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Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Luci della città

 

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Titolo: Luci della città.

Titolo originale: City Lights.

Regista e autore della sceneggiatura: Charles S. Chaplin.

Paese di produzione: Stati Uniti.

Anno di produzione: 1931

Attori principali: Virginia Cherrill (la Ragazza cieca), Florence Lee (sua Nonna), Harry Myers (lo Strano milionario), Allan Garcia (il suo Cameriere), Hank Mann (il Pugile professionista), Charles S. Chaplin (il Vagabondo).

Durata: 1h 21’.

 

Il regista

Charles S. Chaplin

 

Il film

 

Dal Morandini 2009, di Laura, Luisa e Morando Morandini, Bologna, Zanichelli, pp 833-834: “Un vagabondo fa amicizia con un riccone che gli è amico soltanto da ubriaco e s’innamora di una bella ragazza cieca che vende fiori per la strada. All’avvento del fonofilm C. Chaplin reagisce in coerenza con la propria poetica: per lui il parlato guasta l’arte più antica del mondo, la pantomima. Perciò ― pur attraverso esitazioni, timori, ripensamenti e rifacimenti che gli costarono due anni di lavoro ― City Lights è concepito come un film muto con accompagnamento musicale. Critica e pubblico si trovarono d’accordo su un’opera che, affrontando ancora i temi della solitudine e dell’illusione, è tuttavia un inno alla vita e alla sua bellezza. Sequenze celebri: l’inaugurazione della statua; l’incontro con la fioraia e il riconoscimento finale (Sì, adesso ci vedo); il milionario ubriaco che vuole suicidarsi; il fischietto inghiottito da Charlot. B. Brecht si è ispirato alla figura del milionario per alcune scene di Puntila e il suo servo Matti. Nella scena del night club s’intravede Jean Harlow tra le comparse. La canzone La violetera è di Josè Sánchez Padilla (1889-1960), compositore spagnolo.

 

“Cercai di comporre una musica romantica ed elegante, che fosse in contrasto col personaggio del Vagabondo, perché la musica elegante conferiva ai miei film una dimensione affettiva. Questo gli arrangiatori lo capivano di rado. Loro volevano che la musica fosse divertente. Ma io spiegavo che non volevo fare concorrenza alla comicità dell’azione, volevo che la musica fosse un contrappunto di grazia e delicatezza, che esprimesse il sentimento. Senza il quale, come dice Hazlitt, l’opera d’arte è sempre incompleta” (Charles S. Chaplin, La mia autobiografia, trad. italiana di Vincenzo Mantovani, Verona, Mondadori, 1964, pp 392-393).

Il commento di Luigi Scialanca

 

“Dev’essere ricco...” dice la Nonna quando la Ragazza ― la povera fioraia ambulante, cieca solo perché non ha i soldi per operarsi ― le racconta che lui le ha comprato tutti i fiori e l’ha accompagnata a casa in automobile. “Sì. Ma è più che quello” replica la Ragazza, lo sguardo fisso che per un attimo si riempie di gioia, ravvivato dalla speranza, dalla possibilità, forse già dalla realtà dell’amore.

 

Son poche le didascalie di Luci della città. Che Charlie Chaplin volle muto, benché gli amici lo sconsigliassero, contro il mondo intero che da tre anni impazziva per il cinema sonoro e non chiedeva altro. Muto ma insieme sonoro, intessuto di musica bellissima, commovente, e di suoni invece buffi, grotteschi. Come se la voce umana vera, la voce degli affetti le rare volte che trovano voce, solo la musica possa “recitarla” senza falsarla e avvilirla. E al sonoro macchinalmente riprodotto, perciò, e alla tecnica che gli ha permesso di invadere le sale cinematografiche, non si possano affidare che i piccoli o grandi rumori che talvolta “sfuggono” suggerendo quel che altrimenti non si oserebbe immaginare: come il gracidio disumano che intontisce la folla attraverso i microfoni e gli altoparlanti dei comizi; o i fischi incontrollabili che interrompono indecorose esibizioni salottiere; o le percussioni ― quando non i colpi di pistola ― che ritmano la violenza di ogni incontro-scontro, negli anni del capitalismo trionfante.

 

Le didascalie sono poche, dunque, in Luci della città, e pochissime dicono qualcosa che solo il linguaggio verbale può dire: “Sto guidando?!” ― “Venga ogni volta che lo desidera, signore” ― “Signora, paghi quel che ci deve o la sfrattiamo” ― “Un medico viennese guarisce i ciechi” ― “Magnifico! Così potrò vederla!” ― “Sei in ritardo per l’ultima volta: levati dai piedi!” ― “Questo è per l’affitto. E questo per i suoi occhi” ― “Ho fatto una conquista” ― “Sì, ci vedo adesso” ― the end. E una delle più importanti è quella che ho citato all’inizio: “Dev’essere ricco...” ― “Sì. Ma è più che quello”.

 

Più che ricco dev’essere l’uomo che la Ragazza potrebbe amare. Che forse già ama. Non s’innamorerebbe mai di uno che fosse solo ricco. E questo è il massimo di umanità possibile, nella città che il capitalismo trionfante plasma a sua immagine. O meglio: il massimo di umanità possibile a chi, in quella città, non è il Vagabondo. Compresa la Ragazza. Che del Vagabondo non dirà, alla fine, che è “più che povero”. Poiché in quella città ― che è anche la città della Ragazza, la città che nemmeno lei riesce davvero a sconfiggere dentro di sé ― un ricco può, sia pure assai di rado, arrivare a esser più che solo ricco... Ma un povero no: un povero non potrà mai essere più che quello, agli occhi dei sudditi del capitalismo trionfante resi ciechi dalle luci accecanti della città. Compresa la ragazza.

 

Doveva essere, nelle intenzioni originarie di Charlie Chaplin, un film sulla cecità. Divenne, invece, un film sulle vittime della “cecità” altrui: su quelli che gli accecati non vedono e non vogliono vedere. Guai ai quali, se inavvertitamente si fanno vedere. Guai, se senza volerlo costringono a vederli.

 

“Sa che le prenderà!” ridono, estasiati, i commentatori della sequenza il cui il Vagabondo sale sul ring nel disperato tentativo di vincerli a pugni, i soldi che non ha per aiutare la ragazza, accettando la logica malata e violenta che presiede alla distribuzione delle risorse nella città del capitalismo trionfante: logica che è la stessa ovunque, nei luoghi di lavoro come in prigione, in borsa come in banca, ma nella quale ai poveri rimasti umani non è concesso d’inserirsi se non si lasciano spogliare della propria dignità, deridere e massacrare. “Sa che le prenderà!” ridono, estasiati, vedendolo “prepararsi” all’incontro cercando in ogni modo di “ingraziarsi” gli avversari: fino a sollevare per loro le corde del ring per aiutarli a salirvi, dopo che nessuno al mondo ha aiutato lui a non farlo; fino a tentar di sedurli, fisicamente, letteralmente, pronto a rinunciare perfino alla virilità per difendere la Ragazza da quelli che son pronti perfino a rinunciare alla virilità per vincere l’“eterna” guerra tra maschi che esclude e distrugge le donne.

 

“Sa che le prenderà!”, tuttavia, non è proprio esatto. Il Vagabondo non è Gandhi: mettetelo alle strette e reagirà a pugni e calci, anche. E vincerà, talvolta, avendo dalla sua la “fortuna” di chi, per l’umanità che ha serbato, si rivela spesso imprevedibile anche alla più raffinata balistica razionale.

 

E però sì, sa che le prenderà. Per questo cerca di passare inosservato: perché sa, o intuisce, che la sua è resistenza estrema, ancorché non violenta, all’imperversare del capitalismo trionfante. Al punto di resistere anche al lavoro ― ebbene sì ― poiché non c’è più dignità, nel lavoro, in anni come questi: e chi a ogni costo tenta, si sforza, di lavorare, be’, quello lo mettono a raccogliere la merda degli animali ― cani, asini, perfino elefanti ― che nella città delle luci che accecano son più cittadini di lui.

 

Una resistenza così estrema deve nascondersi: basta uno sbirro sfaccendato; basta un Cameriere che riesca, umiliando, a credersi un padrone anziché l’ultimo dei servi; bastano due ragazzacci mal cresciuti; chiunque, insomma, per la rabbia di non poter stroncarlo “dentro”, può assestare al resistente il colpo che lo spingerà giù per la china del carcere. E il Vagabondo si nasconde così bene, che nella prima sequenza del film addirittura non c’è. O meglio: c’è senza esserci, nascosto dal telo che copre l’inaugurando monumento “alla Pace e alla Prosperità” che la città delle luci che accecano dedica, senza rendersene conto, alla Guerra contro i poveri, alla Miseria, alla Malattia e alla Morte di ognuno di loro singolarmente preso ― oh sì, uno per uno saranno stanati ― e tuttavia non visto, perché la città è cieca.

 

Gracidano e stridono, disumane, le voci dei comizianti, ma alla folla accecata quei suoni rivelatori non svelano niente: vuole esser cieca, quella folla, e luci e statue che l’accechino sempre più. Ma tra le braccia della “Giustizia”, o di quel che è, dorme il sonno del giusto il Vagabondo, e questa volta non è come quando va per le vie, lento e perciò invisibile, tra le migliaia di “comparse” (di nome e di fatto) che corrono, corrono sempre non vedendo che le luci che le accecano: questa volta è impossibile non vederlo, perché la folla è lì per (non) vedere, per ottenere attraverso gli occhi un’altra dose di cecità, e invece il Vagabondo, involontariamente, la costringe a vederlo : a vedere il povero e a vedere che il povero resiste, non si è lasciato accecare, vede, sa, e si siede sulla faccia dell’“eroe” di Guerra, e si allaccia le scarpe su una mano della “Pace”, e fa “marameo” con l’altra! Così che la folla, che contro di lui era malata di mente senza saperlo, malata di mente si scopre e si scatena: iniziando da lì, da quel preciso istante, il lungo inseguimento inesorabile che tra pochi giorni caccerà il Vagabondo in prigione. Per quale crimine? Per esser diventato visibile, benché senza volerlo, a dispetto delle luci della città che acceca.

 

Ma davvero è una coincidenza? Assodato che non è stato il Vagabondo a causarla ― non esser visto è ciò che più vuole, è tutto ciò che ancora chiede alla città che non vuol vederlo, e da cui se visto non potrà che prenderle ― come mai a un certo momento, contro di sé e contro di essa, diventa visibile?

 

Nessuno è dalla sua parte, in questa città. Neanche i ragazzi ― e bambini non se ne vedono: il Monello, dieci anni dopo, sembra essersi volatilizzato senza lasciare eredi. Chiunque riesca a vedere il Vagabondo, pertanto, è qualcuno che vederlo non vuole, che si credeva al riparo dalla sua vista, nella città delle luci che accecano e del sonoro che assorda, e che è pronto a consegnarlo agli sbirri perché lo facciano sparire tra le mura del carcere e magari, se possibile, buttino la chiave dove nessuno possa più ritrovarla. Eppure, malgrado ciò, per qualche tempo il Vagabondo da qualcuno è “visto” e invece amato, nella città del capitalismo trionfante: dalla Ragazza e dallo Strano milionario.

 

Ma come fanno a vederlo? La Ragazza con l’immaginazione, che la cecità fisica non solo non le ha tolto, ma forse al contrario l’ha aiutata a salvare dalle luci della città che acceca. E lo Strano milionario con l’ubriachezza, in cui tenta di sfuggire al dolore per l’abbandono della moglie.

 

Immaginazione, da un lato; dolore, dall’altro: “affetti”, “forze”, “condizioni” ― come chiamarli? Non lo so. Ma in compenso son sicuro dell’aggettivo: non razionali.

 

Malattia fisica, la cecità immaginosa della Ragazza, e malattia psichica, l’immaginosa depressione dello Strano milionario, rendono il Vagabondo visibile umanamente e perciò da amare, aiutare e accettare come aiutante, anziché da braccare e distruggere. Lo Strano milionario lo chiama amico, come se in depressione avesse ritrovato il vedere umano che gli uomini, per gli uomini, sono amici; e la Ragazza s’innamora, come se nella cecità avesse ritrovato il vedere umano che anche un povero, per una donna, può essere più che quello. Ma è un inganno, un brutto tiro non del “destino”, che non esiste, ma della violenza della città che per quanto potente non può dispiegarsi, talora, senza dar luogo a imprevisti “effetti collaterali” che per qualche tempo, inavvertitamente, le sono nemici: come una cecità che il capitalismo trionfante non ha curato per pura avarizia, o un abbandono che neanche il possesso di un trionfante capitale ha potuto rendere trascurabile... No, Vagabondo, ti sbagli, non c’è amicoinnamorata, per te, nella città delle luci che accecano: lo Strano milionario, non appena sobrio ― quello Strano milionario che del resto, anche da “buono”, stava per ammazzarti nel fiume con sé ― si rivelerà altrettanto disumano del suo Cameriere, ti “riconoscerà” come ladro e ti farà arrestare; e la Ragazza, non appena guarita, si ammalerà “altrimenti” quel tanto che basta, pur riconoscendoti, per non amarti più.

 

Ma è davvero così? Non so. E forse non c’è risposta e non può esserci ― non assoluta, non definitiva ― in un capolavoro come Luci della città.

 

Il fatto è che Charlie Chaplin e Virginia Cherrill si stimavano, ma non si piacevano: “Non sono mai piaciuta a Charlie. E lui non è mai piaciuto a me” ripeteva la debuttante ventenne ancòra cinquant’anni dopo. Lui non piaceva a lei? Lei non piaceva a lui? Ma possiamo supporre che non sia stato sempre così: non, almeno, il giorno in cui lui, famoso e amato in tutto il pianeta, volle lei del tutto sconosciuta come protagonista della sua opera maggiore. E concluderne, dunque, che se l’antipatia di lei insorse in seguito, durante l’interminabile lavorazione del film ― tre anni in tutto, e le tre scene cruciali ripetute per settimane ― evidentemente non poté scaturire che dall’antipatia professionale che a poco a poco insorse in lui: dal fatto che Chaplin, cioè, secondo testimoni e qualche spezzone di riprese, pur continuando a vederla fisicamente perfetta per quella parte, lavorando con lei si accorse che qualcosa non andava. Che lei giorno e notte era sempre più che contenta del “rango” a cui era assurta ― come no ― ma che in nessun momento arrivava a sentire la Ragazza più di sé stessa, durante il lavoro.

 

Lo dico per aver modo di avanzare preliminarmente l’ipotesi che siano solo errori di Virginia Cherrill, i due momenti d’odio che la Ragazza lascia trasparire, mentre duetta col Vagabondo.

Ma Chaplin gliel’avrebbe lasciati “passare”? Lo stesso Chaplin, dico, che le fece ripetere le scene più importanti per settimane? E che a un certo punto, furibondo, la cacciò dal set e cercò seriamente di sostituirla con Georgia Hale, la protagonista de La febbre dell’oro? Chaplin, dico, le avrebbe lasciato passare due errori capitali nelle due scene più belle e più significative del film?

 

All’inizio. Quando la Ragazza, “senza volerlo”, fa il bagno al Vagabondo con la risciacquatura di un vaso da fiori. Lì lo sguardo di Virginia Cherrill per un istante non è quel mirabile “guardarmi interiormente, senza vedermi” che Chaplin le chiedeva per rappresentare, della Ragazza, la veggente cecità. Lì lo sguardo di Virginia Cherrill è quello di una furbetta che sa benissimo cosa sta facendo e perché.

 

E alla fine. Quando la Ragazza, guarita, “riconosce” il Vagabondo. Lo “riconosce” toccandolo, si badi, e accarezzandogli una mano: lo “riconosce”, cioè, senza guardarlo benché fisicamente ora lo veda: lo “riconosce”, cioè, per forza d’amore non razionale: una “varietà” d’amore che può durare tutta la vita (anche se quasi mai insieme) e che conferisce una visione talmente esatta che neanche mille città dalle luci accecanti potrebbero affievolirla. Eppure. In quello stesso momento. Portandosi al petto la mano del Vagabondo: in quel momento!, la Ragazza ― o Virginia Cherrill? ― per un attimo visibilmente recita. Cioè (se non è un errore di recitazione di Virginia Cherrill) la Ragazza in quel momento finge.

 

Sufficienti, questi due “errori” ― se, dopo tutto, non furono errori di Cherrill, ma ubbidirono a precise direttive di Chaplin ― a far supporre che la Ragazza abbia finto e calcolato sempre. Che fin dall’inizio si sia detta: “Quando mai potrei irretire un vero riccone? Non esistono, nella realtà, ricconi che siano più che quello. Ma un povero che sia rimasto umano, quello sì che farà tutto ciò che vorrò, se s’innamorerà di me. Niente chiedendo in cambio. Mai permettendosi di vedere in me l’abile furbetta che sono. Guardandomi con lo stesso amore, cieco, fino al (per me) lieto the end. E senza che debba sentirmi tanto cattiva per la mia scaltrezza: come potrei salvarmi, altrimenti, in una città come questa?”

 

Lo confermerebbe, del resto, la freddezza con cui la Ragazza, ora che ci vede, ride delle angherie che il Vagabondo subisce dai due ragazzazzi proprio davanti alla sua bella, ricca vetrina. Da come ride di lui, mentre chiunque, se rimasto umano, soffrirebbe con lui per l’umiliazione che egli sta subendo. Chiunque ma non lei, purtroppo. Lei ride. Come se solo la cecità fisica le avesse impedito di farsi beffe dei miserabili, quando era una miserabile ― e una ragazzaccia? ― anche lei.

 

Speriamo di no. Speriamo che tutto ciò non sia che meravigliosa ambiguità, dal regista consapevolmente o inconsapevolmente voluta per impedirci di tornare scioccamente tranquilli nelle nostre accecanti città, dopo il film, uscendo troppo in fretta dal buio un po’ “misterioso” del cinema.

 

Poiché, se così non fosse, dovremmo pensare che qualcosa si sia deteriorato, fra il ’21 e il ’31, nel Chaplin de Il monello e de La febbre dell’oro. Forse per aver troppo frequentato William Randolph Hearst, il citizen Kane a cui Orson Welles si preparava ad infliggere con Quarto potere il colpo artisticamente mortale di cui Chaplin non era e non sarebbe mai stato capace? Per non aver capito cosa davvero cercava di ritrovare in sé stesso, richiamando accanto a sé quella Georgia Hale che nel Klondyke de La febbre dell’oro era riuscita a vedere nel Vagabondo ben più che quello? E dunque per aver disperato, per non dire perduto, quel rapporto con la donna senza il quale nessuna resistenza è possibile?

 

Forse non lo sapremo mai. E allora, in fondo, meglio immaginare che il the end di Luci della città sia stato invece un nuovo inizio, per la Ragazza e il Vagabondo. Dopo tutto, nel 1931 Charlie Chaplin era ben lontano dall’essere finito: nel 1936 il Vagabondo si sarebbe congedato dal pubblico di Tempi moderni incamminandosi verso l’orizzonte con la Monella, la bellissima Paulette Goddard. E nel 1940, ancora con Paulette Goddard, avrebbe sconfitto Il grande dittatore Adenoid Hynkel.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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