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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Prepararsi alla Resistenza1

 

Pagine della Prima Resistenza Italiana

 

Non erano ragioni valide le ragioni logiche

 

di Neri Pozza2

 

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Il nuovo entrò senza strepito. Lungo, con un sorriso appena sciolto, si fermò a sentire il catenaccio corrergli alle spalle nella chiavarda rugginosa. Disse “giorno” in piedi, misurando lo spazio, puntò gli occhi alle inferriate sentendo a due dita dal capo passare il soffitto come una pietra diaccia e il bisogno irresistibile di guardarlo sdraiato sulla paglia.

Fece qualche passo. Tra i corpi fitti s’aperse spontaneamente un varco. Vide ombre, contò dei piedi. “Ventiquattro teste” disse.

Ascoltò il silenzio dei prigionieri, trovò che non era naturale ma poteva misurarlo con pazienza.

L’aria secca, calda di gente ammucchiata, il tanfo di sudore tagliavano il fiato. Non pativa di schifo. Rideva tra sé di quei ventiquattro che lo avevano creduto nuovo e gli tornava alla memoria il suo primo periodo di carcere, pensava alle quattro cartine da sigaretta, scritte di cifre e ridotte a palline, che s’era mangiate con le guardie ai fianchi. Anche a suo padre, a sua madre pensava, ma tutto a urti, in un grande disordine d’idee tristi e affettuose.

“Potete parlare” disse, infastidito dal silenzio, “non sono un boia”.

Nessuno rispose.

“Eh, corri” disse una voce dal pancone nell’angolo.

Prima volevano dunque sapere chi fosse. Nemmeno era il caso di parlarne. Aspettò la sera con gli occhi fissi all’inferriate, accarezzando i capelli di lei, che era sfuggita all’arresto, correndo verso i colli bèrici fumanti di nebbie celesti, assediato ― non ne capiva il perché ― da voglie che lo angosciavano.

I capelli di Livia erano ricciuti e soffici e la pelle candidissima sulla nuca.

Gli pareva di vederla per la prima volta, vedere la donna vestita e distesa su di un letto qualsiasi; e lei si lasciava guardare in silenzio.

Contro il cielo oscuro le inferriate non si vedevano più; ma dal cortile salivano acute grida. Passi scomposti pestarono le scale e dalla porta spalancata irruppero nella cella due ragazzi spettinati, con le braccia sul capo e le manette, latrando come cani, e il sergente con lo scudiscio in pugno.

Egli non capiva parole. Gridavano tre insieme. Aveva visto i suoi compagni ammonticchiati come ghiaia, i due finire nell’angolo in fondo la cella, arrotolati; poi lo staffile cadere e ricadere.

S’era trovato in piedi, col capo accostato al soffitto. Disse, andando verso l’angolo, con voce tranquilla: “Basta sergente”.

Era finita così, sùbito, incomprensibilmente, con lo stridio del catenaccio nella chiavarda.

I due ammanettati stavano ancora laggiù e il moro, con aria spavalda, studiava le manette che gli serravano i polsi. L’altro aveva il viso coperto di lunghi capelli biondi.

Passava qualche parola, uno chiedeva a quei due notizie di quel caso e il biondo stava fermo, come fosse addormentato sotto i suoi lunghi capelli lisci. Chiamarono un compagno per l’interrogatorio ed egli uscì senza che nessuno quasi lo avvertisse. Parole nell’aria, masticavano e parlavano tutti. Erano passate ore. Una mano allungò al nuovo qualcosa. Egli l’addentò svogliato, masticando aveva risposto al suo vicino, si chiamava Catullo, nome di battaglia, s’intende.

Ora tutti parlavano del prigioniero ch’era stato chiamato per l’interrogatorio e il nuovo sentiva parole staccate e non frasi. Le orecchie serrate gli si aprivano e chiudevano quasi fosse sopra una ribalta, dietro le quinte a mangiare un frutto assistendo a una scena tediosa.

Il gusto acido della mela gli sciolse la lingua indurita dalla sete. Levatosi in piedi si trovò accanto ai prigionieri ammanettati, non al moro spavaldo che giudicò avesse appena toccati i diciassette anni; piuttosto all’altro che sembrava dormire sotto il disordine dei suoi capelli. In questi mise le mani, come se le mettesse in quelli di Livia. Scoperse la fronte pulita, rotonda, seguì con apprensione il lento sollevarsi delle palpebre.

Erano splendidi occhi celesti, tranquilli, dalla pupilla nera.

Occhi celesti aveva detto di chiamarsi Germano e che lo avevano bastonato cinque volte. Lo disse, e aveva in volto un sorriso pieno d’ombre, senza astio. Era stato denunciato da Lindoro, quello famoso che aveva deposto tutti i loro segreti e aveva assistito impassibile come una mummia alle torture dei compagni. Lui, percosso con catene.

Anche questo, Germano disse con voce senza rughe; limpida. Ma nel volto le ombre gli si erano addensate e i capelli gli tagliavano la fronte.

Catullo si fece mostrare le manette. “Perché?” chiese.

“Tentata evasione dalla cella nove” rispose.

“Non sono chiuse a chiave. Stanotte le toglieremo”.

La porta si spalancò di colpo, due soldati lasciarono cadere poco oltre la soglia il prigioniero chiamato poco prima all’interrogatorio. L’uomo rotolò sull’ammattonato come una bestia uccisa, vomitò sulla paglia una boccata di sangue. Sussultava rantolando.

“Pare un cane che stia per morire” disse una voce.

“Anche un gatto rabbioso” aggiunse un vicino.

La schiena del prigioniero si gonfiava di singhiozzi. Qualcuno accorse a soccorrerlo ma nessuno poté toccarlo. Dovunque si toccasse urlava. Lo lasciarono così. Strisciando avrebbe trovato modo di posarsi. In quel silenzio il pianto s’acquetò insensibilmente. Qualcuno parlava di radio clandestina.

Il catenaccio stridette, ventiquattro teste si voltarono. Apparve un lercio ragazzo, accompagnato dal sergente: portava la marmitta con la zuppa e la sporta del pane.

 

Germano aveva raccontato senza dettagli.

Lindoro, vice-comandante della brigata sabotatori, città, finì la propria missione denunciando il proprio comandante. Minacciato di percosse e di morte, di primo acchito aveva denunciato, particolareggiando, ventidue del gruppo arditi.

Lindoro pareva impazzito. Altri nomi, altri ragguagli. In tutto settantuno arresti, con accuse circostanziate, indicazioni di rifugi d’armi ed esplosivi, luoghi di ritrovo, zone di lancio rifornimenti da parte degli aerei.

La formazione s’era dispersa.

La notte nera gemeva di là dall’inferriate. I cani in cortile tiravano le catene abbaiando a colpi.

Ora gli uomini dormivano. Pigiati l’uno accanto all’altro, sudati, diritti come morti messi in fila. Nell’aria tremava un brusio simile al russare lontano di un obeso.

“Quante volte t’hanno interrogato?”

“Cinque. Ventotto passaggi di corrente elettrica. Tre volte bastonato. M’hanno promesso d’impiccarmi al palo del cortile”.

Aveva parlato come chi dicesse: “Domani andrò a comperare pane e qualcosa. Ho sempre fame”.

“Che accuse hai?”

Sorrise tirandosi i capelli sulla fronte, come un ragazzo serio cui si chieda un segreto; agitò la testa.

I cani abbaiavano.

“Lindoro ha detto: Germano è staffetta del comandante le divisioni di montagna e sa tutto dei collegamenti con la città, conosce il quartier generale e gli uomini che lo compongono”. Tacque. “Brutto boja!” sussurrò con collera.

Il cortile della caserma risuonava di passi.

Si sdraiarono. Germano mise le manette sotto la giacca che aveva arrotolata per farsene cuscino. Distendendosi chiese: “E tu, cosa sei nella lotta clandestina?” Catullo poteva non rispondere e Germano si sarebbe addormentato.

“Nulla. Preso per sbaglio”.

“Male” ribatté l’altro.

Spalla a spalla, distesi, tacquero come se avessero detto “notte” per dormire, o almeno per chiudere gli occhi. Nel cortile l’andirivieni continuava a intervalli brevissimi.

Ora il sonno dei prigionieri era mosso da un’inquietudine animale che si sfogava in colpi di tosse, sbadigli. Qualcuno nel dormiveglia ficcava le mani dentro la camicia, attorno alla cintura o al collo, grattandosi furiosamente e parlottando sguaiato.

Soltanto Germano pareva tranquillo. Con le mani sul ventre, supino, pareva dormisse da ore come un ragazzo senza pensieri.

“Male, se davvero non fai nulla per la guerra clandestina” si sentì dire all’orecchio.

“Dormi” rispose Catullo.

Voleva pensare un poco a Livia con le mani nei capelli di lei, un poco ai suoi di casa che, la sera, non l’avevano visto ritornare. Oppure alle cartine con le cifre che aveva mangiato e gli si erano sciolte in bocca, inaspettatamente. Aveva lasciato in giro qualche testimonianza? Ricordò il suo ultimo incontro col colonnello. Non era stato legato che ai comandi. Commissario C. 9. Forse una spia?

Dal cortile alle scale, alla porta della cella vi fu subbuglio. Sfilò il catenaccio, comparve il sergente: “Germano” disse, con voce dura. E continuando: “Notte da serenate, canterai. Sù, avanti”.

All’improvviso il ragazzo si trovò in piedi in mezzo ai compagni assonnati, in bilico, che lo guardavano senza dir sillaba. La porta si richiuse.

Allora voci discordi sciolsero il sonno, lo stato di tensione animale si sollevò acutissimo. Dal pancone disse la voce del vecchio calvo: “Lo ammazzeranno”.

Il ragazzo moro spavaldo, posata la schiena al muro aggiunse: “Presto lo ammazzeranno se non parla. Sarà impiccato”.

“Germano non parlerà” disse il giovane ricciuto e sporco. “Mai e mai”.

“Sa troppe cose, non lo ammazzeranno” disse uno sdraiato. “È sicuro”.

Accesero sigarette. Nessuno pensava più a dormire. Catullo taceva ancora, disteso sul dorso, pensando alle persone di casa di Germano e se quel giovane avesse una sua donna, bella d’una bellezza straordinariamente viva e tranquilla, che sapesse baciarlo. Una donna che sapesse spogliarsi per essere nuda vicino a lui, e leccargli le piaghe e i lividi delle catene, i segni delle manette ai polsi.

Ancora il giovane sporco e ricciuto chiedeva al vicino con voce di collera: “Cosa faresti tu a Lindoro, se potessi?” E quello, senza pensarci molto: “Non puoi pretendere da un uomo ciò che non possiede e condannarlo così”.

“Dico io: ha tradito non sotto il dolore delle botte, ma per paura, per viltà ha tradito. Era comandante. Tu non eri comandante, t’hanno massacrato e hai taciuto”.

“Non è questione di comandante. È questione di uomo. Ho assunto volontariamente una responsabilità e manterrò l’impegno anche se mi dovessero impiccare”.

Silenzio. Di là dall’inferriata il cielo si sbiancava

Ora, l’uno dopo l’altro, i prigionieri s’abbandonavano al sonno e Catullo pensava ancora alla donna di Germano, a lui nudo tra le braccia di lei. Respiravano ancora.

S’abbandonava a un dormiveglia leggero, la mente sospesa tra confidenze non sue, quando la porta s’aperse. Germano venne lasciato poco oltre l'’scio, accoccolato per terra, da due della guardia. Poi si ritirarono e si ritirò il sergente. Nel vano della porta il Maggiore mai visto parlava con voce di toro cattivo.

“Pensaci bene. Fino a stasera. Domattina non ti manderò nemmeno il prete. Uomini come te non ne hanno bisogno”.

La porta si chiuse, i passi si allontanarono: tutti furono in piedi. Catullo staccò le braccia tremanti nelle quali il compagno chiudeva testa e ginocchia, gli sollevò il volto bagnato di copioso sudore. Germano aveva i vestiti a brandelli e, tra gli strappi, sangue coagulato, lividi di punte tra lacerazioni profonde.

“I cani!” disse il giovane sporco e ricciuto. “Mangiato dai cani!”

Stesero una coperta, venne portata dell’acqua.

Ora Catullo svestiva lentamente Germano che tramortito si lamentava appena. Il vecchio calvo offerse del cognac. In ginocchio ventiquattro uomini osservavano in silenzio.

I fazzoletti meno sporchi uscirono dalle tasche. Troppo sporchi per bendarlo in qualche modo. Catullo sfilò la camicia.

Il cognac sulle ferite risvegliò Germano. Con grande agitazione il giovane sporco e ricciuto gli chiese allora se avesse parlato. Germano agitò il capo. Scottava, tra poco la febbre gli avrebbe tolto i sensi.

Di là dall’inferriata la luce dell’alba s’era aperta nel cielo.

 

Nel pomeriggio Germano riprese per poco i sensi, raccontò a Catullo dell’interrogatorio e dei cani. Prima, anche il capitano tedesco lo aveva picchiato col frustino. La Commissione dell’U.P.I3, vinta dal silenzio del giovane, aveva minacciato d’impiccarlo. Ma il capitano tedesco aveva tolto le museruole e i guinzagli, aveva lanciato i cani.

Il Maggiore della guardia aveva deciso che lo avrebbe impiccato il giorno dopo in cortile, presenti i settantadue detenuti della caserma, per dare una lezione esemplare.

Germano ricordava d’essere rimasto a terra pochi attimi, con quell’uomo che gli gridava sopra “impiccarti” e l’abbaiare furioso dei cani domati a colpi di staffile e ripresi a guinzaglio.

Nel cortile battevano con martelli su tavole e chiodi, al secondo rancio il sergente aveva detto che stavano preparando il teatro.

In cella a quell’ora si soffocava e il corpo del ferito mandava vampe come un forno, il suo fiato di cadavere dava spasimi allo stomaco vuoto di Catullo, che aveva ripetuto medicazioni e compresse fredde e gli stava attorno senza prestare attenzione alle parole dei compagni.

Percepiva più che non vedesse la sera calare di là dall’inferriate con un sordo frastuono. Gli offersero più tardi il rancio che rifiutò sputando a terra. Addentò il pane molle, masticava con grande stanchezza.

Qualcuno imboccava Germano che mangiava voracemente ed egli non sentiva che l’odore della verdura acida e il masticare di molte bocche, i cucchiai colpire il fondo delle scodelle di terra. Era ossessionato dall’idea che, piegandosi a terra, non avrebbe sentito nemmeno questi rumori e odori, ma gli pareva d’essere colpito da paralisi senza dolore.

Più tardi, riaprendo gli occhi, capì d’aver dormito, certo doveva essere notte alta perché qualche compagno stava disteso e, sul pancone, il vecchio calvo russava. Udì Germano parlottare incomprensibilmente; sudava, pensò freddamente che il delirio e la febbre sarebbero cessati all’alba, poco prima che venissero a prenderlo per impiccarlo.

“Il Maggiore è tornato” disse una voce dall’angolo; “lo impiccheranno stamattina”.

“In questo stato, impiccarlo?”

“Il Maggiore lo ha visto ben sveglio. È andato in delirio più tardi”.

Catullo avvertiva dentro i pensieri un movimento cui era disabituato da giorni. Come una bestia in letargo che si sveglia ― disse, tra sé ― molte bestie; e si guardò attorno spaventato di notare tanti uomini chiusi come pugni e senza pietà. Anche lui, senza. E tutti insieme in un punto d’isolamento, di diffidenza; o soltanto d’interesse sulle cose strettamente necessarie e proprie: ― mangiare, fumare, medicare Germano, ma senza tanta passione. E sentir dire a due sconosciuti, del prigioniero bastonato, cane a morte, gatto rabbioso.

Germano, agitatissimo, smaniava sul giaciglio.

Catullo provò a guardarlo, lo immaginò appiccato alla fune, nella mattina nebbiosa in mezzo al cortile. Allora la bestia in letargo che si svegliava in lui, si scrollò, uscì dalla tana correndo, e alla luce mandò un grido.

Il ferito s’agitava con la gola piena di lamenti; respirava a fatica. Catullo lo sollevò, lo fece bere.

Tutti erano svegli, fumavano e tacevano. L’incubo di quella morte imminente aveva preso alla gola i prigionieri.

Aiutò il ferito a stendersi, poi, con voce piana e chiara, disse: “Lo lasciamo impiccare?”

Girava gli occhi sugli uomini. Nel silenzio sopraggiunto si sentivano distinti i passi della sentinella sul ghiaccio.

Lentamente qualcuno s’avvicinava, facevano cerchio le teste e l’aggressività di qualche sguardo trasfigurato all’improvviso interrogava con ansia. Nel respiro corto dei compagni riuniti, Catullo disse freddo: “Non lo lasceremo impiccare”.

I corpi avevano fatto imbuto attorno a lui e al ferito, aggrappandosi l’uno all’altro.

“Ci barricheremo”, riprese, “disferemo il pancone, puntelleremo la porta con i travetti e le tavole. Fuori, il pianerottolo non è largo ottanta centimetri e una leva soltanto non serve a scardinare la porta”.

Ora, nel silenzio e nell’immobilità di tutti, parve a Catullo di sentire una sola domanda: “E dopo la barricata?”

Non sapeva cosa sarebbe successo. Nessuno se lo doveva chiedere. Bastava difendere il compagno dalla forca. Il suo istinto, su quel che sarebbe potuto succedere, lo rassicurava. Ma non poteva pretendere che altri avessero questa certezza. Allora, poiché ragionare sarebbe stato assurdo: “Io” disse “non voglio vederlo impiccare”. Il vecchio calvo del pancone, che non aveva detto sillaba, si mosse, tolse dalle tavole la paglia, arrotolò la coperta. “Presto, servitemi” disse, con voce bassissima.

Quattro uomini l’aiutarono.

Con le unghie e un chiodo Catullo scalzò una fila di mattoni dal pavimento mentre gli altri facevano forza sul legname. Il letto venne disfatto, i travetti strappati dai chiodi.

Piegarono i puntelli sulla porta: ― quattro, cinque, l’uno accanto all’altro. Servendosi delle gambe del pancone come piano d’appoggio, Catullo fece calare altre due tavole contro la porta.

“Bisogna fissare il legname e levare questi chiodi. Con le mani, otto o nove. Tu, moro, con me, ti prendi un mattone e li pianteremo. Tra poco, quando incomincia il via vai”.

Una grande stanchezza s’era abbattuta su tutti loro. Ancora Germano delirava, debole, stillando copioso sudore.

L’alba riappariva fumosa di là dall’inferriata.

 

La guardia ― quattro uomini ― s’era fermata sugli ultimi scalini, il sergente aveva messo il muso contro la spia, non aveva visto che un groviglio di puntelli. “Aprite” gridò, con collera, senza capire.

Soltanto Catullo era rimasto di fronte alla porta. I compagni stavano nell’angolo lontano, lungo la parete, piatti.

“Manda sù il Maggiore. Con te non parlo”.

Rapidamente la caserma s’agitava, il tramestìo passò i muri. Nel cortile le guardie correvano, incrociavano portando ordini da un piano all’altro. Un passo di corsa risuonò sotto i portici, poi un rumore di piedi con ferri e pedate sù per le scale.

La faccia del Maggiore, quadrata nella feritoia, si ritagliò di una croce.

“Apri” ordinò.

Il volto di Catullo sentiva il fiato cattivo e l’ira del soldato.

“Vi farò tutti impiccare” aggiunse, in un eccesso di furore.

“A noi basta” rispose Catullo “che tu stamane non faccia impiccare Germano”.

Il Maggiore scoppiò a ridere.

“Benissimo, non ho fretta. Sarà impiccato fra quattro o cinque giorni. Intanto vi lascio in gabbia a purgarvi. Vi raccoglieremo col cucchiaio"”

Rideva in un convulso di scoppi. Giù per le scale, in cortile, le pedate furono coperte dalla sua voce.

 

Alla fine del terzo giorno d’isolamenti gli uomini avevano inghiottito gli ultimi bocconi; mancava l’acqua dal mattino e Germano delirava per l’infezione delle ferite.

Ormai soltanto Catullo girava per la cella. Gli altri stavano distesi, sdraiati con la schiena al muro, infiacchiti dalla fame.

Il momento difficile era stato superato la sera avanti quando, arsi dalla sete, alcuni compagni avevano chiesto di togliere la barricata. Il ragazzo sporco e ricciuto aveva gridato saltando in piedi: “Masticate bottoni, vi passerà”.

Tutta la notte qualcuno masticò bottoni e Germano aveva tenuto la cella in allarme. Il vomito lo prendeva talvolta con accessi a vuoto, ululati, e sudore. I deliqui lo prostravano sino alla perdita dei sensi. Nei momenti di calma, ritornando in sé, altro non faceva se non domandare a Catullo pietà per gli altri. Con voce di vecchio e un gorgoglio continuo, prima che calasse la notte del terzo giorno, aveva chiamato il compagno.

“Non puoi, non puoi” pregava “per me solo! Abbi compassione. Gli altri non hanno colpa”.

“No”.

Agitava il capo in uno stato d’inquietudine indescrivibile. “Il Maggiore ammazzerà tutti” diceva.

Via via che passavano le ore, Catullo pareva diventasse più sicuro e determinato. Non capiva come l’impresa fosse potuta apparire assurda. Non erano ragioni valide le ragioni logiche.

Aveva parlato troppo, diceva. “Io voglio che il Maggiore ti consegni all’ospedale. Ti voglio consegnare moribondo, infetto. Non può occultare un cadavere. I superiori lo controllano”.

“Ci farà ammazzare tutti” insisteva il vecchio calvo.

Ormai erano tutti dominati dal coraggio di Catullo e, da quella caparbietà dura, istupiditi e ottusi. Ancora qualcuno rantolava per la sete.

Nessuno misurava più il tempo. Né osservavano se era notte o era sbiancato il cielo. Vertigini invincibili tagliavano le gambe a chi tentasse di misurare la cella in sù e giù.

Ancora faceva giorno di là dall’inferriate, si ripeteva in cortile il tramestio dei passi ferrati. Anche a Catullo quei rumori adesso parevano lontani, passati attraverso uno stato alto di ebbrezza. Immobile presso a Germano ne seguiva ancora la febbre, i deliri e le crisi.

Ormai il giovane ferito non parlava più. Articolava qualche sillaba e gridava ai cani. Nel tardo pomeriggio li sentì latrare e pianse senza singhiozzi. Il compagno aveva capito che l’infezione era entrata in una fase acutissima.

Ora la cella era disseminata di sacchi gonfi, buttati alla rinfusa l’uno accanto all’altro, pieni di rantoli e di fiati orrendi. A Catullo pareva che la Morte dovesse avere il fiato di quei suoi compagni tepidi, l’odore sotto gli abiti di fiori marciti dentro un vaso d’acqua putrida.

Nessuno si muoveva più. L’aria della cella pareva tranquilla, di morte senza dolore. Nel dormiveglia Catullo s’aggrappava ogni tanto a Livia. La ricordava appena, meglio ricordava le proprie mani nei suoi capelli. Ora gli parevano capelli freddi e, sotto, fredda la cute; poi le guance, il collo diacciati. Sentiva per la schiena morsi di brividi.

Patì la sete per la prima volta come d’una vertigine e volle gridare almeno per un po’ di saliva dalla bocca di qualcuno; ma era sete fredda, in gola e nel palato, fredda sulla lingua: ne ebbe orrore.

Dall’inferriate, per la prima volta, entrava una corrente gelata, un’aria tagliente; e non respirava con sollievo. Doveva scostarsi di là, presto. Coperse Germano, si alzò in piedi.

Raggiunta la porta s’appoggiò ai puntelli. Lentamente li toglieva dai chiodi, sudando per le vertigini. L’ultimo scivolò contro il muro strisciando, cadde sul pavimento con rumore di cassone vuoto chiuso di schianto.

Ora tornava al suo posto per dormire.

Nel cielo tagliato a quadri dalle inferriate, le stelle declinavano pallide.

Disteso, cadde in un sonno profondo.

 

 

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*

Non ho rimpianti, non ho rammarichi. Faccio questo per un alto e strano senso del dovere.

 

(Da “Filippo Beltrami”, di Piero Gadda Conti).

 

Nel clima segreto della loro lotta, nell’ardore che portavano nelle loro azioni, nei disagi, nella fame, nella paura,

nel vento che soffiava, nella neve che cadeva e, più ancora, nella forza che bisognava avere per resistere a tutto ciò,

era ― incredibile a dirsi ― la loro ricompensa. Poiché essa dava loro la certezza che sotto le umiliazioni, i silenzi,

il sonno di venti anni, gli Italiani che essi volevano essere erano rimasti intatti.

 

(Alba de Céspedes)

*

1. Parlare di ciò che non si sa, e che non si riesce neanche a immaginare, è sempre stupido e violento. Ma quando si parla della Resistenza è francamente intollerabile. Quasi come il negazionismo, forse.

Non mi riferisco ai neofascisti e ai neonazisti, dichiarati o camuffati, da cui sarebbe assurdo attendersi altro che un’insensatezza micidiale, ma proprio a noi compagni. E, tra noi, ai fragili quanto ignoranti “entusiasti”. E, tra gli entusiasti, a quelli che montano in cattedra, addirittura, pretendendo di insegnare ai partigiani come debba essere... il perfetto partigiano. Come si spegne facilmente, il vostro entusiasmo, non appena scoprite che i partigiani non erano perfetti! Cioè che non erano... come voi!

Queste pagine, scritte da militanti della Resistenza negli anni 1944-1945, sono, a mio parere, un documento straordinariamente importante di come fu, davvero, esser partigiani allora. A condizione, però, che in esse tentiamo di sentire quanto sia vasto il nostro non sapere: il nostro non poter neanche immaginare, quasi, l’immensa complessità umana di un’esperienza in cui non possiamo più entrare, poiché il mondo in cui si svolse non esiste più.

Sono pagine della rivista Mercurio, che uscì in quegli anni diretta da Alba de Céspedes e che, nel dicembre ’44 e ’45, pubblicò due numeri monografici dedicati alla Resistenza nel Sud e nel Nord Italia.

Scrisse de Céspedes in quei giorni all’editore Arnoldo Mondadori: “Non si può prescindere, ormai, mi sembra dal tempo presente, dalla tremenda avventura che abbiamo vissuto. Io sono molto cambiata. La mia esperienza del passaggio delle linee, la vita dura, i disagi, tutto quello che ho visto nel Sud, il nostro paese distrutto, la nostra gente senza tetto, affamata mi ha profondamente mutato. Non sono più quella ragazza alla quale piacevano tanto le tuberose. Lavoro e sopravvivo, ormai, lottando aspramente. E tuttavia ho ancora tante cose da dire e da scrivere” (da Alba de Céspedes, Romanzi, a cura di Marina Zancan, Milano, Mondadori, 2011, p. lxxxviii). E ai primi di gennaio del ’46, a proposito di Anche l’Italia ha vinto, il volume della rivista, appena uscito, dedicato alla Resistenza nel Nord: “Da questo volume non si potrà prescindere, un giorno, per la storia d’Italia” (ibid.)

Penso anch’io che sia così, e per questo trascriverò su ScuolAnticoli molte altre di queste pagine, nei prossimi mesi. Non “solo” per la Storia d’Italia, tuttavia. Non “solo”, voglio dire, per la storia della “Prima” Resistenza Italiana. Ma anche per prepararci a quella “Seconda” Resistenza che dovrà pur iniziare, spero tra non molto, prima che la schiavitù in cui l’Italia e il mondo stanno precipitando diventi irreversibile e, a quel punto, non meno disumana dell’oppressione nazifascista.

Certo, la “Seconda” sarà una Resistenza nuova, rispetto all’altra, o non sarà affatto. Sarà, mi auguro, non violenta, e tuttavia così possente, pur nella sua necessaria spontaneità, da travolgere ogni tentativo di reazione. Ma dalla memoria della “Prima” non potrà prescindere. Anche se quella memoria dovrà essere del tutto immaginaria? No: io direi soprattutto perché dovrà essere immaginaria.

 

2. Neri Pozza (Vicenza, 5 agosto 1912 – Vicenza, 6 novembre 1988) è stato partigiano, scrittore ed editore. Fu inoltre artista, incisore e collezionista d'arte contemporanea.

 

3. Ufficio Politico Investigativo. Dal sito dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani: “La repressione del movimento resistenziale e delle lotte operaie ― come la caccia agli ebrei ― trovarono un concretissimo aiuto nelle formazioni di polizia del risorto fascismo repubblicano, prima fra tutte la squadra d’azione (poi battaglione, poi legione autonoma) Ettore Muti, cui si affiancheranno la Guardia nazionale repubblicana (GNR) e il suo famigerato Ufficio politico investigativo (UPI) e, nell’estate 1944, la brigata nera Aldo Resega, più la banda Koch e una ventina circa di sedicenti polizie speciali”.

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La tortura, di Renato Birolli (1944)

Dai al tedesco, di Renato Birolli (1944)

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