Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
La Terra vista da Anticoli Corrado nel luglio del 2013
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(Mercoledì 31 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Il colpevole? Per il conducente è l’Umanità...
Mercoledì 24, dopo l’incidente da lui (presumibilmente) provocato (Vado a 190 kmh! Anzi, no, vado a 200! in un tratto in cui la velocità massima consentita è di 80) Francisco Garzón Amo,“cinquantadue anni, nelle ferrovie da trenta e da oltre un anno conducente sulla linea dell’alta velocità (AVE) Madrid-El Ferrol, [...] incastrato nella cabina di guida ha parlato via radio con la stazione di Santiago. [...] E urlando ha ripetuto più volte: «È deragliato, è deragliato, che ci posso fare? Siamo umani! Siamo umani!»” (La Repubblica, giovedì 25 luglio 2013). Il cosiddetto “incidente”, cioè, secondo lui sarebbe stato causato non da lui stesso correndo come un matto, ma... da come noi umani siamo fatti, dalla natura umana! Una “teoria” (o piuttosto una fede) non certo nuova, anzi: vecchia di migliaia di anni. Di ogni nefandezza, bruttura, orrore, crimine individuale o collettivo, i colpevoli (che ovviamente son sempre individui precisi, ognuno con la propria storia di disumanizzazione, sulla quale nessuno mai indaga e riferisce all’opinione pubblica) vengono regolarmente assolti (senza processo) sentenziando che non sono stati loro, no, quando mai, ma la natura umana, la quale sarebbe fatta così. Una “teoria” (anzi: una fede religiosa nell’inferiorità umana), una prassi assolutoria (e una conseguente negazione della necessità di una cura per tali individui), che questa volta il conducente sterminatore ha anticipato: Siamo umani! Siamo umani! Come a dire: Sarebbe potuto succedere a tutti! No: può accadere solo a chi odia e disprezza a tal punto l’essere umano, da poter “dimenticare” (cioè annullare) le vite altrui come se non esistessero, come se fossero zanzare, come se decine di vagoni alle sue spalle (o il seggiolino di un bambino) fossero assolutamente vuoti. La causa della tragedia del treno spagnolo, cioè (come di ogni tragedia presente e futura provocata dai tagli di spesa imposti ai popoli dai servi delle tirannie finanziarie globali) non è il fatto che siamo umani, ma il delirio religioso e ideologico che ci fa odiare il nostro essere umani. E che ci spinge a far di tutto, più o meno consapevolmente, per non esserlo più. In che modo? Distruggendo, in noi, l’affettività umana che mai e poi mai ci permetterebbe di non sentire le vite altrui a noi affidate. (Lunedì 29 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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E le tenebre della finta sinistra calarono sull’Italia. Era il 5 novembre 2011. Il Pd manifestava con Bersani (e Vecchioni), a piazza san Giovanni, “per la Ricostruzione”. Pochi giorni dopo, anziché il voto che la stragrande maggioranza degli Italiani voleva, il tradimento del governo Monti-Fornero (imposto da Napolitano a nome e per conto delle tirannie finanziarie globali e delle destre europee). Un anno e mezzo dopo, il secondo tradimento: il governo collaborazionista LettAlfano (imposto da Napolitano a nome e per conto delle tirannie finanziarie globali e delle destre europee) per manomettere definitivamente la Costituzione e normalizzare definitivamente l’Italia nel ruolo di “Messico d’Europa” che ci è stato assegnato. Ma la distruzione della Sinistra italiana e del Paese non è ancora finita: dopo quasi due anni di violenti sacrifici a senso unico e del tutto inutili, il Pd di Epifani, Bersani, Letta, Renzi (e giovani Crucchi assortiti) continua a cavalcare la paura, minacciando “un autunno drammatico”, per imporre nuove mutilazioni della Democrazia e dei Diritti. (Giovedì 25 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Sonni e sogni, all’uomo e alla donna, riescono meglio da soli. Ma li difendono meglio insieme. (Lunedì 22 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Quei pazzi, pazzi, pazzi, pazzi Atei (a metà) di MicroMega (Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word).
MicroMega dedica all’ateismo un numero intitolato ateo è bello! – almanacco di libero pensiero. Contento? Contentissimo: fra poco attacco coi complimenti. Ma prima facciamoci due risate con l’ateismo a metà (o a un terzo, o a un quartino) della maggior parte dei “contribuenti”...
Argentieri Simona, psicoanalista. A cinque anni: “Non posso dire che nell’infanzia tutto ciò mi abbia troppo oppressa o disturbata. Collezionare santini (specie quelli dei martiri torturati) mi seduceva, la ceramica di Lenci della Madonna col bambino che era sulla toilette della mia stanza la conservo ancora [...]. L’odore delle chiese tra fiori e incenso mi piaceva e il prete [...] era un partigiano vivace e simpatico. Mi trovavo bene anche nei cimiteri [...]. Le storie della Bibbia e dei Vangeli mi sembravano avvincenti”1. In seguito: “Fui sùbito conquistata dal saggio di Sigmund Freud L’avvenire di un’illusione, che individuava nella religione il prototipo del pensiero illusorio, che per sfuggire alla frustrazione, al dolore della solitudine e della morte, lascia prevalere il «principio di piacere-dispiacere» sul «principio di realtà». La «favola religiosa» intesa dunque come «nevrosi ossessiva universale», come un narcotico che rende tollerabile l’umana miseria. All’illusione trascendente si contrapponevano la realtà e le sue dure leggi, l’onestà e il coraggio intellettuale; il Logos, la scienza e ― in senso lato ― la verità, sia pure con la minuscola, del non mentire a sé stessi. Con la sola eccezione dell’esperienza artistica, nobile conforto per le miserie della quotidianità, il pensiero magico-mistico-illusorio appartiene al bambino, al primitivo, al folle [...] Ho individuato come punti fragili di ogni sistema religioso l’avallo difensivo delle fantasie infantili di onnipotenza, la credenza nell’immortalità dell’anima, che consente di sfuggire all’angoscia della morte; e soprattutto l’elusione del sentimento della colpa non come ossequio alla tirannia di una qualsivoglia divinità, ma come riconoscimento dei danni provocati dalla propria distruttività”2. Per Simona Argentieri, dunque, la condizione umana è di miseria, colpa e distruttività; e il bambino, che della nostra condizione “testimonia” lo stato di natura, non è diverso dal folle. “Idee” che sono altrettanti capisaldi di ogni religione “che si rispetti”, ma tant’è: Argentieri, pur coltivandole... religiosamente, si ritiene atea. E MicroMega le presta... fede.
Boncinelli Edoardo, genetista e biologo molecolare: “Ho sempre creduto poco in Dio” [...]. “Uno scrupolo filologico mi impedisce [...] di definirmi e farmi definire «ateo». Ateo è colui che «sa» che Dio non c’è; io non lo so con sicurezza [...]. È proprio con il concetto di religione che non mi trovo. Quale può essere l’utilità di seguire una religione, non importa quale?”3. Edoardo Boncinelli, ateo poco ― cioè, forse, anche meno che a metà ― come gli animali non umani non è religioso perché la religione non gli è utile.
Fossati Ivano, polistrumentista, cantautore e compositore: “Lasciatemi ritornare alla spiritualità dei blues. A Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson, Lead Belly, alle parole inventate sul momento per invocare, raccontare, minacciare e sedurre. Per rivolgersi a un Dio di volta in volta diverso per ciascuno. Qualcosa o qualcuno che c’è, ma forse non c’è o non ti sente. Fa lo stesso. Un Dio più o meno terreno, più o meno stellare, lontanissimo o vicino. Forse in ascolto nel cielo o dentro la pancia della terra. Maschio o femmina. A oriente o a occidente. Cristianesimo, santeria e molto altro ancora”, ecc. ecc.4.
Magrelli Valerio, poeta, è un ateo a metà per sua ammissione, visto che titola “Riflessioni di un aspirante laico”. O forse è un religioso moltiplicato per due (Iddii): “La soluzione più intelligente, a mio parere, l’ha proposta la gnosi [...] teorizzando l’esistenza di due divinità: una debole e buona, l’altra potente e cattiva. L’idea di un demiurgo malvagio che ha creato il mondo premiando i suoi simili, mi pare ineccepibile. [...] Riassumendo la mia posizione, sostengo dunque che esistano due cristianesimi, uno positivo, francescano, fatto di dedizione verso gli altri, e uno impositivo, rapace, basato sulla sottomissione degli altri. In breve, Hyde e Jekyll. Il primo è un cristianesimo seminale, ammirevole, nutrito di amore verso i deboli. Lo ritengo una delle massime conquiste del pensiero umano. [...] È il motivo per cui, da aspirante laico, ho battezzato i miei figli”5.
Morante Laura, attrice: “Mi vedo ora costretta a confessare che, per quanto simpatizzi caldamente con l’ateismo, non sono ancora riuscita ad accedervi compiutamente. [...] Non sono credente, ma accendo ceri e chiedo grazie o, di preferenza, raccomando agli amici credenti di intercedere per me. [...] Tutti crediamo o non crediamo, nessuno di noi sa o pretende di sapere. [...] Pago il mio tributo alla religione per cautelarmi ed evitare ritorsioni”6. Tale la figlia quale il padre, verrebbe da dire se non fosse un proverbiaccio ultrareligioso, ché anche papà Morante, racconta Laura, si diceva ateo ma lo era a metà: “Ebbe rapporti di reciproca stima e intensa amicizia con molti religiosi...”7.
Odifreddi Piergiorgio, logico, matematico e divulgatore scientifico: “Sono entrato in seminario quando avevo nove anni e ne sono uscito quando ne avevo tredici”8. Nota bene: vi entrò, vincendo le resistenze del padre, con l’aiuto di un prete. Voleva “diventare papa”. Rimase in seminario, anche a dormire, per quattro anni. Quale bambino così piccolo avrebbe resistito così a lungo?
Ovadia Moni, attore, autore, musicista, regista teatrale: “Personalmente ritengo che la religione sia di fatto una modalità di riconoscimento identitario necessario alla fragilità umana”9.
Pahor Boris, scrittore: “Sono religioso ma non credente”10. [...] “Non me la sento di diventare buddista come ha scelto Matthieu Ricard, penso che sia sufficiente la religiosità cosmica che egli suggerisce per il futuro dell’umanità. In tal modo, egli si schiera anche al fianco di Spinoza [...]. Quando domandarono al grande scrittore Mario Rigoni Stern che cosa fosse per lui la religione, rispose: «Fermarsi in silenzio nel bosco». Era ciò che facevo quando camminavo tra gli alberi sul sentiero che sale verso l’altipiano carsico; ora sono più modesto, e la mattina mi raccolgo davanti all’infinita distesa del mare”11.
Piovani Nicola, pianista, direttore d’orchestra, compositore: “E adesso anch’io, quando passo davanti a quel piccolo cimitero, mi segno”12. [...] “Qualche anno dopo però cominciai ad appassionarmi alle grandi manifestazioni popolari religiose ― le processioni del Venerdì Santo in Campania, Sant’Agata a Catania, Santa Rosa a Viterbo. E poi mi appassionai anche ai rituali religiosi di paesi lontani [...]. In molte di queste sacre rappresentazioni, [...] c’è qualcosa che fortemente mi attrae [...]. In età più matura sono poi stato affascinato dalla religiosità del Mistero. [...] Più leggo di neutrini, polidimensioni, antimateria, buchi neri, più mi si consolida il sentimento di religiosa devozione al Mistero, che io scrivo con la lettera maiuscola, come Dio”13. Del resto, si sa, “in trincea nessuno è ateo”14.
L’identikit dell’“ateo” alla Micromega è dunque il seguente: è un “ateo” che da bambino “collezionava santini” e da adulto, devoto ai dettami religiosi, disprezza l’essere umano; che da bambino fortissimamente volle farsi prete “per diventare papa” e da adulto crede in Dio, anche se “poco”; che parla con Dio “in cielo, o nella pancia della terra”; che crede, anzi, che d’Iddii ce ne siano ben “due”, e a ogni buon conto “ha fatto battezzare” i figli; che “accende ceri” e “chiede grazie” a santi e madonne; che senza religione si sentirebbe privo di “identità”; che passa ore in “raccoglimento” dinanzi a “infinite” distese; che è “religiosamente devoto al Mistero”; e che, tristis in fundo, in ogni caso si prepara ad abbandonare questo suo “ateismo” alle vongole il brutto giorno che si troverà anche lui “in trincea”.
Meno male che non sono tutti così. Carlo Bernardini, fisico e divulgatore scientifico, racconta: “Molti anni fa, quando ero appena laureato e dopo essermi trasferito da Lecce a Roma nel 1947, incontrai un’eccezionale figura che teneva, nel 1952, un corso di meccanica statistica in un’aula della facoltà di Magistero a piazza Esedra: era Richard von Mises, fisico matematico e filosofo neopositivista del Circolo di Vienna. Tornava da Istanbul, dove era fuggito per salvarsi dalla minaccia nazista. [...] Fu con von Mises che germogliò in me una convinzione vagamente antinomica, che è rimasta alla base del mio ateismo. Diceva von Mises: «La dimostrazione dell’esistenza del pane è il pane», introducendo così una fenomenologia dell’esistenza che non aveva le contorsioni dell «prove ontologiche». Fu così che mi balenò alla mente la proposizione: «Non esiste la dimostrazione della non-esistenza di ciò che non esiste». Provate con le fate e i folletti dei boschi...”15
Buono anche Ascanio Celestini, attore, autore teatrale e scrittore ― buono perché si limita a raccontare con semplicità, senza tante elucubrazioni, com’è che a un dato (fondamentale) momento, quasi sempre in tenera età e comunque non più in là della maggiore, un bel giorno ci si ritrova atei senza alcun bisogno di ragionamenti, solo per il fatto che si è stati pronti, in quel momento, a sentire che Dio non c’è, punto e basta: “Ripenso a quella frase di mio padre: «Io credo, ma credo che non c’è niente». Come per dire che avrebbe creduto in Dio, se Dio fosse esistito. Avrebbe fatto lo sforzo di crederci, se Dio avesse fatto lo sforzo di esistere. Che mancava la fede per assenza di Dio”16.
Ma soprattutto mi son piaciute due donne. Gloria Origgi, filosofa e scrittrice, che per due o tre pagine pasticcia un po’ ma alla fine, parlando della madre, spicca il volo: “Dopo un’interminabile altalena di sentimenti, decisioni, compromessi, dichiarò a mio padre il suo amore per un altro. [...] All’avvicinarsi della quarantina, mia madre si innamorò. «Innamorarsi» in italiano descrive uno stato quasi fisico di «essere in amore». Il francese e l’inglese non hanno un verbo equivalente: si «cade in amore» in entrambe le lingue (tomber amoureux e to fall in love) come se quello stato di incanto, di diletto del corpo e della mente, fosse una scivolata inevitabile, una caduta che a volte ci colpisce nel mezzo del retto cammino della vita. La ricordo così bella in quegli anni, i capelli spettinati, le gonne leggere che facevano mille pieghe sulle sue gambe lunghe, come se il suo corpo si fosse liberato da una corazza di inibizioni. Si innamorò di un uomo ebreo, che dopo qualche tempo venne a vivere a casa nostra. [...] Il che provocò numerose scritte antisemite sulla porta, e un commento dell’orribile don Maggioni della parrocchia sotto casa, secondo il quale il nostro basso rendimento in religione e la nostra assenza dalle ore di catechismo erano dovuti ai malsani amplessi che si svolgevano in casa nostra tra gente di razze differenti. Questa era l’Italia della mia infanzia. Questi erano i bravi valori cristiani. [...] Non riesco a credere che qualcuno possa pensare che ci fosse qualcosa di morale in quella gente, i benpensanti, i perbenisti, gli adoratori di donne vergini e di bambini santi. Non amo nessuna religione, ma ho una particolare avversione per quella simbologia cattolica al limite della perversione: la madonna vergine che dà alla luce un figlio e quel bambinetto nudo adorato dappertutto, e insieme la croce insanguinata e le corone di spine. Come si fa a pensare che la morale vera stesse da quella parte?...”17
Non è immenso il nesso che Origgi fa balenare tra l’ateismo, l’innamoramento e gli “stati fisici”? L’idea che l’amore, nelle nostre storie, sia “l’altra faccia” del disamore per Dio, o non sia affatto?
E Valeria Parrella, scrittrice: “Ci ho pensato per la prima volta davvero quando mi è stato chiesto di raccontare del mio «ateismo»: per questo stesso scritto. Si tratta, infatti, di una cosa talmente naturale per me, talmente scontata, che fino a ora quasi non ho mai avuto bisogno di darmi delle spiegazioni. Sono atea da sempre, da quando esisto. [...] L’ateismo è una cosa intima, semplice. Naturale. Io so di essere atea come so che l’acqua è fredda o è calda quando metto le mani sotto il suo getto, senza specularci sopra. [...] Riuscire a far credere a un bambino che esista un Dio «trascendente» deve essere una cosa veramente complicatissima. È molto più istintivo e molto più spontaneo non crederci assolutamente”18.
Ecco: l’ateismo è naturale, dice con perfetta naturalezza Valeria Parrella. E io mi permetto di aggiungere: o non è ateismo. Non del tutto, almeno. Non con la gioia e il piacere che ne ritrae lei.
Mentre l’“ateismo” di (tutto il resto di) MicroMega è a metà perché è “ateismo” razionalista. Cioè ragionamento astratto, acorporeo, che almanaccando naso all’aria non può non inciampare e cadere, a ogni pie’ sospinto, nelle grottesche ammissioni di religiosità di cui sopra. Leggete Origgi e Parrella, voi “atei” a metà col santino in tasca, e domandatevi: “Come mai non son così anch’io? Cosa mi è accaduto, in tenera età o comunque non oltre la maggiore, che ha disseccato il mio naturale, “fisico” ateismo al punto che oggi mi sembra di non poter cercarlo che ragionando, come se fossi Spock di Star Trek?”
Fino all’orrore ― non posso definirlo altrimenti, e sto per spiegare perché ― dell’“ateismo” che a Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, ispira “pensieri” come questi:
“Kant [...] ritiene di poter dimostrare l’esistenza e il carattere immortale dell’anima (insieme a Dio e a un aldilà remunerativo) in sede di «ragion pratica» a partire da un fatto incontestabile: l’esistenza della dimensione etica nell’uomo. Questa dimesione, tuttavia, non è oggi affatto «misteriosa» e meno che mai rimanda a una realtà «noumenica» inattingibile dalla conoscenza naturale (cioè scientifica). La sinergia di mutazioni (errori «a caso» di trascrizione del dna) che hanno dato luogo alla postura eretta, alla neocorteccia, alla fonazione articolata eccetera, ha eliminato nella «scimmia nuda» che noi siamo la cogenza degli istinti. Non gli istinti, sia chiaro, solo la loro cogenza. Gli istinti non svolgono più il ruolo di organizzatori perentori dei comportamenti individuali e collettivi nell’ambito della specie. In Homo sapiens gli istinti sono indeboliti, «aperti», consentono che il gruppo funzioni su base ferocemente gerarchica o in forma gelosamente egualitaria, praticando sacrifici umani o condannandoli come abiezione, sopprimendo i neonati «malformati» o dedicando ingenti risorse agli handicappati, raccogliendosi intorno a Hitler o a Francesco d’Assisi. La cogenza degli istinti viene sostituita nella nostra specie dalla cogenza della norma. Gli istinti indeboliti e «aperti» mettono strutturalmente a repentaglio un branco, sempre sull’orlo dell’autodistruzione per mancanza di un imperativo che organizzi ruolo e limiti dell’aggressività, del coordinamento delle azioni di difesa e di attacco, della ripartizione del cibo e delle prestazioni sessuali. La norma deve surrogare l’imperativo perduto degli istinti, in modo almeno altrettanto efficace. L’animale uomo è dunque un animale normativo, che ha la necessità biologica che ogni suo «branco» condivida una norma. Quale norma? Qualsiasi norma, purché funzioni. La biologia impone al gruppo umano la creazione di una norma, ma lascia del tutto impregiudicati i contenuti della norma. Purché siano un surrogato efficace (e magari più efficace) della perduta cogenza degli istinti. Nella storia di Homo sapiens, in effetti, si sono inseguite e intrecciate diacronicamente e sincronicamente le norme più incompatibili: «di universale non ve n’è nessuna. Il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli e dei padri, tutto ha trovato il proprio posto tra le azioni virtuose» (B. Pascal, Pensieri ― Chevalier 230, Brunschvicg 294 ― Rusconi, Milano 1996, p. 141). [...] Sappiamo che nel mammifero Homo sapiens non c’è indizio di anima immortale, di facoltà psichiche o «spirituali» separabili dal corpo e che possano sopravvivere alla morte dell’organismo. Sappiamo che non esiste una morale umana, poiché la dimensione etica dell’uomo conosce le norme più diverse e incompatibili per la convivenza del branco, tribù, comunità, società, dal genocidio al porgere l’altra guancia, tutte naturali purché assicurino la sopravvivenza di una collettività”19.
“Furto, incesto, genocidio, porgere l’altra guancia, tutti naturali”? “Qualsiasi norma, purché funzioni”? Come assomigliano alla “simbologia cattolica al limite della perversione” (di cui parla Origgi domandandosi “come si faccia a pensare che la morale vera stia da quella parte”) gli esiti estremi dell’“ateismo” razionale di Flores d’Arcais! Come assomiglia al devoto Pascal questo “ateo”! E come li sente entrambi ripugnanti l’unico vero ateismo, l’ateismo naturale, spontaneo, quello con cui “si nasce” e che è “così difficile far perdere a un bambino”!
Leggendo Flores d’Arcais si capisce bene come mai la maggior parte degli “atei” razionalisti rimangano prudentemente “atei” a metà: oh sì, molto meglio l’ingenua incoerenza di credersi atei frequentando preti e segnandosi davanti ai cimiteri, piuttosto che la feroce coerenza di arrivare a chiamar naturale il genocidio, purché funzioni! Oh sì, molto meglio essere “atei” a metà che essere “atei” nazisti fin in fondo come Flores d’Arcais! Il quale per altro ― poiché nessun ateismo razionale è in realtà possibile ― non riesce comunque a essere ateo affatto, neanche da nazista, e si ritrova invece a genuflettersi dinanzi alla “dea” Norma, e a chiunque riesca ad imporgliela, come i Giacobini davanti alla “dea” Ragione!
Il fatto è che la scienza ― quella vera ― non avanza mediante ragionamenti (che le occorrono, tutt’al più, per organizzarsi e consolidarsi) ma attraverso scoperte. Le quali non sono mai razionali, ma sempre irrazionali. Cioè naturali, spontanee, appassionate e semplici, per quanto lunga, penosa, faticosa e complessa (ne seppe qualcosa Darwin) possa poi esserne la conferma. Un po’ come la scoperta, in tenera età e comunque non oltre la maggiore (molto prima di aver imparato a ragionare “a bacchetta” come un Flores d’Arcais) che Dio non esiste, che si nasce atei, e che il rimanerlo coincide col restare umani e va difeso, se necessario con le unghie e coi denti, né più né meno che la propria umanità? Forse sì.
Se non si accetta questo, se i cultori di scienze umane continueranno a voler illudersi di fare “scienza” di quel ch’è umano ragionando, quando nessuna scienza si è mai fatta e mai si farà così, come se fosse teologia ― se i cultori di scienze umane non la smetteranno, cioè, d’esser preti della “dea” Ragione e, in quanto tali, cultori di una disumanità anche peggiore di quella confessionale ― le loro elucubrazioni “atee”, come quelle di Flores d’Arcais, continueranno senza avvedersene a girare in tondo per tornare ogni volta al solito bivio: o alla religione, cioè al ragionar su Dio che non produce che precetti; o al totalitarismo più o meno nazista, cioè al ragionar sull’uomo che non produce che norme.
(Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word). (Sabato 20 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com). [1] Micromega 5/2013, ateo è bello! – almanacco di libero pensiero, p. 16. [2] Ibidem, pp 19 - 20. Corsivi miei. [3] Ibidem, pp 23 - 25. Corsivi miei. [4] Ibidem, p. 33. [5] Ibidem, pp 39 - 41. Corsivi miei. [6] Ibidem, p. 42. [7] Ibidem, p. 43. Corsivo mio. [8] Ibidem, p. 48. [9] Ibidem, p. 62. [10] Ibidem, p. 63. [11] Ibidem, p. 68. [12] Ibidem, p. 81. [13] Ibidem, pp 82 - 83. [14] Ibidem, p. 83. [15] Ibidem, pp 21 - 22. [16] Ibidem, p. 29. [17] Ibidem, pp 57 - 58. [18] Ibidem, pp 68 - 69. Corsivo di Valeria Parrella. [19] Ibidem, pp 11 - 12. Corsivi di Flores d’Arcais.
Padri che a Scuola non vedi Mai... (Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word).
Premessa doverosa: ce ne sono di ottimi, fra i padri che a Scuola non vedi mai.
Sono padri che vorrebbero venire a parlare con gli insegnanti. Ma non possono, non ce la fanno. Glielo impedisce ― attenzione ― non il lavoro (niente può essere più importante dei figli) ma la timidezza. Per vari motivi, ma soprattutto perché temono di non riuscire a esprimersi. Sanno che a parlare con i professori non si va solo per ascoltarli ma anche, appunto, per parlare, e hanno paura di non esserne capaci: di risultare “controproducenti”, di mettere i figli in cattiva luce.
La timidezza di questi padri è, per così dire, antica. Infatti sta scomparendo. Viene dall’Italia contadina, che è (ma vicinissima) alle nostre spalle. Dall’Italia in cui i loro padri entravano a Scuola col cappello in mano, attendendosi ― in quanto poveri e analfabeti, ma tutt’altro che stupidi ― umiliazioni che ai “signori”, checché facessero e per quanto asini ne fossero i rampolli, non toccavano mai.
Benché non abbia mai potuto incontrarli e li vedessi (qualche volta) solo da lontano, ho sempre avuto per questi padri il massimo rispetto. Non solo li capivo: sentivo come loro. E attraverso i figli, li amavo. Poiché i figli di padri timidi sono affettuosi, attenti, studiosi, molto corretti; e dotati di un profondo intuito, di una nobile delicatezza e di un gran senso dell’umorismo.
“Vecchi” e meno vecchi alunni che mi leggete: sì, è dei vostri padri che parlo! Io li amavo senza conoscerli. E di non conoscerli mi dispiaceva per loro e per me, poiché sapevo che di voi non gli avrei detto che cose belle, ed ero deciso a dirgliele in poche parole, e immaginavo che per il resto dei nostri brevi incontri, se mai fossero avvenuti, ci saremmo scambiati sguardi luminosi ― di luminosa comprensione e stima reciproca ― che avrebbero arricchito i bei ricordi loro e i miei. Ancora oggi, quando li vedo, sento per i vostri padri un affetto semplice ma indistruttibile... Come se fossimo stati insieme, anche se fisicamente troppo distanti per poter parlare, in qualche impresa partigiana.
Questo per dire che i padri che a Scuola non vengono mai non sono tutti uguali.
Ciò che li distingue è l’affetto: i timidi soffrono di non venirci, e il loro dolore, ancorché inespresso, si trasmette ai figli come sentimento di una presenza sostanziale profonda, vitale, benefica. Gli stronzi, invece, sentono niente. Poiché niente sono per loro gli studi dei figli, comunque vadano e qualunque cosa avvenga. Tranne quando i figli riescono a scuoterli combinando qualcosa di troppo grave perché possano, come al solito, “ignorarlo”: allora, nei padri stronzi, a un tratto va in pezzi l’eterno, quasi impercettibile (ma implacabile) sorrisino ebete, e tra le sue schegge taglienti finalmente si vede benissimo la smorfia dell’odio che col sorrisino si illudevano di nascondere. Che non è odio per la Scuola ― attenzione ― ma per i figli in quanto umani dall’immaginazione ancora sana, capaci di pensare, di capire, di cambiare, di realizzarsi: capaci di farsi adulti, nonostante quei padri, diversi da quei padri.
Ecco: i padri che a Scuola non vengono mai ― non i timidi, ripeto: gli stronzi ― nascondono e “covano” nelle menti il crimine contro l’Umanità di odiare i figli in quanto umani, in quanto capaci di cambiare sé stessi e il mondo. E trasfondono il proprio odio nei figli così: non venendo mai a parlare con gli insegnanti, non interessandosi mai, non parlando, domandando solo pro forma, non tenendo con la Scuola alcun rapporto. Odiando i figli, anziché facendo, non facendo.
Gli studi dei figli, e tutto ciò che agli studi attiene e assomiglia ― cioè, ripeto, il realizzarsi dei figli in quanto esseri umani unici, irripetibili, diversi da ogni altro ― per quei padri non esistono, sono nulla. E questo nulla essi riversano giorno per giorno nei figli (attraverso i propri quotidiani non-comportamenti) allo scopo (quasi sempre consapevole) di bloccarli, immobilizzarli, pietrificarli. I figli non dovranno mai essere sé stessi: dovranno tramutarsi in statue” (ma fatte di nulla), in repliche esatte dei padri. E affinché così sia i padri si servono dell’affettività dei figli come di un imbuto attraverso il quale il proprio odio segreto, riversandosi in essa come acido corrosivo, la distrugge rendendoli identici ai padri.
Che poi mandino a scuola le mogli, e che le mogli (almeno in apparenza) s’interessino e partecipino con impegno (ma ― attenzione ― senza mai imporre ai mariti di cambiare) non è in contrasto con quanto sopra: le mogli ― le donne ― per questi “uomini” ― per questi “padri” ― sono umani di seconda categoria, e adibirle agli affari scolastici non è diverso dal destinarle alle faccende domestiche: è anch’essa una manifestazione di disprezzo, cioè d’odio ― “tu bada alle pulizie, alla cucina, alla scuola, ché alle cose serie e importanti ci penso io” ― che attraverso le donne si riverbera nei bambini spingendoli anche per questa via a farsi copie dei padri: a disprezzare e odiare le donne, cioè ― e le bambine a disprezzare e odiare sé stesse ― né più né meno di quanto disprezzeranno e odieranno, dentro di sé, l’umanità che la Scuola tenta invece di indurli a rispettare, a serbare intatta e a realizzare sempre di più e meglio.
Ho scritto che i figli di padri timidi son quasi sempre in gamba, o comunque “speciali”. Al contrario, i figli di padri annullanti hanno spesso problemi più o meno gravi. Appaiono paralizzati, e in effetti lo sono. Immobili. Statue, appunto. Che studino o no, che si comportino correttamente o da “discoli”, la realtà (quasi impercettibile) è che i figli di padri annullanti, con la Scuola, non ci fanno niente.
Non è che non cambino. Non sempre, almeno. Ma cambiano per quel che accade loro fuori e per avvenimenti interiori che nulla hanno a che fare con quel che a Scuola accade. Con la Scuola no, mai: niente ne fanno, niente ne traggono e in niente evolvono: una gigantesca perdita di tempo! Come se l’odio dei padri per la Scuola ― cioè, come ho spiegato, per i figli ― tenesse loro addosso il suo invisibile fucile puntato per tutto il tempo che questi poveri bambini trascorrono fra le sue mura.
A volte, intendiamoci, “vanno bene”. Ma è un “andar bene” freddo, che sembra non avere alcun rapporto con la loro realtà profonda. Un andar bene “produttivo” di risultati tecnici, ma umanamente sterile. I figli di padri annullanti ― quando ai padri non resistono ― sono talvolta dei “campioncini”, ma come piccoli robot (se non, talvolta, come i piccoli alieni de Il villaggio dei dannati). “Perfetti”, del resto, per i loro padri: nessun grattacapo che li allarmi, nessuna “ragazzata” che faccia deflagrare l’odio che il sorrisino ebete si illude di nascondere. Ma fino a quando durerà? E soprattutto: non dovrebbe, una Scuola degna del proprio nome, tentar di interrompere la “commedia” per non rischiare che arrivi, un brutto giorno, la drammatica rivelazione che il “piccolo, perfetto robot” è diventato un (più o meno piccolo) mostro?
Ma più spesso questi poveri bambini “vanno male”, poiché traducono il nulla che i padri fanno a loro in un far nulla a Scuola che ben presto li fa “restare indietro”. Allora tu cerchi di scuoterli (come fai, del resto, ma con difficoltà molto maggiori, anche con quelli che “vanno bene”) e per scuoterli ― dato che “interessarli” è quasi impossibile: nessuno, e tanto meno un bambino, può interessarsi a qualcosa mentre ha un fucile (paterno) puntato addosso ― non hai altro mezzo che la “cattiveria” della parola (un esempio della quale è questo scritto) con cui speri di farli arrabbiare così tanto da far loro dimenticare, per un attimo o per un’ora, l’inconsapevole orrore in cui l’invisibile odio paterno li tiene serrati.
Cerchi cioè di farti “odiare”, da questi poveri bambini (e nel farlo soffri, e talvolta non ci dormi la notte) nella speranza che così il rapporto con te, per quanto conflittuale, prenda il posto del nulla che il rapporto con la Scuola è diventato per loro. Per colpa dei padri che la Scuola non vedono mai.
(Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word). (Giovedì 18 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Uno di quei due individui non si chiama Enrico Letta. Indovinate quale dei due e qual era il suo nome. Non vi sono altre differenze. (Poiché, se il ministro degli Interni è responsabile dell’operato (incostituzionale, inumano, criminale, vergognoso, servile e squallido) del proprio ministero, a maggior ragione lo è, dell’operato (incostituzionale, inumano, criminale, vergognoso, servile e squallido) dei propri ministri, il presidente del Consiglio. E il presidente della Repubblica, se tien loro bordone, è responsabile quanto e più di loro. Di tradimento della Costituzione). (Giovedì 18 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Spinelli, Bergoglio e Achab (si parva licet...) (Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word).
Barbara Spinelli ci ricasca: un anno e mezzo fa andava in sollucchero per Monti1, oggi va in brodo di giuggiole per Bergoglio. Verrà anche per costui, com’è venuto per il primo, il giorno del ripudio? Come mai, signora Spinelli, a lei e a quelli come lei occorre tanto tempo per capire, almeno, ciò che un ateo vero ― uno che non abbia neanche la dea... Ragione ― sente fin dal primo giorno? È la razionalità, appunto, a confondervi i sentimenti? O l’apparente insensatezza è invece “solo” malafede?
Fatto sta che su la Repubblica del 10 luglio 2013 ― non 313: 2013 ― Spinelli equipara Bergoglio a Cristo: il papa, scrive (elargendogli l’iniziale maiuscola) fa “quel che fece Gesù, che non scriveva trattati” (notare che Bergoglio ha appena pubblicato un’enciclica che per l’estasiata Spinelli ha invece solo “firmato”, “l’ha scritta quasi per intero Joseph Ratzinger”), “ma andava in giro fra la gente «nelle oscure vie delle città» (nelle «periferie esistenziali» evocate dal Papa a marzo) come il Cristo di Dostoevskij, che torna in terra e scampa alla prigione del Grande Inquisitore di Siviglia”...
Ora ― a parte che Spinelli, forse inconsapevolmente, presenta Ratzinger e Bergoglio come il “poliziotto cattivo” e il “poliziotto buono” dei vecchi telefilm (e magari non ha torto, lo scopo dell’altrimenti grottesco tandem potrebbe essere proprio questo: il “cattivo” Ratzinger sfianca con le cattive e il “buon” Bergoglio frega con le buone) ― ciò che invece è drammatico, per non dire tragico, è l’incapacità delle (e degli) Spinelli di capire che amare non è possibile, se almeno una parte della mente non rifiuta di credere gli umani inferiori a una qualche divinità (religiosa o ideologica o “atea” che sia).
Niente è superiore a chi amiamo, se davvero amiamo: è così difficile da capire? Perciò lo sbandierato “amore” di Bergoglio per la “gente” delle “oscure vie delle città” e delle “periferie esistenziali” non è meno improbabile dell’amor “pudico” di Ratzinger, e il meno peggio che si può supporre di entrambi è che, a differenza di Gonerilla e Regana, forse non sappiano di contar balle ogni volta che lo profferiscono. Che non fingano, cioè, per imbambolare i rincitrulliti Lear che alcuni coltivano in sé, ma sinceramente credano, anch’essi, a ciò che tentano di far credere a noi. (Anche se, naturalmente, l’eventuale “buona fede” dei papi non allevia di un grammo la loro spaventosa responsabilità di continuare a far passare per “amore”, da due millenni in qua, quel che invece è odio che chiamando l’umano “inferiore” ne autorizza il disprezzo e la strage purché inflitti ― s’intende ― in nome (o almeno nel silenzio) di Dio.
Tipicamente arriva perfino a spacciare bubbole, Spinelli, pur di suffragare la propria esaltazione per Bergoglio. A dire, perfino, che “disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato. Non a caso il suo nome è Francesco. Sappiamo che le prediche di Francesco mutarono il mondo”.
No, Spinelli, non ci siamo proprio. Quale “mondo” Francesco d’Assisi cambiò? Forse il meschino mondo fantastico che Barbara da bambina mutuò dalle favole della tata, non certo il mondo reale. Nel mondo reale c’era violenza e sopraffazione e guerra prima e ci fu anche dopo. Miseria prima e miseria dopo. Follia prima e follia dopo. No, povera Barbara: il “Poverello” non ha cambiato il mondo; chi davvero lo ha cambiato sono stati, se mai, i pochi che al preteso “amore” dei preti, per quanto “santi”, cominciarono già da bambini a far di no con la testa come alle superstiziose bubbole delle tate.
E allo stesso modo non cambierà il mondo neanche “Francesco” Bergoglio. Neanche se spremerà fino all’ultima goccia tutte le lacrime non solo delle (e degli) Spinelli, ma dell’intera Cristianità.
Già, poiché ciò che più galvanizza Spinelli son proprio le “lacrime” di Bergoglio a Lampedusa. (Qualcuno le ha viste, a proposito? Non ho la tv, e mi piacerebbe sapere se ne ha davvero versate: non perché cambino qualcosa ― già le “lacrime” di Fornero commossero Spinelli, e poi si è visto ― ma per capire se la Nostra, malgrado quell’istruttiva lezioncina, si sia bevute anche queste): “Di qui” scrive infatti “la terza domanda, del Pontefice: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?». La conclusione cui giunge non è quella cui siamo abituati: nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi. Essenziali sono le lacrime, l’anestesia del cuore. «Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del patire-con»”...
E qui si commuove a tal punto, Spinelli, che incorre in un singolare infortunio: prim’ancora che al Cristo, equipara Bergoglio ad Achab!
“È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come Achab, il cacciatore della balena bianca in Moby Dick2: di sotto al cappello calcato, cade nell’oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia». Perché dove c’è teologia non c’è teofania: dove c’è ideologia si parla di Dio, ma Dio non si manifesta”.
Perché io definisca “un infortunio” il parallelo tra Bergoglio e Achab ― “infortunio”, s’intende, solo per Spinelli, poiché per me è invece una felice dimostrazione dell’opposto di quel che ella nel resto dell’articolo sostiene a spada tratta ― penso che sia chiaro a ogni lettore minimamente attento del capolavoro di Melville: Achab è la massima rappresentazione letteraria dell’odio antiumano di stampo religioso (o ideologico, o perfino “ateo”); Achab è il massimo esempio di quel mettere la fede al disopra dell’essere umano che è l’opposto dell’amore e di ogni altro affetto; e la totale distruzione a cui Achab condanna chi crede in lui è il totale fallimento ― la morte in vita ― a cui necessariamente va incontro chi crede che vi sia, da qualche parte ― dentro e fuori di noi ― una qualche “belva” da domare ed eliminare a forza di “amore” cristiano. Commisurare Bergoglio ad Achab, egregia signora Spinelli, vuol dire equiparare Bergoglio a un criminale contro l’Umanità, se ne rende conto? Del che non potrei che congratularmi con lei... se non avessi l’impressione ― appunto ― che sia stato un (grottesco) infortunio.
Sì, è vero: a poche ore dalla tragedia finale ― nel capitolo CXXXII ― “di sotto al cappello calcato, una lacrima cadde nel mare dall’occhio di Achab; tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia”3. Ma la lacrima è falsa, né più né meno di quel “fiore leggero di uno sguardo che, in qualunque altro uomo, sarebbe presto sbocciato in un sorriso” che Achab si era “lasciato spuntare” qualche mese prima4 in un’occasione simile. O, se non falsa, del tutto impotente ― come perfino nel “migliore” dei papi ― a resuscitare quell’Achab diciottenne, ucciso e sepolto dalla fede, il cui inutile doloroso ricordo, quarant’anni dopo, nient’altro che acqua può più far scaturire da lui.
Eppure Starbuck ci casca. Starbuck crede a quella lacrima proprio come Spinelli, quasi due secoli dopo ― pur avendo letto Moby Dick, ma senza, evidentemente, averne capito un’acca ― crede a quella di Bergoglio. Ma né l’una né l’altra dabbenaggine devono stupirci: poiché Starbuck, come Spinelli, non è davvero ateo. Poiché Starbuck, come Spinelli, è affascinato da Achab-Bergoglio. Poiché Starbuck, come Spinelli ― sì: Starbuck che per tutto il romanzo ha “posato”, dinanzi all’equipaggio e a sé stesso, come unico e “fiero” avversario di Achab ― sarà fra poche ore secondo (di nome e di fatto) solo ad Achab quanto a spaventoso furore omicida e suicida contro Moby Dick. Cioè contro la propria umanità.
E tuttavia quella “lacrima” c’è stata, obietterebbe probabilmente Spinelli: non può essere sincera? Sincera, forse, sì: “«Oh, Starbuck, è un vento dolce dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quaranta anni fa! Quarant’anni di caccia continua. Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! quarant’anni sul mare spietato! per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sugli orrori dell’abisso!»”. Ma sincera nella (impotente) commiserazione di sé, non nella comprensione che quell’abissale orrore è, in verità, l’abisso di fede che in quarant’anni egli ha scavato entro di sé in luogo di tutto ciò che in lui era umano a diciotto. E, perciò, “sincera” né più né meno di come sempre è e sarà sincero, anche nel più mostruoso assassino di massa, anche in un Hitler, il momento di umana “debolezza” in cui nessuna disumanità può evitar di cadere, di tanto in tanto, o sarebbe invincibile. Mentre invincibile, meno male!, è invece solo Moby Dick.
Poi si riscuote, Achab ― e lo stesso farà Bergoglio ― e torna a dedicarsi alla distruzione di sé, e di tutti i suoi adepti, che la sua fede... no, non che la sua fede gli impone: che la sua fede è.
(Mercoledì 10 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com). (Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word). [1] Barbara Spinelli su Monti ― padre eterno, capo, leader, uomo della Provvidenza ― da la Repubblica di mercoledì 25 gennaio 2012: L’immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. (...) Ma il comando ha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. (...) È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca. (...) Ma il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C’è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma. (...) Ce n’è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un’emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell’imperio della legge e del carisma (ma prima il comando e poi la legge, eh?, n.d.r.). Torniamo a Conrad, quando narra la nostra Linea d’ombra: d’un colpo scorgiamo innanzi a noi “una linea d’ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch’essa, la dobbiamo lasciare addietro”. (...) C’è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l’autorità, la legge, lo Stato. (...) Il comando è quello che ci protegge dall’esplosione dell’urlo scomposto, dal caos. [3] Herman Mellville, Moby Dick, trad. it. di Cesare Pavese, in H. Melville, Opere scelte, a c. di C. Gorlier, Milano, Mondadori, 1990, volume I, pp 692-697. [4] Ibidem, p. 179.
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(Domenica 14 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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(Domenica 7 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
Scopritori solo alcuni o tutti? (Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word).
La professoressa Elena Castellani, del Dipartimento di filosofia dell’Università di Firenze, ha un’interessante rubrica di Scienza e filosofia su Le Scienze, bella e imprescindibile rivista che leggo da quando avevo vent’anni. Nel numero di luglio, appena uscito, la professoressa Castellani si occupa di Come nasce una teoria? - La controversa razionalità che porta alla scoperta in ambito scientifico. Dicendo, fra l’altro, che “l’espressione scoperta, (...) intesa (...) come il sorgere di una nuova idea o la formulazione di una nuova ipotesi (l’eureka di Archimede), (...) è facile pensare che si tratti di un processo non razionale, o almeno non completamente razionale, e quindi non ricostruibile in termini logici”. E citando Karl Popper (“Non esiste nessun metodo logico per avere nuove idee, e nessuna ricostruzione logica di questo processo”) e Hans Reichenbach (“L’atto della scoperta sfugge all’analisi logica; non vi sono regole logiche nei termini delle quali si possa fabbricare una macchina scopritrice che assolva la funzione creativa del genio”). Mi domando: perché limitare il discorso alle scoperte in ambito scientifico? Non rischiamo, così, di ritenerne capaci (fra tutti gli umani venuti al mondo in 200.000 anni) solo i relativamente pochi scienziati che negli ultimi millenni hanno effettuato scoperte di rilievo? Non è forse vero che un processo mentale non razionale, per attivare il quale non vi sono metodi né regole logiche, non è insegnabile? E, se così è, non è forse vero che ipotizzare che si attivi solo nelle menti di un certo numero di scienziati, e solo quando intenti a fare scienza, equivarrebbe a supporre che le scoperte scientifiche avvengano per effetto di episodiche illuminazioni provenienti dall’esterno, cioè (più o meno) divine? Non è meglio, per evitare una conclusione così assurda, immaginare che il processo mentale non razionale che “crea” le scoperte sia naturalmente attivo in tutti gli umani? E costituisca forse, rispetto agli altri animali, una (la) nostra assoluta prerogativa? Del resto, non è forse vero che nessuno di noi può trattenersi dal “fare” (o almeno tentare) continue scoperte (scientifiche?) su ciò che gli accade, cioè sui processi mentali non razionali propri e altrui? Non è forse vero che siamo sempre alle prese con quel che in noi e negli altri, benché naturale e materiale, non è però immediatamente accessibile ai sensi? Con quel che in noi e negli altri non corrisponde all’apparenza? Con ciò che in noi e negli altri dobbiamo scoprire? E non è forse vero che a tali scoperte su noi stessi e sui nostri simili non arriviamo mai razionalmente, ma sempre per effetto di non razionali intuizioni? E che tali (piccole?) scoperte, quando e se avvengono, hanno sulle nostre vite effetti non meno rilevanti di quelli delle grandi su tutta l’Umanità? E se è così, non dovremmo forse concluderne che l’impossibilità di fabbricare una macchina scopritrice riguardi, oltre l’ambito scientifico, tutti gli ambiti in cui uno o più “processi mentali non razionali” si trovano a confrontarsi (incontrandosi e/o scontrandosi) con altri processi mentali non razionali? Tutti gli ambiti, cioè, in cui uno o più esseri umani sono di fronte a uno o più altri esseri umani? Certo: se immaginiamo tutto questo, ci troviamo poi a dover spiegare perché solo alcuni umani, di fatto, realizzino grandi scoperte. E a dover supporre, se vogliamo rispondere a tale domanda, che il naturale processo mentale non razionale che ci rende scopritori sia ostacolato, e talora danneggiato irrimediabilmente, in molti di noi, da un’educazione e un’istruzione fondate solo sulla razionalità. Peggio: su un disprezzo di origine religiosa, quando non su un religioso terrore, nei confronti dell’irrazionale. Naturalmente, la professoressa Castellani parla poi del senso più ampio del termine scoperta “per descrivere quella parte della pratica scientifica che è caratterizzata dall’attività di costruzione sistematica di un insieme di ipotesi (leggi) e tecniche formali, attraverso le quali si cerca di rendere conto di un determinato dominio di fenomeni”. E spiega che nella costruzione di tali sistemi teorici “emergono le componenti di razionalità che ne guidano la dinamica (...) in modo spesso complesso, col concorso di più attori e di diverse prospettive e metodiche”. Intendendo con ciò, se ben capisco, che non vi è processo mentale non razionale che non debba confrontarsi con quelli altrui, che in qualche caso possono essere espressione di disturbi mentali più o meno gravi; e che quindi, per organizzare tali confronti, su scale che variano dalla locale alla globale, in modo che siano il meno possibile fuorvianti e il più possibile produttivi, occorrono metodi e regole rigorosamente razionali. I quali, purtroppo (ma è forse inevitabile) possono talora confliggere, rallentandola, con la spontanea creatività dei processi mentali non razionali. Il che non fa una piega, mi sembra. Purché le razionali procedure di costruzione e “manutenzione” delle scienze ― quelle che potremmo chiamare, parafrasando Reichenbach, le macchine regolatrici dell’attività scientifica e, in fondo, di ogni attività umana ― si rendano conto che “contenere” e “regolare” l’irrazionale con la razionalità non è (forse) meno “provvisorio” e “in mancanza di meglio” di quanto lo era, fino a poco tempo fa, tentar di “contenere” la realtà entro i limiti della fisica pre-quantistica. (Clicca qui per scaricare il testo in pdf - e qui per scaricarlo in Word). (Mercoledì 3 luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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Barack Obama voyeur d’Europa. (Lunedì 1° luglio 2013. Luigi Scialanca, scuolanticoli@katamail.com).
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L’immagine di sfondo di questa pagina, raffigurante piazza delle Ville ad Anticoli Corrado, è un dipinto dell’artista danese Viggo Rhode (1900-1976).
L’ha segnalata a ScuolAnticoli il signor Peter Holck. Rielaborazione grafica di Luigi Scialanca.
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