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Artemio, il Museo, il Tempo

    

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Artemio, il Museo, il Tempo

 

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I nostri sogni

hanno l’età

di un’estate

e sono già maturi.

Ma davanti a loro

c’è un muro

IL PASSATO

contro il quale

nessuno

ha il coraggio

di iniziare la scalata

per primo.

 

(Artemio Tacchia, 1969)

Se potessi,

mi vestirei d’assassino

 – se potessi –

per giustiziare il Tempo.

Tiranno

che dissolve gli affetti,

che sugge la vita

in un baleno

come morte leggera

di farfalla...

   

 

 

(Artemio Tacchia, 2006)  

Eppure non è il Tempo a passare! Non esiste l’invisibile e impalpabile fenomeno naturale, chiamato Tempo, che come un fiume infinito si porta via l’Universo. Ciò che esiste e passa non è il Tempo, ma una per una le percepibili vite materiali – le durate – degli esseri e delle cose.

 

Come lo Spazio – che esiste se gli oggetti, delimitandolo, lo costituiscono – il Tempo è un prodotto degli eventi. Dei fatti che accadono. Dei mutamenti che negli esseri e nelle cose si verificano.

 

Il Tempo con la T maiuscola – fenomeno “naturale” universale, onnicomprensivo, che tutto porta via con sé alla stessa velocità – è una fantasia umana. Tant’è vero che la nostra percezione di esso (le caratteristiche, cioè, che creandolo gli attribuiamo) varia continuamente: non solo da un’epoca all’altra – i secondi, i minuti, i milioni e i miliardi di anni sono, per esempio, invenzioni abbastanza recenti – ma anche da soggetto a soggetto, e in uno stesso soggetto da situazione a situazione. Guardare una pentola d’acqua che non si decide a bollire non è come guardare nervosamente l’orologio correndo alla stazione. Ascoltare un quartetto di Beethoven è un’esperienza non solo qualitativamente ma anche quantitativamente diversa per un cultore di musica classica o per un adolescente che ancora non è in grado di comprenderla. Certi istanti sembrano non finire mai; altri, invece, trascorrono a una velocità pazzesca.

 

D’ora in poi, dunque, scriveremo tempo con la t minuscola.

 

Perfino la diffusa certezza che il tempo sia uniforme almeno negli orologi è illusoria, se è vero che anche due cronometri atomici si “disallineano”, se uno dei due viene fatto viaggiare a grande velocità. L’aveva previsto Einstein, e le sperimentazioni che l’era spaziale ha permesso l’hanno dimostrato. Anzi: il “tempo” dell’orologio, a ben vedere, non esiste neanche in esso: non coincide, infatti – se non per caso – con il ritmo con cui si deteriorano le sue parti e il meccanismo nel suo insieme.

 

Che cos’è, allora, ciò che impropriamente chiamiamo lo scorrere del tempo?

 

L’esperienza del trascorrere del tempo è l’esperienza del succedersi degli stati fisici e mentali. Il quale, però, a seconda delle situazioni, è più o meno rapido: oggettivamente, nella misura in cui la realtà esterna e interna è più o meno ricca di stimoli positivi o negativi; soggettivamente, a seconda di quanto ampia e fine è la capacità dell’individuo di cogliere e intendere tali stimoli. Ragion per cui l’andar del tempo reale, così come l’organismo lo percepisce, non coincide quasi mai con il flusso temporale uniforme (ma convenzionale, cioè inesistente in natura) che gli orologi scandiscono ignari.

 

In assenza di stimoli interni ed esterni, il cosiddetto “scorrere del tempo” cessa. Lo sperimentiamo tutte le notti. Al risveglio, in qualsiasi momento esso avvenga, ci sarebbe impossibile capire quanto a lungo abbiamo dormito – così come nello spazio interstellare ci sarebbe impossibile stabilire se ci muoviamo o no – se non disponessimo di qualche oggetto di riferimento che nel frattempo abbia subito dei mutamenti: la sveglia sul comodino, il sole nel cielo, la lunghezza della barba...

 

Se tutti i mutamenti cessassero, il tempo non continuerebbe a scorrere da solo “intorno” a un mondo immobile, ma finirebbe con esso. Così come lo spazio, se tutti gli oggetti sparissero, non rimarrebbe “lì”, vuoto, come una stanza da cui un ladro, o un partner in fuga, abbia portato via tutto ciò che conteneva. Poiché uno spazio vuoto non è più uno spazio: non è niente, non esiste. (E neanche una stanza vuota, se è per questo, a meno che il ladro o il partner non dimentichino di portar via anche le pareti.)

 

Se il tempo non esiste e non scorre; se ciò che esiste e scorre sono le vite e le durate degli esseri e delle cose; se il passato, come tutti sanno, è quel che non c’è più; se il futuro, d’altra parte, è quel che non c’è ancora... Ne consegue che il presente l’attimo presente è tutto l’esistente.

 

Materialmente non c’è che un attimo, per ognuno di noi come per l’intero Universo. Poi, certo, nell’attimo ci sono anche i ricordi, la storia, le speranze, le attese... Che però sono anch’essi degli stati materiali attuali delle nostre menti. Davvero esistenti, sì, ma esistenti adesso.

 

Nell’attimo – che chiamiamo presente – in cui l’Universo per un attimo esiste, un numero incalcolabile di vite e di durate sono in corso insieme. Sono – noi diciamo – contemporanee. Non il Tempo, dunque, esiste, ma solo la contemporaneità. La contemporaneità – il singolo attimo presente che un numero incalcolabile di vite e di durate condividono – è tutto ciò che esiste.

 

Come si sa, vi sono vite e durate assai più lunghe e assai più brevi dell’esistenza umana. Le sequoie del Nord America o le montagne dell’Himalaya esistevano già molto prima che l’autore e i due o tre lettori di queste righe venissero al mondo, e continueranno a esistere per molto tempo anche quando non ci saremo più. Un gatto, una farfalla, un moscerino, vivono e durano assai di meno. Una stella brucia così a lungo da sembrarci eterna. Un batterio, invece, dura così poco che stentiamo a chiamare vita la sua esistenza. Ma nel singolo attimo che chiamiamo presente – il solo in cui il Tutto non è ricordo né speranza, ma davvero c’è – il batterio, la sequoia, noi e la stella siamo contemporanei.

 

A ogni istante – per lo più senza che ce ne accorgiamo, o quasi, ma a volte con nostro immenso dolore – un’incommensurabile parte delle cose e degli esseri nostri contemporanei periscono e iniziano a disfarsi, mentre altri invece si formano e vengono al mondo. Scompare dal cielo notturno il puntolino di luce, invisibile a occhio nudo, chera ciò che restava di una stella esplosa milioni di anni fa. Muore il padre che amavamo, senza il quale non saremmo mai nati, e con lui muoiono il sapere e i ricordi che non poté condividere con chi gli sopravvive, gli oggetti, le realizzazioni, gli eventi che seppe immaginare, forse, ma non riuscì a compiere. Cade e va in frantumi il piatto variopinto su cui la mamma ci insegnò a mangiare da soli quando i suoi occhi erano tanto più vividi di oggi... E un giorno anche noi, lasciando la contemporaneità di chi oggi è bambino o non è ancora nato, cesseremo di creare e partecipare con gli altri allattimo fuggente che chiamiamo il presente, il solo tempo e il solo spazio di cui realmente disponiamo.

 

Ciò che muore, però, non scompare del tutto. Non solo le stelle – che vediamo com’erano quando le loro immagini si misero in viaggio verso di noi: mille, o un milione, o un miliardo di anni fa, e che nel frattempo si son forse dissolte – ma l’aria che respiriamo, la terra che ci sorregge e ci dà da vivere, le città, le case, i nostri corpi, le nostre stesse menti pullulano di visibili e invisibili sopravvivenze di ciò che non è più. Come il Big Bang – del cui inimmaginabile calore sopravvive in tutto l’Universo la quasi impercettibile radiazione fossile che divide il gelo siderale dallo zero assoluto – i resti di ciò ch’è morto e sepolto sono disseminati per ogni dove, e la fantasia umana è il solo strumento che ne riveli la presenza.

 

Nell’attimo che è il presente, dunque – il solo in cui l’Universo materialmente esiste – la contemporaneità, della quale finché viviamo facciamo parte, comprende anche ciò che rimane del passato, di quel che non c’è più, di tutto ciò che ha cessato di vivere o di durare.

 

La fine di un essere vivente, infatti – ovvero lo spiacevole fenomeno che chiamiamo morte – così come la fine di ogni oggetto inorganico naturale o artificiale, è la fine di un particolare e transitorio agglomerato di materia, non della materia che lo costituiva. Questa rimane tutta, benché dispersa, e prima o poi entra a far parte di nuovi agglomerati, di nuovi oggetti, di nuovi esseri.

 

La morte, dunque, è pura apparenza. Ogni atomo di ogni entità organica o inorganica continua a esistere per sempre, dopo che l’entità di cui faceva parte ha cessato di vivere o di durare. Certo: non possiamo più scorgere nel cielo notturno la stella che un’immane fiammata ha dissolto; non possiamo più apprendere dal padre ciò che per troppo tempo rimandammo di domandargli; non possiamo più rimettere insieme il bel piatto variopinto andato in frantumi che fino a un attimo prima aveva la nostra stessa età. Sono eventi davero accaduti, una volta per tutte. Sempre spiacevoli, talvolta dolorosi, talora insopportabili. Ai quali non si può rimediare, dei quali non c’è arzigogolo verbale che possa invertire il segno. E nondimeno sono pura apparenza. Non solo la materia che la stella bruciò per cento milioni di secoli, non solo i legami atomici che fecero il piatto per cinquant’anni, ma anche tutto ciò che l’essere umano fu e realizzò finché visse è ancora qui, intorno a noi e in noi, e continuerà a esserci per i secoli dei secoli. Noi non siamo polvere – niente lo è – e in polvere non ritorneremo. Poiché perfino la polvere, quando saremo polvere, continuerà a parlare di noi.

 

Intorno a noi e in noi, il presente è fatto di passato. Ancora vivo, benché si siano dissolti esseri e oggetti che lo costituivano ed esso sia ora parte di altri oggetti, di altri esseri. Ancora parlante. Ma che si rivela come passato, pur cadendo sotto i nostri sensi, solo a chi lo immagina, lo studia, lo riconosce, lo comprende come tale. Altrimenti, il passato di cui è fatto il presente non si distingue dal presente che fa.

 

Come la chiesa di Santa Maria degli Angeli, a Roma – uno dei mille esempi possibili – che è, insieme, ciò che ne fece Luigi Vanvitelli nel 1749, Michelangelo tra il 1563 e il 1566 e gli architetti di Diocleziano tra il 298 e il 306, così la contemporaneità di cui siamo parte è tutta intessuta dei fenomeni naturali e delle azioni, delle parole e dei pensieri umani che la precedettero. Non, beninteso, perché sia solo il passato a determinarla – o non vi sarebbero, in Natura, le discontinuità genetiche da cui procede l’evoluzione delle specie, e nei fatti umani l’assolutamente nuovo che scaturisc dalla nostra creatività – ma perché non c’è un atomo che sia uno, nella materia di cui è fatto il presente (anche quando la Natura o noi diamo al presente una configurazione del tutto nuova) che non sia stato anche materia del passato.

 

Tuttavia, che il passato nel presente vi sia non solo per sé, ma anche per noi, dipende da noi. Se noi lo immaginiamo, lo cerchiamo, lo riconosciamo e lo comprendiamo come tale, il passato nell’attimo che è il presente c’è davvero. Altrimenti è come se non ci fosse, poiché nessuno lo sa. Il che vuol dire che la morte, che è apparenza, si fa realtà solo se la infliggiamo noi. Che morto, nell’Universo non umano come in quello umano, è solo ciò ch’è morto per noi. Che solo per noi, solo nelle nostre menti, la morte è talvolta anche un fatto reale.

 

Nell’Universo non c’è niente che sia polvere, niente che in polvere ritorni. Solo gli esseri umani possono far polvere di qualcosa o di qualcuno. E solo se lo vogliono tutti. Solo gli esseri umani sono Creatori o Distruttori. E solo insieme. Solo nei rapporti che gli uni con gli altri realizzano.

 

Se non vi fosse stato l’Umanesimo, nessuno ci avrebbe mai detto che Santa Maria degli Angeli è fatta anche del tepidarium delle Terme di Diocleziano. L’architetto delle Terme, per noi, sarebbe morto. Eppure, benché dissolto come agglomerato di materia, niente di lui avrebbe cessato di esistere: non la sua opera, entrata a far parte della basilica di Michelangelo, di chissà quante altre costruzioni e della terra di Roma; non un solo atomo della sua carne, non un solo atomo dell’aria da lui respirata nel corso di tutta la vita; e nemmeno una delle parole da lui pronunciate, non un solo pensiero da lui espresso, poiché parole e pensieri che un altro abbia ascoltato diventano nuove reti di cellule nervose nel cervello di quest’ultimo, parti della materia mentale con cui egli costruisce i propri.

 

Altrimenti si dovrebbe ammettere che negli esseri umani vi sia qualcosa di non materiale che attimo per attimo lascia per sempre il mondo fisico; dal quale la materia, invece, non può dileguarsi mai.

 

Facile è rendersi conto che i concetti espressi da Gesù nella sua predicazione o da Shakespeare nelle sue opere sono ancora parte, dopo duemila e dopo quattrocento anni, del mondo mentale contemporaneo. Meno facile è capire che la stessa cosa è vera anche per i sentimenti, le idee e le parole di chiunque, purché li abbia espressi. Eppure non può essere che così. Il vantaggio della materia sui contenuti mentali, quanto all’impossibilità della distruzione, consiste solo nel fatto che la materia è indistruttibile comunque, mentre gli affetti e il pensiero, per sopravvivere a chi li concepisce, devono entrare a far parte di quelli di un altro. Devono essere, cioè, oggetto di rapporto. Se lo sono – se di ciò che senti e pensi rendi partecipe qualcuno, e questi, a sua volta, comunica ad altri quel che gli hai dato, o che lui ha creato servendosi come materiale anche di quel che tu gli hai dato – allora i contenuti della tua mente dureranno quanto quelli di Gesù o di Shakespeare, poiché l’unica differenza fra i tuoi e i loro (non quanto al valore, poiché non è di questo che qui si tratta, ma quanto alla durata) è che quelli sono stati conservati e fatti circolare con più cura dei tuoi, e che assai più uomini e donne hanno badato a serbarne e a trasmetterne la memoria. (Il che, per il Bardo, non è poi del tutto vero, dal momento che non si è certi che proprio William Shakespeare sia l’autore di ciò che a Shakespeare si attribuisce. Ragion per cui è ben possibile che anche del Macbeth – proprio come delle parole che diciamo o scriviamo noi – nessuno sappia mai chi davvero lo ha messo in circolazione per l’eternità...)

 

Non c’è un solo istante, finché viviamo, in cui le nostre “anime” – i contenuti delle nostre menti – non si separino dai nostri corpi e non inizino a sopravviverci, se diamo loro il Paradiso (o l’Inferno) affidandole a un altro essere umano. Lì è l’aldilà. E lì è il giudizio universale.

 

Momento per momento, siamo noi che “decidiamo” se il presente sia un luogo di morte o di vita. Se vivere in un presente mostruoso, contro Natura, in cui niente di quel che fu è oggetto di rapporto per noi, o all’opposto in un presente secondo Natura umana – gli opposti, infatti, non sono l’animale e l’umano, ma il mostruoso e l’umano – in cui tutto ciò che fu è ancora qui, in relazione con noi. Siamo noi, cioè, che “decidiamo” se comunicare o meno quel che sentiamo e pensiamo, se ascoltare quel che altri ci comunicano, se cercare, trovare, riconoscere, comprendere, trasmettere quel che altri prima di andarsene hanno lasciato di sé in noi e intorno a noi. Siamo noi, insomma, che “decidiamo” della vita eterna di noi stessi e di chi ci ha preceduto. Così come siamo noi che “decidiamo”, oltre che del passato – sia detto en passant, dato che queste note non se ne occuperanno oltre – anche del futuro. Poiché anche il futuro, come il passato, esiste solo nel presente, come seme racchiuso nel grembo dell’attimo, e siamo noi che “decidiamo” se cercarlo, trovarlo, riconoscerlo, comprenderlo, fecondarlo e poi averne cura, o all’opposto ignorarlo e calpestarlo. Ma queste “decisioni” invero non sono affatto tali, non sono giudizi, non sono razionali, non sono spassionate! Non è la ragione a farci intuire nell’attimo presente l’infinito passato, l’infinito futuro, o all’opposto l’infinita, squallida uniformità della materia bruta del presente, di ciò che non può essere che oggetto di consumo o di terrore immediati! È il rapporto che abbiamo stabilito con la realtà e in particolare con la realtà umana, la nostra e l’altrui; è il nostro amore o il nostro odio, per noi stessi e per gli altri, così come attimo per attimo erompono dal cuore e dalla mente che lo vogliamo o meno, che ne siamo consapevoli o ignari; è da come canta dentro di noi la vita o urla la morte, che dipende se portiamo e facciamo la vita o la morte ovunque ce ne andiamo!

 

Ma il presente non deve liberarsi di ciò che del passato vi sopravvive? Il passato, nel presente, non è la zavorra, l’oppressione, il morto che s’avvinghia al vivo e lo rallenta, lo impesta, lo soffoca? Non è forse vero che chi vive guardando al passato cammina con la testa all’indietro? Che solo chi abbandona, distrugge, dimentica, solo chi non lascia intorno a sé che macerie, può su di esse costruire il futuro?...

 

Sì: il passato, nel presente, è anche questo. Ma chi lo fa essere tale, se non colui che il passato, nel presente, non lo vede più? Colui che, non vedendo, non può più distinguere ciò che va conservato da ciò che si deve finire di smantellare perché il nuovo si liberi? L’uomo o la donna per i quali l’inconscia creatività che ci fa umani non è più il trasparire, nel presente, dell’infinito attuale o potenziale in esso contenuto, ma si è capovolta in un continuo sforzar la mente a disconoscere e ignorare: essi sì che son dominati dal passato che celano a sé stessi ovunque e dentro di sé! Come per gli animali non umani – che però non immaginano non perché facciano il niente con l’immaginazione, ma perché immaginazione non hanno – per quegli uomini e donne la tragedia non è che l’attimo sia tutto, dato che tutto in effetti è, ma che sia anche nulla poiché nulla possono più intuirvi. Con la differenza che il non umano può godere di un siffatto presente, se gli tocca buono, e costoro invece no, prendono senza gioire e lasciano senza sapere, poiché l’umano può gioire o soffrire solo di quel che in mente gli si fa anche immagine, mentre gli tocca.

 

Tu, invece, caro Artemio, dacché ti conosco io ti vedo come uno che alle porte di Roviano e della Valle dell’Aniene si dà da fare, instancabile, affinché nessuno, o quasi, scenda più nell’inferno del nulla, del non visto, dell’ignorato, del disconosciuto; affinché nessuno nel presente resti invisibile e impercettibile come un antico prigioniero dimenticato alla catena in una segreta, senza cibo né acqua, finché nemmeno le ossa resistano più all’abbandono e alla solitudine. Uno che non per mestiere, ma per non poter fare altrimenti, da tutta la vita è tra quelli che fanno in modo che la morte del non far più parte, che in Natura è apparenza, sia tale anche per il mondo umano. Uno che da tutta la vita – cercando, scoprendo, studiando, raccontando, tramandando – dà vita al presente riconoscendo l’umano che è in esso.

 

Cercando di raccogliere il più possibile – come scrivi in Memoria e storia del Museo, pp 39-46 del Catalogo del Museo della civiltà contadina Valle dell'Aniene – “di raccogliere tutto ciò che apparteneva al mondo contadino, artigiano e operaio, non solo a Roviano ma in tutti i paesi della Valle dell’Aniene e anche oltre, contrattando, ascoltando storie, marcando strettamente un potenziale donatore, subendo attacchi, studiando strategie persuasive, caricandoti sulle spalle i pezzi, conquistando la fiducia dei cittadini facendoli partecipare alle operazioni di restauro e di schedatura, creando una rete di collaboratori tra gli amici e i colleghi di scuola, polemizzando, litigando con le amministrazioni comunali, sopportando invettive”, dedicando un quarto di secolo della tua vita, insomma, all’ideazione e alla realizzazione del Museo, tu non hai solo “salvato quanto resta della civiltà contadina e operaia – gli oggetti, le storie, i proverbi, i canti, le cantilene, i giochi, le ricette, le testimonianze, gli scritti dei contadini-soldati, le tradizioni, il lavoro con i suoi ritmi, le feste e la religiosità, le superstizioni, il dialetto, perfino i soprannomi”. Tu, diciamolo!, soprattutto hai salvato noi – e anche me, che di qui non sono ma mi sono eletto – dal perderci per sempre nel deserto di squallida campagna rinselvatichita che sta cancellando i campi e i frutteti della Valle come se non fossero mai esistiti: un deserto dove qualsiasi orrore ci sarebbe possibile – sventrare la collina dove il padre e la madre si rotolarono tra l’erba, scavare abissi sotto la casa in cui ci misero al mondo, coprire di cemento la terra in cui riposano le loro ossa – per poi andar in cerca come mentecatti di un mondo virtuale in cui rifugiarci per sfuggire all’orrore del vuoto che deliriamo intorno a noi anche se vuoto non è, anche se il mondo attimo per attimo fiorisce, come per mille primavere in una, di tutto ciò che possiamo riconoscere – vedere o immaginare – in esso.

 

E invece no: grazie a te, che vedevi molto più di quel che noi vedevamo, che riempivi il mondo di presenze che noi non sentivamo, che letteralmente ci hai costretto a deciderci, o fare altrettanto o schierarci con la morte, grazie a te non possiamo fare un passo, oggi, in questi nostri paesi – per far solo alcuni dei mille esempi possibili – senza vedere Rosalia Folgori che un bel giorno del 1912 indossa un varnéjjo rosa per andare a sposarsi a ventitré anni; o Settimia Fagioli, che nel 1917 ritira il passaporto per l’interno; o Rosato Maggini, Erminio, che all’inizio del ’900, per contrassegnare la pialla ch’è sua, vi pratica un foro nella parte anteriore e ci mette una pedina di legno scuro; o il nonno di Filippo Innocenzi, Pippinùcciu, che con le pinze, la sùbbia, la lìssa e il marcapùndi lavora la pelle e il cuoio per farne scarpe; o Angelina Adornato, la Stoppacciara, che col suo pèttene, per trentasei anni, pulisce la canapa per poche lire e un po’ di cibo; o Angela Maria Fagioli, che nell’estate del ’45, andando a piedi a Vallepietra, compra un libricino di canzonette religiose stampato a Ferentino dal signor Galassi; o Luigi Tacchia, Gigge i Nìru, che negli anni ’50, impugnando lo sparviéro, intonaca i muri entro i quali ancor’oggi viviamo. Grazie a te i campi son pieni di messi e di contadini al lavoro, i sentieri di viandanti, i balconi di belle ragazze, le vie di bambini, le piazze di feste e di danze, i paesi di migliaia d’invisibili e visibili abitanti in più venuti a noi fin dai tempi degli Equi! Grazie a te non sfrecciamo tra queste colline come bolidi impazziti, sperduti nel vuoto, puntando in preda alla disperazione ai pochi luoghi dispersi in cui l’attimo ancora non ci appaia informe: grazie a te c’è vita ovunque, intorno a noi, in questa landa del nostro pianeta!...

 

Che cosa c’è, caro Artemio? Ti confondi? Pensi che stia esagerando, rendendoti grazie come a un dio per la bellezza del presente in questa Valle che altrimenti vedremmo deserta, disastrata dalle cave, dal cemento, da una fretta micidiale? No, non temere: lo so che son gli uomini e le donne, non gli dei, i creatori di quel che gli occhi vedono e le menti immaginano e pensano; che son le donne e gli uomini, non gli dei, che fanno bello o spaventoso il solo attimo in cui tutto esiste! Ed è da umano a umano, infatti, che qui ti ringrazio per questa realizzazione che non hai fatto da solo, chiuso in archivi polverosi a riesumare scartafacci rosi dalla noncuranza e dai topi – sebbene anche quelli abbiano la loro importanza – ma in una molteplicità di rapporti d’ogni segno, non sempre facili, non sempre comprensivi, non sempre riconoscenti. Rapporti pieni di vita, che tu hai tratto dal nulla del chiacchiericcio paesano più o meno bonario, che tu hai messo al mondo; e non con gli oggetti e le memorie, sia chiaro! – ché i ricordi, le cose, son per te ciò che i colori e le tele sono per l’artista – ma con noi vivi, con i concreti e reali esseri umani a cui hai mostrato come sia degno d’essere vissuto il presente condiviso, l’attimo del quale insieme si scopre quanto sia immenso, complesso, ricchissimo – affascinante, in qualche modo, a questi livelli, perfino in quel che bello non è! Rapporti che hai fatto con noi, coi nostri figli, coi bambini che han la fortuna di essere tuoi alunni nella scuola che onori, e con ogni tuo concittadino, compreso chi non voleva saperne (ma tu non gliel’hai permesso!) per andare insieme a scoprire e a far bella la Valle con tutto ciò che solo lo sguardo umano può cogliervi. Rapporto d’insegnamento, dunque, il tuo con noi tutti, caro Artemio. E il migliore che ci sia: quello che agli allievi non solo racconta, ma dimostra che cosa sia il quasi impercettibile attimo di cui disponiamo, per chi non si è ridotto ad aver paura di quel che la mente può farne.

 

E insieme esempio di lotta senza quartiere, attimo per attimo, affinché il presente – che in Natura, e per le menti come la tua, è tutto – non sia reso nulla dal vuoto degli sguardi, prim’ancora che dall’azione violenta, di quelli che contro Natura lo vogliono tale. Lotta per il presente di tutti, dovunque, ché l’attimo è uno, il medesimo per ognuno. E come potrebbe essere altrimenti? Non esiste un altro tempo, in cui rifugiarsi per farlo bello abbandonando il solo che abbiamo! Né esiste luogo, nelle menti sane, ove relegare e ignorare il mostruoso di cui in quell’attimo è vittima qualcuno, chiunque e dovunque egli sia!

 

In questo museo – scrivi infatti, concludendo il testo citato – i miserabili e gli sfruttati contadini, i vinti, per dirla con Nuto Revelli, si prendono una rivincita sui baroni e signorotti locali mostrando i loro strumenti di lavoro e raccontando le loro fatiche e le loro storie nelle stanze nobili del Palazzo, di questo Palazzo dove a braccianti e affittuari era permesso entrare solo quando dovevano portare la parte relativa alla spartizione dei prodotti o chiamati a scartoccià il granturco nella corte ventosa... Ché la tua lotta, appunto, è da sempre anche questa: dalla parte degli inermi, contro i prepotenti; e tu, da sempre – oltre che un ricercatore, un insegnante, un poeta – un combattente per la libertà, per la pace, contro ogni forma di violenza e di sfruttamento. E per la fine, una buona volta, di tutte le superstizioni.

 

Molti, negli ultimi secoli, hanno lottato contro chi pensa e agisce nei confronti dell’animale umano senza distinguerlo dal non umano o dalla macchina. La tragedia è che molti, tra quei molti, hanno lottato senza essere ricercatori, né poeti, né insegnanti: senza fare alcuno studio, cioè, né mai lasciarsi andare a immaginare – e dunque senza poter insegnare – come, su quali basi si formino, in noi e tra di noi, idee, relazioni, intere società fondate sul disconoscimento dell’umano. E così – avendo potuto colpire, quali che fossero le intenzioni, solo gli effetti di tale disconoscimento – hanno sempre dovuto assistere al risorgere dello sfruttamento, della tirannia e della superstizione, oltre che nella società, nelle loro stesse fila, nei movimenti, nei partiti, negli apparati statali creati per combatterli – questa la tragedia! – e non di rado, nel vano tentativo d’impedirlo, son diventati essi stessi degli aguzzini non meno feroci dei più feroci tra gli avversari: questa la tragedia anche peggiore, o – quando è andata “bene” – la squallida farsa. Una vicenda, caro Artemio – quella delle nostre battaglie per fare qui e ora quel regno dell’umano come fine, mai come mezzo che altri non colloca neppure nell’oltretomba – che anche dove non è stata di fallimenti e di sconfitte, ma anzi di grandi conquiste civili, tuttavia non è mai giunta a veder le stelle di un presente in cui il rischio del fallimento, della sconfitta, della distruzione di quelle stesse conquiste sia consegnato una volta per sempre alla Storia.

 

Ma una vicenda così deludente – dato che i molti che tale l’hanno resa non erano né sono così sprovveduti da credere che si possa curare una malattia senza indagarne e risolverne le cause, accanendosi alla disperata solo contro i sintomi – a quale conclusione può trarci se non a quella che essi siano stati e siano tuttavia così dissennati da dar la cura per impossibile a priori perché il disconoscimento dell’umano sarebbe... natura umana? Come non pensare, cioè, che quei molti – malgrado le buone intenzioni che li animavano e la perspicacia, la cultura, l’esperienza di cui disponevano – siano sempre rimasti superstiziosamente succubi di un “pensiero” che da un pezzo dovrebbe esser morto, sepolto, e invece continua a spargere il terrore e il disprezzo dell’essere umano descrivendolo come il proprio peggior nemico per sua stessa natura, e perciò ineluttabilmente? Descrivendo l’essere umano, il solo animale che l’evoluzione abbia reso individualmente e socialmente creatore di sé e del proprio mondo, come un essere geneticamente inetto – se non lo costringe una forza maggiore o un lungo, pervasivo e mai concluso condizionamento – a rendere ubiquamente riconoscente la contemporaneità di relazioni che crea?

 

Di questo “pensiero” che invece è delirio, tu puoi, caro Artemio – come me, come tutti – aver subìto fin dalla nascita il malefico influsso; ma certo non ne sei stato succube nei fatti, nel concreto tuo agire di ricercatore, di poeta, d’insegnante, nella certezza dell’umano che hai sempre dimostrato proprio andando in cerca, a Roviano e nella Valle dell’Aniene, delle più modeste fra le realizzazioni: degli umili strumenti, dico, di cui gran parte dell’Umanità, cioè tutti noi, è stata sempre costretta da una minor parte di folli e violenti ad accontentarsi per dar vita a quel presente ch’è tutto: l’aratro, il marcapùndi, il pèttene, lo sparviero, la nzalatièra accomodata con le graffette da ju raccongiapiàtti, il piatto variopinto su cui la mamma ci insegnò a mangiare da soli quando i suoi occhi erano tanto più vividi di oggi... Umili oggetti che ci svelavano la creatività umana anche se non volevamo ascoltarli. Anche se ci tappavamo le orecchie, per difendere la superstizione che di creatori ne ammette pochi o uno solo. Ma che a te cantavano l’umanità a gola spiegata, colmando di gioia e di dolore, di fatica e di festa, di lotta e d’amore il medesimo attimo che per altri era vuoto. Come le Sirene a Odisseo e ai compagni, ma per dar vita anziché morte al presente. E tu tanto hai fatto, legato alla tua certezza come a un albero maestro, che ci hai tolto dalle orecchie la cera e lo hai fatto udire anche a noi e ai peggior sordi fra noi, il canto d’umanità che da quegli oggetti si leva e ci viene incontro da ogni angolo della Valle! E infine – come evidenze, come prove documentali del fatto che la creatività è solo umana, e di tutti gli esseri umani – li hai collocati nel castello di Roviano, nel luogo più alto del paese e fra i più alti della Valle: dove li vediamo e li sentiamo ogni giorno – da Anticoli o da Arsoli, da Riofreddo o da Marano, da Cervara o da Subiaco – mentre anche noi, come i nostri avi, ci serviamo di umili strumenti, facciamo semplici cose, continuiamo i nostri puri rapporti reciproci cercando di sentire anche in essi quel che tu ci hai insegnato a sentire in quelli. Questa, caro Artemio, è per me la tua ricerca, la tua poesia, la tua lezione, la tua lotta!

 

Unire i possibili vinti del passato a noi, che lo siamo nel presente; e noi ai nostri figli, che potrebbero esserlo nel futuro. Poiché tutti, in verità, siamo qui adesso, non esistendo alcun altrove. E che il luogo sia un Castello, anziché il nulla che per certuni è il presente, scaturisce in primo luogo dallo sguardo del ricercatore, del poeta, dell’insegnante, del combattente. Per il quale è tutto.

 

Nelle belle sale del Castello di Roviano, sede del Museo della civiltà contadina Valle dell'Aniene, il passato che per anni tu e altri compagni avete immaginato, cercato e ritrovato nel presente è ora disposto in accurato, ingegnoso e suggestivo ordine. E molti, ora – più competenti di me e perfino di te – s’interrogano e dissertano chinandosi pensosi su di esso. Domandandosi – o meglio seguitando a domandarsi – che cosa sia questo Museo, che cosa siano tutti i Musei, e se e come debbano essere d’ora in poi.

 

Holden Caulfield, timoroso di ogni mutamento per l’inconscia paura che al farsi adulto non possa non corrispondere una rovinosa metamorfosi interiore, ama i musei per la loro immobilità: La cosa migliore di un museo – dice – è che tutto sta sempre allo stesso posto. Nessuno si muove. Puoi andarci centomila volte, e niente è mai diverso. Purtroppo, però, neanche il più statico dei musei può evitare a chi vi entra di dover scoprire mutato sé stesso, tra la scorsa visita e l’attuale: L’unico a essere diverso sei tu. Sei diverso, per una ragione o per l’altra. Mentre certe cose dovrebbero restare come sono. Dovreste poter metterle in una di quelle grandi bacheche di vetro e lasciarcele.

 

Holden, cioè – come tutti i ragazzi e i bambini ai quali si sia negato che un essere umano possa crescere sano di mente se non si provvede fin dalla nascita a irregimentarne la natura – ha finito col convincersi che ogni mutamento spontaneo sia un fenomeno pericoloso, talora mortale. Da un’idea ch’è l’opposto assoluto della verità, infatti, è difficile che non ne scaturiscono altre non meno assurde e rischiose, e questo soprattutto nei giovani migliori, che amano i loro “grandi” e si fanno scrupolo di smentirli radicalmente. Ragion per cui, ciò che Holden più ama in un museo è proprio quel che lo rende un luogo di morte: il fatto, cioè, che il medesimo passato che fuori era parte dell’illimitata contemporaneità di relazioni che costituisce il solo attimo in cui tutto esiste, per collocarlo qui sia stato invece divelto da essa, strappato alle situazioni umane cui partecipava – perfino laddove era misconosciuto o addirittura non più visto, poiché anche lì continuava comunque a subire gli eventi che lo coinvolgevano – ridotto a cosa stoltamente sola, da oggetto di rapporti che era, e fissato per sempre in un presente impossibile, non vero, ingannevole. Ché non esiste presente né scocca attimo dove non avvengono mutamenti: solo l’immota eternità puramente mentale dell’immaginario fenomeno che chiamiamo morte.

 

Vogliamo forse dire che il luogo che invece chiamiamo museo non dovrebbe esistere? Non sia mai! Ma vorremmo che ogni museo nascesse e vivesse come una rete di rapporti umani reali, proprio come quella che tu, caro Artemio, hai creato attraverso tutta la Valle ancor prima che qualsiasi museo ci fosse: una rete di rapporti tra esseri umani di tutte le età per i quali il Museo e il Castello (e magari il Sito)) altro non siano che l’attimo cui insieme danno vita creandovi tutto ciò che vi è in esso di umano. Una rete di rapporti che momento per momento rende prezioso il momento e come tale lo vive.

 

Un museo di tal fatta, è ovvio – costituendosi in primo luogo negli occhi, nei cuori e nelle menti degli esseri umani – si estende all’intero territorio che gli dà vita. Invade le piazze, riempie le vie, entra nelle case, nelle stanze, nei cassetti, negli hard disk. Occupa anche un edificio chiamato museo – perché no? – ma anche lì continua a svolgersi come rete di rapporti alla quale nessuno è estraneo e in cui tutti democraticamente hanno voce (tranne quelli – chiamiamoli, se vuoi, nazisti – che delirano il nulla dove invece è il tutto, rifiutano tuttavia di curarsi e continuano a disconoscere, mentire e distruggere). Un museo di tal fatta ascolta, pertanto, mentre decide su di sé, i pareri dei dotti, come è giusto che sia – nessuna assemblea di sani di mente incaricherebbe, che so io?, un ingegnere di comporre una sinfonia o un musicista di progettare un aeroplano – ma anche quelli dei ricercatori, dei poeti, degli insegnanti, dei combattenti. E di ogni nato di donna. Poiché un museo di tal fatta – quello che era ed è nella tua mente e oggi anche nelle nostre – è un museo che si disfa a mano a mano nella vita di quelli che lo fanno; che diventa la vita; e che un bel giorno, quando l’intera realtà umana è riconosciuta preziosa ovunque, termina di esistere non solo come luogo separato – cosa che un museo di tal fatta non è fin dall’inizio – ma anche come concetto. E si ha, finalmente, l’estinzione (della necessità) del museo.

 

Nell’attesa, caro Artemio, continuiamo a entrare nel Museo della civiltà contadina Valle dell'Aniene e a portarci i nostri bambini e i nostri stessi figli: per quello stesso, umano desiderio di dar vita al presente per il quale tu andavi e ci hai insegnato ad andare dalla gente dei nostri paesi a intrecciare splendide reti di relazioni indicandogli le testimonianze della loro creatività – della creatività ch’è solo loro – che oggi sono lì, nelle belle sale del Castello di Roviano, alto sulla Valle; per trarre quei minuti frammenti multicolori del caleidoscopio di ogni attimo dal buio superstizioso e violento in cui altri tentavano di convincerli e talvolta li avevano persuasi ad abbandonarli. E se è vero che la ricerca, la poesia, l’insegnamento e la lotta continuano ovunque, fuori dal Museo, a trovarne di nuovi (e queste righe, spero, un pochino aiutano) andiamo però lo stesso a ricercarli e a ritrovarli anche lì, nel Museo: per aver cura di essi nell’infermità, per consolarli e consolarci dell’innaturale immobilità a cui noi stessi li abbiamo consegnati, e dunque per restituirli alla vita quanto meno in nuove immagini e pensieri creati con essi, se proprio non possiamo più toccarli e sciuparli!

 

Niente è spazzatura.

Anche

i delicati trucioli,

come bòccoli biondi di acerba fanciulla,

nella vetrina del Museo

sono essenziali,

per mostrarsi,

alla grande pialla

possente

e bella!

 

(Artemio Tacchia, 2006)

 

Poiché niente è polvere, di ciò che è umano, e niente in polvere ritornerà.

 

(Roviano e Roma, luglio 2007)

 

 

 

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