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Museo della Civiltà Contadina Valle dell’Aniene |
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La Quinta di Roviano e i suoi Coronimi Il Ballo della Pupazza del 1992
Tutte le immagini contenute in questa pagina sono tratte dal bel CD Storie di vita contadina,
il cui utilizzo è stato concesso via mail a ScuolAnticoli dall’amministrazione comunale di Roviano.
Il CD Storie di vita contadina, una bella presentazione del Museo illustrato sala per sala dalla viva voce di Artemio. |
Il Catalogo del Museo, edito da Teseo Editore e curato da Francesco Avolio, Artemio Tacchia, Enrico Orsingher, Mario Setter e Italia Candeloro. |
La Guida a Roviano, al Museo e al Palazzo Baronale, corredata da una piccola ma utile bibliografia. |
Clicca sulle immagini per ingrandirle!
(I numeri sono quelli delle schede del Catalogo, pp 157-207.
Il Catalogo, bellissimo e ottimamente stampato, contiene ben 720 schede, 100 pagine di bellissime fotografie e testi
molto interessanti e illuminanti: questa pagina, che non può sostituirlo neanche alla lontana,
vuol dunque essere un invito all’acquisto. Oltre che, naturalmente, a visitare il Museo!
4. La vanga di Ilario Battisti. Ferro e legno, 1950 ca., alt. cm 137; per lavorare piccoli campi per la semina di granturco, saggina, patate. |
8. La fàçia (falce fienaia) di Nello Innocenzi, Carlo. Ferro e legno, 1970-80, manico cm 108,5; lama cm 79,6; per falciare l’erba per il fieno, per tagliare l’erba nei fossi di scolo. |
9. La zappa di Ilario Battisti, de Scocciòva. Ferro e legno di castagno, 1949-58, lungh. cm 103,5, largh. cm 5,5; per la semina e la maggese nei terreni sassosi. |
19. La cupèlla (bariletto) di Antonio Scacchi, Chiòcchio. Legno di castagno e ferro, Ia metà sec. XX, largh. cm 24, diam. cm 16, circ. cm 65; per portare da bere al contadino durante i lavori estivi: potatura, fienagione e trebbiatura. |
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23. L’abbeènde (bidente) di Bernardino Battisti, Ggìno. Ferro, 1930-70, largh. cm 15,5, lungh. cm 22; usato nei vigneti di collina o montagna e negli uliveti, dove serviva per fare e tenere pulite le ròste, zone circolari, corrispondenti... |
...all’ampiezza della chioma dell’albero, per evitare gli incendi e per facilitare la raccolta delle olive cadute. Il lavoro con il bidente era faticosissimo. Da qui il detto: Ché ssì stàtu a zzappà abbeènde?, riferito a una persona sempre stanca. |
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44. Gràmola, o mangìnura, di Giuseppe Folgori, Peppòne, usata dalla nonna Rosa Conti, Bogalétta (1872-1948). Fine sec. XIX, legno, alt. cm 72,5, largh. cm 24,5, lungh. cm 110. Serviva per separare le fibre tessili dalle fibre legnose della canapa. |
65. L’aràtru (aratro) per asino di Luigi Tacchia, Guiréro. 1930 ca., legno e ferro, alt. cm 55,5, largh. cm 31, lungh. bure cm 114. Serviva per fare i solchi per la semina. Questo ha la bure tagliata per poter essere utilizzato dal bracciante con il proprio asino, senza fare ricorso alla costosa prestazione del bovaro, che pretendeva un compenso pari a quattro giornate di lavoro del bracciante (due buoi, l’aratro e sé stesso). |
88. La cote e il portacote di Eliano Aleandri, nato il 15 diecmbre 1925, taglialegna, già pastore e barbiere. Pietra abrasiva, largh. cm 3,5, lungh. cm 18,3, spess. cm 1,3. Si usava per affilare le falci. La cote è una pietra piatta, affusolata a una estremità. Il portacote è un corno cavo, con un forellino per cui passano un gancio in filo di ferro e un laccio da scarpe annodato. |
99. Le tenàjje pé ccarosà (la tosatrice) di Dario Innocenzi, usate anche dal padre Luigi, de Mariànu, pastore (1892-1970). 1940-42 ca, ferro, largh. cm 7,9, lungh. cm 25,3. Servivano a tosare le pecore: si impugnavano con una mano e si poggiavano sul vello dell’animale. Quindi si faceva pressione sulla molla, chiudendo e riaprendo la mano. |
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25. Stregaròla (trebbiatrice a mano) di Anonimo. Ferro e legno, Ia metà sec. XX, largh. cm 21,5, lungh. cm 40,5. Utilizzata per trebbiare ju mannàtu dalle spigaròle (spigolatrici), donne di famiglia che seguivano il mietitore per raccogliere in mazzetti (mannàti) le spighe che gli cadevano. Ji mannàti venivano poi trebbiati la sera,... |
...dopo che le spighe si erano scaldate al sole. Quella de lo raccapezzà (raccogliere le spighe cadute) era un’antica consuetudine, preziosa per le famiglie contadine e per le giovani spose, che ne ricavavano qualcosa per la dote. Il termine stregaròla deriva probabilmente dal latino extricare, tirar fuori, cavare. |
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102. Il canistrìjju (canestro) di Francesco Conti, classe 1912, operaio e guardiano di cantiere. Vimini, alt. cm 38,2, largh. cm 30, lungh. cm 34,5. Realizzato appositamente per il Museo nel 1991, era usato per la raccolta, il trasporto e a volte la conservazione di prodotti vegetali spontanei o coltivati. |
113. La càula (cannella) di Lanfranco Croce, appartenuta al padre Raffaele (1904-1985). Metà del sec. XX, legno e sughero, alt. cm 15,5, lungh. cm 26,5, circ. cm 16,5. Usata per regolare l’afflusso del vino, si inseriva in un apposito foro, praticato nella botte, quindi si apriva il rubinetto ogni qual volta si doveva caccià (spillare) il vino. Si richiudeva facendo ruotare la chiavétta. |
125. La collarina (il collare) di Angelo Battisti, Ngelìttu ’e Malìzzia. 1946-1954, ferro, diam. cm 14, maglie cm 7,5 x 7. Si metteva intorno al collo del cane pastore per evitare i morsi letali del lupo, quindi si chiudeva stringendo gli ultimi ricci direttamente sul collo del cane. |
136. La còppa (coppo-staio) di Giovanni Mitelli, appartenuta a Giovanni Mitelli, di Cipòlla, contadino (1887-1961). 1910, legno e ferro, alt. cm 27 ca, diam. cm 50/40. Serviva a misurare gli aridi: grano, granturco, olive. Si riempiva del prodotto da misurare, quindi con una tavoletta si portava a ràsu (si spianava) la superficie. Poteva anche essere lasciata còlema (ricolma). |
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32. Le ciòçe (ciocie), provenienti da Anticoli Corrado, di Umberto Fabbi, Abbacchjìttu. Pelle e spago, IIa metà sec. XX, lungh. cm 25,5, spess. cm 0,3. Queste calzature venivano fatte con pezzi di cuoio comprati alle fiere o con pelle di bue (si preferiva la parte superiore del collo per la sua robustezza) che veniva appositamente richiesta al macellaio. Prima della seconda guerra mondiale... |
...venivano riutilizzati e adattati anche pezzi di copertoni di pneumatici. Venivano usate sempre sia da uomini che da donne. In Ciociaria erano calzate dalle donne durante il pellegrinaggio a Vallepietra, con un garofano bianco (nubili) o rosso (maritate). Si calzavano dopo aver avvolto i piedi e le caviglie con pèzze di canapa e quindi si legavano avvolgendo le stringhe ai polpacci. |
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138. Il càssu (cascino) di Maria Tarquini de Micchìttu. Legno e spago, 1930, alt. cm 11,8, lungh. cm 81,5, spess. cm 0,3. Serviva a formare le pizze di formaggio pecorino. Si poggiava sul tavolo, si stringeva la corda intorno a ju càssu e si riempiva di formaggio. Cioè di latte appena munto scaldato a fuoco lento nel cottùru, trasformato in ggiungàta con l’aggiunta del quàjju (ricavato dallo stomaco dell’agnello ed essiccato) precedentemente sciolto con latte in una ticamèlla, mescolato per 5 min. con ju squajjaréjjo, stretto con le mani per scolarne lo séro e cosparso di sale grosso da un lato e dall’altro. |
141. La froçétta (nasetta) di Antonio Scacchi, Chiòcchio. Ferro, Ia metà sec. XX, largh. cm 12,4, lungh. cm 20,8. Aperte le estremità, si infilava nelle froge del vitello e quindi si richiudeva. Alla froçétta era legata una corda che ju bbovàru passava intorno ai piccoli corni dell’animale per tenerla ferma. Questo tipo veniva utilizzato per svezzare il vitello: quando l’animale si avvicinava alla mucca per succhiarne il latte, questa veniva punta dai chiodi e quindi scalciava il vitello, che era così costretto a nutrirsi di erba. |
152. Il bbiùnzu a scarecatòra (la bigoncia) di Eliano Aleandri, ju barbière, appartenuta ad Angelo Lori, Mìccu Mìccu, pastore, nato nel 1926. Legno, ferro e corda, 1960-80 ca, alt. cm 66,3, diam. sup. cm 48,2. Si legava al basto dell’asino e con una forcina si riempiva di stàbbiu (letame). Arrivati sul campo da concimare, si toglieva la piccola fune e si scaricava senza slegare la bigoncia. A volte, in luoghi non serviti da strade, con le bigonce si trasportavano anche inerti per l’edilizia: pozzolana, ghiaia, ecc. |
154. Il mmàstu (basto) di Igino Fagioli, Gimmy. Legno, ferro, stoffa, lana, paglia, cuoio e corda, 1984, alt. cm 56,5, largh. cm 82, lungh. cm 60. Serviva, oltre che al trasporto sull’asino delle persone e della legna, anche per appendervi dei recipienti. I fiocchi rossi cuciti sui bordi della bbardèlla servivano come indicatori della posizione più o meno corretta della soma sul basto. Intorno agli anni 1920-22 un basto costrava fra le 20 e le 40 lire. Li fabbricavano ji mmastàri di Riofreddo, Arsoli e Carsoli. Più di recente si acquistavano nelle fiere e costavano oltre 500 euro. Si conservava appendendolo a una trave della stalla, per evitare che i topi vi facessero il nido. |
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67. L’aràtru (aratro) da buoi di Bernardino Battisti, Ggìno, appartenuto al padre Generoso, bovaro (1901-1974) 1960-70 ca, legno e ferro, alt. cm 123, largh. cm 34. Si usava per rompere e preparare il terreno e per fare i solchi per la semina. Si legava j’ùu (il giogo) ai buoi mediante delle corde, quindi si impugnava la covétta (la stegola) e, regolato il profime, si procedeva nel tracciare i solchi. Nei terreni lasciati a maggese, la prima aratura si effettuava a maggio-giugno, la seconda (a retrongà) a settembre-ottobre, e infine, per la semina, a novembre. L’aratura di maggio-giugno poteva avvenire sia con l’aratro di legno sia con l’aratro di ferro dal vomere fisso (pertecàra) sia con il voltaorecchi (vordareécchie). Il mezzo più usato era l’aratro di legno, con cui si procedeva a ttrafésa, cioè di traverso rispetto all’aratura dell’anno precedente. Nei terreni scoscesi i solchi venivano tracciati a dritto. L’aratro di legno era indispensabile anche per le arature successive... |
...Ad esempio, in montagna, verso la metà di settembre, in pianura a ottobre, per la seconda aratura (lo retrongà) che consisteva nell’attraversare i solchi della precedente maggese in verso contrario a quello in cui erano stati tracciati, al fine di permettere la completa aratura del terreno. Quando si arava per fare i solchi più grandi (patate, granturco) si aggiungevano al ceppo due rinforzi di legno laterali. Il vìngu (il profime) serviva per regolare la profondità dei solchi. Con l’aratro in legno il conduttore era unico, non avendo bisogno del conduttore del giogo. Il corpo principale dell’aratro è costituito da un unico pezzo di legno, lavorato a forma di V. L’ùra (la bure, unita al ceppo attraverso un passante in legno disposto orizzontalmente) mostra cinque fori: il più grande posteriormente, per l’inserimento della stegola, quello che segue per il profime e i tre anteriori per l’inserimento delle cavicchie che tengono il giogo. Il ceppo è inserito nel vomere. |
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193. Cucchiàra pé ll’òjjo (cucchiara per olio) di Tonino Battisti, Cannòne, del padre Quinto (1908-1987) e di Antonio Crialesi, capo façiòjjo del frantoio del principe (1876-1956). Rame e ferro, inizio sec. XX, lungh. (con manico) cm 35,5, diam. cm 27,5. Prima dell’elettrificazione del frantoio e del separatore automatico, l’olio (dopo la spremitura delle olive, la pressatura nei torchi dentro ji fìsculi, la discesa nei mastelli con acqua calda e la separazione dall’acqua ròscia) veniva recuperato da ju façiòjjo con la cucchiara. L’acqua ròscia, rovesciata in una fossa (l’inferno) finiva in un fosso. Antonio Crialesi diceva: ZZìcchiu e acqua bbullìta, espressione che riassume la difficoltà e la fatica di fare l’olio. |
190. Scindilèna, o cendilèna (lampada ad acetilene) di Francesco Conti, usata anche dal padre Domenico (1886-1924). Ferro e ottone, 1920-1935, alt. (con gancio) cm 60, diam. cm 10. Serviva a illuminare il cammino nelle gallerie. Domenico Conti la usò durante i lavori di rifacimento degli acquedotti della Marcia, sotto Roviano, e la captazione di nuove sorgenti. Prima dell’allaccio dell’energia elettrica, queste lampade erano usate anche nelle case. |
176. Pistaròla (pigiatrice) donata dalla famiglia di Antonio Marchionne, raccolta da Alberico Barba. Legno e ferro, inizio sec. XX, alt. cm 126,3, largh. cm 95,5, lungh. cm 151. Serviva per pigiare l’uva. Apparteneva a una delle poche famiglie possidenti di Roviano. Il resto dei contadini pigiava l’uva direttamente nei tini, nelle bigonce o nelle vasche. |
201. Majjìttu pé spaccà (mazza) di Vincenza Liberati e del padre Mario Di Bartolomeo, Picciòne, taglialegna. Proveniente da Camerata Nuova. Legno, metà sec. XX, lungh. cm 83, largh. cm 18,5, alt. cm 13,5. Serviva per piantare le zeppe nei tronchi d’albero. I boscaioli di Camerata la fabbricavano direttamente nel luogo di taglio. La usavano pé ccoppà (per battere) sulle zeppe e spaccare i tronchi degli alberi, soprattutto faggi. Gli arcàri erano molto abili nel riconoscere le piante che spacchéanu, cioè che si aprivano a tavole diritte sotto i colpi de ju majjìttu: gli bastava togliere dal tronco un po’ di corteccia e fare una tàcchia (levare una scheggia) osservando le linee verticali del legno. Con questo legno lavoravano le arche (vedi immagine n° 248). |
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127. La menatòra (il bastone, chiamato a Roviano squajjaréjjo) di Elvira De Santis. Proveniente da Affile, 1920 ca-1945, legno, alt. cm 67,5. Ad Affile si usava per girare la polenta. A Roviano, invece, si usava per girare il latte per fare il formaggio o la ricotta, mentre per la polenta si usava ju stennaréjjo (matterello) A Roviano si prendeva un ramoscello di frassino o nocciolo e si eliminavano i ramoscelli più bassi, lasciandone sulla sommità alcuni recisi a una determinata misura. Questi venivano piegati... |
...e legati con filo di ferro all’asta centrale, quindi si lasciavano così per un paio di mesi in maniera che prendessero la forma desiderata. Ju squajjaréjjo, infine, si metteva in acqua tiepida pé scuràjju (per depurarlo) cioè per eliminare la linfa residua. Senza questa operazione, il latte durante la lavorazione del formaggio si macchierebbe di azzurro. A Roviano ai rametti mozzati, chiamati rambìni, si dava la forma ricurva lasciandoli un paio di mesi ad annasà, cioè legati sul camino della cucina. |
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207. La padèlla per annaffiare di Riccardo Chesti, usata dalla madre Adelina D’Ottavio. Proveniente da Marano Equo. Legno e lamiera, 1960-1981, alt. cm 12, largh. cm 19,5, lungh. cm 191. A Marano Equo la padèlla si usava soprattutto per annaffiare a pioggia, quando le piantine erano piccole, e per le cipolle, molto coltivate. Per piante già cresciute e ’nzolecàte (coi solchi e rincalzate) si usava ju zzìcchiu e si annaffiava a ppandànu: rovesciando, cioè, l’acqua direttamente nei solchi. |
203. La prètola (lo sgabello) di Antonio Tarquini de Micchìttu. Legno, inizio sec. XX - 1952, alt. cm 34,5, largh. cm 41,3. Si usava per sedersi durante la mungitura. Questo forse proviene dall’Abruzzo. Il donatore non ricorda bene se è lo stesso che suo padre trovò lungo la via delle Piàgge, antica Valeria e da sempre strada di transumanza che congiungeva la Campagna romana con la montuosa regione dell’Abruzzo. |
204. La rasòra (il raschiatoio) di Fernanda Crialesi, appartenuta alla madre Antonia Innocenzi de Trìnga. Ferro, metà sec. XX, alt. cm 6,3, largh. cm 8,9, lungh. cm 14,1. Si usava per pulire la spianatoia e raschiare la mèlega (la saggina). Ancora usata per pulire i resti dell’impasto di farina, un tempo si usava anche per raschiare la mèlega: le donne, dopo la raccolta di settembre, poggiavano le canne sopra una tavola liscia e inclinata e quindi, raschiandole con la rasòra, staccavano i frutti da conservare per l’ingrasso degli animali. |
216. Lo scìfu, o salèra (il salatoio) di Mario e Antonio Tarquini de Ozzòne, usato dal padre Ignazio e dal nonno Antonio. Fabbricato da Rosato Maggini, Erminio, falegname. Legno, 1920-1962, alt. cm 10, largh. cm 61,5, lungh. cm 102. Da non confondere con il recipiente dove mangiano i maiali. Fatto a pezzi il maiale, perché la carne non marcisse la si salava con 12-15 Kg di sale mezzanu. Sopra ju scìfu per primi venivano poggiati i prosciutti, sopra le spallétte, poi i làrdi, le vendrésche e le vangiòle. Sulla parte anteriore andavano la testa, ji zzàmbi e ju pingiàschiu. Dopo otto giorni se scombonéa: si appendevano a ganci tutti i pezzi tranne i prosciutti, che restavano a salare per altri 20 giorni. |
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170. Sgranaròla (sgranatrice) donata dal comune di Roviano, trovata nel castello già della principessa Fernanda Ceccarelli Brancaccio. Legno e ferro, inizio sec. XX, alt. cm 120, largh. cm 88,5, lungh. cm 75. Serviva a liberare dai mazzòcchi (tutoli) le carossidi di granturco già scartocciato. Introdotte le pannocchie nei due appositi alloggi, si azionava a mano il volano. Ruote dentate sgranavano le pannocchie. |
I grani cadevano sotto la macchina, attraverso due scivoli di legno, dentro capienti ceste, mentre i tùtari ripuliti erano espulsi dalle bocche poste nella parte anteriore. Il granturco, in precedenza, tra la fine di settembre e l’inizio d’ottobre era stato spartito col principe alla quàrta e scartocciato la sera, a mano, nella corte del castello, tra canti e discussioni e combinando matrimoni. |
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235. La zzuàtta (il collare) donata da Tiziana Paltrinieri, forse appartenuta al pastore Amelio Aleandri (1922-1958). Legno, metà sec. XX, alt. cm 21,7, largh. cm 11,5, prof. cm 4,5. Serviva a tenere una campanella, e si metteva alla capra "più brava", capace di guidare meglio il gregge o che dava più latte. |
248. L’arcòne (il cassone) di Marianna Pelosi, Mariannìna. Proveniente da Camerata Nuova e fabbricato da Adolfo Fracassi, Zì Pìcchiu. Legno, 1930-1980, alt. cm 125, largh. cm 101,5, lungh. cm 94. Per conservare grànu, orzo e ranitùrcu. Gli arcàri di Camerata, in inverno (il resto dell’anno vivevano in capanni nei boschi a tagliar legna e far carbone) ne fabbricavano di molti tipi: le arcùcce, in dote alle spose per riporvi la biancheria; le arche, per ammassarci il pane; gli arcùni, per i cereali. |
249. Il pèttene (pettine) di Emilio Barba, Priscécche, appartenuto ad Angelina Adornato ved. Pompili, la Stoppacciàra. Ferro e legno, 1914-1950, alt. cm 17, largh. cm 19, lungh. cm 43. Vi erano due tipi di pettine: uno a denti larghi, dal quale si ricavava lo tòppo (la stoppa) e uno a denti stretti, dal quale, stoppacciàndo ancora, si ottenevano la stoppétta e il mallòne, materiali più raffinati. Il pìcciu (lo tòppo grezzo) veniva filato per farci strofinacci e tele economiche. Con la cànnua (canapa) femmina si facevano lenzuola, con quella maschio, panni e sacchi. Un tempo da Marano veniva Ninìttu, lo stoppacciàru, che poi vendette i pettini ad Angelina Pompili. Ad Angelina, che ha vissuto per oltre cent’anni, per stoppacciare 10 canape occorrevano circa 30 minuti. In cambio le davano 100 lire e del cibo. |
249. L’arcolàru (arcolaio) di Giulio Rossi. Proveniente da Cervara di Roma. Ferro e legno, prima metà sec. XX, alt. cm 81,5, largh. cm 47. Serviva a ridurre le matasse di filo in gomitoli. A Roviano si usava uno strumento più semplice e povero, detto tapanatùru. |
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280. Il telàru (telaio) donato da Adamo Iobbi. Collocato ne lo stànzo, era usato da Giuseppina Testa (1903-1993) e da Teresa Mattioli (1887-1961) di Ripatransone (Ascoli Piceno). Legno, ferro e spago, 1910-1950 ca, alt. cm 168, largh. cm 133, lungh. cm 180. Si usava per tessere il cotone, la canapa, il lino, la lana. Quasi tutti i Rovianesi portavano a tessere le trécce di ordito di canapa a Subiaco, dove fino al 1995 lavorava con telai a mano la signora Gabriella Lupi. I fili di ordito erano lunghi 13 bbràccia, 9 metri. |
Il telaio di Subiaco, nella struttura e nel funzionamento, è praticamente uguale a questo. Prima di iniziare la tessitura, le pannàre di Subiaco spalmavano sull’ordito una miscela bollita di farina di granturco e cera. L’ordito usato dalla Lupi si componeva di 900 fili. Sul telaio di Ripatransone si montavano dalle 10 alle 12 lìccie (licci) secondo l’ordine preparato. La donna, quando è llèsta, / si riconòsce su lu telàru: / preme le lìccie e bbàtte la càssa / e mmànna la ’ndrùga (la spola) in qua e in là (sonetto ripese). |
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255. Le tenàjje (la tosatrice) di Maria Antonietta Rustici, usate da Mario Recchioni, Carusìnu. Provenienti da Canterano. Ferro, 1970 ca - 1990, alt. cm 3,5, largh. cm 13,2, lungh. cm 34,5. Per tosare le pecore, operazione che viene effettuata all’inizio di giugno e richiede molta abilità. Io nò ji fàccio ’n ràschio alle pècore!, dice Mario Recchioni. Per tosare una pecora, legate le zampe, ci vogliono 20 minuti. Con la macchinetta si fa prima, ma bisogna essere in due. Ma la lana, dice Mario, non la vuole più nessuno: va tutta bruciata. |
270. La cunòcchia (la rocca) di Benedetto Vasselli. Proveniente da Riofreddo. Legno, prima metà sec. XX, alt. cm 77, diam. cm 13,5. Serviva a contenere il tòppo, la canapa da filare. Cfr, qui sopra, l’immagine n° 249. |
276. La musétta (sacchetta) donata da Rita Moreschini, usata da Vincenzo Salvatori tra il 1930 ca e il 1955. Proveniente da Castel Madama. Stoffa corda e legno, alt. cm 57,5, diam. cm 28. Serviva a contenere la biada. |
282. Il tostaorzo di Salvatore Marianelli, usato anche da Adolfo D’Ortenzio. Proveniente da Oricola (L’Aquila). Latta, ferro e legno, 1955, alt. cm 12, largh. cm 22,5, lungh. cm 42. Fabbricato da uno stagnàro, o acquistato in una fiera, serviva pé bbruscà (per tostare) l’orzo. Si poteva usare anche sui fornelli a carbone. La bbruscatùra durava 20 minuti ca; quando l’orzo, da bbiòndo, diventava leggermente scùru, si toglieva dal fuoco e si conservava in barattoli. |
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314. La ’nzalatièra (l’insalatiera) di Tonino Battisti, Cannòne, appartenuta alla madre Quintilia Marchionne, Quinta. Terracotta maiolicata e ferro (per la graffettatura), 1938 ca - 1970, alt. cm 13,8, diam. cm 34,5. A volte, soprattutto fòre (in campagna) durante i lavori a squàdre (con molti braccianti) l'insalatiera era il recipiente dove tutti mangiavano insieme. A questo scopo, Quintilia la usava quando aveva l’òpere alle Cèse (località in montagna) per la mietitura o la raccolta delle fave. |
L’insalatiera fu acquistata a Roviano nel negozio, non più esistente, in piazza della Repubblica (ex Orzèro) di proprietà della signora Francesca Crialesi in Marchionne, che oltre al vasellame vendeva altri articoli casalinghi. La raccongiatùra risale a prima del 1945. A farlo è stato un raccongiapiàtti, forse abruzzese, che operava con un piccolo trapano a mano. Fatti i fori, metteva le grappétte di ferro e stuccava il tutto. Lavoro che all’epoca costò 2-3 lire. |
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322. La séga di Francesco Pompili, Franz. Legno e ferro, 1951 - 1964 ca, alt. cm 41,8, lungh. cm 81,6. Non tutti i carpentieri sapevano fabbricare una sega da soli, ci voleva passione per il mestiere. Pompili ha fatto il carpentiere per circa quarant’anni lavorando a Roma e provincia e in altre regioni. Ha fabbricato questa sega perché in giro c’erano seghe meno rifinite, non così speciali! |
329. La callàra (caldaia) dei fratelli Mario, Ilio ed Evangelista Innocenzi, appartenuta alla madre Amalia Castrucci (1893 - 1980). Rame e ferro, prima metà sec. XX, alt. cm 45,5, diam. cm 76. Le callàre (recipienti per l’acqua e per vari materiali) si acquistavano nelle fiere o nelle botteghe dei callaràri di Tivoli o di Subiaco. A volte facevano parte della dote delle ragazze. L’ultimo ramaio di Subiaco (1984) è stato Natale Renzetti, al lavoro in via Opifici fino a 80 anni e oltre. A Tivoli, invece, sulla via per Marcellina, operava (1994) Adelmo Cialone. |
333. La pertecàra (perticara) di Vincenzo Salvatori, usata anche da Pietro Salvatori (1912 - 1994). Proveniente da Castel Madama. Ferro, 1946 - 1960, largh. cm 93, lungh. cm 282. Con o senza ruote, si usava (per tracciare i solchi nei prati da seminare a grano e negli uliveti) solo per la maggese di maggio-giugno o per quella di febbraio, per il granturco. La presenza del vomere fisso a destra dell’aratore imponeva alla pertecàra un’aratura rotatoria diversa da quella dell’aratro in legno e del vordarécchie, che tracciavano ogni solco parallelo e contiguo al precedente. Proprietà solo dei bovari più agiati o di qualche possidente, si usava solo in pianura perché era troppo pesante per trasportarla in montagna. |
338. La rùscica (ruzzola, a Roviano rùzzica) di Virgilio Bernardini, fabbricata da Pierino Rinaldi (1911) e appartenuta ad Arnaldo Pasquali, oste (1940). Proveniente da Vallinfreda. Legno, prima metà sec. XX, diam. cm 25,5, spess. cm 6. Si usava facendola rotolare lungo la strada in un gioco a squadre (ruçicòne a Riofreddo, ruscicòne a Vallinfreda, rùzzica a Roviano) oggi impedito dal traffico automobilistico. La rùscica (un tempo, anche di formaggio pecorino) è ricavata da una radice di noce o di robinia. Il peso va da Kg 1,800 a Kg 2. La gara si svolge su un percorso di due Km, in due tappe: andata e ritorno. |
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336. La pupàzza donata dal Comitato per i festeggiamenti patronali di Roviano, condotta in piazza e fatta ballare il 29 agosto (San Giovanni Battista decollato) da Antonio Coticoni, Pisciòne. Legno, canne, ferro, spago e carta, 1992, alt. cm 282, largh. cm 161. Grande fantoccio di carta di giornale e manifesti su un’intelaiatura di canne, bastoni e fil di ferro. Mastodontica, caricaturale, è stata fabbricata dai componenti del comitato (L. Innocenzi, A. Viti, G. Folgori, D. Folgori, L. Riccioluti, A. Brancazi, A. Tacchia, R. Barba, S. Rongoni, A. Innocenzi, E. De Angelis, M. Angelini, D. F. Battisti, A. Barba) operando contemporaneamente chi con le canne e i bastoni; chi con il fil di ferro; chi tagliando la carta e incollando; chi preparando le tempere e pitturando; chi con lo spago, intrecciando la parrucca. La pupàzza si fa ballare in piazza... |
...mentre i cittadini improvvisano danze, corse e pantomime tutt’intorno a essa, con altri che la toccano, la spingono, le danno calci. Dopo qualche ora di danze, gli organizzatori la bruciano al centro della piazza. Tutti assistono, anche commentando, all’esecuzione e morte della pupàzza (donna, strega, capro espiatorio?); alcuni, a seconda di come brucia, traggono auspici per l’anno che verrà. Questa pupàzza non è stata bruciata per donarla al museo: al suo posto ne sono state bruciate altre due, tra le quali, per la prima volta, una raffigurante un uomo. Non tutti gli anni gli organizzatori riescono a fabbricare questi fantocci. La tradizione è diffusa anche in altri paesi della Valle dell’Aniene: Trevi nel Lazio (la signòra), Anticoli Corrado (la marmòtta), Jenne (la pantàsima) e Cervara di Roma (la mammòccia). |
339. La zzagàjja (zagarella) di Virgilio Bernardini. Proveniente da Vallinfreda. Spago e legno, seconda metà sec. XX, lungh. cm 215. Permetteva una presa più sicura della ruzzola (cfr. immagine 338) e un lancio più potente. Ogni giocatore aveva la sua zzagàjja personale, dovendo confezionarsela secondo la misura della propria presa sulla rùscica. |
354. Il varnéjjo (la gonna) di Giovanna Tacchia, appartenuta alla nonna, Rosalia Folgori (1889 - 1975). Stoffa, antecedente al 1912, alt. cm 91, circ. vita cm 68. Anticamente ju varnéjjo (abito da sposa indossato anche nelle cerimonie e nella feste) veniva confezionato con stoffe dette dobbolétto, càmbric (o Cambrich) e stoffétto di vari colori: verde, bordeaux, celeste, blu, giallo, cremisi. Verso la fine dell’800 a ju varnéjjo si affiancò una veste di lanétta, mùsolo, fanèlla, percàl e cotone. La signora Folgori è stata una delle ultime Rovianesi che fino alla morte ha continuato a indossare il costume locale, anche se semplificato. |
356. Il passòne ’e Sand’Anna (bastone del pellegrino) di Angelo Viti, Mottà. Proveniente da Vallepietra. Legno, 1994, alt. cm 168, largh. cm 16,5. Il bastone del pellerino, nel suo complesso, è stato messo insieme il giorno del ritorno della Combagnìa nel 1994 con donazioni di pellegrini diversi, in quanto nessuno voleva privarsi di tutto il bastone addobbato riportato da Sant’Anna. Non è stato possibile, ad esempio, mettervi regali (giocattoli, quadri, ecc.), che vi si appendono, o ramoscelli di uva spina (ribes g.) e di prugnàli (corniolo), facilmente deperibili. (Cfr, sotto, immagine a colori n° 43). |
344. La lascétta (il coltello a petto) di Mario Tarquini, de Ozzòne, usata anche da Ignazio Tarquini, Ozzòne (1910 - 1993). Ferro, prima metà sec. XX, largh. cm 4,3, lungh. cm 34, spess. cm 0,8. Serviva ad affusolare e a levigare manici o tavole. Di coltelli a petto ce ne sono diversi tipi. Oltre a questo, ce n’è un altro con la fossa: un’apertura circolare e tagliente posta tra il manico dritto e la lama grande. Era particolarmente usato dagli arcàri di Camerata Nuova per fare i vanghìli. |
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359. Ròse e ssandìnu (rose con santino) di Guerrino Tacchia, de Guiréro. Provenienti da Vallepietra. Carta colorata e fil di ferro, 1994, alt. cm 9, lungh. cm 56. I devoti di Roviano ripetono il pellegrinaggio a Vallepietra, come nel passato, a luglio. Partono nel pomeriggio del 24 e, attraversando i monti tra Cervara, Camerata Nuova e Vallepietra, arrivano al santuario il 25. Ripartono il pomeriggio e tornano in paese alle 12 del 26. Molti vanno anche in pullman e con le auto. |
Fino agli anni ’60 molti contadini facevano il viaggio con gli asini, oggi è presente solo qualche cavallo. A Roviano non vanno in pellegrinaggio alla Trinità, ma di fatto lo sostituiscono con quello per Sant’Anna, ritenuta protettrice delle donne incinte e partorienti ma implorata anche dalle donne sterili e da chiunque voglia qualcosa. La cappella di Sant’Anna fu scavata nella roccia, alla fine del secolo XIX, per interessamento dell’abate del santuario, Salvatore Mercuri. |
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