentato, senza metodo, di ritrovare lo stare insieme umano con cui quelle “famiglie” non hanno quasi più niente a che fare).

 

Come possiamo chiamarli, tutti i rapporti... un po’ meno umani che scaturiscono dallo scambio criminale del voto con altre utilità? Non occorre che ci lambicchiamo il cervello, la parola c’è già: si chiamano rapporti mafiosi. Sono state create miriadi di (piccole?) mafie e camorre e ’ndranghete, in miriadi di piccoli comuni italiani. “Mafiucce” e “mafiette” che non entrano a far parte della criminalità organizzata “in grande stile” non perché siano migliori di essa, non perché conservino un fondo di moralità e di umanità, non perché resistano alla sua attrazione, ma solo perché alla grande criminalità non interessano, non hanno niente da offrire, e la grande criminalità solo per questo non è ancora venuta a divorarsele con tutte le scarpe. Ma se venisse (e chissà che prima o poi non venga, e chissà se davvero non è già venuta, ché almeno da riciclare denaro sporco dov’è che non ce n’è?...) troverebbe il terreno più che pronto, e i poveri figlioli da tramutare in manovali e “veline” del crimine già cresciuti e svezzati.

 

Siamo pronti ad accettare l’idea ― anzi, quale idea: il fatto ― che nella vita politica, amministrativa, economica, sociale, religiosa e culturale di centinaia di comuni italiani sono all’opera da decenni criminali come quelli che ho fin qui descritto? La risposta è , i rimasti umani sono pronti. Ma chi alla propria umanità e all’umanità dei figli ha inflitto colpi su colpi? Chi si è piegato e venduto? Chi, con il voto, ha venduto la libertà, la storia, la vita, sé stesso? Chi, con il voto, si è privato dell’identità?

 

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(Giovedì 8 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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"Chi cerca la morte si riconosce dall'alzare su altri la mano. O i mezzi. O il potere e i servi di cui dispone" (Giovedì 8 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Giovedì 8 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Come non ne posso più di tuo padre eterno! (Venerdì 2 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

(Venerdì 2 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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Quando e come ho smesso di credere in Dio...

Quando e come ho smesso di credere in Dio... (Sabato 3 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

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In realtà non ci ho creduto mai. Tanto per cominciare, nessuno nasce credendo (e questo mi aiutò: già non è facile liberarsi di un Dio insegnato e appreso, pensa come sarebbe se si nascesse imparati!)

 

Poi ebbi la fortuna che mia madre (1922 - 2007), religiosa per tutta la sua vita razionale (e dico vita razionale sperando e confidando che almeno in quella irrazionale sia toccata anche a lei, almeno una notte, la gioia di sentirsi umanamente libera da Dio), com’è come non è, un bel giorno fu protagonista di una sorta di “miracolo” alla rovescia: divenne atea mentre mi aspettava e lo rimase per parecchi mesi anche dopo la mia nascita! (Purtroppo, temo che il suo successivo ritorno all’ovile per mai più sortirne sia stato colpa mia: probabilmente era già allora così difficile andar d’accordo con me, che la sciocchina, arrivata a un certo grado di disperazione, dovette convincersi che solo Dio potesse aiutarla nell’impresa...)

 

E poi ebbi un’altra fortuna: a parte mia madre (che, lo ripeto, fu atea anche lei per alcuni mesi fondamentali nella vita di ogni essere umano), nessuno dei miei stravedeva per l’Onnipotente, la Madonna, i santi, padre Pio, le messe, i sacramenti e soprattutto i preti, i vescovi e i papi. A parte le prime comunioni e i matrimoni, non ricordo un solo rito religioso a cui abbia assistito in loro compagnia. Anche a messa andavano di rado e quasi di nascosto, quasi se ne vergognassero. Mio nonno materno, quando ero ancora alle elementari, già m’invitava coram populo a diffidare dei preti e a leggere Nietzsche (istintivamente, però, accolsi il secondo consiglio solo quando fui così grande da poter farlo senza troppi danni). E mio padre la domenica scarrozzava la famiglia a messa e se n’andava per i fatti suoi.

 

Tutto ciò, senza dubbio, mi fu di grandissimo aiuto: come potevo prendere sul serio, da bambino, una questione che i miei (eccettuata mia madre) consideravano di gran lunga meno importante (a seconda delle propensioni individuali) di una partita di calcio in tv, un pomeriggio di shopping, una serale chiacchierata estiva davanti casa o la lettura di un buon libro? Certo, mia madre si segnava quando in tv c’era il papa benedicente urbi et orbi... ma mica imponeva a noi figli di imitarla!

 

Pertanto, fino a un’età piuttosto avanzata, la religione e i suoi annessi e connessi furono per me favole e romanzi come Le avventure di Tom Sawyer o Schiaccianoci e il Re dei Topi: che a quei tempi credevo storie in qualche modo vere, pur sapendo che erano inventate, ma senza assegnare ad alcuna una preminenza che non si basasse sul minore o maggior piacere che mi dava. I Vangeli, lo confesso, mi piacevano: non quanto Un capitano di quindici anni o Dalla Terra alla Luna, certo, e nemmeno come Topolino, ma quando non avevo altro non li schifavo affatto: anche Marco-Matteo-Luca-Giovanni leggevo di notte sotto le coperte alla lucina di una torcia elettrica, né più né meno che Twain e Hoffmann, Verne e Dumas, la Storia d’Italia a fascicoli settimanali che mio padre aveva pazientemente raccolto negli anni ’30, l’Enciclopedia dei ragazzi Mondadori (di quando la Mondadori non se l’era ancora rubata Berlusconi corrompendo i giudici) che i nonni mi avevano regalato per l’ottavo compleanno o il monumentale Trattato di Astronomia che avevo estorto ai miei genitori dopo l’esame di quinta elementare... Anche i Vangeli, sì, lo ammetto, ma come un qualsiasi racconto d’avventure: Le avventure di Gesù, con tanto di magie portentose e di amichetti adoranti che lo seguivano ovunque (cosa che a me era difficile ottenere, invece). Ma quando poi cominciava ad andargli tutto storto non mi piaceva più e lo mollavo: non avevo bisogno di “eroi” alla rovescia che anziché vincere si fanno ammazzare, e che a morir con loro (e nelle maniere più atroci, a mo’ di ricompensa) portan tutti quelli che di loro si son fidati: quando qualcuno mi raccontò che Pietro, mentre se la svignava pensando ai suoi cari e a tutti quelli che avrebbero sofferto per la sua morte, era tornato a farsi martirizzare solo perché Gesù gli aveva detto quo vadis?, be’, quando seppi questo deposi i Vangeli sullo scaffale più alto e lì li dimenticai: i bambini sono per la vita (ma sul serio, non come quei femminicidi in pectore dei pro life antiabortisti) e per capovolgerli al punto che comincino a essere per la morte (altrui) bisogna fargliene passare di tutti i colori...

 

Ecco: farne passare ai bambini di tutti i colori. Proprio così. Sissignori. È così che certi grandi rimpiccoliscono i piccoli addomesticandoli come pecore impaurite: a forza di storie paurose, inferni infuocati, tenebre eterne, morticini senza battesimo, diavoli che vengon di notte e morti viventi che “di lassù” ti spiano, ti vedono, diventano cattivi come mai furono da vivi e vanno a riferire ogni tuo “peccato” a Chi ha il potere (e la volontà!) di punirti per i secoli dei secoli amen. E molte altre, molte altre se ne fan passare ai bambini, per esser certi che mai riesca loro di diventar migliori dei padri e delle madri, delle nonne e dei nonni: ma le peggiori son le paure e gli orrori di cui si riempiono loro le testoline in un’età in cui non dovrebbero incontrare che umanità e bellezza, umanità e affetto, umanità e intelligenza.

 

Tutto questo accadde anche a me, per quanto fortunato fossi: ebbi anch’io la mia razione di beghine e bacchettoni dall’orrore sempre a fior di labbra: bambinaie (come si chiamavano allora) e maestre, suore di fil di ferro e preti dallo sguardo tanto sfuggente quanto dirette e aguzze erano le cattiverie con cui al momento “buono” ti trafiggevano. Ebbi anch’io la mia parte di tutto ciò, e non abuserò della buona fede di chi mi legge sostenendo di esserne uscito senza danni. No. I danni ci furono e non pochi. (Chi, in un Paese come l’Italia, si fa adulto senza che gli avvoltoi di Dio che gli svolazzano intorno gli abbiano inflitto qualche cicatrice permanente? Qualcuno ci sarà, ma le dita delle mani son sufficienti a contarli senza bisogno di quelle dei piedi). Ne ho parlato (dei danni, intendo) in un mio scritto di qualche anno fa, l’Istituto che quasi Mi uccise, quindi non mi ripeto: chi vuol saperne qualcosa può leggerne lì.

 

Qui, invece, voglio concludere questo post (che mi aspettavo più breve) dicendo solo un’altra cosa ancora, e allegra e positiva: quant’è bello star male, certe volte!

 

Ma come, direte voi, bello star male?! Sì, bello star male. Non hai bisogno di essere un genio, né di lunghi e ponderosi ragionamenti, né di leggere troppo presto Nietzsche, né (anche se questo sarebbe molto meglio, naturalmente) di adulti amorevoli e intelligenti che da Dio e dai suoi seguaci ti tengano al riparo quanto più possono: ti basta sentirti male dopo pochi minuti ogni volta che ti ritrovi in chiesa, e solo quando ti ritrovi in chiesa (be’, per esser sincero ci furono anche due o tre autobus affollati, ma quelli, lo sanno tutti, quanto a sguardi cattivi e pensieri malvagi assomigliano talvolta a chiese quasi quanto le chiese stesse), ti basta star quasi per svenire, o contorcerti per il mal di pancia, o farti addosso la pipì perché ti han severamente proibito di grattarti al cospetto di tutti quei pezzi di legno e di marmo; ti basta essere così sano da non poter star bene, in chiesa, perché un bel giorno (a me toccò a meno di undici anni, wow!, feci appena in tempo a far la prima comunione e via, non feci più né la seconda né altre!) tu sia costretto a non metterci più piede, se non vuoi morire.

 

Cantava Giorgio Gaber in una famosa canzone: ho il corpo stupido. Io, invece, fin da bambino ho avuto il corpo ateo. E mi ringrazio per essermi, almeno in ciò, fisicamente rispettato.

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(Sabato 3 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

Quando e come ho smesso di credere in Dio... (Sabato 3 agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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La realtà è viva e lotta insieme a noi

La realtà è viva e lotta insieme a noi (Giovedì 1° agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

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Hans Christian von Baeyer, fisico teorico, docente universitario e autore di libri che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, firma su Le Scienze di agosto un interessante articolo sul bayesianismo quantistico, o QBism: un nuovo modello teorico, proposto da un gruppo di ricercatori (von Baeyer ne cita tre: N.David Mermin, fisico teorico della Cornell University “recentemente convertito al QBism”; e Christopher A. Fuchs e Rüdiger Schack, anch’essi fisici, che nel 2002 crearono il QBism) che, senza infliggere alcun danno alla fisica quantistica (che da tempo non è più una teoria, ma solida scienza), “fa piazza pulita” delle “stranezze” che la rendono “indigesta” anche ai più colti fra i “non addetti ai lavori”. La più famosa delle quali (illustrata dalla figura in basso) è nota come paradosso del gatto di Schrödinger: un gatto che per la fisica quantistica pre-QBism sarebbe vivo e morto allo stesso tempo.

 

Il fisico Erwin Schrödinger”, scrive von Baeyer, “immaginò una scatola sigillata con dentro un gatto vivo, una fiala di veleno e un atomo radioattivo. Secondo le leggi della meccanica quantistica, l’atomo ha il 50% di probabilità di decadere (processo attraverso il quale nuclei atomici instabili o radioattivi trasmutano in nuclei di energia inferiore, n.d.r.) entro un’ora. Se l’atomo decade, un martello frantuma la fiala e libera il veleno, uccidendo il gatto. Altrimenti, il gatto vive. Adesso effettuiamo l’esperimento, ma senza guardare all’interno della scatola. Dopo un’ora, la teoria quantistica tradizionale affermerebbe che la funzione d’onda (espressione matematica che descrive le proprietà di un oggetto, n.d.r.) dell’atomo è in una sovrapposizione di due stati: decaduto e non decaduto. Ma dato che non abbiamo ancora osservato che cosa c’è nella scatola, la sovrapposizione si estende: anche il martello è in sovrapposizione, e così la fiala di veleno. E la cosa più grottesca è che il formalismo standard della meccanica quantistica implica che anche il gatto sia in sovrapposizione: è vivo e morto allo stesso tempo”.

 

Secondo David Mermin, uno dei fisici citati da von Baeyer nellarticolo, il Qbism elimina il rompicapo argomentando che la funzione d’onda, anziché una proprietà oggettiva del gatto nella scatola, è una proprietà soggettiva dell’osservatore. La teoria afferma che ovviamente il gatto è o vivo o morto (ma non entrambi); certo, la sua funzione d’onda rappresenta una sovrapposizione di vivo e morto, tuttavia una funzione d’onda è solo una descrizione delle opinioni dell’osservatore. Affermare che il gatto sia allo stesso tempo vivo e morto è come se un appassionato di baseball dicesse che la squadra dei New York Yankees è paralizzata in una sovrapposizione di vinto e perso fino a quando lui non guarda il tabellone del punteggio. Sarebbe un’assurdità, il delirio di un megalomane che pensa che il suo stato mentale personale abbia effetto sul mondo” (Le Scienze 540, agosto 2013, pp 32 - 37. Corsivi miei).

 

Il QBism giunge a tale conclusione riconsiderando il concetto di probabilità, e von Baeyer spiega come. Riferire la spiegazione sarebbe troppo lungo: basti dire che al concetto tradizionale di probabilità come mero calcolo della frequenza di un evento su un certo numero di prove, il QBism contrappone (anzi: affianca) un concetto di probabilità che tiene conto anche dello stato mentale di chi effettua la stima: di ciò che egli sa e di ciò che si attende, e quindi del suo grado di fiducia nel verificarsi o meno dell’evento. La maggior parte dei fisici dice di credere nella probabilità tradizionale” osserva von Baeyer, “semplicemente perché è stato insegnato loro a evitare la soggettività” (corsivo mio).

 

Ciò che più mi colpisce, in questo discorso, è che sostiene che tener conto dell’apporto soggettivo, nell’elaborazione di una previsione o nella descrizione di un oggetto, rende la previsione e la descrizione non meno ma più oggettive, cioè più vicine a quella che risulterà essere la realtà “quando apriremo la scatola”. Sostiene, cioè, che chi sono io, cosa so e come sto rende la mia previsione o la mia descrizione più (o meno) affidabili di quelle di un altro anche (perfino) quando le probabilità (razionalmente calcolate) che un atomo decada, come quelle che il lancio di una monetina dia testa o croce, sono esattamente del 50%. E che il gatto di Schrödinger, dunque, non solo non sarà mai vivo e morto allo stesso tempo, ma di volta in volta risulterà (all’apertura della scatola) nella condizione ipotizzata dall’osservatore che al 50% “medio” avrà potuto aggiungere una condizione mentale più... favorevole? Meno... media?

 

Fin qui tutto bene, dunque: il QBism dice, 1, che la realtà esiste davvero e può essere conosciuta sempre di più e meglio; 2, che la fisica quantistica funziona: è scienza; e, 3, che quel che non funziona e non esiste è l’idea (più o meno delirante) che la fisica quantistica sancisca l’inesistenza di verità oggettive indipendenti dall’intervento dell’osservatore: l’osservatore è fondamentale non perché determini la realtà, ma “solo” perché va a vederla, e perché il suo stato mentale, avendo notevoli effetti (positivi o negativi) sulla validità delle sue ipotesi su di essa, orienta la ricerca in direzione della verità o, all’opposto, verso un vicolo cieco.

 

Proseguendo nella lettura dell’articolo, però, mi è parso di sentire qualche “scricchiolio”...

 

Anche se il QBism nega la realtà della funzione d’onda, non è una teoria nichilista che nega tutta la realtà, sottolinea il coautore del QBism, Schack. Il sistema quantistico esaminato da un osservatore è reale, sottolinea. Filosoficamente, spiega Mermin, il QBism propone una separazione, una frontiera tra il mondo in cui vive l’osservatore e la sua esperienza del mondo stesso: quest’ultima è descritta da una funzione d’onda”.

 

Come sarebbe a dire che “il QBism nega la realtà della funzione d’onda”? Io avevo capito (e penso di aver capito bene) che il QBism concettualizza la funzione d’onda non come una non-realtà ma come una realtà diversa da quella ipotizzata dalla concezione tradizionale: come la realtà, cioè, dello stato mentale dell’osservatore. Stato mentale che è una realtà anch’esso, tant’è vero che può influire su una previsione o su una descrizione rendendola più o meno vicina a quella che risulterà essere la verità.

 

Solo un errore di traduzione? Schack avrà invece detto che “il QBism nega la realtà della sovrapposizione di stati in cui la funzione d’onda si trova prima dell’osservazione”? È possibile.

 

Assolutamente non condivisibile, invece, mi pare la conclusione dell’articolo, che von Baeyer lascia a Fuchs: “I sostenitori del QBism accolgono il principio secondo cui, fino a quando non si è effettuato un esperimento, il suo esito semplicemente non esiste. Prima della misurazione di velocità o posizione di un elettrone, per esempio, l’elettrone non ha velocità o posizione. È la misurazione che fa esistere la proprietà in questione. Come dice Fuchs: «Con ogni misurazione effettuata da uno sperimentatore, il mondo è plasmato un po’ di più, prendendo parte a una sorta di nascita». In questo modo partecipiamo attivamente alla creazione continua dell’universo”.

 

Qui, mi pare, non ci siamo più. Qui l’idea delirante che la realtà (e la verità di essa) siano creazioni della mente, che il QBism stava scacciando dalla porta, rientra (alla grande) dalla finestra. E il concetto di soggettività, a cui il QBism stava restituendo il significato di realtà mentale umana concreta, torna a sembrare una sorta di incarnazione dello Spirito assoluto di hegeliana memoria.

 

Molto di più mi era piaciuto ― per quel che vale ciò che piace o meno a un profano autodidatta come me ― il discorso dei fisici Emilio del Giudice e Giuseppe Vitiello su Left n° 25, del 29 giugno scorso (pp 48 - 51: Quando il vuoto è pieno): “Già nel 1916 Walther Nerst, [...], avanzò l’ipotesi che le fluttuazioni quantistiche in oggetti fisici differenti potessero sintonizzarsi tra di loro dando così luogo a sistemi complessi aventi un comportamento unitario. Questa possibilità faceva cadere il requisito fondamentale della fisica classica dell’isolabilità dei corpi. Cadeva il «pregiudizio ontologico» che afferma che le cose possano esistere «di per sé», indipendenti le une dalle altre”. Concludendo che “forse la visione del mondo forzosamente imprigionato nell’antinomia caso-necessità dovrà cedere di fronte alla visione del mondo fondata sull’armonia delle musiche interiori dei suoi componenti. Come preconizzava Marx, il regno della necessità dovrà cedere il passo al regno della libertà”.

 

Un “regno della libertà” fondato “sull’armonia” è una cosa (meravigliosa). Un “regno dell’onnipotenza” fondato sull’attività “creatrice” e “plasmatrice” di Spiriti assoluti è ― mi pare ― tutt’altra (e orrenda).

 

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(Giovedì 1° agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

La realtà è viva e lotta insieme a noi (Giovedì 1° agosto 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).

 

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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).

L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.

 

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