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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Zitelle a Vallepietra,

Modelle ad Anticoli Corrado

 

Immagini della Donna nel Novecento della Valle dell’Aniene

 

di Luigi Scialanca

 

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Zitelle a Vallepietra

Modelle ad Anticoli

a mia figlia

e alle alunne ed ex alunne di Anticoli e della Valle

 

 

Disagio, sconcerto, timore. È ciò che si scorge ― nel bel documentario di Giacomo Pozzi Bellini del 1939 ― sui volti dei sacerdoti che sulle scale del santuario di Vallepietra circondano le Zitelle che si rivolgono ai fedeli con gesti ieratici, come profetesse ispirate da Dio.

 

È lo smarrimento di chi s’imbatte in un pazzo. O di un potente dinanzi a un’insurrezione.

 

È la paura dell’incontrollabile.

 

Ma il Pianto delle Zitelle non è un moto di piazza. Né tanto meno un raptus di follia. E d’altra parte non è ancora (nel 1939) l’anodina rappresentazione teatrale in cui oggi si va tramutando. Momento culminante di un pellegrinaggio di migliaia di fedeli da tutto il Centro Italia, è un rito che si ripete a intervalli regolari, secondo un calendario a tutti noto, e che ogni volta richiede una lunga e attenta preparazione, con cui la vita quotidiana delle famiglie delle ragazze e delle donne interessate (e dell’intera comunità) deve saper coesistere e coordinarsi.

 

Il Pianto delle Zitelle, in altre parole, è un’istituzione religiosa. Che si è formata a ridosso della Chiesa, che con la Chiesa si connette e interagisce, ma che Chiesa non è.

 

Poiché le donne di Vallepietra, il giorno del Pianto, non sono mogli né madri, né sorelle né figlie, né ancelle né serve. Per un giorno, il giorno del Pianto, sono ministri del culto. E per questo sono dai preti mal sopportate, detestate, temute1: perché occupano il centro della scena e dalle scale della Santissima Trinità governano il popolo dei fedeli2 rivolgendosi a esso come da un pulpito: ascoltate in silenzio, seguite e imitate nei gesti, nelle espressioni, nei gemiti, nelle parole, amministrano i sentimenti di tutti e di ognuno come pochi uomini, preti o laici che siano, sono in grado o hanno l’opportunità di fare.

 

Il potere, dunque ― il potere delle donne sulle compagnie che convergono sul santuario, e in particolare il potere acquisito ed esercitato dalle donne di Vallepietra ― è il primo elemento da prendere in considerazione per intendere il significato del Pianto per le Zitelle, per i fedeli per i quali esse lo celebrano e per il clero a cui ne sottraggono l’amministrazione. Poi, non meno importanti, ci sono il dolore e la rabbia. Ignorando i quali non è possibile comprendere né l’intensa e duratura partecipazione emotiva che il rito suscita nelle officianti e nei fedeli, né i sentimenti di malcelata ripulsa che solleva invece nel clero e nei notabili3.

 

Non sono mai esistite e non esistono, naturalmente, società in cui le donne non esercitino alcun potere. Che cosa, infatti, rende possibile un rapporto ― del resto, non solo fra gli umani ― se non la reciproca cessione di potere? Come si potrebbero sedurre e desiderare, un uomo e una donna, senza concedersi un qualche potere fin dal momento in cui lo sguardo e l’immaginazione di entrambi pèrdono la libertà d’ignorarsi? Come potrebbero condividere una casa (per non parlare di mettere al mondo dei figli) se l’uomo non attribuisse alla donna (e la donna all’uomo) un più o meno grande potere sulla sua fantasia, sul suo tempo, sulla sua vita?

 

Solo in una società omosessuale, basata dalla culla alla tomba sul più rigido apartheid fra i sessi, le donne non avrebbero alcun ascendente sugli uomini. Ed è questo, infatti, ciò che hanno sempre fatto gli uomini che temono le donne: hanno costruito strutture di rapporti ― ovvero istituzioni ― separatiste, ove le donne non sono ammesse e il rapporto uomo-donna, con la reciproca attribuzione di potere che lo rende possibile, è a priori irrealizzabile. Aristocrazie, eserciti, elites imprenditoriali e politiche, circoli esclusivi... e Chiese.

 

Che sono istituzioni separatiste, e (più o meno consapevolmente) misogine ― dalle ciurme di pirati ai conclavi che eleggono i papi ― per il delirio che il potere delle donne sugli uomini sia un fattore di destabilizzazione delle menti e dei rapporti: causa, cioè, di una perdita di razionalità, di rigore e di concentrazione che impedirebbe alle istituzioni medesime di conseguire gli scopi a cui mirano. Perché le donne sarebbero più vicine alla natura e più refrattarie allo spirito, più corporee e meno razionali, più istintive e meno lucide, meno capaci di ragionare anaffettivamente. E di conseguenza ― non potendo adattarsi a strutture mentali e relazionali che sottomettano l’individuale concreto a idee, princìpi e obiettivi astratti ― all’interno delle istituzioni continuerebbero, soggetti mai completamente controllabili di esigenze e bisogni particolari, a proporvi e imporvi sé stesse fino a distogliere l’attenzione degli uomini dai fini superiori ai quali essi soli sarebbero davvero in grado di votarsi.

 

Invece gli effetti del separatismo sono sempre negativi, e rendono le istituzioni tanto più folli e disumane quanto più esso è effettivamente praticato ― per alti e “disinteressati” che siano gli obiettivi che le istituzioni medesime fantasticano di salvaguardare adottandolo ― perché l’esclusione delle donne è l’esclusione di una fondamentale istanza di cui soprattutto esse sono portatrici: l’esclusione e l’annullamento, cioè, dell’esigenza che ogni rapporto che le coinvolga, “occupandosi” di loro, prenda in considerazione e risolva il dolore ― la sofferenza ch’è solo della nostra specie, la tragedia di ciascuno e di tutti, che ciò che in noi è creduto e riconosciuto umano... non è l’umano, ma il divino ― che alle donne più che agli uomini, relegate in una posizione sociale e relazionale più debole, non è concesso ignorare neanche per un momento.

 

Le Zitelle, dunque, creando e tramandando il rito del Pianto, erigendo e perpetuando un’istituzione che vive e si riproduce autonomamente ma nel seno stesso della Chiesa, si fanno della Chiesa paritarie coadiutrici, e perfino concorrenti ― non monache, non serve ― nell’esercitare sui fedeli in pellegrinaggio il potere (e perseguire lo scopo) che ogni istituzione religiosa, quali che siano le sue intenzioni coscienti, esercita e persegue: il controllo e la gestione delle menti. Che si delira di dover controllare e gestire perché non soccombano alla follia e alla perversione che sarebbero intrinseche alla condizione di un essere del quale si fantastica che non sarebbe umano se non albergasse il divino e se continuamente non lo si riaffermasse e ribadisse controllando e gestendo, in lui, gli affetti e il comportamento, la fantasia e il pensiero. Generando, così, l’infinito dolore, la tragedia di ciascuno e di tutti, che concettualizzato e difeso sia in noi un umano del tutto immaginario, e disprezzato e sfruttato l’umano reale4.

 

Solo che l’invisibile comunione d’intenti fra le Zitelle e la Chiesa non attenua la visibile diffidenza e il disagio del clero per il fatto che le donne di Vallepietra... non sono uomini. Poiché dal potere le donne devono escluse e sottomesse, e dalle istituzioni controllate e gestite ― nella Chiesa, nella Società, nelle famiglie, nei divieti, nella fatica imposta ai corpi, nelle giaculatorie che ottundono l’intelligenza ― perché altrimenti come si potrebbe esser certi che nel rapporto e dal rapporto esse non pretendano, e non istighino tutti e ciascuno a pretendere, ciò che il rapporto potrebbe solo fra esseri umani reali: la cura, la fuoruscita dal dolore?

 

Tutti, nel 1992, videro la costernazione del Prete dinanzi alla Donna che pur nel dolore osa pensare e parlare, anziché ripetere...

Tutti, nel 1992, videro la costernazione del Prete dinanzi alla Donna che pur nel dolore osa pensare e parlare, anziché ripetere...

 

Apparentemente, il dolore che il Pianto esprime è il dolore per la morte di Gesù. Per un evento che sarebbe una catastrofe assoluta, è vero ― la morte di un Dio! ― ma al quale, d’altra parte, da duemila anni avrebbe posto rimedio una resurrezione. Eppure è un dolore che, nelle Zitelle come nei fedeli (e, tra questi, soprattutto nelle donne) appare autentico, sentito, non meno ma più intenso di un lutto familiare e recente. E in effetti è autentico, poiché in realtà esprime un’altra sofferenza, questa sì attuale e personale quant’altre mai, che però è un’infelicità sconosciuta ― e che tale rimane nonostante il Pianto, ché non si sa di piangere per essa ― ma che nel Pianto trova almeno un’immaginaria spiegazione (la morte di Gesù), una condivisione (tutti la piangono insieme), uno sfogo e perfino un sollievo. Ma non una cura.

 

Non che alle Zitelle, come al popolo dei fedeli, manchino molti e tremendi motivi di afflizione per niente sconosciuti. Ma c’è qualcosa di ancor più tragico della sofferenza sociale ed economica, qualcosa che è la condizione stessa del disprezzo, dell’abbandono, dei soprusi, della miseria, della fame, della malattia, della fine prematura: non la morte di Gesù, non la perdita e la scomparsa di un mitico umano-divino, ma una perdita e una scomparsa reali che nessuno conosce, nessuno nomina, nessuno racconta e spiega, e perciò in qualche modo ben più “remote” di un evento dell’anno 33: il dolore per la morte senza nome, senza lutto né resurrezione, di quel che noi potremmo essere se l’umano reale e concreto, ch’è infinitamente più che divino, non fosse ignorato e mistificato, in noi, sin dal primo giorno di vita.

 

Un dolore che non è identico in tutti né sempre, poiché vi sono, naturalmente, di quando in quando, donne, uomini, bambini, età o momenti in cui un barlume d’inconscia intuizione di che cosa sia, davvero, un essere umano, compare e resiste nonostante tutto. E tuttavia un dolore a cui nessuno sfugge, per il quale non esiste cura ― poiché il male che lo arreca è sconosciuto ― e che appare, perciò, così immotivato e ineffabile da non poter neanche lamentarsene. Un dolore che si finisce col sentire come pena di vivere, e che la disperazione popolare non sa spiegarsi che con l’idea che si nasca per soffrire, come se solo a noi, tra i viventi, l’evoluzione avesse reso impossibile, anziché necessario, essere ciò che siamo: di tal fatta è il dolore che scaturisce dall’ignoranza e dalla mistificazione dell’umano. Dall’altrui ignoranza, in primo luogo. Da quella di chi è venuto prima di noi. E dalla nostra che ne consegue, finché non ce ne liberiamo.

 

Solo i sacerdoti non piangono, sulle scale della Santissima Trinità di Vallepietra, mentre le Zitelle, e insieme a esse migliaia di donne, di uomini e di bambini venuti da tutto il Centro Italia, piangono l’inspiegabile infelicità in cui non riconoscono quella d’esser morti e mai più risorti come esseri umani, gli uni per gli altri e perciò per sé stessi. E non piangono, i sacerdoti, e anzi gli si dipinge in volto il più vivo fastidio e disagio e sconcerto, perché l’esplosione di dolore arrecata e gestita dalle Zitelle nei fedeli ― quel dolore a cui sacerdoti e notabili non possono lasciarsi andare senza espellersi, ipso facto, dalle istituzioni create per annullarlo, dominarlo, gestirlo ― suscita in essi il terrore che da un momento all’altro, per l’azione di quelle donne, siano vanificati e distrutti il compito e la ragione stessa delle loro esistenze: che son quelli, appunto, di chiudere i sentimenti, l’immaginazione, il pensiero degli esseri umani entro la logica, i dogmi, le strutture di rapporto, i riti di una fede ― di una “mente” imposta, calata dall’alto ― che li espianti e ne prenda il posto, o quanto meno li tenga sotto costante controllo.

 

Imporre il credere (in Dio) in luogo dell’essere (umano), il Verbo in luogo della Carne, il ripetere e il pregare in luogo del creare e del pensare, l’obbedienza in luogo della libertà. Sottomettere, paralizzare, controllare, isterilire l’autenticità emotiva, fantastica, intellettuale degli esseri umani. Poiché la mente umana ― se non esiste l’essere umano reale, se non c’è un io umano creatore di sé stesso nel rapporto con gli altri e con la realtà, se c’è solo una manciata di fango rappreso e insufflato ― altro non sarebbe che caos, torbido groviglio di passioni ferine, inferno interiore che in ogni momento può deflagrare in inferno sociale.

 

Ma ecco che le donne di Vallepietra costringono i sacerdoti a condividere il potere sulle menti; ecco che penetrano a pieno titolo ― non come monache, non come serve ― nell’istituzione ormai non più separatista, montano come su un pulpito sulle scale della Santissima Trinità e da lì attraggono e muovono, verso di sé e con sé, una marea di dolore: dolore autentico, non simulato (benché incompreso da quanti lo vivono) e perciò temutissimo da chi non sa e non può vedervi che il rischio che da esso si scateni incontrollabile una rabbia primordiale.

 

Il pellegrinaggio alla Trinità torna (o continua) a essere, così, con la presa e la condivisione del potere da parte delle Zitelle, ciò che fu nell’antichità: l’apparizione ― violenta, perturbante, spaventosa per chi vi assiste senza parteciparvi ― del fantasma di una collettività che non poté mai vivere a pieno la condizione umana; ma che di quando in quando, evocata dai gemiti e dalla ieratica gestualità delle sue sacerdotesse, riappare come anima in pena, come ombra lamentosa, contratta, convulsa, di ciò che sarebbe potuta essere. Larva che non accusa alcuno della sua infelicità, o forse solo sé stessa: rinunciando alla stazione eretta, prosternandosi, torturandosi, nude le ginocchia sulla pietra, sanguinante la lingua nella polvere. E che tuttavia, in questo poter almeno manifestarsi, sia pur sofferente e gemente, sia pur come vittima di un’inspiegabile e immedicabile infelicità fusa con la vita stessa, trova quel tanto di sollievo dall’inesistenza, quel tanto di riconoscimento, quel tanto d’identità individuale e collettiva che per qualche notte, lassù in montagna, ai piedi dell’immensa parete di roccia da cui precipitarono i buoi che tiravano l’aratro della sua vita ― nel muoversi come un sol corpo di migliaia di donne e uomini verso un’immagine di Tre che insieme sono Uno, nel toccare ed essere toccata entro una calca che non ha né tollererebbe divisioni, nei canti che si levano da ogni dove a comporre nei cuori e nelle menti un’armonia che per ognuno è la propria, nei cumuli di pietre eretti e ritrovati a testimonianza di un passaggio creativo sulla Terra del quale altrimenti non rimarrebbe traccia, nei bambini e nelle bambine che si specchiano l’uno accanto all’altra nei ruscelli chiamandosi comare e compare ― la rende visibile a sé medesima come i bagliori dei fuochi disseminati nella tenebra montana, misteriosi, stregoneschi: come un barlume di ciò che l’Umanità sarebbe se Dio non la braccasse fin quassù per sottrarle il suo posto nell’Universo.

 

L’ingresso delle donne di Vallepietra nell’istituzione ecclesiastica, il loro accesso al potere di controllo sulle menti di cui essa, come ogni istituzione, è investita, e l’esercizio più o meno inconscio di tale potere non per costringere la sofferenza propria e di un’intera collettività entro una struttura razionale-dogmatico-rituale che la frantumi in una congerie di incomprensibili, ineffabili e non comunicanti vissuti individuali, ma al contrario per liberarla, per darle espressione pubblica e corale in un contesto di alta e solenne bellezza e drammaticità: tutto, insomma, sembra autorizzarci a concludere che il Pianto delle Zitelle sia il motore e il culmine di un fenomeno esteso, di massa ― inconsapevole, certo, ma non per questo meno reale ― di restituzione e riappropriazione del senso della condizione umana. E nelle donne di Vallepietra, nelle Zitelle del Pianto, anche e specificamente della condizione della donna.

 

Ma non è così, poiché le donne di Vallepietra penetrano l’istituzione ecclesiastica non in quanto donne, ma come Zitelle ― chiamandosi vergini, cioè, quanto meno in ispirito, e quindi non sessuate ― e dunque non vi entrano per fare un rapporto con gli uomini, i maschi, colà asserragliati: non è desiderio ciò che le induce e vi introducono, ma solo dolore, e per di più frainteso, per il proprio avvilimento: dolore che esse stesse, escludendo il “rischio” del rapporto sessuale ― escludendo, cioè, che un essere umano si possa dopo tutto trovare, da qualche parte, con il quale riconoscersi e realizzarsi ― ribadiscono incurabile e vi si rassegnano.

 

Non meno della creatività, infatti, anche la socialità è natura umana. “Falsificare” l’altro, renderlo astratto, irreale, inesistente ― renderci inimmaginabile, cioè, la necessità della sua partecipazione alla nostra realizzazione ― significa rendere tanto meno esistenti e veri anche noi stessi ― tanto più disperati, vuoti, stupidi, distruttivi: tanto più dissonanti, insomma, dalla nostra natura ― quanto più massiccia e sistematica è la falsificazione. E la falsificazione più grave, che più coinvolge chi la compie, è proprio quella della donna da parte dell’uomo e dell’uomo da parte della donna. Poiché in essa (come, del resto, in quella dell’umanità dei nostri piccoli) la specie stessa è immediatamente colpita in quanto tale.

 

Sterile, dunque, è il Pianto delle Zitelle, e senza sbocco il dolore che esprime e quello delle migliaia di donne, uomini e bambini che salgono a Vallepietra per parteciparvi. Sterile e senza sbocco perché tutti piangono ognuno per sé; perché il timor di Dio ch’è in tutti non permette ad alcuno (salvo luminose eccezioni) d’immaginare o tanto meno desiderare un rapporto che la divinità e per essa l’istituzione non autorizzino e medino, cioè un rapporto sessuale liberamente umano; perché, di conseguenza, nessuno nell’altro riconosce, e gli rivela, e pretende, l’essere umano abbandonato e misconosciuto fin dalla nascita che l’altro potrebbe riconoscere, rivelare, pretendere da lui; e perché non è intaccata, infine, la fede nell’essere non umano che chiude il cerchio e gli imprime un altro giro per i secoli dei secoli. Perché il Pianto, insomma, non è protesta né profferta, ma lamentazione funebre di umanità.

 

E sterili e senza sbocco rimangono anche il disagio, lo sconcerto, il timore del clero assiepato sulle scale della Santissima Trinità. Che sarebbero potuti essere l’inizio di una crisi ― di un conflitto con la propria identificazione col potere ― che invece difficilmente vi sarà. E che tuttavia sono, anche se soltanto per noi, l’esito migliore dell’assalto delle donne di Vallepietra al “cielo” dell’istituzione ecclesiastica separatista; poiché vi è in essi ― in quel repentino pallore, nello “stranirsi” dello sguardo del sacerdote o del notabile dinanzi al “fantasma” ― almeno un barlume, per quanto ottenebrato dall’odio che all’istante ne scaturisce, di una scoperta e una consapevolezza che le Zitelle e i fedeli non arrivano, purtroppo, neanche a sfiorare.

 

Più e meglio di questi preti intuiscono e sentono solo gli artisti, i fotografi, gli scrittori, gli studiosi spinti fin quassù da un vago intuire che qui per amore si trasforma, senza farsi perciò più perspicuo, in un amaro incantamento che durerà tutta la vita. Amaro perché impotente, malgrado l’amore, a offrire una comprensione e una cura alla sofferenza (e all’umanità che dalla sofferenza traspare) che solo qui lo suscitano perché altrove la “zitella” è troppo rara, denigrata e dispersa per poter indurle a manifestarsi con altrettanta forza. E tuttavia così intenso, questo incantamento, pur nell’impotenza, da fecondare una creatività che sarà ancora viva ai giorni nostri, e della quale son forse la più eloquente testimonianza proprio gli splendidi fotogrammi del documentario di Pozzi Bellini ― o le stupende fotografie di Luciano Morpurgo ― da cui gli sguardi dei sacerdoti e dei notabili assiepati sulle scale della Santissima Trinità riverseranno anche su di noi il disagio, lo sconcerto, il timore di quest’inizio d’estate del 1939.

 

Ma sterili e senza sbocchi non sono, il Pianto delle Zitelle e il pellegrinaggio a Vallepietra, se li si considera dal punto di vista della funzione sociale a cui assolvono. Alla Santissima Trinità, infatti, il dolore di ciascuno, benché incurabile ― dato che è esclusa a priori e inconcepibile, come abbiamo detto, la possibilità di un rapporto che riveli e smantelli l’inimmaginata scomparsa umana che lo arreca ― tuttavia può almeno esprimersi e riconoscersi come il medesimo dolore di tutti. Può uscire, cioè, dall’opprimente privatezza che altrove fa di esso una tara individuale vergognosa, segreta, nutrice d’odio e d’invidia mal dissimulati. Poiché il Pianto è di rabbia, oltre che di dolore ― è l’autenticità della rabbia che nell’autentico dolore s’intravede, a colorire di paura il pudibondo sconcerto del clero e del notabilato ― e la rabbia, che in quanto privata e inconfessabile non potrebbe sfogarsi che in inconsulti parossismi, nel Pianto invece si attenua proprio perché vi si riconosce come rabbia di tutti: della quale cessa, perciò, di poter essere chiamato a rispondere il congiunto, il vicino, il paesano, il viandante, l’altro, in quanto fantasticato privilegiato, immune, felice alla faccia della Gente del Dolore5.

 

 

*

 

 

Intanto, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento, da Anticoli Corrado come da tutta l’Italia centro-meridionale e nord-orientale, uomini e donne partono per il mondo, non di rado per sempre, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita.

 

Per scelta o per costrizione?

 

L’essere umano può essere costretto solo con la violenza o da un estremo e imminente pericolo. Talvolta, anzi, nemmeno così. Mentre chi emigra è libero, al momento, di fare e di andare, gode di buona salute fisica e psichica (pur denutrito, non lo è tuttavia al punto di non poter affrontare l’impresa) ed è ancora relativamente al sicuro dalle pur tremende minacce ― la disoccupazione, la miseria, la fame, forse la morte ― che lo inducono a partire. Può ancora scegliere, progettare, fare un’immagine di sé e del futuro. Ed è in questo ― nel rendersi creativamente diverso da chi invece resta per amore o timore, o da chi delira di rifarsi a spese d’altri, o da chi rovina nella delinquenza ― che anche in lui vediamo l’essere umano (come del resto in quelli) e non un qualsiasi altro animale spinto dalla fame o da cieco terrore.

 

Se è così per chi espatria ― e non può essere altrimenti, o al di sotto di una certa fascia di reddito emigrerebbero tutti ― così è anche per la donna che egli lascia (la moglie, la fidanzata, la sorella, la figlia) e che sceglie, a un dato momento, d’immaginarsi Modella: non solo perché oppressa dalla solitudine e dalla miseria ― o Modelle diverrebbero tutte le misere e sole ― ma anche e soprattutto per fare un’immagine di sé diversa dall’attuale.

 

Non è mai stata neanche tentata, per quel che sappiamo, una ricerca sulle motivazioni e le vicende personali delle Modelle di Anticoli Corrado. Le loro testimonianze, quando ancora era possibile raccoglierle, non incuriosirono nessuno. E quelle dei loro figli e nipoti, chi le raccogliesse le troverebbe flebili e banali, più che per l’azione del tempo, per un sentimento di pudore tramandato fra mille reticenze di generazione in generazione.

 

Ma reticenza e pudore parlano anch’essi, e dicono che ciò che fecero quelle donne ― per quanto lo si voglia ritenere e presentare come un comportamento obbligato indotto dalla miseria ― sotto sotto è invece tuttora giudicato una scelta: ma che non si sarebbe dovuta fare, in qualche modo disdicevole, e di cui le famiglie ancor’oggi si vergognano.

 

In un’epoca in cui, nei paesi, perfino le maestre sono oggetto di malevoli sospetti, le donne che da Anticoli vanno a Roma a posare per gli artisti, e che a Roma e ad Anticoli negli studi dei pittori e degli scultori si spogliano nude, debbono poi sopportare dai compaesani sguardi e ironie e maldicenze che non di rado le condannano all’emarginazione.

 

L’abbandono subìto, con la solitudine che ne consegue; la relativa indipendenza; la non accettazione del dolore esistenziale comune; la disponibilità sessuale, reale o immaginaria che sia; la ricerca di una nuova immagine di sé: cinque sono gli elementi di profonda diversità che agli occhi dei compaesani rendono inquietante la condizione della Modella.

 

L’abbandono, la solitudine e la relativa autonomia vengono dall’emigrazione, dalla guerra, dalla Spagnola: fattori (acuiti, come sempre accade, dalla miseria) di sofferenza, di smarrimento, di angoscia ― in una parola: di crisi profonda, potenzialmente autodistruttiva ― che le Modelle però trasformano e risolvono creativamente, certo non senza dover affrontare drammatici conflitti interiori e interpersonali, in fattori di realizzazione, in una prospettiva di ricerca della felicità che è qualcosa di più di una semplice speranza.

 

Lasciate dai padri, dai mariti, dai fratelli, relativamente sole ma ancora giovani in un’epoca in cui, per la prima volta nella storia, il lavoro femminile è possibile e richiesto anche assai lontano da Priaterra, alla fine dell’inverno del 1901 le ragazze di Anticoli odono sferragliare, sbuffare e fischiare il nuovo treno Subiaco-Mandela in viaggio inaugurale. E immaginano, così ― se non tutte, alcune ― che su quel treno anch’esse potranno andare dove desiderano, e in tempo per tornare a casa la sera stessa. Più lontano che a Tivoli: a Roma! Per trarre dalla solitudine non solo dolore, ma anche indipendenza. Libertà. Occasioni di rendersi diverse.

 

È immaginazione, infatti, la parola-chiave.

 

La donna che si offre a un artista come Modella ― diversamente dalla prostituta ma diversamente, in altra guisa, anche dalla lavoratrice che si offre a un imprenditore come bracciante o operaia ― offre e propone all’uomo non un qualsiasi rapporto lavorativo, e neppure un qualsiasi rapporto sessuale, ma un rapporto interumano che in entrambi fonderà le dimensioni lavorativa e sessuale nella realizzazione di un’immagine di lei in cui l’uomo realizzerà l’umanità che lo rende creativo e la creatività che fa di lui un artista. E la donna...

 

E la donna?

 

Se la Modella fosse un mazzo di fiori in un vaso, o una gatta sdraiata al sole, del rapporto sarebbe oggetto passivo. Ma è una donna, e in quanto tale è, come l’uomo, un essere che per natura non può che creare (o annientare) senza soluzione di continuità, consapevole o no che ne sia. E dunque ― a meno che non si offra per distruggersi ― è di un’immagine che anche la Modella va in cerca, attivamente, per quanto rozza l’abbia già resa la sua ancor giovane vita: dell’immagine di sé del tutto nuova, mai esistita, mai vista prima, che pian piano farà e conoscerà nell’indurre ed accogliere i modi e i gesti dell’uomo, i movimenti delle sue mani, gli sguardi, le rare parole, l’amore; e il dipinto o la scultura, infine, che da tutto ciò scaturirà.

 

Poi, un attimo dopo, quell’immagine la Modella potrà senza accorgersene farla sparire per sempre, o all’opposto inconsapevolmente fonderla con il poco o il tanto che di sé ha creato fino a oggi. Ma probabilmente sarà proprio questo che farà ― la creazione, non l’annientamento ― dato che è questo che va cercando. E la creazione di poco o di tanto renderà più umana la sua vita; e poco o tanto diversa, da come altrimenti sarebbe, anche quella dei suoi figli e nipoti.

 

Non si può escludere, naturalmente, che di quando in quando a un’immagine di sé miri anche qualcuna delle donne che a Vallepietra si affiancano ai preti per farsi sacerdoti al pari loro. Ed è perfino possibile che una volta o l’altra qualcosina anch’esse riescano a creare, con gli sguardi e i turbamenti di un prete, poiché qualcuno talvolta ce n’è che sia ancora capace di rapportarsi a una donna, in qualche modo. Ma si tratta di (luminose) eccezioni, poiché di norma nelle Zitelle non c’è più desiderio né ricerca, ma solo l’imposizione ― l’abbiamo visto ― di una maschera ormai immodificabile di dolore, per la propria umanità ignorata e mistificata, sovrapposta alla rabbia che ogni dolore incurabile cova. E comunque, una volta espugnata l’istituzione e costretto il clero locale ad accettarle come coofficianti, nel fare e dire dei preti e coi preti altra immagine non trovano né fanno, di norma, che un modello di comportamento rituale sempre ripetuto, identico in eterno all’ordine che serve. Di cui mimano, poi, un po’ scimmiottando, le espressioni e i gesti ieratici che dalle scale della Santissima Trinità rivolgono al popolo suscitando disagio, sconcerto e timore negli stessi preti ai quali li hanno sottratti.

 

È il medesimo, il dolore che muove le donne di Vallepietra e di Anticoli Corrado. Amaro, insopportabile ― ma incompreso, in apparenza immotivato, e perciò rabbioso e disperato a un tempo ― è il medesimo dolore di non essere riconosciute, di non riconoscersi come esseri umani; di non saper invero che cosa siano, gli esseri umani; e di non trovare chi lo sappia, fuor che quelli che li pretendono creati anziché creatori. Dolore tutt’al più mitigato, di quando in quando, da un istante di tenerezza quasi animalesca, da un barlume, un frammento d’immagine incastonato nel buio di una notte infinita...

 

Il medesimo, sì. Ma per le donne di Vallepietra, un dolore che è una croce. O un macigno che nessuno al mondo potrà mai frantumare o togliergli dalle spalle. Tranne, forse, la morte. E tuttavia una croce o un macigno su cui ci si può ergere ― questa la scoperta delle Zitelle ― e di lassù, come statue, pietrificate in pose sacrali, rivendicare e conquistare, nel Mondo e fra la Gente del Dolore, una posizione tra gli uomini che quel mondo fanno e quella gente dominano. Crocifisse che camminano, le donne di Vallepietra riescono ― per qualche ora o per la vita ― a tramutarsi da pecore in pastori, da vittime in potenti, in potenziali Erinni. E sconcertano e intimoriscono gli uomini perché il dolore che esprimono, e migliaia di fedeli moltiplicano, è dolore autentico, non ancora o non del tutto ritualizzato: non il rictus demoniaco di chi lo infligge, non la pantomima anaffettiva di chi quanto meno lo gestisce, ma un Urlo di estrema, scarnificata, incurabile spossatezza che non avrà requie che nella tomba.

 

La Modella di Anticoli Corrado ― della quale, a differenza che delle Zitelle, non si può parlare che al singolare ― cerca invece una cura, una fuoruscita dal dolore. E la cerca in un rapporto con un uomo che abbia negli occhi, nelle mani, nel cuore, nella mente, un’immagine di donna che si fonda con la sua. In un rapporto che si costituirà come una prestazione professionale, la cessione del proprio corpo secondo una tariffa oraria, ma che malgrado ciò sarà un rapporto sessuale vero, umano: dal quale, cioè, scaturirà per entrambi una realizzazione.

 

Naturalmente la Modella ha già un’immagine, quando per la prima volta mette piede nello studio di un pittore o di uno scultore. Ma è un’immagine che non le piace del tutto, in cui non si sente a suo agio ― benché la realtà corporea che con essa si fonde sia bella e lodata ― e non tanto perché sia “povera”, frammentaria, indistinta, quanto per l’inspiegabile, mortificante soffrire che sempre la contamina, la segna, s’impasta con essa: quel soffrire a cui molte (e molti) si rassegnano ― la Gente del Dolore ― e lei invece no: non sa perché, ma non può. Forse per aver intravisto qualcosa che le altre non hanno voluto vedere ― un bagliore di libertà e di certezza di sé nello sguardo di una signora di passaggio, una vivida, tenera frase da pazzo sulle labbra di un corteggiatore, un vago sentore di remoti, inconcepibili sommovimenti giunto pian pianino fino a lei di luogo in luogo ― ma soprattutto per una sua personale, creativa dimensione di resistenza allo stupro che fin dalla nascita umilia e opprime la carnale identità umana per meglio asservire l’istupidita e imbelle astrazione che mette al suo posto, la Modella non accetta la sofferenza come realtà naturale umana, non vuol far schiera con la Gente del Dolore che per tutta la vita si piange e si celebra morta: vuol essere felice, e il desiderio è una colpa contro Dio e contro gli uomini perché incrina in lei il comune delirio che il desiderio sia impossibile, insensato, fatale. Ma ugualmente vuole essere felice, soprattutto dacché ha scoperto ciò che nessuno le ha mai detto: che desiderarsi felice è un po’ già esserlo, anche se strugge e impaurisce, perché al contempo scorre dentro e fa bene come il sangue nelle arterie, il respiro nei polmoni, la forza nelle braccia e nelle gambe, le immagini nella mente.

 

E allora va dall’artista a spogliarsi, a far l’amore senza coscienza di star cercando un’immagine di sé che né il Pianto di tutti né le lacrime sue le impediscano di vedere e a ciò la rassegnino; in un rapporto sessuale di cui non vi sia convalida fuor che quella dell’uomo e della donna, sulla Terra, nel presente, momento per momento; in un tentare insieme, senza saper nominarle, la creatività, la ricerca, la realizzazione che per natura distinguono l’umano dal non umano prima che lo colga un qualsiasi battesimo o altre investiture.

 

Picasso, "Il Pittore e la Modella", incisione, 1927

Picasso, Il Pittore e la Modella, incisione, 1927

 

Oggi, XXI secolo, il Pianto delle Zitelle non è più un’istituzione, non conferisce più alcun potere alle sempre più giovani officianti, tramutate in attrici, che lo mettono in scena, e non è più in alcun modo un problema per la Chiesa, che lo ha privato di ogni possibilità di rapporto diretto con la massa dei fedeli così come ha aggredito e tranciato ― chiudendo ju vagnu, colando ovunque asfalto e cemento, costruendo un mostruoso edificio che concentra su di sé gli sguardi che ancora tentano di perdersi nell’immensità della Tagliata ― ogni possibilità di contatto fisico tra i corpi dei pellegrini e il corpo della Montagna Sacra. Eppure, anche se il Pianto è ormai messinscena, il pellegrinaggio continua; e in parte séguita a svolgere una funzione sociale, per i paesi della Valle dell’Aniene, in un mondo in cui il dolore di non sapersi e non essere riconosciuti per natura umani è ancora vivo in tutti ed è spesso atroce, ma al contempo si è sempre più indotti a subirlo e arrecarlo e soffrirlo in solitudine, in una privatezza che lo fa sembrare un destino solo personale, una mostruosa tara individuale, e talvolta lo gonfia nella furibonda follia, contro sé stessi e contro gli altri, di cui son piene le pagine dei quotidiani.

 

Ma la donna che da Zitella espugna le istituzioni contrapponendosi all’uomo non per un rapporto e una realizzazione, ma per affiancarlo e competere con lui nell’esercizio del potere sulla Gente del Dolore, quella esiste ancora com’è sempre esistita, ovunque, e tuttora arreca disagio, sconcerto, paura ― senza mai metterli davvero in crisi ― agli uomini di Dio, d’istituzione, di famiglia, che nella donna temono, fuggono, violentano, irridono l’umanità che in lei immaginano troppo potente e indomabile per poter cederle anche solo una briciola di potere su di sé.

 

E la Modella? Che nn’è della Modella? È l’artista che l’ha lasciata, credendo (o illudendosi) di poter fare a meno di lei, o è lei che non ha più voluto (o saputo) offrirglisi? Sia come sia, realizzare, definire, trasformare l’immagine di sé attraverso il rapporto interumano è oggi assai più arduo che allora, e non solo per le donne, perché i mezzi di comunicazione di massa hanno dato al potere, tramite le varie sue agenzie più o meno “creative”, la possibilità di sfornare a getto continuo immagini preconfezionate in cui specchiarsi illudendosi di poter dar forma a sé stesse in solitudine, senza andar in cerca di nessuno, senza rischiare incontri né separazioni, né desiderio né odio, né gioia né dolore: come Ildegarda di Bingen, come le mistiche medioevali che ineffabili visioni rapivano in Cielo senza alcun bisogno né tanto meno desiderio, da bimbe come da donne, di volare in alto tra le braccia di un uomo.

 

Oggi, XXI secolo, in apparenza i modi e le occasioni di realizzazione di cui una donna dispone in questa parte del mondo sono di gran lunga più numerosi. Ma a ben guardare, la scelta che ogni diversa opportunità le propone è ancor sempre quella che divise le Zitelle di Vallepietra dalle Modelle di Anticoli Corrado: tra l’esser padrona o serva fra le genti d’un qualche dio e del suo dolore, o essere libera in cerca dell’uomo e di sé tra esseri per natura umani.

 

 

 

 

Anticoli Corrado e Roma, 9 settembre 2007 - 9 marzo 2008)

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Bibliografia

 

Giuseppe Bonifazio, La tradizione delle Zitelle o Verginelle o Scapillate. Ipotesi sull’introduzione del Pianto delle Zitelle nella festa della Trinità a Vallepietra, in Aequa, rivista di studi e ricerche sul territorio degli Equi, anno VIII, n° 27, ottobre 2006, pp 18-38.

 

Marco Occhigrossi, Donne protagoniste. Anticoli Corrado e i paesi dei Ruffi, in Paola Elisabetta Simeoni (a cura di), Essere donna essere uomo nella Valle dell’Aniene, Roma, 2006.

 

Susanne Portmann, Picasso: i disegni del 1953 - 1954, tesi di laurea in Storia dell’Arte, Accademia di Belle Arti di Roma, inedita, 1986.

 

Susanne Portmann, Muti loquaci ― Il movimento delle beghine e la nascita della lingua tedesca, saggio inedito.

 

Paola Elisabetta Simeoni (a cura di), Essere donna essere uomo nella Valle dell’Aniene, Roma, 2006.

 

Paola Elisabetta Simeoni (a cura di), Fede e Tradizione alla Santissima Trinità di Vallepietra 1881-2006, Roma, 2006.

 

Artemio Tacchia, Mura sante e mura beate: il pellegrinaggio di Marano Equo, in Franca Fedeli Bernardini, Nessuno vada nella terra senza luna. Etnografia del pellegrinaggio al Santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, Roma, 2000.

 

Artemio Tacchia, Quel “trenino a modo” della ferrovia Mandela-Subiaco, in Aequa, rivista di studi e ricerche sul territorio degli Equi, anno II, n° 3, maggio 2000, pp 16-20.

 

 

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Note

 

[1]. Le compagnie sono gelose della loro autonomia dalla struttura ecclesiastica locale, tanto che nei secoli e ancora oggi le tensioni arrivano in alcuni casi a forti scontri o addirittura a livelli di rottura. [...] Di Nola (A. M. Di Nola - O. Grossi, 1980, Memorie di una festa, Roma: 34) sottolinea che “Vallepietra è, sempre sul piano tipologico, una festa di carattere misto. Da un lato permane, in tutta la sua presenza di controllo, l’egemonia ecclesiastica che tenta di ricondurre nei binari di una legittimità liturgica l’esplosione popolare. Da un altro lato le plebi gestiscono in proprio e distanti dallo schema ecclesiastico il loro rapporto con il sacro. (Paola Elisabetta Simeoni, 2006, Si andava in un’organizzazione mistica, in P. E. Simeoni (a cura di), Essere donna essere uomo nella Valle dell’Aniene, Roma: 42 - 43).

 

[2]. A guidare la compagnia [di Marano Equo] sono le donne: le più sollecite a ripartire, le più pronte a pregare e cantare inni alla Trinità e alla Madonna, le più presenti a fianco della stennardina. A loro viene delegato l’aspetto più spirituale e religioso del viaggio mentre, al contrario, agli uomini spetta quello logistico-organizzativo. [...] La presenza femminile è, per certi versi, determinante per la continuità del pellegrinaggio stesso. Poiché le donne esternano meglio e di più la loro devozione e poiché sono in grado di garantire “la tradizione”, [...] vengono spesso delegate dalla comunità religiosa maranese a ruoli di prestigio. Per la fiducia che suscitano, fungono spesso da “ambasciatrici” verso la Trinità, a loro si affidano denaro, preghiere, richieste di grazie. (Artemio Tacchia, 2000, Mura sante e mura beate: il pellegrinaggio di Marano Equo, in Franca Fedeli Bernardini, 2000, Nessuno vada nella terra senza luna. Etnografia del pellegrinaggio al Santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, Roma: 140 - 141).

 

[3]. E non solo nei notabili di Vallepietra. Il citato documentario di Giacomo Pozzi Bellini, per esempio, presentato al Festival di Venezia con grande successo, non vinse alcun premio e subì in seguito un feroce ostracismo perché non era piaciuto a Mussolini.

 

[4]. Il discorso non cambia, è ovvio, quando il potere di controllo e di gestione su una mente umana fantasticata non umana (quale che sia il livello di violenza di tale potere) viene attribuito non a una fede, istituzionalizzata o meno in una Chiesa, ma a un’ideologia, a un’appartenenza, a un rapporto autoritario, o anche solo a una moda.

 

[5]. Finché fu possibile, io seguii con lo sguardo commosso le turbe che divenivano via via sempre più piccole e sempre più lontane; e quando le vidi sparire nell’ombra della valle pensai che come le nubi salgono sui monti per ivi disciogliersi in pioggia e ritornare al mare, così quei pellegrini dopo di essere saliti sulla montagna ora ricalcando la stessa via se ne scendevano ai loro paesi per ritornare nel gran mare delle fatiche penose e delle tribolazioni infinite; nel gran mare del dolore, ove la più gran parte di loro non avrebbe mai e poi mai avuto la speranza di un porto! (Cesare Pascarella, Prose 1880 - 1890, in Paola Elisabetta Simeoni (a cura di), Fede e Tradizione alla Santissima Trinità di Vallepietra 1881 - 2006, Roma: 319. Il grassetto è mio). Ma nello stesso testo Cesare Pascarella parla di moltitudine invasata dal furore religioso (ibidem: 149) collegando così, esplicitamente, i due elementi del dolore e della rabbia che riempiono il clero di costernazione e dolorosamente affascinano gli artisti, gli scrittori, gli studiosi.

 

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