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con lo pseudonimo di Richard Bachman
Blaze
traduzione di Tullio Dobner
2007 - Sperling & Kupfer Editori, Milano La Biblioteca di Repubblica - L'Espresso
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Guai all’insegnante il cui solo nome è Legge... |
La copertina del libro. |
Un nome grande per un intelletto così piccolo...
C’è chi pensa che gli Stephen King non vedano altro orrore che la violenza materiale, fisica, nella Scuola e nella Società. Ebbene: non è così.
Un nome grande per un intelletto così piccolo..., dice a Clayton Blaisdell jr l’insegnante di aritmetica e preside Martin Coslaw, detto dagli alunni Legge. Basta questa frase, anche a chi non abbia letto Stand by me né altro, per comprendere che King sa bene che il primo orrore, da cui tutti discendono, è in chi disprezza e deride e ha a noia i piccoli.
Nei Martin Coslaw è l’origine dell’orrore. In chi non sa vedere, e amare, e rispettare, e temere l’umano in primo luogo nei bambini.
Poi, quanto male costoro in concreto facciano non dipende che da quanta impunità le circostanze permettono o sembrano permettere loro. Ma mai così tanto ― mai ― come quando hanno il destro di celare l’orrore sotto il manto delle Regole, della Legge, dell’Ordine. Allora non c’è più limite ai loro crimini, perché allora si ergono a Limite proprio i Martin Coslaw, che hanno smarrito il solo limite che è in noi per natura. |
Quando Clayton Blaisdell, Jr arrivò alla Hetton House, c’era una direttrice. Non ricordava il suo nome, solo i suoi capelli grigi e i suoi grandi occhi grigi dietro le lenti degli occhiali e che leggeva loro la Bibbia e che finiva tutte le adunate mattutine con: Fate i bravi bambini e prospererete. Poi un giorno non ci fu più, perché aveva avuto un colpo. All’inizio Blaze pensava che volesse dire che qualcuno le aveva dato un colpo, ma alla fine aveva capito: era un colpo apoplettico, una specie di mal di testa che non va più via. Venne a sostituirla Martin Coslaw. Blaze non avrebbe mai dimenticato il suo nome, e non solo perché i bambini lo chiamavano Legge. Blaze non lo dimenticò più perché Legge insegnava Aritmetica. L’Aritmetica si insegnava nell’Aula 7 al secondo piano, dove in inverno faceva freddo da congelare le palle anche a una statua. Alle pareti c’erano ritratti di George Washington, di Abraham Lincoln e di suor Mary Hetton. Suor Hetton aveva la pelle bianca e i capelli neri tirati all’indietro e ritorti in una specie di gomitolo dietro la testa. Aveva occhi scuri che alle volte, dopo che erano state spente le luci, riapparivano per accusare Blaze di questo o quello. Soprattutto di essere scemo. Probabilmente troppo scemo per le superiori, proprio come sosteneva Legge. L’Aula 7 aveva un vecchio impiantito giallo e odorava sempre di vernice per pavimenti, un effluvio che a Blaze faceva venire sempre sonno anche quando era sveglissimo. C’erano nove plafoniere a sfera, punteggiate di escrementi di mosche, che nei giorni di pioggia spargevano una luce sottile e triste. C’era una vecchia lavagna e sopra di essa c’erano cartelli verdi su cui marciava l’alfabeto nelle lettere del Metodo Palmer, sia quelle maiuscole sia le minuscole. Dopo l’alfabeto venivano i numeri da 0 a 9, così belli ed eleganti che solo a guardarli ti facevano sentire più stupido e inetto che mai. Il legno dei banchi era intagliato da un sovrapporsi di slogan e iniziali, per la maggior parte ridotti a fantasmi da ripetute levigature e riverniciature, ma mai cancellati del tutto. Erano imbullonati al pavimento su dischi di ferro. Ogni banco aveva un calamaio. I calamai erano pieni di inchiostro. Se versavi l’inchiostro ti prendevi una vergata in bagno. Segni neri delle suole delle scarpe sul pavimento giallo valevano una vergata. Anche se cazzeggiavi in classe ti prendevi una vergata, solo che cazzeggiare in classe si chiamava Cattiva Condotta. C’erano altri reati puniti con la cinghia; Martin Coslaw era un convinto assertore delle vergate e della Paletta. Niente alla Hetton House era temuto tanto quanto la Paletta di Legge, nemmeno il babau che si nascondeva sotto il letto dei più piccoli. La Paletta era una spatola di legno di betulla, molto sottile. Legge vi aveva trapanato quattro fori per diminuirne la resistenza all’aria. Era un appassionato di bowling e giocava per una squadra che si chiamava The Falmouth Rockers, e qualche volta, il venerdì, si presentava a scuola con addosso la casacca. Era blu scuro e sul taschino aveva il suo nome ― MARTIN ― in corsivo dorato. A Blaze le lettere scritte in quel modo sembravano quasi (ma non del tutto) quelle del Metodo Palmer. Legge diceva che nel bowling e nella vita, se una persona incassa i suoi spare, gli strike vengono da sé. Aveva un braccio destro irrobustito da tutti quegli strike e quegli spare, e quando vergava qualcuno con la Paletta faceva un male da cani. Si sapeva dell’abitudine di prendersi la lingua tra i denti mentre amministrava la Paletta a un bambino colpevole di Condotta particolarmente Cattiva. Alle volte se la morsicava così forte da farla sanguinare, e per un po’ alla Hetton House ci fu un bambino che, oltre a Legge, lo chiamava Dracula, ma poi quel bambino ce l’aveva fatta e non l’avevano più visto. Farcela significava che la famiglia in cui ti avevano mandato ti aveva tenuto, magari persino adottato. Martin Coslaw era odiato e temuto da tutti i ragazzi della Hetton House, ma nessuno lo odiava e temeva più di Blaze. In Aritmetica Blaze era disastroso. Era riuscito a riafferrare il concetto di due mele più tre mele, ma solo con un grande sforzo, e un quarto di mela più mezza mela era qualcosa che gli sarebbe rimasto per sempre irraggiungibile. Per quel che ne sapeva, le mele funzionavano solo a morsi. Fu per il corso di Aritmetica Uno che Blaze mise a segno il suo primo colpo, aiutato dall’amico John Cheltzman. John era smilzo, brutto, allampanato e pieno d’odio. Raramente l’odio era visibile. Era quasi sempre nascosto dietro i fondi di bottiglia dei suoi occhiali tenuti insieme con il nastro adesivo e i frequenti ragli da bifolco idiota che erano il suo modo di ridere. Era un bersaglio naturale per i ragazzi più grandi e più forti. Lo pestavano che era un piacere. La sua faccia veniva strofinata nella terra (in primavera e in autunno) o nella neve (d’inverno). Le sue maglie venivano spesso strappate. Raramente usciva dalle docce senza una sonora sculacciata con asciugamani inzuppati d’acqua. Si spazzava via la terra o la neve, s’infilava nei calzoni i lembi della maglia strappata, o rideva ragliando massaggiandosi le natiche arrossate, e non lasciava che il suo odio si vedesse. Né la sua intelligenza. Era bravo a scuola, molto bravo, non poteva farne a meno, ma più che la sufficienza non prendeva quasi mai. Più che la sufficienza era una cosa mal vista. Alla Hetton House, più che la sufficienza equivaleva a pezzo di stronzo. E a un fracco di botte. All’epoca Blaze stava cominciando ad assumere le sue attuali dimensioni. Ancora non c’era arrivato, non a undici o dodici anni, ma aveva imboccato la strada. Era grosso quanto alcuni dei ragazzi grandi. Lui non partecipava ai pestaggi in cortile o alle sculacciate con gli asciugamani alle docce. Un giorno, mentre era in fondo al cortile, vicino al recinto, a non fare niente oltre a osservare i corvi che si posavano sui rami degli alberi e spiccavano nuovamente il volo, John Cheltzman gli si avvicinò e gli offrì un accordo. “Avrai di nuovo Legge per matematica questo semestre,” disse John. “Altre frazioni.” “Odio le frazioni,” rispose Blaze. “Io faccio i tuoi compiti se tu fai smettere a quegli scimmioni di pestarmi. Non te li farò tanto bene da insospettirlo, non così bene da farti scoprire, ma basterà per farti tirare avanti. Non dovrai fare il palo.” Fare il palo non era brutto come essere vergati, ma era brutto lo stesso. Bisognava restare in piedi nell’angolo dell’Aula 7 con la faccia al muro. Non si poteva guardare l’orologio. Blaze rifletté sulla proposta di John Cheltzman, poi scosse la testa. “Capirà. Mi chiamerà fuori per un’interrogazione orale e capirà.” “Tu ti giri verso di noi come se stessi pensando,” spiegò John. “Ti suggerisco io.” E così John fece. Scrisse le risposte per Blaze e Blaze le copiò scrivendo numeri che inutilmente volevano somigliare a quelli del Metodo Palmer sopra la lavagna. Ogni tanto Legge lo chiamava per interrogarlo e allora Blaze si alzava e si guardava intorno, dappertutto meno che in direzione di Martin Coslaw, e in questo non c’era niente di strano, era il modo in cui reagivano tutti quelli che venivano interrogati. Vagando per la classe, il suo sguardo giungeva su Johnny Cheltzman, scompostamente seduto vicino alla porta del ripostiglio dei libri con le mani sul banco. Se il numero che voleva sapere Legge era inferiore o uguale a dieci, John glielo mostrava con le dita. Se era una frazione, John chiudeva i pugni. Poi li apriva. Era molto svelto. La mano sinistra era la metà superiore della frazione, la destra era quella inferiore. Se il numero di sotto era superiore a cinque, John chiudeva di nuovo i pugni e poi usava entrambe le mani. Blaze non aveva difficoltà con tutti questi segnali, che molti avrebbero trovato più complicati delle frazioni che dovevano rappresentare. “Allora, Clayton?” lo sollecitava Legge. “Stiamo aspettando.” E Blaze diceva: “Un sesto.” Non doveva rispondere sempre giusto. Quando lo raccontò a George, George ne fu ammirato. “Bellissimo trucchetto. Quando è saltato?” Saltò dopo le prime tre settimane, e quando Blaze ci pensò ― era capace di pensare, solo che gli ci voleva del tempo ed era un lavoro faticoso ― si rese conto che Legge doveva essersi insospettito fin dall’inizio del suo imprevisto miglioramento in matematica. Aveva solo preso tempo. Aveva solo allungato un po’ la corda con la quale Blaze si sarebbe impiccato da sé. Ci fu un compito in classe a sorpresa. Blaze si meritò uno zero. Questo perché il compito era tutto di frazioni. Il compito in classe era stato assegnato a un solo scopo, quello cioè di smascherare Clayton Blaisdell, Jr. Sotto lo zero c’era una nota in vivide lettere rosse. Blaze non riuscì a decifrarla, così la mostrò a John. John la lesse. Sulle prime restò in silenzio. Poi disse a Blaze: “Questa nota dice: Ricominceranno a pestare John Cheltzman.” “Come? Eh?” “Dice: Presentati nel mio ufficio alle quattro.” “Per cosa?” “Perché ci siamo dimenticati i compiti in classe,” rispose John. Poi precisò: “No, non ti sei dimenticato tu. Sono stato io a dimenticarlo. Perché la sola cosa che avevo in mente era di togliermi di dosso quegli scimmioni. Adesso tu me le darai e poi Legge mi vergherà e poi gli scimmioni riprenderanno a menarmi. Dio del cielo, quanto vorrei essere morto. E aveva proprio la faccia di chi lo avrebbe preferito. “Ma io non te le voglio dare.” “No?” John lo guardò con gli occhi di chi tanto vuole credere senza riuscirci del tutto. “Non potevi farci niente, tu, non potevi mica scrivere il mio compito!”
L’ufficio di Martin Coslaw era una stanza abbastanza ampia con la scritta PRESIDE sulla porta. Dentro c’era una piccola lavagna, dirimpetto alla finestra. La finestra s’affacciava sul misero cortile della Hetton House. La lavagna era impolverata di gesso e di frazioni, il tallone d’Achille di Blaze. Quando Blaze entrò, Coslaw era seduto alla sua scrivania. Accigliato per nessuna particolare ragione. Blaze gli offrì un ulteriore motivo per essere accigliato. “Bussa,” disse. “Come?” “Torna fuori e bussa,” disse Legge. “Oh.” Blaze si girò, tornò fuori, bussò e rientrò. “Grazie.” “Prego.” Coslaw lo guardò accigliato. Prese una matita e cominciò a tamburellarla sulla scrivania. Era una matita rossa di quelle per segnare gli errori. “Clayton Blaisdell, Junior,” recitò. Rimuginò. “Un nome grande per un intelletto così piccolo.” “Gli altri bambini mi chiamano...” “Non mi importa come ti chiamano gli altri bambini. Io sono un insegnante di Aritmetica, il mio compito è preparare al liceo i giovani come te, posto che si possa prepararli, e anche insegnare loro la differenza tra giusto e sbagliato. Se le mie responsabilità si limitassero all’insegnamento dell’Aritmetica ― e non sai quante volte lo preferirei, quanto spesso vorrei che così fosse ― mi preoccuperei di fare questo e nient’altro, ma io sono anche il preside, perciò devo insegnare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, quod erat demonstrandum. Sai che cosa significa quod erat demonstrandum, signor Blaisdell?” “No,” rispose Blaze. Gli si stava inabissando il cuore e sentiva la pressione delle lacrime negli occhi. Era fisicamente grande per la sua età, ma in quel momento si sentiva piccolo. Piccolo e sempre più piccolo. Sapere che era proprio come Legge voleva che si sentisse non l’aiutava. “No, e mai lo saprai, perché anche se riuscissi a concludere il primo anno di liceo, cosa di cui dubito, non ti avvicinerai mai alla Geometria più della fontanella dell’acqua in fondo al corridoio.” Legge congiunse i polpastrelli delle mani e si dondolò sulla sua poltrona. La casacca da bowling, appesa allo schienale, dondolò con lui. “Significa come volevasi dimostrare, signor Blaisdell, e quello che io ho dimostrato con il mio piccolo compito in classe è che tu sei un imbroglione. Un imbroglione è una persona che non conosce la differenza tra il bene e il male. QED, quod erat demontsrandum. Di conseguenza, punizione.” Blaze abbassò lo sguardo al pavimento. Sentì aprirsi un cassetto. Qualcosa ne fu estratto prima che venisse richiuso. Non ebbe bisogno di alzare gli occhi per sapere che cosa stringeva ora nella mano Legge. “Io aborro gli imbroglioni,” dichiarò Coslaw, “ma sono consapevole dei tuoi limiti mentali, signor Blaisdell, pertanto capisco che c’è qualcuno peggiore di te in questa piccola congiura. Vale a dire colui che ha insinuato questa bell’idea nella tua mente risaputamente ottusa istigandoti a delinquere. Mi segui?” “No,” rispose Blaze. Dalla bocca di Coslaw spuntò la lingua, sùbito saldamente frenata dai denti. Strinse la Paletta con uguale o maggior fermezza. “Chi ha fatto i tuoi compiti a casa?” Blaze tacque. Non tradì. Lo dicevano tutti i fumetti, i telefilm e i film. Non si tradisce. Specialmente la persona che è il tuo unico amico. E c’era qualcos’altro. Qualcosa che non sapeva bene come formulare. “Lei non mi deve vergare,” disse alla fine. “Ah no?” Coslaw era stupito. “È così che la pensi? E come mai, signor Blaisdell? Delucidami. Sono affascinato.” Blaze non conosceva quei paroloni, ma conosceva quell’espressione. Era tutta la vita che la vedeva. “A lei non importa niente di insegnarmi. Lei vuole solo farmi sentire piccolo e far del male a chi per un po’ è riuscito a farla smettere. Questo è sbagliato. Lei non dovrebbe vergarmi quando è lei quello che sbaglia.” Legge non aveva più l’aria sorpresa. Ora era solo arrabbiato. Così arrabbiato che gli pulsava una vena nel bel mezzo della fronte. “Chi ha fatto i tuoi compiti?” Blaze non disse niente. “Come facevi a rispondere alle interrogazioni in classe? Come funzionava?” Blaze non disse niente. “È stato Cheltzman? Io credo che sia stato Cheltzman.” Blaze non parlò. Aveva i pugni serrati, tremanti. Gli sgorgarono lacrime dagli occhi, ma non erano più lacrime di uno che si sente piccolo. Coslaw fece partire la Paletta e lo colpì al braccio. Produsse un suono secco come il colpo di una pistola di piccolo calibro. Era la prima volta che Blaze veniva picchiato da un insegnante su una parte del corpo che non fosse il sedere, anche se qualche volta, quand’era più piccolo, gli avevano torto un orecchio (e una o due volte il naso). “Rispondimi, razza di bisonte senza cervello!” “Fottiti!” gridò Blaze quando finalmente quella cosa senza nome gli apparve nella mente in tutta chiarezza. “Fottiti, fottiti!” “Vieni qui,” ordinò Legge. Aveva gli occhi enormi, strabuzzati. La mano che stringeva la Paletta era diventata bianca. “Vieni qui, sacco delle immondizie di Dio.” E ormai liberato da quella cosa senza nome che era collera, e siccome alla fine era pur sempre un bambino, Blaze ubbidì.
(dal capitolo 9) |
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Stephen King è lo scrittore horror più letto del mondo. Nato nel Maine nel 1946, abbandonato dal padre all’età di due anni, già da piccolo era attratto e insieme spaventato dal lato oscuro delle cose. Una sera, per esempio, a soli quattro anni, disubbidendo alla madre ascoltò di nascosto alla radio il racconto Marte è il paradiso, di Ray Bradbury, e ne ricevette un’impressione tale, che per un pezzo non riuscì a dormire nel suo lettino, ma solo nel corridoio, alla luce della lampadina del bagno. Per nulla scoraggiato, Stephen cominciò a leggere tutto ciò che trovava, e a soli sette anni scrisse il suo primo racconto. Ma altrettanto importante delle letture, per la sua vocazione letteraria, fu l’anziano zio Clayton, che amava raccontargli storie di fantasmi e vampiri, leggende, pettegolezzi e antichi scandali. Stephen lo ascoltava a bocca aperta, e in quei momenti, come disse poi, si ritrovava in un altro mondo, forse migliore di quello reale.
Nel 1958 la famiglia King traslocò a Durham, che in seguito fornì allo scrittore l’ispirazione per Castle Rock, la cittadina (il cui nome viene da Il Signore delle mosche, di William Golding) in cui sono ambientati molti dei suoi romanzi. L’anno dopo, Stephen trovò in soffitta i libri del padre, appassionato di scrittori horror e di fantascienza come Edgar Allan Poe, Lovecraft e Matheson. Capì, così, che il genitore non era stato solo un vagabondo (come raccontava sua madre) ma anche un aspirante scrittore affascinato dagli argomenti inquietanti. E quei libri furono l’eredità più preziosa che il padre mai conosciuto gli lasciò.
Nel ’62, mentre frequentava la scuola superiore, Stephen pubblicò un giornalino intitolato The Village Vomit (Il vomito del villaggio) nel quale copriva di ridicolo insegnanti e istituzioni facendo già intravedere il suo talento di scrittore. Tre anni, dopo, nel ’65, una rivista accettò per la prima volta un suo racconto, pagandoglielo 35 dollari.
Nel ’66 Stephen si diplomò, e nello stesso anno entrò all’Università del Maine. Era timido, incontrava non poche difficoltà nel nuovo ambiente: un suo compagno dell’epoca dice che sembrava a volte che volesse farsi piccolo sino a diventare alto meno di un metro. Ma il suo talento non tardò a emergere: nel primo tema in classe si fece notare dal professore, che ne intravide il valore di scrittore.
Nel ’70 King si laureò, ma, non trovando un posto di insegnante, iniziò a lavorare presso un distributore di benzina. Quello stesso anno si sposò, e nel ’71, dopo altre esperienze lavorative piuttosto umili, iniziò a insegnare inglese e si trasferì nel Maine. Nel ’72, però, con due figli e un terzo in arrivo, il bilancio di famiglia si fece problematico, tanto che King arrivò a pensare che il suo sogno di diventare scrittore fosse irrealizzabile. Non potendo pagare tutte le bollette, decise di sacrificare prima il telefono, poi l’automobile.
Poco dopo le cose migliorarono. King prese il coraggio a due mani: sottopose il romanzo Carrie alla casa editrice Doubleday, e all’inizio del ’73 la sua perseveranza venne premiata con 2500 dollari come anticipo per la pubblicazione. Appena due mesi dopo, la Doubleday vendette i diritti dell’opera per 400.000 dollari, metà dei quali spettavano di diritto al giovane autore. I problemi economici erano risolti e King, a ventisei anni, lasciò l’insegnamento per dedicarsi alla professione di scrittore.
Le sue opere, nei trent’anni successivi, sono state sempre tra le più vendute, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il pianeta, e hanno ispirato numerose trasposizioni cinematografiche. Ricordiamo i titoli più noti: Le notti di Salem (’75), Shining (’77), Ossessione (’77), L’ombra dello scorpione (’78), A volte ritornano (’78), La zona morta (’78), La lunga marcia (’78), L’incendiaria (’80), Cujo (’81), Uscita per l’Inferno (’81), Stagioni diverse (’81), che è una raccolta di quattro racconti fra cui Il corpo, L’uomo in fuga (’81), Pet Sematary (’83), Christine, la macchina infernale (’83) Il Talismano (’83), L’occhio del male (’83), It (’86), Misery (’87), Le creature del buio (’87), Quattro dopo mezzanotte (’90) Cose Preziose (’91), Il Gioco di Gerald (’92), Incubi & deliri (’93), Dolores Claiborne (’93), Insomnia (’94), Rose Madder (’95) Desperation (’96), I vendicatori (’96), Il Miglio Verde (’96), Mucchio d’ossa (’98), La bambina che amava Tom Gordon (’99), La tempesta del secolo (’99) e Cuori in Atlantide (’99).
Nel ’99 è accaduto un fatto drammatico: King, mentre passeggiava nei pressi di casa, è stato travolto da un furgone subendo varie fratture e traumi. Milioni di fan sono rimasti col fiato sospeso, ma lo scrittore se l’è cavata: operato tre volte in pochi giorni, dopo un mese ha lasciato l’ospedale, ma per una completa guarigione ci sono voluti ben nove mesi.
Stephen King è alto un metro e novantatré, pesa un quintale ed è un po’ curvo, forse per tutto il tempo speso alla macchina per scrivere e al computer. Ha gli occhi azzurri, e folti capelli neri. Porta occhiali da vista fin da bambino, ma talvolta mette le lenti a contatto. Si fa crescere la barba d’inverno per proteggersi dal freddo del Maine. Ama le gite in canoa, nuotare, la chitarra (ma confessa di non saperla suonare) e il videoregistratore. È un tifoso accanito della squadra di baseball dei Red Sox, per i quali scrive articoli sui giornali più importanti. Attualmente, vive con la moglie tra l’abitazione estiva di Center Lovell e quella invernale a Bangor: una casa vittoriana su due piani (con due torri laterali, piscina riscaldata, sauna e palestra) il cui cancello esterno è addobbato con ragni, ragnatele e due pipistrelli in ferro battuto. Quando scrive, ama ascoltare musica rock e bere birra. Se ha mal di testa, mastica aspirine senza deglutirle con acqua (proprio come lo scrittore pazzo di Shining...) Da anni sta cercando di smettere di fumare, ma per ora è riuscito solo a passare a sigarette più leggere. Dice di non aver paura di nulla, neanche delle figure demoniache che ama descrivere, ma è superstizioso e odia il numero 13.
Ha scritto oltre 50 opere, vendendo più di 150 milioni di copie. Dai suoi libri sono stati tratti circa 50 film e miniserie televisive. Dice di scrivere 500 parole dalle 8:30 alle 11:30, ogni giorno tranne il Natale, il Giorno del Ringraziamento e il suo compleanno. Quasi tutti i suoi libri non hanno meno di cinquecento pagine. È lo scrittore più pagato del mondo. Nel 1989, per esempio, ha incassato un anticipo di 40 milioni di dollari per quattro romanzi non ancora scritti. Si stima che il suo fatturato annuo sia di circa 75 milioni di euro.
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