Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Il Ritratto di Carla
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a Carla
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1
Enrico Traini. Traìni, con l’accento sulla prima i. L’avrete sentito nominare, è un pittore abbastanza noto. Nel ’96, quando ci conoscemmo, insegnava nella piccola scuola media di A. Io sono ancora là. Lui ha lasciato il lavoro, si è trasferito in Toscana e vive della sua arte. Siamo ancora amici, ma ci si vede di rado.
Enrico espone da anni ed è ormai, come si suol dire, molto quotato. Io, però, lo conobbi e lo stimai quando le opere che oggi i musei si contendono erano appese o accatastate contro le quattro pareti di casa sua. E le poche che avevano già preso il volo ― come due ritratti di anziani contadini di A. che esibisco con orgoglio a chiunque entri nella mia ― l’avevano fatto in qualità di doni, e non sempre apprezzati come meritavano.
Soprattutto è una bella persona, il mio amico Enrico, e che si fa stimare tale da chiunque non lo sia di meno, perché si sente che il suo essere artista è inscindibile dal suo essere umano. Che la sua vita non ha niente da invidiare ai dipinti. Che lui, insomma, non fa l’artista e neppure lo è diventato, ma appartiene alla ristretta schiera di quelli che sono stati capaci di rimanerlo. Tant’è vero che nessuno che ne ami le opere viene mai deluso dal suo carattere, dalle sue idee o dal suo comportamento, poiché anche questi, in ogni circostanza, palesano la profondità e la complessità di rapporti con il reale e il fantastico, la potenza e l’intensità di sentimenti e l’incondizionato ma esigente amore per l’Umanità che rendono quelle così suggestive e indimenticabili.
La storia che mi accingo a narrare illustra alla perfezione ciò che ho appena scritto. La racconto con il suo consenso, che mi ha dato, ne sono certo, non perché si parli di lui più di quanto già lo si fa ― fenomeno che egli, benché lo gradisca, non tenta mai di incrementare ― ma come segno della sua stima per me.
Fu la prima volta che entrai in casa sua ― in quella, intendo, che era la sua casa allora ― che vidi per la prima volta il ritratto di Carla. Ma lì per lì, malgrado l’immediato interesse che esso risvegliò in me, non me la sentii di far domande. Sia perché conoscevo Enrico da poco, e dunque non eravamo in confidenza che in misura minima; sia, e soprattutto, perché mi vergognavo della mia curiosità.
Devo confessare che all’inizio cerco sempre di trovare un pretesto per disprezzarli, gli uomini che (per motivi che lì per lì non sono quasi mai in grado di comprendere) mi interessano e mi stimolano. Mentre con le donne che mi affascinano faccio l’opposto e mi sforzo di non vedere ciò che potrebbe ridurre la portata della mia attrazione per loro. E così, quella sera, intanto che Enrico, fatto quel che di solito si fa quando si rincasa, riempiva per me e per sé due bicchierini con l’aiuto dei quali proseguire la stimolante conversazione iniziata a cena, io mi guardavo attorno in cerca di qualche indizio di insulsaggine o di meschinità con cui smentire le favorevoli impressioni che egli era già riuscito a suscitare in me nel corso di essa.
Vale a dire che dopo aver interrotto l’ispezione dei suoi libri ― un po’ sconcertato e scontento per il fatto che ne possedeva moltissimi, e che perciò non potevo liquidarlo come un altro di quei sedicenti artisti che s’illudono di vedere il mondo assai meglio con gli occhi che col pensiero ― mi ero dedicato a un attento esame delle sue tele nella speranza di trovarvi per esempio della freddezza, o qualche segno di grettezza mentale, o in mancanza di meglio ― dato che dilettantismo e imperizia mi era bastato purtroppo uno sguardo per rinunciare a cercarveli ― quanto meno una prova d’ignoranza delle più recenti propensioni del pubblico e della critica che mi autorizzasse a fantasticare che la sua fin troppo evidente genialità non sarebbe stata riconosciuta che fra un bel po’ di tempo, e in ogni caso non prima della mia...
Fu così che m’imbattei nello straordinario dipinto a cui presto avrei iniziato a riferirmi con l’appellativo che è anche il titolo di questo scritto. E che mi resi conto, fin dal primo sguardo, che dinanzi a esso non era e non mi sarebbe mai stato facile volgere il secondo su qualcos’altro.
Premetto, nell’accingermi a descrivere la prima sensazione che ne trassi, che non sono in grado di formulare un giudizio critico su un’opera d’arte non letteraria. E che perciò mi accontento di chiamare bello tutto ciò che ha il potere di emozionarmi collegandosi per vie non di rado misteriose ai miei ricordi, o alle idee che più mi appassionano, o a impressioni talvolta troppo remote perché possa esserne consapevole, o alla forma peculiare in cui di tanto in tanto mi si fa percepibile quel vivido sentimento del mio essere al mondo e della mia storia che con ogni probabilità è quel che esprimo, senza rendermene conto, ogni volta che pronuncio o scrivo il pronome io. E allo stesso modo mi compiaccio di giudicare bello in maniera spaventosa ― o orribile in maniera affascinante, come certi incubi che non si lasciano facilmente troncare da un risveglio inorridito ― ciò che riesce ad agitare il fondo per solito immobile e oscuro delle mie pene, o di certe paure e angosce delle quali non mi sono mai potuto liberare del tutto, e ad aiutarmi, così, almeno a percepire alla cieca con il sentimento, in esse, i significati che non sono abbastanza perspicace per scorgervi con chiarezza per mezzo del pensiero.
Di questo secondo tipo, e di un’intensità mai provata, fu la sensazione che il ritratto di Carla suscitò in me quando non sapevo ancora che fosse un ritratto né tanto meno conoscevo il suo nome: mi fece star male, ma in un modo che al tempo stesso mi confortò per la sofferenza che mi infliggeva.
Era un interno desolato, squallido. Situato a pianterreno, a giudicare da ciò che lasciavano vedere dell’esterno le due ampie vetrate rettangolari che vi si aprivano. Alla maniera di Edward Hopper, fu la prima cosa che mi venne in mente (e che avrebbe dovuto trattenermi dall’incorrere nella gaffe che invece commisi poco dopo). Ma di un Hopper calvinista, senza amore né pietà, pieno d’odio e tuttavia inconsapevole di esserne affetto perché ammantato da una pomposa presunzione di saggezza e di rigore morale.
Ciò che più mi inquietò ― ma intrigandomi almeno quanto mi turbava ― fu la più evidente delle stranezze di quella tela. Il fatto, cioè, che quel che si scorgeva dalle vetrate era identico in entrambe, come se la stanza ci vedesse doppio: lo stesso angolo di cortile deserto, che tre o quattro linee nere, rigide come arti artificiali, inquadravano e serravano come in una morsa intorno a due sacchetti d’immondizia. Un cortile che quei sacchetti rivelavano condominiale, ma in cui non si riusciva a immaginare una presenza umana se non fortuita e momentanea, come negli angosciosi spazi vuoti che giacciono sotto le finestre interne di certi ospedali. Mi colpì l’arredamento, composto da pezzi d’antiquariato di gran prezzo ma ridotto all’osso, quasi per dar più agio alle pareti di riflettere lo sterile lucore che dalle vetrate ispezionava ogni angolo della stanza come un padrone senza fantasia. Quel gran vuoto al centro, fatto di linee che s’intersecavano su un bruno uniforme pazientemente suddiviso, che pareva in attesa di un essere umano al modo di una tela di ragno che attende di chiudersi su un’incauta farfalla. E infine di nuovo e soprattutto il cinereo chiarore che fluiva da quelle due folli vetrate intente sulla stessa veduta. Il quale, nella stanza, diluiva le masse e i colori gli uni negli altri come una penombra e tuttavia... continuava a fissarli lucidamente. Ce n’era abbastanza per sentirmi preso, atterrato, costretto anch’io entro il tormento in cui quel luogo pareva voler a poco a poco soffocare il cuore e la mente di chi aveva la mala ventura di abitarvi. Ma al tempo stesso sentivo che quel dipinto io non volevo smettere di contemplarlo, e continuavo a sondare le emozioni che esso suscitava in me come se da un momento all’altro potesse scaturirne un’irrinunciabile rivelazione.
“Che ne pensi?” domandò il mio amico, rientrando nel soggiorno con un tintinnio di ghiaccio.
“Stupenda!...” mormorai. E poi, voltandomi: “Fra tutte, è quella che mi colpisce di più!”
“Fece lo stesso effetto anche a me, la prima volta.” disse lui. “Adesso invece direi che è soltanto orribile... E a ogni modo non è mia, Nicola”.
“E di chi è?”
“Non è firmata, come vedi. Ci sono capolavori che non si osa firmare...”
“In effetti,” mi affrettai a soggiungere, con la piaggeria che mi coglie quando inizio a temere che alla fine non potrò esimermi dal considerare l’interlocutore con qualche ammirazione, “in effetti vi è qualcosa di tremendamente sgradevole, vero?... Qualcosa di angoscioso, forse persino di ripugnante... Ma che l’autore ha saputo esprimere con una maestria che non si può non riconoscergli... Non credi?”
“Sì, non hai torto...” disse lui, in tono vago. E subito, come ansioso di cambiare discorso, mi invitò a sedermi scusandosi per il disordine in cui versava l’appartamento. Non dovuto alla mancanza di interesse per le cose materiali che di solito si attribuisce agli artisti ― asserì, come se intuisse che un’affermazione del genere mi avrebbe dato finalmente il destro per giudicarlo male ― ma in modo più prosaico al fatto che nelle ultime due settimane, per varie ragioni, era stato in casa pochissimo e non aveva avuto tempo di rassettare. Ma tra qualche giorno sarebbe tornata la sua compagna, mi confidò, e questo lo avrebbe infine costretto a dedicarne uno all’impresa di fargliela ritrovare nelle condizioni in cui l’aveva lasciata.
“È davvero un uomo perfetto!...” non potei non pensare, distogliendomi dalla contemplazione per aderire all’invito. Ma all’ultimo momento intravidi con la coda dell’occhio, al centro del dipinto ― nel mezzo dello spazio deserto a cui ho accennato, che mi avrebbe rammentato le inarrivabili sedie vuote di Van Gogh se non mi fosse apparso così paurosamente privo di memoria e incapace di nostalgia ― un’ombra lievissima, quasi impercettibile, la cui forma e proporzioni non potevano appartenere che a una figura umana. E potei così tranquillizzarmi un po’, riguardo al valore che ero stato lì lì per accreditare al mio collega, formulando la maligna ipotesi che su quella straordinaria tela che non era sua egli si fosse meschinamente permesso di operare un’arbitraria cancellatura nel vano tentativo di abbassarla al livello delle proprie.
“Secondo te, in quali casi è lecito rubare?” mi domandò, fissando meditabondo il punto alle mie spalle in cui doveva trovarsi il quadro che mi aveva così impressionato ma inoltrando inopinatamente la conversazione verso lidi che mi parvero assai remoti dalla plaga desolata in cui esso aveva trascinato i miei pensieri.
“Né lecito né giustificabile in alcun caso” affermai. “Ma quando non si può astenersene, per esempio perché altrimenti si muore di fame, è evidente che non lo si può condannare”.
Dopodiché discutemmo di tutto un po’, trovandoci sempre e così piacevolmente d’accordo che non ci decidemmo a separarci finché la stanchezza non ci costrinse a farlo. Ma il dipinto non mi uscì di testa, e nel tornarmene a casa passo passo ― abitavamo nello stesso quartiere, e già mi pareva che questo avrebbe conferito alla nostra amicizia qualche somiglianza con quelle che si hanno da ragazzi ― mentre l’aria fresca della notte rendeva più gradevole la mia sonnolenza depurandola degli effetti del bere mi ripromisi che non solo avrei cercato di saperne di più, ma sarei anche riuscito a far sì che me ne facesse dono, o almeno che me lo vendesse.
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“L’ho rubato...” mi rivelò, quando gli domandai come ne fosse venuto in possesso.
Eravamo di nuovo da lui, un tardo pomeriggio di giugno dopo un arroventato scrutinio finale, e come la prima volta la sua compagna non c’era. Ma la casa era in ordine, e ne dedussi che non doveva esser lontana.
“Nel senso letterale del termine?” domandai, benché intuissi che la risposta sarebbe stata affermativa.
Annuì, alzandosi, e andò a mettersi a destra del dipinto come per chiamarlo a testimone.
“Mi sono arrampicato su un’impalcatura in una notte di settembre, sono entrato da una finestra nell’abitazione del suo legittimo proprietario, in punta di piedi sono andato e tornato dal suo studio, sono ridisceso in strada (così come dalla strada ero salito) e col favore delle tenebre gliel’ho portato via.”
“Cristo! E lui... avrà capito che sei stato tu?”
“Chissà... L’avevo conosciuto per caso, e frequentato solo per lavoro. Quando m’introdussi in casa sua per derubarlo era già qualche settimana che non lo vedevo, da quando il lavoro era finito, e da allora non l’ho più rivisto né ho più saputo niente di lui... Quel ch’è certo è che non m’ha denunciato!”
“E chi è?”
“Tono e concisione da pubblico ministero, i tuoi! Ma alla domanda più importante ― e cioè perché mai io l’abbia fatto ― a quanto pare preferisci girare intorno!”
“Me la lascio per ultima! Chi è, dunque, e che cosa avevi fatto per lui?”
“Un avvocato. Domenico Pedianti, per gli amici Mimmo. Conosciuto durante una visita d’istruzione al Palazzo di Giustizia ― e non dirmi che è assurdo che un insegnante d’arte accompagni una classe in un luogo che ha così poco a che vedere con la sua materia, poiché sai quanto me che scelte del genere possono esser frutto nella scuola tanto di genialità quanto di idiozia ― per dimostrarmi di non essere un arido leguleio mi rivelò d’aver sempre desiderato di farsi fare un vero ritratto e mi chiese se sarei stato disposto all’impresa, e quale somma avrei ritenuto adeguata al mio talento. Io, per farla breve, avevo bisogno di soldi e accettai... Molti grandi pittori, del resto, nel dipingere ritratti per sbarcare il lunario, seppero farvi trasparire senza che i committenti se ne avvedessero gli abissi più cupi e maleodoranti dell’animo umano o le sue sporadiche grandezze...”
Parla così, Enrico Traini ― più da letterato che da pittore ― e non è l’ultimo dei motivi per cui mi piace. Anche perché proferisce frasi come queste senza affettazione, in modo appassionato, lasciando scorgere senza timore i sentimenti che egli prova per ognuna delle svariate cose che lo interessano.
“Mi domandò, introducendomi con fare ampolloso nel suo studio, se avessi nulla in contrario a lavorare lì. Uno stanzino angusto, con poca luce ― lo sapeva, ed era pronto a rinunciarvi se pensavo che tali spiacevoli caratteristiche potessero nuocere al mio lavoro ― ma era stato la sua cameretta da bambino e da ragazzo (era nato lì ― alla lettera, con l’aiuto d’una levatrice! ― in quella casa che al pari dei genitori non avrebbe lasciato che con la morte...) e come studio era tuttora il luogo in cui si sentiva più a suo agio, più sé stesso. Anche se tanti anni erano trascorsi dall’ultima volta che la cara madre aveva socchiuso pian pianino l’uscio e dalla soglia l’aveva guardato lavorare trattenendo il respiro per non disturbarlo... Così dicendo, m’indicava con un gesto più goffo che solenne il ritratto di un’anziana signora, dalla fronte troppo alta e l’incarnato così pallido da sembrare di cera, che dalla parete davanti allo scrittoio (tappezzata, come le altre, di libri dall’aspetto vetusto che avevano tutta l’aria di essere stati più ereditati che scelti) fissava su quella opposta occhi così sofferenti che non potei non volgere i miei nella stessa direzione ― pur sapendo che era scortese distoglierli così presto da ciò che egli mi stava mostrando con tanta devozione ― come se davvero potessi scoprirvi quel che la affliggeva. Lì, come avrai già intuito, vidi il quadro che qualche tempo dopo avrebbe fatto di me un ladro e oggi fa di te un ascoltatore così attento. E mentre quasi mi mancava il respiro dinanzi a tanta bellezza, lui seguitava ignaro e imperterrito a parlare della madre: non come di una una santa donna, questo no, ma con un tono che la diceva tale con la stessa evidenza con cui lo sguardo, nel volgersi al contempo verso l’alto, non intendeva certo additarmi il piano di sopra né alcun altro luogo reale interno o esterno all’atmosfera terrestre.
A dire il vero era così un bugigattolo, la cara cameretta, che c’era da dubitare dell’affetto di chi vi aveva relegato la sua infanzia. Ma il resto dell’appartamento, nel corso del tour che aveva preceduto la mia ammissione nella sacra cella ― così serpentino da farmi pensare all’astuzia con cui si fa perdere l’orientamento a un sequestrato, più che alla fierezza con cui si mostra la casa a un ospite ― benché rassicurante circa la solvibilità del mio datore di lavoro, tuttavia mi era parso così ostile da farmi preferire di gran lunga uno sgabuzzino come quello. Al quale, proprio perché minuscolo, sarebbe stato più facile avvezzarmi. Mentre sia gli ampi spazi che avevo varcato per arrivarvi ― sgombri fino ad apparire spogli, ma presidiati qua e là da mobili, tappeti, quadri, lampadari, vasi e altri ammennicoli scelti e disposti con un gusto la cui squisitezza ne rendeva ancor più algida la severità ― sia la camminata del padrone di casa nel guidarmi dall’uno all’altro ― quasi in punta di piedi, sai?, e perfino un po’ curva, come se stesse attraversando una chiesa durante una funzione e si sforzasse non solo di non disturbare, ma addirittura di esprimere con tutto il corpo rispetto e reverenza ― sia e soprattutto l’oscurità che vi regnava, in cui egli si aggirava con la disinvoltura di chi conosce a menadito l’ubicazione e le dimensioni di ogni oggetto: tutto, insomma, in quella casa, dacché vi ero entrato, mi aveva fatto sospettare di trovarmi in uno di quei luoghi in cui nulla può cambiare perché nulla può esservi spostato né rimosso né aggiunto. Che io ho sempre detestato, perché mi pare che così immobili e immutabili lo siano solo i tempietti che certe famiglie fanno costruire nei cimiteri per separare e distinguere i propri morti da quelli altrui...”
A queste parole non potei fare a meno di guardarmi intorno, ed Enrico se ne accorse:
“Spero che non abbiano niente in comune!” esclamò.
“La tua casa e quella che hai descritto?... Assolutamente no!”
“Meno male!”
Avevo già e del tutto rinunciato a scovare qualche difetto in lui e nelle sue cose. Aveva vinto, ero suo, era l’amico che da sempre desideravo: tutto ciò che avesse la pur minima attinenza con la sua persona mi entusiasmava ― sentimento, fatte le debite differenze, che fino allora solo qualche donna aveva suscitato in me ― e ci tenevo a comunicarglielo: “Sai, Enrico...” dissi, deciso a manifestargli la mia ammirazione malgrado vedessi che l’avevo fermato in corsa, e che per così dire scalpitava dall’impazienza di proseguire il racconto. “La tua casa, benché pulita e ben tenuta, non può apparire ordinata... Un ordine c’è, beninteso: un ordine mentalmente sano, che mette a proprio agio. Ma al tempo stesso è troppo ricca, piena, stratificata nel tempo... E soprattutto è troppo complessa ― ecco, questo è le mot juste: complessa ― perché un profano possa impadronirsi in tempi brevi della chiave crittografica che gli permetta di coglierlo... È come una campagna in primavera dopo la pioggia, con l’erba che cresce lussureggiante, fiori d’ogni sorta e colore che spuntano ovunque, foglie che si allargano enormi, cespugli che si aggrovigliano, alberi che stillano umori e colmano l’aria di semi, animaletti che camminano e volano e nuotano: un ordine c’è, l’ordine della natura, ma così immenso e complicato che non ti ci raccapezzi, lo senti senza comprenderlo, ti abbandoni ad esso senza vederlo, ti lasci andare senza sapere che cosa sia mai, ciò che ti fa stare così bene lì sdraiato... O al contrario, se soffri di una qualche forma di frigidità mentale, ecco che non osi avventurartici, oh no!, devi starne alla larga!...”
“Dici sul serio? La mia casa è capace di tutto questo?”
“Certo!... Ma continua, ti prego!”
“Ebbi la conferma dei miei sospetti nei giorni successivi, quando mi accorsi che neanche gli oggetti più ordinari, in quelle stanze sempre buie ― nemmeno le stoviglie in cucina, gli asciugamani nei bagni o i cuscini sui divani del salotto ― erano usati o anche solo toccati senza essere riposti dov’era prescritto che giacessero come reliquie, e con la massima cura che quel po’ di luce che toccava loro in sorte li raggiungesse dallo stesso angolo e con la stessa intensità che qualcuno ― e chi, se non la defunta madre del padrone di casa? ― aveva stabilito una volta per tutte in epoca remota. Quando andavo al bagno, anch’egli vi si recava subito dopo per sciacquare e asciugare il portasapone o riallineare il tappetino con le mattonelle. Quando chiedevo un bicchier d’acqua mi scortava in cucina, lavava il bicchiere nel quale avevo bevuto e lo ricollocava nella posizione primitiva con l’accuratezza di un orologiaio. E quando si faceva tardi e mi congedavo, be’, lui non si decideva ad accompagnarmi alla porta se prima non aveva restituito allo studio l’aspetto originario e sostato qualche secondo sulla soglia a ispezionarlo per esser certo di non aver dimenticato nulla! Come avrei potuto lavorare in un luogo simile?... Lo so, potresti obiettare che in fondo non ero mica lì per dipingere la Scuola di Atene o il Campo di grano con corvi! Dovevo solo ritrarre alla meno peggio un tizio qualsiasi in cambio di un po’ di soldini, qual è il problema? Ma io non riesco neanche a tenere il pennello in mano, se in me o fuori c’è qualcosa che mi trattiene dal riversare sulla tela tutto me stesso! E quella casa era invece un mausoleo in cui né materia né spirito dovevano più mutare! In cui niente si doveva creare, niente venire alla luce, niente farsi grande! Era la casa morta di una morta, e morti erano la mente e il cuore di colui che l’abitava ― mi dicevo accingendomi a ritrarre il corpo che li conteneva e il volto che li avrebbe lasciati trasparire ― se non vi erano in essi altri pensieri e sentimenti che quelli di serbarne intatta l’immagine che era la sola che egli possedeva e vedeva dentro di sé.
Gli dissi, dunque, che lo studiolo sarebbe andato benissimo. Purché egli, precisai, data l’esiguità della prospettiva di cui vi si poteva disporre, si accontentasse di essere ritratto, per l’appunto, ‘dall’altezza della mente a quella del cuore’. Ma lui sorrise, nell’accettare la mia condizione, così poco turbato che mi dovetti convincere che riteneva d’essere ancora in possesso dell’una e dell’altro, e con una certa alterigia dichiarò perfino che proprio quelle erano le parti di sé a cui teneva di più e che più desiderava veder immortalate... Dopo di che mi comunicò che se non avevo niente in contrario avremmo lavorato tutti i pomeriggi tranne la domenica. Giorno, soggiunse con ostentata intransigenza, che non ammetteva di non consacrare per intero a Dio.”
“Non è strano,” lo interruppi di nuovo, “che un uomo di legge fosse anche così religioso?”
“Meno di quanto credi... La legge, come sai, scaturisce dall’idea di mettere ordine nella realtà. Il che può condurre, in chi perda l’innata immaginazione, a non vedere nell’universo e negli umani altro che un’infinito e disperante disordine, da reprimere spietatamente. Che è un’attività odiosa, che però si può nobilitare e da cui ci si può assolvere convincendosi di compierla in nome di Dio o di un ideale divinizzato... Del resto l’uomo era anche di sinistra, che credi?, con tutte le sue brave ideuzze progressiste e tolleranti a posto e a puntino come in un manualetto a uso degli scolari. Ma non è strano neppure questo, perché anche con idee giuste si può essere freddi e rigidi come statue di ghiaccio, se sotto i loro graziosi abitini non è rimasta che la gelida ragione.”
Così è il mio amico: un pittore filosofo, oltre che letterato. Eppure le sue opere ― credetemi sulla parola, se non le conoscete ― non annoiano esibendo idee, ma commuovono per suscitarne di analoghe in noi.
“La stanzetta, dunque, era piccolissima,” proseguì, “ma anche così spoglia che di spazio per lavorare ce ne fu d’avanzo, alla fin fine. Bastò addossare alla finestra la scrivania e se ne creò abbastanza perché egli vi si accomodasse in poltrona e io mi sedessi a un paio di metri da lui dinanzi al mio cavalletto.
Aveva voluto che la poltrona fosse rivolta verso la parete a cui era fissato, tra i libri, il ritratto della madre, affinché il suo sguardo ― come mi spiegò ― ‘potesse trarre intensità e profondità dal contemplarla mentre posava’. Andò da sé, di conseguenza, che io fossi indotto a cercare ispirazione, nei momenti in cui la vista del suo sembiante aveva l’effetto di privarmene, nell’altra delle due tele da lui predilette al punto di collocarle in quella stanza. Che, come ti ho detto, era appesa proprio di fronte alla prima e dunque per così dire condannata a guardarla e a esserne guardata fino al famoso giorno in cui il proprietario di entrambe ― per ripetere le sue precise parole ― ‘avrebbe dovuto lasciare quella casa per una dimora in cui non l’avrebbe rimpianta.’
Per lui, quella che guardava quasi ininterrottamente era un’effigie sublime: il ritratto di una madre che come una divinità continuava a regnare sull’universo del figlio come aveva fatto da viva. La Legge fatta Persona fatta Santa. Mentre io ero ben contento di non vederla che due volte al giorno, quando entravo nello studio e quando ne uscivo. Mi sforzavo di non pensare mai a lei, perché sentivo che la servile venerazione dell’uomo che avevo dinanzi impressionava la mia fantasia al punto che sarei potuto cadere in suo potere anch’io. Volevo che per me fosse solo una qualsiasi vecchia morta che da un pezzo non esisteva che per i microrganismi che se ne nutrivano. E mi aiutava a resisterle il dipinto che era invece di fronte a me: il ritratto di Carla.”
“Come sarebbe a dire, il ritratto di Carla? C’è solo una stanza vuota, in quel quadro!”
“Ma allora c’era una donna, e...”
“...e tu l’hai cancellata!” esclamai, più addolorato che trionfante.
“No, ti sbagli, non sono stato io!...”
“E chi, allora?”
“...e non è esatto neanche dire che sia stata cancellata!”
“Ma allora?...”
“Se la smetti d’interrompermi ogni tre parole, tutto ti sarà chiaro fra non molto!”
Accondiscesi prontamente, e scusandomi per sovrappiù, ma lui maltrattò la mia impazienza facendomi attendere ancora per tutto il tempo che gli ci volle per tornare lentamente a sedersi dinanzi a me.
“A quel tempo c’era una donna, nella stanza,” ribadì, con la placidità dell’oratore che sa di avere in pugno l’uditorio, “e il mio ospite ― quando si lasciò indurre a parlarmene ― mi rivelò che il suo nome era Carla... Una donna, amico mio, che fin dalla prima volta non potei non guardare di continuo come se la mia modella fosse lei, anziché l’impettito figuro che le volgeva le spalle con l’ambigua indifferenza ― me ne sarei ben presto reso conto! ― di chi sciupa e deturpa un oggetto con la fredda e impercettibile brutalità di riconoscere e aver caro il suo valore infinitamente meno dei propri diritti su di esso... Poiché il suo sguardo” ― “lo sguardo di Carla, amico mio!” ripeté, con una gravità che mi diede i brividi ― “mi parve per un momento quello di una dea, colmo di dolcezza e insieme di sensualità: uno sguardo che giurava, all’uomo che osasse ricambiarlo, che ella l’avrebbe cullato come il più tenero dei bimbi e fatto impazzire di piacere come l’idolo incarnato di un antico culto del corpo maschile; istruito come un allievo prediletto e ascoltato come il più saggio dei maestri; compreso come se lei stessa l’avesse creato e reso sapiente di ogni suo sentimento e pensiero; servito come un’ancella e governato come una regina; reso immutabilmente felice come un dio e sempre pieno di desiderio come un satiro... Ma solo per un momento, ahimé!... Poiché subito dopo, quando alzai di nuovo gli occhi su di lei, illuminandomi ― ne sono certo ― come se mi volgessi dall’ombra cupa e umida di una forra allo splendore del sole (e così le mille volte che tornai a farlo quel giorno e nei giorni successivi) dai suoi occhi senza più luce, dal volto senza più espressione, dal dimesso atteggiamento del corpo senza più vitalità e perfino dall’abito senza più forma né colore, io non vidi ― non sentii! ― sprigionarsi altro che tristezza. Una tristezza intensa e dolorosa come uno spasimo ma assidua come un cancro, che non poteva che essere da lei sopportata e per sempre lo sarebbe stata, senz’altro sollievo che l’istupidimento che essa stessa le avrebbe a poco a poco procurato”.
Tacque a lungo, e nelle sue parole avevo sentito riaffiorare un incanto e una gioia così vividi e poi un senso d’orrore e di morte così tormentoso, che non osai fare alcun commento per timore di ferire, senza volerlo, i sentimenti così profondi e sinceri che egli mi stava per la prima volta manifestando.
“Avrai senz’altro notato, amico mio,” proseguì, “com’è desolata e inquietante la stanza che nel dipinto è oggi vuota. E starai pensando, in base alla descrizione che ti ho fatto della casa di Pedianti, che una stanza come quella non potesse che farne parte... Ebbene: non era così. La stanza del ritratto doveva essere altrove, se davvero esisteva, e io lo sapevo come sapevo di trovarmi in un attico, non a pianterreno, e che ciò che vedevo dal-la finestra era lo skyline del centro di Roma, non una grigia chiostrina in cui qualcuno aveva gettato due sacchetti d’immondizia. E tuttavia mi erano così evidenti le angosciose caratteristiche che le due case avevano in comune, che non dubitavo vi fosse un rapporto, tra l’una e l’altra, e che l’uomo che stavo ritraendo (ma che cercavo di non guardare più del necessario) nella realtà o nello sterile paesaggio lunare della sua fantasia avesse a che vedere anche con quella che tra me e me avevo preso a chiamare la prigione di Carla. Poiché era chiaro che essa, reale o immaginaria che fosse, era stata concepita al medesimo scopo a cui l’uomo che avevo dinanzi si era consacrato nel serbare intatta la propria: abitare o almeno fantasticare un luogo in cui rimanere immobile e immutabile fino alla morte pur continuando ad esser vivo; in cui perfino la follia ― così palese e atroce nell’idea che da ogni finestra si veda per sempre la stessa cosa ― sembrasse quieta, dolce, serena come un sonnellino postprandiale schiacciato mentre ciò che vi era in lui di umano se ne sarebbe andato a poco a poco, senza far rumore, ogni giorno un pezzettino chiuso con cura in un sacchetto insieme all’immondizia...
Be’, Nicola, su tutto ciò non avevo più dubbi già dopo pochi giorni. Ma ignoravo quel che più mi premeva sapere: se la casa del dipinto esistesse davvero e soprattutto se esistesse Carla. Erano forse immagini del passato, un luogo che non c’era più o non era più così e una donna che nel tempo era invecchiata e morta come quella del ritratto alle mie spalle? O addirittura era mai possibile che fossero la stessa persona ― che Carla, intendo, fosse la madre da giovane dell’uomo che avevo dinanzi, il quale non mi aveva detto come ella si chiamasse ed era certo capace di trastullarsi con me e con chiunque con giochetti come questo, da gatto col topo ― e che la sua disperata malinconia fosse l’ultimo sentimento che aveva provato prima di cominciare a spegnersi, a tramutarsi a poco a poco nella vecchia dalla maschera di cera che il figlio venerava? O invece il dipinto era recente, e Carla una donna reale che avrei potuto incontrare, se avessi saputo dove cercarla, e nei cui occhi sarei stato ancora in tempo a far riaffiorare lo sguardo stupendo che mi era parso di scorgervi ― sì, mi era parso, non ero più del tutto sicuro d’averlo visto davvero ― quando il mio per la prima volta si era levato su di lei? Oppure il ritratto non era tale ma solo un’idea, e Carla non esisteva che nella mente dell’artista che l’aveva immaginata così bella solo per dipingerla in un luogo di reclusione e di follia? E chi era costui?”
“Guarda, Enrico, che sto per non capirci più niente! Costui chi? L’artista? L’uomo che dipinse il ritratto?”
“Certo! Ma vedi, non a caso hai detto l’artista e poi l’uomo parlando della stessa persona! Anch’io ne fui convinto fin dal primo sguardo: chi aveva imprigionato una donna così incantevole in una così misera e ripetitiva fantasticheria era capace di farle la stessa cosa nella realtà, e probabilmente l’aveva fatto...”
“Il padrone di casa?... Domenico Pedianti detto Mimmo?... L’azzeccagarbugli-fanatico-religioso-ma-di-sinistra-eppur-maniaco-dell’ordine che stavi ritraendo?”
“Ascolta, amico mio: perché tu capisca ogni cosa, è meglio che riprenda il racconto dall’inizio e proceda con ordine... Immagina, dunque, il sottoscritto entrare ogni giorno in quella casa così ben congegnata, razionale, ossessiva, feroce ― gremita e tuttavia disadorna come la mente di un imbalsamatore, mi dicevo ― e immagina come ogni minuto e forse ogni secondo io sperassi, alzando gli occhi dalla mia tela sempre più odiata, di avere la consolazione di ritrovare negli occhi di Carla quel primo sguardo mai più rivisto. E invece non solo non lo rivedevo, ma colei che l’aveva versato come un balsamo nel mio mi appariva sempre più triste, più curva, più spenta; sempre più vicina a sparire, a confondersi con le linee e le tinte senza vita che penetravano e fluivano in lei da ogni parte... Finché, un bel giorno, trovai il coraggio di parlarne con quell’uomo...”
“Col padrone di casa?”
“Sì, chiamiamolo così: il padrone di casa. Poiché lui era il padrone. Del ritratto di Carla. Forse di Carla. Delle mie ore comprate e pagate... È sempre assai rischioso, parlare di ciò che ami al suo padrone, e me ne rendevo conto con una lucidità che perfino lui avrebbe invidiato. Poiché vedevo e sentivo e sapevo, conoscendo il mio polletto non meno bene che se l’avessi allevato io, che ogni segno d’interessamento per il dipinto che gli facesse subodorare un interesse per la donna sarebbe stato per lui come un pungolo nelle carni a far qualcosa per inasprirne la condizione, se ella esisteva, o altrimenti per far pentire me d’averlo provato e manifestato.”
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3
“Me lo ricordo bene, Nicola, il giorno in cui mi arrischiai a parlare. Era uno di quei giorni di attenuato rigore e intenso brillare, come li definì Henry James, in cui l’inverno è la più mirabile delle stagioni, e io, meschinello d’un pittore in erba convinto che la difficoltà di esprimere ciò che si sente sia sempre propria e mai di chi non vuol saperne alcunché, mi ero appena accorto con orrore, come se un pieno e luminoso vaticinio fosse piovuto sulla mia opera in fieri dall’azzurro del cielo attraverso la finestra dello studio, che chi mi guardava dalla tela non era l’immobile burattino che dinanzi a me fissava la vecchia morta alle mie spalle con la stessa incomprensione con cui volgeva le proprie alla donna del ritratto: no, quello che avevo dipinto era un uomo buono, dolce, appassionato, creativo, intelligente; uno che poteva esser severo solo dopo aver ben compreso, e che non guardava mai nulla e nessuno senza tentar di capire; uno che nelle donne aveva sempre così amato e rispettato il novero infinito delle splendide cose che le rendono donne, da forgiarsi a poco a poco un talento da stregone e precisione da chirurgo nell’individuare e recidere tutto ciò che in loro istilliamo per distruggerle; e le probabilità che il committente dell’opera potesse riconoscersi in lui erano persino inferiori a quelle che fosse così acuto da ravvisarvi ― come ve la ravvisavo io, inorridito e fiero ― l’immagine ideale di me così com’ero andato fantasticandola nell’ininterrotto, commosso e inconscio monologo con cui per tutti quei giorni mi ero presentato e avevo dichiarato il mio amore a Carla come se fosse davvero lì dinanzi a me.
‘Sbaglio o quelle due tele sono opera della stessa mano?’ indagai, mentre la mia si accingeva tremante a ritoccare, correggere, coprire, rifare.
‘Complimenti!’ rispose l’avvocato, volgendo su di me per un istante la pia indifferenza dei suoi occhietti cerulei immersi nel grasso. ‘Non era facile intuirlo. I soggetti non potrebbero essere più diversi...”
Mi limitai ad abbozzare un inchino (che s’illudeva di essere ironico) e: ‘Vivente?’ domandai.
‘No... Era mio fratello... Identico a me, mio gemello... Venuto al mondo pochi istanti dopo di me...’
‘Ho ridestato un ricordo doloroso, la prego di perdonarmi...’
‘Non ce n’è motivo, Traini... Non ce n’è proprio motivo...’ mi rassicurò. ‘Sono passati quasi dieci anni... Ne sono lieto, anzi. È la prima volta che ho l’occasione di parlare di lui con un altro pittore...’
‘Dipingeva forse sotto pseudonimo? Perché non riesco a rammentare...’
‘Un pittore di nome Pedianti? Non può: non ha avuto il tempo di farsi conoscere. Le sue poche opere sono tutte in questa casa e dalla vedova... E queste sono quelle a cui tengo di più... Ma per motivi opposti...’ soggiunse, con un’aria enigmatica che per un attimo contraffece sul suo volto il trasparire di un sentimento.
‘Intende dire che...’
‘Che amo l’una e odio l’altra.’
‘Ah!...’
‘La cosa le interessa?’
‘Purché il parlarne non la inquieti...’ dichiarai, illudendomi ancora una volta di essere ironico in una misura che i suoi strumenti mentali fossero abbastanza sensibili da rilevare.
‘No, non mi inquieta, anzi: mi dà gioia. Non può che dar gioia, non le pare?, per una volta poter esprimerli, i propri sentimenti, anziché tenerli dentro a macerare... L’amore è per mia madre, a cui devo tutto ciò che sono e che possiedo. L’odio, invece, è per la donna ― chiunque ella sia ― a cui devo la morte di mio fratello...’
‘Un’assassina?!’ esclamai.
‘Un’assassina, un fantasma, una strega... Non so neanch’io come definirla. So soltanto che si chiama Carla... Non può immaginare che cosa darei per incontrarla, per scoprire dove si nasconde, per avere l’opportunità di farle del male a mia volta. Ha indotto mio fratello al suicidio, capisce? Senza conoscerlo, senza nemmeno sapere che esistesse. Con un incantesimo, un sortilegio, un maleficio scagliato a caso per il mondo. Come un naufrago che getti nell’oceano una bottiglia per far sì che qualcuno si perda, invece che per trovare chi lo salvi... Mi ascolti bene, Traini, perché voglio dirle una cosa che un giorno potrà salvare lei: non c’è donna al mondo, neanche dipinta come quella là, che non possa essere la rovina di qualsiasi uomo, se egli è così stupido o malato da innamorarsene e da crederne chissà che. Ma se l’uomo sa rimanere freddo, dominarla, farne ciò che vuole, allora con qualsiasi donna egli può forgiare una moglie e una madre come si deve... Cioè quel che di buono anche una donna può diventare, e che ella e i suoi figli gli saranno grati di aver fatto di lei.’
Tacque, guardandomi negli occhi con l’aria d’esser sicuro di avermeli appena aperti su un’immensa verità, ma di non desiderare altro compenso che quello di scorgervi un’acritica sottomissione a essa.
‘E pensare che la prima volta che la vidi non era una donna...’ proseguì. ‘Solo una bambina, una piccola bambina inerme. Ma già gli si era conficcata nella mente, già gli faceva tutto il male che poteva!...’
A dire il vero non son sicuro che parlasse proprio così,” disse Enrico sorridendo come per scusarsi. “Voi scrittori sapete raccontarle meglio, le storie. V’immedesimate in ogni personaggio e addirittura lo siete, in parte, ma date a ognuno la sua voce e descrivete un ambiente in modo diverso a seconda di chi vi si trovi e di quale ne sia lo stato d’animo. Mentre un pittore non può vedere il mondo che attraverso il proprio sguardo, non ne ha che uno, non può mai separarsene e dipinge ogni cosa allo stesso modo, cioè come la vede lui...”
“Ma questo vale anche per chi scrive...” obiettai.
“Che però può mascherarsi, trasfigurarsi, cambiare personalità... Che è un attore, anche, in qualche modo... Insomma: io, quando racconto, penso sempre che farei meglio a limitarmi a dipingere!...”
“Al contrario: racconti benissimo!”
“Sarà... Ma mi piacerebbe averlo registrato, il modo di parlare di quello là, così potrei fartelo sentire... Non era come lo sto facendo io... Le frasi erano più brevi, precise, misurate. Dicevano solo l’essenziale. In rapporto ai fatti che riferivano e alle realtà che descrivevano, erano le occhiate leste e di soppiatto che può scoccare in giro una spia o uno che non vuol essere coinvolto in ciò che però gli interessa. E in rapporto ai sentimenti non è che parlasse freddamente, anzi: si sentiva che ciò che narrava lo toccava personalmente e aveva piuttosto l’effetto di incrinarla, la sua indifferenza; e questa emozione riusciva anche a comunicarla. Ma era un’emozione sgradevole, un rivolo di meschinità e odio che il tono voleva far passare per lieve e signorile ironia, intelligenza, benevola comprensione e chissà quante altre belle cosette. E invece faceva star male, amico mio, parlava e mi faceva star male! Come se mi toccasse con le mani sudicie, o peggio... D’altra parte, non è che potessi andar via: dovevo coprire il pasticcio che avevo combinato, prima di sospendere la seduta e lasciare che venisse a vedere. Né potevo dirgli di chiudere il becco, dopo che ero stato io ad aprirglielo! E poi quel che diceva m’interessava... Così mi concentravo sul lavoro, cercando però di confrontarlo col modello il meno possibile per mitigare la repulsione che suscitava in me, e ogni tanto levavo gli occhi e la mente al di sopra di lui, verso il ritratto di cui parlava con tanto odio. Finché non ne potei più, letteralmente non ne potei più ― per fortuna quando avevo già udito tutto ciò che mi premeva di apprendere ― e nello stesso momento mi scappò un gran sospiro che mi fece arrossire, come se mi fossi tradito ― ma lui non se ne accorse, non era il tipo che nota o si fa delle domande su quel che prova e pensa chi gli sta intorno ― un sospiro che mi turbò anche perché mi parve un po’ femminile, in qualche modo ― strano, no? ― e mi venne fatto di domandarmi come potesse essere, vivere ogni giorno e per tutta la vita con un uomo la cui casa era la tomba di una vecchia morta di cui egli era il custode, e che per di più parlava a quel modo, e forse parlava così di tutto, e il farlo gli piaceva al punto di non risparmiartelo mai, come un televisore rimasto acceso di notte in casa di un vicino...
Quello fu il giorno più importante della mia vita, amico mio, ma non lo sapevo allora e non lo seppi fino a un bel po’ di tempo dopo. Eppure c’è forse qualcosa di vero in ciò che sostengono gli scienziati, che il cervello umano sia così complesso che in certe sue parti e in talune circostanze vi abbiano luogo fenomeni quantistici che per qualche microsecondo lo mettano in contatto con altre regioni del tempo e dello spazio; perché io quel giorno, pur ignorando ― è ovvio ― quante e quali conseguenze esso avrebbe prodotto sulla mia esistenza, fin dal risveglio ero in uno stato di sensibilità intensa, come se mi aspettassi qualcosa di molto sottile, appena percepibile, infinitesimale, di cui al contempo intuissi che quando fosse venuto avrei dovuto accorgermene ad ogni costo: vedevo tutto, sentivo tutto ― forse per questo stavo anche peggio del solito, vicino a quell’uomo ― e in tale stato che a poco a poco si acuiva ero ormai sul punto di sentirmi male, quando a un tratto, nel momento in cui mi scappò quel sospiro, ebbi la chiara e distinta percezione ― insieme a quella del mio rossore, del ribrezzo che provavo per il padrone di casa e della bellezza della luminosa giornata che per fortuna mi dava sollievo avventurandosi senza paura perfino in quella casa morta ― che qualcosa nello studio si fosse mosso.
Non guardai che il ritratto di Carla, solo il suo ritratto e nient’altro, perché da lì era venuto quello scossone, quel lampo, quella specie di urto contro la mia mente... E vidi che era... cambiata. Che era... diversa.”
Potete immaginare come mi sentii e cosa pensai, quando Enrico se ne uscì con questa frase e subito mi guardò con l’aria docile e sottomessa di chi teme una reazione esagerata e vorrebbe attenuarla prim’ancora che si sviluppi! Ero sconcertato, come avrei potuto non esserlo?... Tuttavia non pensai che fosse impazzito, ma che parlando da pittore a letterato si fosse lasciato andare a una sorta di effetto speciale metaforico, a una di quelle iperboli con cui noi artisti speriamo di infrangere la muraglia di serena e bigotta ottusità che così spesso viene opposta ai nostri tentativi di penetrare le menti e i cuori. Tanto che la mia sola reazione fu invece un sorriso consapevole, come a una trovata ben riuscita di cui volessi fargli capire che non m’erano sfuggite l’abilità e la sottigliezza. Ma lui si accorse lo stesso d’aver suscitato una forte impressione, e tentò di alleviarla:
“Non sono pazzo, Nicola!...” esclamò, ridendo di cuore. “Non ho mica detto che si era mossa!”
Sorrisi anch’io, e a mia volta non potei trattenere un sospiro di sollievo. Ma mi aveva guardato, raccontando, in modo così intenso, e così serio e grave era stato il suo tono ― addirittura mi aveva preso per un braccio, anche se gentilmente... ― che non gli permisi di cavarsela tanto facilmente:
“Cosa intendevi dire, allora?” lo interrogai.
“Ti giuro che non lo so bene neanch’io! L’ipotesi più probabile è che fino ad allora l’avessi più idealizzata che osservata con attenzione. Mi succede, a volte, con le opere che d’istinto mi vien fatto di invidiare...”
“Come ti capisco!”
“O forse lo stronzo l’aveva ritoccata nottetempo: mi confidò in seguito che ogni tanto era solito farlo, e che in tal modo la puniva... Ma in tal caso l’avrebbe peggiorata, non migliorata!”
“Dunque era cambiata in meglio?”
“Stava meglio, sì... Ma no, Nicola, mi sa proprio che fino a quel momento nel ritratto di Carla avevo visto quel che ci volevo vedere, non quel che c’era!... Mi era sembrato, per esempio, che le braccia fossero abbandonate lungo i fianchi, due cose inutili pendenti dal corpo come i rami spezzati che si vedono talvolta pendere dagli alberi, le foglie ormai secche che però chissà perché non si staccano e il colore del legno che non ha più niente di vitale. Ora, invece, vedevo che aveva una mano sul petto, la destra, e la sinistra alla tempia; e non come se provasse dolore, al cuore o alla testa, ma al contrario come per una sensazione piacevole, dolce, da tanto tempo non più provata, che con qualche meraviglia stesse tentando di rammentare, di identificare, di interpretare. E poi aveva alzato un po’ il capo, appena appena, anche se di ciò sono meno sicuro; e con gli occhi, che tranne la prima volta avevo sempre visto perduti nel vuoto, adesso pareva cercare qualcosa come avevo fatto io un attimo prima, quando avevo avuto quell’impressione di movimento... Qualcosa che... So che ti sembrerà ancora più pazzesco, Nicola, ma... mi parve che cercasse qualcosa all’esterno del quadro!”
“Ma allora mi stai proprio dicendo che si muoveva, Enrico! Che guardava... fuori, addirittura!”
“No. Dovevo essere così stanco, ed essermi concentrato così intensamente sul lavoro, che per qualche secondo ho confuso la realtà con le mie fantasticherie. Non si dice forse sognare a occhi aperti? Ci sarà pure un motivo!... Poi è passato, è passato subito... Ma lì per lì in effetti ero sconvolto come se davvero l’avessi vista muoversi! Temevo di star per impazzire anch’io, che ti credi?... Seguitai a guardarla, mentre mi sforzavo di continuare a dipingere e ad ascoltare il padrone di casa ― non a guardare il suo ritratto, non più, ma proprio lei, Carla!, te lo confesso, come se nello studio fosse entrata una terza persona a cui era buona educazione di quando in quando rivolgersi ― e più d’una volta mi parve che ci fossero stati dei nuovi cambiamenti, nel suo atteggiamento e nell’espressione del viso, ma troppo lievi perché mi spaventassero come i primi. E perciò naturalmente cominciavo a pensare ― o meglio a tentar di persuadermi ― di quella che oggi ritengo l’unica spiegazione possibile: cioè che la stanchezza, la tensione accumulata e il fastidio per quell’uomo mi avessero indotto una sorta di delirio. Come mi era accaduto la prima volta, del resto, quando quel ritratto di donna intrappolata, delusa, fatta impazzire e a poco a poco distrutta mi era parso per un attimo quello di una dea della femminilità dalle dolci e immense promesse. Cominciai a pensarlo e anche a convincermi, ti dico. Ma d’un tratto si mosse di nuovo, e questa volta mentre la guardavo: abbassò le braccia, inarcò la schiena, l’aria spenta le cadde di dosso come uno scialle, diventò più alta, e malgrado il vestituccio logoro, fuori moda, tutto il suo corpo s’illuminò di una luce che non poteva venirle che da dentro... Poi mi guardò anche lei... e mi sorrise.”
“O meglio, fu ciò che credesti di vedere...”
“Sì, Nicola, te l’ho già detto e lo so: niente è davvero accaduto. Ma allora mi parve perfino che avesse gli occhi lucidi, che chiedesse aiuto, che mi supplicasse di far qualcosa per lei... E comunque, anche se poche ore dopo ero già persuaso d’aver avuto una sorta di allucinazione, be’, con altrettanta certezza ancor’oggi io credo che in quel momento si sia creato un legame, tra me e Carla, o tra me e la sua immagine, o tra me e la fantasia che in me aveva suscitato ― non lo so e non voglio neanche indagarlo troppo! ― come quello che si crea fra un uomo e una donna dopo che si sono l’un l’altra sognati, e talvolta anche molto tempo prima che la realtà del loro rapporto ne prenda atto e accetti di esserne determinata... Ma lì per lì ebbi solo paura: paura di essere impazzito, e ancor più paura nel caso che invece impazzito non fossi. Smisi di guardarla, m’imposi di non farlo più, di concentrarmi sul lavoro. Non era affatto facile, perché ogni volta che alzavo gli occhi sul mio sgradevole modello, la tentazione di levarli verso la forma confusa che intravedevo dietro di lui si faceva prepotente. Eppure ci riuscii, e addirittura, a poco a poco, quasi me ne dimenticai ― solo perché ero sconvolto, credo, sotto choc come dopo un incidente ― e seguitai a lavorare come sotto ipnosi, senza pensare più a nulla.
Tacque anche il padrone di casa, infine. Ma per tutto il tempo non aveva mai smesso di raccontarmi la storia del ritratto, e io, ascoltandolo, tra me e me avevo preso nota di ogni cosa fin quasi all’ultimo, finché all’improvviso non mi aveva svuotato la mente l’incredibile visione di cui egli non aveva avuto alcun sospetto. Mi tornò tutto alla memoria più tardi, quando uscii dalla casa morta e nel nitido crepuscolo invernale m’incamminai passo passo verso la stazione delle corriere. E quasi subito, mentre ripensavo e comprendevo quel che avevo udito, cominciai a dirmi che il ritratto di Carla prima o poi gliel’avrei preso. L’avrei rubato. Perché egli non ne era degno, certo, ma soprattutto perché dovevo. Perché non c’era altro da fare, non avevo scelta. Per lei e per me. Perché altrimenti saremmo morti entrambi, e questa volta davvero, e per sempre.
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4
‘Un giorno, più di vent’anni fa,’ aveva detto Domenico Pedianti, ‘andai a trovare mio fratello nel suo studio... Non che fosse un professionista. Il suo lavoro era un altro, completamente diverso: dipingeva quando ne aveva il tempo. Antonello, era il suo nome. Come Antonello da Messina, diceva lui. Solo che non era capace di lavorare tutti i giorni come un vero pittore. Anche se gli sarebbe piaciuto molto... A casa non poteva dipingere, benché non avesse figli, perché per farlo aveva bisogno di silenzio e concentrazione assoluti, e questo infastidiva e ingelosiva sua moglie. Quindi aveva affittato quello studio... Ma nella vita reale era il segretario particolare di un monsignore. Uno che era anche un po’ un parente, sa come? ― uno zio alla lontana, diciamo... Antonello lo accompagnava in viaggio, curava le relazioni pubbliche, scriveva i discorsi, leggeva e gli riassumeva i libri che doveva conoscere. Un ottimo impiego, dal punto di vista economico, e credo che ne fosse tanto più soddisfatto in quanto glielo aveva procurato nostra madre. Ma gravoso, spossante, senza orari, senza leggi... Solo di rado gli riusciva di staccare per un po’... E allora, se la moglie gli lasciava le briglie sul collo, si rifugiava per qualche giorno in un paesello della Valle dell’Aniene, dove aveva affittato un’antica stalla ristrutturata, e lì dipingeva come poteva, da dilettante, come uno che non ha il modo, non sa e forse neanche vuole sprofondarsi nell’arte fino ad annegarvi, o a fondersi con essa... Un vicino una volta mi disse che certi giorni stava ore e ore davanti alla tela senza mai toccare un pennello, camminando in lungo e in largo come un leone in gabbia... E tutto questo per che cosa, dato che sotto sotto non era un artista più di quanto lo sia io? Per sfuggire alla moglie!... Perché con le donne non ci sapeva fare, non stava in piedi un giorno, si lasciava sottomettere in men che non si dica; e alla fine, quand’anche riusciva a svignarsela, si portava dietro un bel pezzo di catena al collo. Se fosse rimasto qui, invece, con me e nostra madre, non avrebbe avuto bisogno di scappare e magari sarebbe anche riuscito a dipingere sul serio. Non l’avrebbe preso la mattana di quel maledetto ritratto, e nemmeno sarebbe morto... Invece scappava lassù, si chiudeva in quella stamberga e due volte su tre non combinava nulla. Eppure non gradiva che lo si andasse a trovare, voleva star solo, era capace di chiuderti in faccia il telefono e la porta. Come se volesse assaporarlo, il fallimento, goderselo!... Io, beninteso, di mia volontà non mi sarei neanche sognato di presentarmi lì, ma l’invito partì da lui: mi telefonò un venerdì mattina e mi chiese se mi andava di trascorrere il week-end insieme. Disse che non riusciva a dipingere, che le continue richieste e pretese e accuse della moglie l’avevano stancato e umiliato oltre ogni dire: le solite cose. E noti che come sempre aveva iniziato lei, e lui come sempre non era riuscito che a difendersi alla meglio... Finché non ce l’aveva fatta più ed era fuggito. Normale amministrazione! Ma continuava a sentirsi il suo fiato sul collo perfino lì, al paesello, ed era per questo ― diceva d’averlo finalmente capito ― che tanto spesso non riusciva a lavorare.
«Se vieni sarà come da ragazzi...» disse. «Come a casa, eh, Mimmo?...» Intendeva come in questa casa, che neanche lui avrebbe mai dovuto lasciare ― in cuor suo lo sapeva benissimo ― e tanto meno per sposare quell’arpia... «Porta il tuo libro, che ne dici? Vedrai come si lavora bene, qui!...» Si riferiva al saggio su Thomas Hobbes che all’epoca stavo completando ― un’elaborazione e un ampliamento della mia tesi di laurea in giurisprudenza ― e che l’anno dopo in effetti pubblicai... «Con te che scrivi serio serio accanto a me, son sicuro che anch’io riuscirò a dipingere. Ho un’idea che mi affascina, e per di più chiara e distinta come se fosse già sulla tela e non dovessi che guardare e copiare; mi manca solo la forza d’impormi a me stesso come fai tu... Non pranzeremo, per non perdere la concentrazione: solo un po’ di frutta e di formaggio, in piedi, continuando a lavorare. Ma la sera ceneremo da re, come in città non si fa più. C’è una vecchia signora, sai?, qui vicino, che mi aiuta in casa, ma più per aver l’impressione di darsi ancora da fare per un uomo che per vero bisogno: silenziosa come una fata, piena d’ammirazione per me e straordinaria in cucina!... Poi ci faremo compagnia in silenzio, un bicchierino per ciascuno, e lasceremo vagare i pensieri lontano da tutto ciò che rattrista, perturba, confonde. E domenica mattina andremo a messa insieme, come da ragazzi... Ci farà bene, Mimmo: ci sentiremo di nuovo bambini, leggeri, sereni, padroni del nostro piccolo mondo rassicurante, e come bambini dipingeremo e scriveremo ― con lo stesso candore, la stessa intensità! ― ma con l’esperienza e la saggezza di due adulti...»
Lo accontentai, perché l’idea intrigava anche me. Andai sù quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio. Il sabato lavorammo dalla mattina alla sera, proprio come aveva detto lui. E dopo cena, mentre ce ne stavamo in poltrona l’uno di fronte all’altro dinanzi a un bel focherello, lo sguardo mi cadde su un ritratto appoggiato alla cappa del camino tra vecchie stampe senza valore. Mi parve interessante, ma il riverbero del fuoco m’impediva di vederlo bene... Così mi alzai, lo presi ed esaminandolo con attenzione tornai a sedermi.
«È buono, vero?» disse Antonello. «Ti premetto che non è mio. Sarà della fine degli anni ’50, o forse dell’inizio dei ’60. Era in una casa abbandonata... Ho domandato in giro e mi hanno detto che ci abitava una famiglia un po’ per conto suo, non molto benvoluta ― per questioni politiche, m’è parso di capire, ma in proposito nessuno è stato esplicito ― che poi se n’è andata, anni fa, e non ha dato più notizie. Tanto che la casa a poco a poco è caduta in rovina... Ma quella bambina è... be’, è davvero particolare, non ti sembra?»
«Mi fa una gran pena, poverina...»
Ebbe una smorfia, come se le mie parole gli fossero un po’ spiaciute, ma subito dopo annuì.
«Sì, hai ragione: fa pena».
«Guarda solo com’è vestita!... Te la ricordi la povertà che vedevamo in giro in quegli anni, Nello, specialmente nei paesi? Ti ricordi la miseria, il freddo, gli abiti cuciti a mano dalle mamme con pezze di stoffa rimediate, passati da un figlio all’altro?... Ma lascia stare il vestitino: guarda i suoi capelli, la pelle, il colorito, le gambe, i piedi, le mani... Guarda gli occhi, soprattutto. Lo sguardo. Il buio alle sue spalle.»
«Lo sguardo è bellissimo...»
«Se lo dici tu... A me sembra disperato».
«Non è vero, Mimmo: guarda bene!...»
«È quel che sto facendo... E del pittore che ne pensi?»
«Secondo me è un ragazzetto anche lui. Ma ha talento, e deve aver imparato da qualcuno in gamba. Sa osservare, e riproduce molto bene quel che vede. Non solo: comincia a far intravedere l’energia interiore dell’artista autentico che impone alla materia la propria forma, propria e di nessun altro, né della natura né del modello, né di Dio né di alcun uomo che non sia lui medesimo. La sua identità. Un pensiero che solo nella sua mente ha quell’accento, un sentimento che solo nel suo cuore preme a quel modo contro il petto...»
«Come ti entusiasmi, Nello, come pigli fuoco... In questo sei un artista autentico anche tu».
«Ti ringrazio!» esclamò, arrossendo. «Ma che ne dici?»
«Che un qualche sentimento di sicuro c’è, visto che mi ha fatto compassione».
«Ma quello è il tuo, di sentimento, te l’ho detto, non il suo...»
«E il tuo no?»
Esitò, aggrottando lievemente le ciglia: «Sì, anche il mio...» ammise. «Ma non il suo! Il suo è amore, speranza, esaltazione! E lui, anche se con molta ingenuità, riesce a tramutarlo in colori, in forme, in un’immagine...»
«Perché dici che è un ragazzetto?»
«Credo che non abbia più anni di lei. Lei ne ha undici, dodici al massimo. Lui non più di quattordici».
«E da cosa lo deduci?»
«Proprio dall’ingenuità. Vedi quel nero, quel buio dietro la bambina?»
«È la prima cosa che ho visto. Sembra che esca da una grotta... I Sassi di Matera, forse?»
«È solo una stalla, come questa casa e tante altre fino a non molti anni fa. Ma nota com’è naïve tutta la composizione!... Per lui, per il ragazzetto, la bambina è bellissima, un angelo in terra! E allora la fa venir fuori dal buio, nero come la più profonda delle grotte, e tuttavia fa sì che il buio non la contamini, non la sfiori neppure: vedi, infatti, come lei è luminosa, nitida, precisa? E quanta luce c’è all’intorno, com’è luminoso, nitido e preciso anche il resto? Ma neanche un fotone di tanto splendore penetra il buio da cui la bambina si distacca. Qui fuori la luce, là dentro il buio. Assolutamente separati. È la visione di un romantico ragazzetto di paese!»
«Primi anni ’60: canzoni melodiche, fisarmoniche, ragazzotte e ragazzotti lustri e foruncolosi che si guatano di sottecchi da un lato all’altro della piazza...»
Antonello fece di nuovo quella smorfia, come di disappunto, ma poi di nuovo annuì.
«È innamorato, Mimmo!» esclamò, con una punta d’impazienza. «Guarda: la raffigura come un angelo! A memoria, è ovvio: la bambina ― chiamiamola Carla, che dici? ― non avrà mai saputo di essere stata ritratta. Come forse non avrà mai immaginato che egli l’amava. E che solo da lei ― per quel ragazzetto poco più grande, che per gli altri è strambo non tanto perché dipinge quanto perché guarda sempre tutto con occhi che a loro sembrano persi, con quella cert’aria che dicono insensata perché per loro al mondo ci sono a malapena Dio, la Madonna e i Santi che non siano di terra mista ad acqua come tutto il resto ― che solo da lei viene la luce che malgrado tutto gl’illumina il paese, dove se lei non ci fosse, neanche lui avrebbe scampo dal buio che fuoriesce dalle casette e dalle stalle, avvolge le anime, i cuori, le menti, riempie gli sguardi, soffoca le voci... Sì, è un ragazzetto, un artista, un innamorato! Che sa dire com’è il suo paese di per sé e com’è quando c’è lei...»
«Così diverso, eh?, dal piccolo mondo rassicurante di cui parlavi ieri, nel quale vivevamo io e te alla loro età... Perché il nostro mondo non era povero, Nello, certo. Né freddo. Ed era colmo d’ogni ben di Dio per quanto era possibile a quei tempi. Ma te lo ricordi con che stupore guardavamo i bambini e le bambine come questa quando capitava di sostare e di scendere dalla macchina in qualche paese? Ti ricordi la curiosità, il disagio, lo sconcerto che suscitavano in noi? Un’attrazione incresciosa, perché al contempo era anche ripugnanza: così me la ricordo io!... Guarda i suoi capelli: vedi come sono spessi, fitti, ribelli, forti, spinosi? Io me li rammento, quei capelli, e tu? Mi facevano impressione, forse ribrezzo, come una selva selvaggia e aspra e forte traboccante d’una forza creatrice sconosciuta dalla quale sarebbe potuto venir fuori di tutto. Cosa ci vorrà perché diventino morbidi e lisci come oggi lo sono tutti, dei capelli così? Guarda il colore della sua pelle, un po’ spento, non del tutto sano: la bambina mangia quel che la mamma e il papà hanno da darle, quel che c’è, poco, di certo non molto variato, e dai suoi piedini, così piccoli, si capisce che non crescerà più di tanto. Anche questo me lo ricordo molto bene. E ricordo quanto tutto ciò mi metteva a disagio e mi faceva sentire diversi i bambini come lei: diversi da me, da te, da tutti quelli come noi. Osserva le sue mani, Nello: un po’ troppo grandi, rispetto al corpo, vedi? Perché la bambina, dopo la scuola, già lavora in casa, nei campi, nella stalla. Lavora molto, e già da molto. Altro che angelo in terra, poverina!... È mai possibile che non lo veda anche tu?...»’
L’avvocato Pedianti mi guardò, a questo punto, con un’aria che aveva lui talvolta e che di sicuro credeva pacatamente interrogativa, mentre era invece così sospettosa e inquisitoria da rasentare l’ottusità: temeva che mi mettessi dalla parte del fratello, e la giustificazione che chissà quante volte doveva essersi ripetuto per tacitare i sensi di colpa fuoriuscì all’istante dalle sue labbra srotolandosi come per forza d’inerzia:
‘Lo stavo scoraggiando e rattristando, me ne rendevo conto. E può immaginare, Traini, quanto mi addolori, oggi che non c’è più, ripensare a tutte le volte che dovetti prendere le parti della dura realtà, che io per primo avversavo e combattevo politicamente, contro i sogni e le illusioni in cui lui si rifugiava per non affrontarla. Ma la coscienza non mi rimorde, perché mi era chiaro fin da piccolo che c’era qualcosa che davvero non andava nella sua cecità, nelle sue fantasticherie e nell’ostinazione con cui le difendeva perfino contro l’evidenza: lo intuivo dalla perenne inquietudine di nostra madre, dai sospiri, dall’ansia con cui lo teneva sempre d’occhio; e col tempo avevo imparato che anche fra due gemelli c’è sempre un fratello maggiore...
«Tutt’al più un angioletto caduto, Nello,» gli dissi, «che rimpiange il cielo e presagisce che non vi tornerà...»
«Ma guarda i suoi occhi, Mimmo, il suo sguardo!» gridò. «Te lo chiedo di nuovo: che cosa ci vedi?»
«Te l’ho detto: pena. La bambina è infelice, anche se sorride. Come potrebbe non esserlo? Tutto ciò che ha intorno è di una tristezza quasi insopportabile. E lei sente già che la luce non è che un miraggio. Che il destino ne sarà solo sfiorato. Che il buio da cui fugge ― miracolosamente intatta, è vero, ma per un attimo che solo il tuo ragazzetto poteva cogliere o fantasticare ― diventerà forse un po’ meno fosco, ma non potrà mai essere davvero dissipato... Da dove pensi che venga, Nello, la brutta e bruttissima gente che funesta l’Italia? È scappata negli ultimi vent’anni da paesi come questo. È venuta a guardare le città con occhi come questi. Con l’abissale ignoranza e tutta l’invidia che questo buio gli ha lasciato nelle menti e nei cuori.»
«Ma non sempre, non credi?...»
«Quasi.»
«Però sullo sguardo ti sbagli, Mimmo: non c’è pena, nei suoi occhi. Ignoranza, sì. Invidia anche, forse, un po’. Ma non pena. Ogni cosa in lei ispira compassione, è vero, ma non lo sguardo. Non è la sofferenza che lo illumina, è lo stupore. Meraviglia colma di gioia, gioia così intensa da farle quasi male!»
«Ma di che cosa sarebbe felice, secondo te?»
«Che vi sia così tanta luce fuori da quella stalla. Che lei abbia osato uscire a vederla e che ora non indietreggi dinanzi a essa. Che tutto, e lei per prima, ne sia toccato e illuminato».
«Ma se quella luce non fa che mostrare com’è povera, deserta e squallida la sua esistenza! È così forte, così tersa! È impietosa, crudele, non attenua ma esalta ogni dettaglio spiacevole... Anzi, ora che ci penso non sono più così persuaso che il ragazzetto, come lo chiami tu, sia davvero innamorato di lei...»
«È innamorato di lei».
«Se lo fosse la trasfigurerebbe. Il suo sguardo, pur vedendo lo squallore del loro mondo, non potrebbe fare a meno di tramutare lei in una piccola principessa. Invece no!, la fissa altrettanto spietatamente, la mette in piazza, ne esibisce fin nei particolari il tristissimo stato. E senza la benché minima idea di quel che si potrebbe e dovrebbe fare invece per trasformarlo, il suo stato... Cioè la rivoluzione».’
Qui l’avvocato Pedianti s’interruppe di nuovo e mi scoccò un’occhiata sorniona, al di sopra della tela su cui m’industriavo di riprodurre le sue fattezze senza che ne trasparisse l’antipatia che suscitavano in me:
‘Va da sé, Traini,’ disse, ‘che oggi io non auspico più la rivoluzione. Sono tuttora comunista, beninteso, e disprezzo i voltagabbana quant’altri mai. Ma penso che il mondo, ammesso e non concesso che possa mutare, non lo si cambi che con le leggi, e con la persuasione che le menti forti e ordinate esercitano sui deboli. Talora anche con l’uso ben ponderato della forza, quando è necessario. E sempre e soltanto con l’aiuto di Dio. Però continuo a essere convinto che l’arte, nel dar conto della condizione umana, debba mostrarne al tempo stesso le potenzialità trasformative. È per questo, detto per inciso, che mi auguro che dal mio ritratto traspaia la mia determinazione nella vita privata e nel lavoro... Mentre nel ritratto di quella bambina, checché mio fratello s’illudesse di vedervi, non vi era che la più ottusa riproduzione della realtà. Glielo dissi e glielo ripetei, ma lui era tutto preso dalla sua idea ed euforico come un bambino che si è stancato troppo...’
‘Ma la bambina, Carla,’ non potei non domandare, ‘era la stessa che ora è donna in quest’altro dipinto?’
‘Sì e no. Abbia pazienza, e conoscerà tutta la storia... Come le stavo dicendo, insistei a lungo. Dovevo aver avuto una specie di premonizione, senza rendermene conto, perché insistetti fino a stupirmene io stesso, come se fosse una questione di vita e di morte... «Non credo proprio, Nello,» gli dissi, tentando di essere più convincente che potevo, «che una pur flebile luce si accenderà mai nell’anima di questa bambina. Quella che la illumina è del pittore, non sua. E mostra con freddezza che lei viene dal buio, e che non può non averne anche dentro di sé, e che le probabilità che con gli anni si faccia meno nero sono davvero minime!»
«Potrei convenirne solo se non vedessi che la stessa luce brilla anche nel suo sguardo...»
«Te l’ho detto: non è che pena. Disillusione e sofferenza».
«Sono io che te l’ho detto, invece: è stupore e gioia, e così intensi da farle male!»
«È dolore e basta. Disperazione. Al massimo un ultimo bagliore d’intelligenza prima dell’abbrutimento».
«Sai che ti dico, Mimmo? Che io, perché tu non abbia ragione, questo ritratto lo continuerò!»
«Cioè?»
«Gli darò un seguito. Dipingerò Carla com’è oggi. Tra i venti e i venticinque anni. Perché deve avere, io credo, tra i cinque e i dieci anni meno di noi... Che ne dici?»
«Questa è buona».
«È una buona idea, vero?»
«Potrebbe esserlo... ma per un pittore all’apice della carriera; per uno che fa milioni persino con un fazzoletto di carta, se ci scarabocchia qualcosa...»
«Ma che c’entra? Chiunque l’abbia, un’idea è buona o non lo è. E questa lo è».
«Sì, l’ho già ammesso, è buona. Ma a te, Nello, quanto ti ci vorrà per realizzarla? Quanto ci metti di solito a terminare un lavoro?»
«Non è questo il punto...»
«Tu dipingi sì e no due fine-settimana al mese, Nello. E metà delle volte sei troppo agitato, inquieto o depresso anche soltanto per incrociare lo sguardo col bianco della tela... Non solo: se proprio vuoi essere un pittore devi darti uno stile, una cifra ― non so come diavolo chiamate questa cosa voi altri, ma di sicuro mi capisci ― un modo che sia solo tuo, riconoscibile fra mille. Come dicevi prima, del resto... E soprattutto che sia facile da applicare, capisci? Facile!... Poi ti separi per un po’ ― niente di tragico, dici a Clara che hai bisogno di star solo per qualche tempo, ma che vedrai la figliola ogni domenica ― ti fai accordare un anno sabbatico dal monsignore ― che te lo darà, perché conosce la tua situazione e vuol bene a tutti noi ― vieni a casa, dove io porto i soldi e mamma ti serve di barba e di parrucca, e in sei mesi metti assieme una cinquantina di tele. Dopo di che organizzi la tua prima personale ― ti aiuto io ― e poi si vede... Potrei parlare meglio di così, fratello?»
«No, Mimmo... te ne sono grato... ma...»
«Mentre tu, Nello, ora come ora, in sei mesi se va bene dipingi una tela sola».
«Ma il punto non è questo, Mimmo, come te lo devo dire? Il punto è che io non desidero dipingere altro che questa bambina a venticinque anni. Ritrarla come penso, spero e desidero che lei da qualche parte sia ora, in questo momento, mentre noi ne parliamo e le fischiano forse le orecchie e le cadono le cose di mano! La giovane donna che vorrei incontrare. E amare. Come il ragazzetto che l’ha dipinta da bambina. Che forse ero io, in un certo senso, non credi? Che dalla millecento di papà la vedevo per un attimo nello splendore riarso dell’aia in una domenica d’estate, le gambe nude piene di lividi, i calzini bianchi, i sandaletti consumati...»
«E la tua testa fra le nuvole,» m’intenerii mio malgrado, «che anche ad Agosto si riflettevano in bianco e nero sul finestrino, chiuso perché mamma aveva paura di spifferi e correnti come dei diavoli dell’Inferno!...»
«Mi capisci, allora, fratello mio?» disse lui, gli occhi a un tratto lucidi.
«Anche troppo bene, fratello...» risposi, turbato.
Per tutta la discussione il ritratto di Carla era rimasto tra le mie mani senza che più gli rivolgessi un’occhiata. Avevo visto abbastanza. Sapevo tutto. Ora, invece ― mentre entrambi, o almeno io, tacevamo nel tentativo di soffocare la commozione che nuove parole avrebbero potuto far deflagrare ― non potei non guardarlo ancora a lungo attentamente, intensamente, come se di punto in bianco potessi vedervi chissà cosa che non avevo veduto prima. Ma il mio giudizio non cambiò, né in realtà mi attendevo che lo facesse:
«È una povera burinetta ignorante e triste, Nello».
«Non è triste!» ribatté, ostinato.
«Come ti pare! Ma comunque: è una bambina di paese tra i ’50 e i ’60. Cosa vuoi che sia diventata, quindici anni dopo?... Li leggi gli articoli di Pasolini sul Corriere? Ce l’hai un’idea del lavaggio del cervello che i figli dei contadini inurbati subiscono dalle vetrine, dai fotoromanzi, da Carosello? E che la scuola democristiana non ostacola ma avalla? Ti domandi mai perché i compagni della sinistra extraparlamentare siano quasi tutti di famiglia borghese, se va bene operaia, e i figli dei contadini si contino invece sulle dita? È ben per questo che vogliamo fare la rivoluzione che il PCI non fa più neanche finta di volere, no? Per far sì che i bambini come lei abbiano un’opportunità reale, Nello, non fantastica. Un’opportunità che non sia un miraggio su uno schermo, o magari su una tela come quella che vuoi dedicarle tu!... Ti sembra giusto o no, quello che dico?»
Di nuovo quell’espressione amareggiata, di nuovo quell’assenso.
«E allora te lo chiedo un’altra volta,» insistei, «come vuoi che sia diventata? In paese non sarà rimasta, te lo concedo, o almeno non del tutto. Anche perché il paese con ogni probabilità sarà più o meno in agonia, ormai... Saranno ancora lì i suoi genitori? E lei, sarà magari riuscita a fare il liceo? Si sarà iscritta all’Università? Sarà una fuori-corso a Lettere, a Lingue, a Filosofia?... Come vedi ti sto facendo un bel po’ di concessioni, perché in realtà può darsi che invece sia ancora in paese, abbia sposato un autista o un portantino più o meno fascista e abbia già messo al mondo un paio di figli... Ma ammettiamo pure che viva in una grande città, abiti in una casa dello studente, vada a mangiare a mensa, studi in biblioteca, stia addirittura per laurearsi... Tu ad Architettura ne avrai viste poche, ma hai una vaga idea di quante ne ho incontrate io quando da Giurisprudenza migravo a Lettere per andare ai collettivi? Centinaia, ne ho viste, di queste paesanelle meridionali coi fianchi e le facce troppo larghi, le gambe troppo corte e i libri sotto braccio... Che magari a poco a poco gli resta addosso non so che infarinatura culturale fatta solo di parole, che magari diventano anche di sinistra, che magari cominciano perfino ad andare in giro in jeans e a fare le femministe, perché no? Ne ho viste a bizzeffe! Ma nell’anima gli resta il buio che hanno alle spalle e da cui non sono mai uscite, e mentre perfino si laureano ― con una qualche stupidissima tesi teleguidata su un poetucolo che nessuno conosce ma serve al barone, che so io?, un Giovanni Marradi, un Aleardo Aleardi ― mentre perfino si laureano tu già glielo leggi in faccia come se vi fosse stampato che al destino non sfuggiranno, che il buio che hanno ancora dentro ha già preso a rodergli il poco che hanno imparato, che fra pochi anni avranno dimenticato tutto, tutto, che le ritroverai sposate a uno stronzo, rimbambite da un lavoro senza creatività, dietro ai figli e alla casa e davanti alla televisione, già morte a trentacinque anni. E né loro né nessuno ― nessuno, capisci? ― si rammenterà o gl’importerà un fico secco della luce che qualche ragazzetto s’illuse di vedergli negli occhi quando ne avevano dodici.»
«Parli come se ce l’avessi personalmente con lei, Mimmo...»
«Non dire sciocchezze. Parlo senza fantasticare, ecco tutto. Per quel che vedo e che so».
«E l’Italia?»
«Che c’entra l’Italia?»
«Vuoi sapere a che cosa m’hai fatto pensare con la tua filippica, Pasolini, il PCI, Lotta Continua e chi più ne ha più ne metta?... All’Italia. Capisci quel che intendo dire?... A Carla da bambina, da ragazza, da donna!... A un ritratto, guarda un po’!, in cui ci sia stata, ci sia e ci sarà tutta quanta la politica che voi altri pretendete dall’arte... Voi rossi duri e puri, onniscienti, tutta ragione che niente può mai turbare!... Dipingerò Carla come la ragazza che vorrei incontrare e amare ― libera, coraggiosa, appassionata, intelligente, saggia, piena d’amore e di fantasia ― e così, al tempo stesso, dipingerò il mio paese come vorrei che fosse...»
«Ah! Lo ammetti, dunque!... Come vorresti che fosse, non come è!»’
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5
‘Ma non riuscii a smuoverlo, e alla fine me ne tornai in città molto arrabbiato. Furibondo, addirittura. Seppi nasconderlo a mio fratello nel salutarlo e a nostra madre al mio ritorno, ma a me stesso soltanto finché in auto non cominciai a dar di fuori contro chiunque guidasse in un modo che non mi andava a genio...
Ce l’avevo con lui per la sua testardaggine. Perché fin da piccolo non si era mai dato il caso che almeno una volta facesse la scelta giusta. Ce l’avevo con me stesso perché non ero stato capace di persuaderlo. E ce l’avevo di nuovo con lui perché non potevo non volergli bene. Perché sapevo che avrei continuato, per tutta la vita che questo mio fratello avrebbe trascorso fra problemi e difficoltà che potevano solo aggravarsi, a preoccuparmi e a tentare di tutto con la certezza quasi assoluta che non avrei mai cavato un ragno dal buco.
Durò dieci anni questa storia, Traini... Sì, ha capito bene: non sei mesi, come ingenuamente temevo io, ma dieci anni Antonello lavorò al ritratto di Carla senza venirne a capo. Fra continue interruzioni, è ovvio. Dedicandogli due giorni per abbandonarlo una settimana, riprendendolo una settimana per lasciarlo un mese. Ricominciando, in un certo senso, ogni volta da capo. Mentre lui, a poco a poco cambiando ― e non in meglio, poiché era sempre più rabbioso, sfiduciato, depresso ― si ritrovava a guardarlo in modo sottilmente diverso ogni volta che vi si riaccostava... Ma la moglie non volle mai permettergli di dedicarsi alla pittura a tempo pieno. Né Antonello, docile come un cagnolino, si permise mai di lasciarla. Rimase con lei a farsi evirare giorno per giorno, ad assistere impotente alla distruzione di una figlia che oggi entra ed esce a mie spese dalle cliniche psichiatriche. A lavorare per il suo monsignore, che intanto fu fatto cardinale e un domani forse sarà papa. E che non perdeva occasione per suggerirgli, anche lui ― come me, tanto amorevolmente quanto invano ― di lasciar perdere una volta per tutte quell’arte e quell’opera che lo deludevano e tormentavano. Solo in una cosa le vedute del prelato e mie differivano: nel fatto che io tentavo pur sempre di convincerlo a separarsi, a tornare da me e dalla mamma finché non avesse incontrato una donna come si deve; mentre padre Benedetto ― come noi, in famiglia, in tutta semplicità l’abbiamo sempre chiamato ― com’è naturale per un sacerdote lo invitava a sopportarla cristianamente, quell’arpia che gli dava il tormento dalla mattina alla sera perché a suo dire trascurava la famiglia per la pittura. Cosa che era falsa, perché Antonello continuava a rifugiarsi al paesello solo nei ritagli di tempo, e sentendosi in colpa, e ben presto anche col dubbio crudele che fossero davvero sprecate, le ore che toglieva alla figlia e alla moglie, perché in realtà non era un artista, non c’era niente da fare, e glielo provava proprio quel maledetto ritratto che non gli riusciva. Cioè glielo provava lei, Carla, che da entrambe le tele non faceva che guardarlo, sfidarlo, farsi beffe di lui: da bambina perché era stato un altro a dipingerla così bella, da ragazza continuando a sfuggirgli, a sparire, a eludere ogni suo tentativo di «renderla adulta ― come diceva Antonello nei primi tempi, ma come da un certo momento in poi non disse più ― senza tradire né lei né sé stesso». Tanto che giunse a parlarne come di una donna realmente esistente ― «Vado da Carla,» diceva, per esempio, annunciandomi che avrebbe trascorso il fine-settimana al paese ― e lo stesso prendemmo a fare anch’io e nostra madre: «Quella gli succhia il sangue, mamma!» le dicevo... Solo che io, in cuor mio, non la sentivo affatto come una persona reale, ma come una sorta di fantasma, uno spettro malefico, un incubo appollaiato sul suo petto a risucchiargli il fiato dai polmoni e a fermargli il cuore...
L’esito di tutto ciò, in capo a dieci anni, fu la sua morte. E prima di essa la sconfitta, il fallimento più totale... Tutto per colpa di questo ritratto, Traini!’ esclamò, indicando col pollice il dipinto alle sue spalle.
‘Ma lì c’è una donna, non una ragazza!’ esclamai.
‘Certo!...’ rispose. ‘Poiché lui l’ha lasciata a me, e alla fine sono stato io a darle la forma definitiva... Vede, Traini, quando dico che Carla ha ucciso mio fratello... ebbene: non è una metafora. È ciò che ha fatto. E io, da fratello ― nonché da pubblico ministero, da giudice e da boia ― sono colui che gliela fa scontare’.
‘Intende dire che ha volutamente alterato il dipinto?’
‘Antonello aveva deciso di ritrarla sullo sfondo di un bel salotto, in una casa spaziosa, piena di luce, ben arredata. Per dire che era andata dalla miseria verso il benessere, e che la luce che l’aveva accolta all’uscita dalla stalla aveva scacciato il buio dalla sua esistenza. La voleva in piedi e in movimento, nell’atto di voltarsi verso l’osservatore; e voleva che, nello sguardo che gli avrebbe rivolto, l’emozione suscitata in lei da ciò che stava guardando al di là delle vetrate si fondesse con quella che egli le ispirava e con cui desiderava accoglierlo. Osservatore che era lui, naturalmente, rispetto al quale Carla sarebbe stata in controluce e al tempo stesso avrebbe brillato di luce propria... No, non badi a ciò che dalle vetrate si vede ora: sono io che l’ho voluto, sì, sono io che ho cancellato e ridipinto. Per punizione, capisce?... Perché impari a stare al mondo, io di tanto in tanto la punisco. Perché diventi come voglio io. E come anche Nello avrebbe voluto, se non fosse impazzito... A volte, per esempio, giro il quadro contro il muro e lo lascio così per giorni, per settimane, per mesi. Poi lo rigiro, e quasi sempre constato che il castigo ha dato effetto: poiché l’umidità, il mancato ricambio dell’aria, l’assenza di luce agiscono sulla composizione chimica dei colori e perfino sulla trama della tela, allentandola e addensando polvere e ombra nelle increspature che a mano a mano vi si formano... Mentre l’identica vista da entrambe le vetrate non cessa mai, è per sempre, come l’ergastolo. Il vuoto, l’immondizia, il perpetuo squallore e soprattutto l’immobilità, la fissità: un contrappasso appena adeguato per una cara vita stroncata, non le pare?... Antonello ci aveva messo dei monti, là fuori, invece della spazzatura, e tra i monti e gli ombreggiati boschi di noci il paesino in cui l’aveva conosciuta ― come diceva lui, parlandone come di una donna reale ― e in cui lei aveva trascorso l’infanzia fino al giorno del primo ritratto... A proposito, le ho detto che cercò di scoprire chi fosse il famoso ragazzetto e che fine avesse fatto? No? Voleva apprendere da lui, s’immagini un po’. Ma nessuno ne sapeva nulla, come se non fosse mai esistito... Lo so, Traini: lei starà pensando che sia pazzo anch’io, a vendicarmi su un oggetto inanimato di quella che a questo punto le sembrerà un’oscura tara ereditaria che dopo mio fratello stia colpendo anche me. Ma io non ce l’ho, una moglie a cui far scontare le colpe delle altre. E poi in realtà non è neanche questo: non è vendetta, la mia, è solo il tentativo ― che vede ormai anche nel mio caso il decimo anno, ma che questa volta sta riuscendo ― di portare a termine quel che mio fratello intraprese invano. Poiché io, a differenza di lui, l’ho sempre saputo benissimo come Carla sarebbe stata a venticinque anni. O a quarantacinque, quanti deve averne oggi se non è morta anche lei. Mi manca solo la competenza tecnica, non ho mai saputo disegnare né dipingere; avrà notato ― se ha osservato il dipinto con attenzione ― che tutto ciò che so fare è cancellare, sfumare, tracciare linee rette, comporle in griglie, riempirle di una qualche tinta uniforme... Ma chi se ne frega, perché tanto Carla... il dipinto... cambia da sé. Come? Gliel’ho detto or ora: lo cambia il tempo, lo cambia la polvere, lo cambiano gli agenti atmosferici, lo cambia la sua stanchezza stessa, il graduale cedimento della materia di cui è fatto. E io sono diventato molto bravo ― ora che ci penso, anzi, ho inventato una nuova forma d’arte: l’arte che si fa da sola ― sono diventato un esperto nel servirmi d’ogni sorta di fenomeni naturali e artificiali per sfinirla, umiliarla, annientarla... E forse converrà con me, Traini ― riconoscimento di cui sarei orgoglioso, perché lei è un artista autentico ― che ciò che infine ho conseguito non è del tutto banale: Carla da grande adesso ce l’ha, il suo ritratto ― benché di mezz’età e non da ragazza ― e qualche progresso materiale in fondo l’ha compiuto, rispetto alla stalla buia da cui uscì...
Sa, Traini: un giorno, verso la fine ― qualche mese prima che Antonello si chiudesse la testa in un sacchetto di plastica come se fosse immondizia ― io, pieno di buona volontà, tornai a trovarlo al paesello. Lo facevo spesso, beninteso, e ogni volta con più determinazione, poiché lui mostrava di gradirlo sempre di più; ma quel mattino di buon’ora bussai alla sua porta con una fiducia, in me e soprattutto in lui ― o forse dovrei dire con una fede ― assai più intensa e salda di quella che gli avevo recato le volte precedenti. E invece trovai che non c’era più niente da fare, perché tutto finalmente era finito da sé: il ritratto di Carla era compiuto.
Me lo annunciò mentre ero ancora sulla soglia, mi tirò dentro per un braccio e mi condusse di filato a vederlo. Ma io mi accorsi subito che non ne era orgoglioso. Che non era felice. E lui dovette intuirlo dal mio sguardo, poiché mi raccomandò in tono scherzoso di non cominciare secondo il mio solito ad almanaccare chissà che cosa sulla base della sua aria e dei suoi modi: andava tutto bene, disse; era a terra, sì, ma solo per l’improvvisa caduta di una tensione nervosa durata dieci anni. Era come dopo un esame. Come dopo la laurea...
Le ho già descritto com’erano allora il salotto e il panorama dalle vetrate. Manca solo la cosa più importante: com’era lei... Ora, Traini, provi a dimenticare la donna spenta e istupidita che vede alle mie spalle, e cerchi invece d’immaginare una stupenda ragazza che dalle finestre della sua bella e confortevole casa romana contempla, forse con gli occhi dell’immaginazione, il remoto paesello in cui fu bambina quindici anni fa. Che cosa starà pensando, secondo lei? Il paesello è laggiù, nel passato, con la sua miseria, il gelo, l’ignoranza, il buio che fuoriesce lento dalle stalle come il vapore dalle frogie delle bestie. E al tempo stesso è anche qui, negli occhi di Carla, nella sua mente, nel cuore, e fluisce e si spande nel salotto attraverso le vetrate, nei riflessi di cui decora la mobilia, il parquet, i vetri, le porcellane: è diventato un ricordo, è ricchezza dell’anima, e il gelo si è mutato in calore, l’ignoranza in conoscenza, la tenebra in luce... Che cosa starà pensando Carla? Ma ecco che sente aprirsi una porta dietro di lei, ed ella sa chi è, e si volta ad accogliere l’autore del suo ritratto come se egli stesse entrando nell’immagine da lui creata per condurla con sé nella realtà... Ci pensi, Traini: come ci guarderebbero, le creature dell’immaginazione, il giorno in cui aprissimo loro le porte delle nostre opere per farle entrare nel mondo reale? Come un figlio guarda la madre che lo ha messo al mondo? Sono due, le possibilità: come Pinocchio guardò la Fatina dai Capelli Turchini quando venne a trasformarlo in un bambino vero, oppure coprendosi gli occhi per la disperazione, come Adamo ed Eva quando Dio li scacciò dal Paradiso Terrestre... E Carla, invece ― che nelle indimenticate parole di Antonello sarebbe dovuta essere una ragazza «libera, coraggiosa, appassionata, intelligente, saggia, ricca d’amore e di fantasia» ― Carla era davvero stupenda, sì, ma guardava il suo creatore con l’aria scaltra, di sfida, proterva, di una ragazzaccia che crede di poter appendere il mondo intero alla propria bellezza come un pendaglio all’orecchio: l’aria di una puttanella astuta, che si befferà di tutti e di tutto finché non le parrà ora d’immobilizzarsi accanto a un marito contento e canzonato come una murena dagli occhi assassini in un anfratto di roccia... Di nuovo in una grotta. Di nuovo al buio.
E Antonello lo sapeva. Era una domenica mattina di fine agosto ― ultimi giorni dell’ultima estate, per lui che non sarebbe arrivato a Natale... Per una volta si era potuto permettere di starsene lì tutto solo a dipingere per un mese dopo aver promesso alla moglie che una volta terminato il quadro avrebbe lasciato perdere la pittura per almeno un anno. E aveva finito, aveva finito! Tant’è vero che la casa era in ordine, pronta per esser chiusa per l’inverno, le sue cose da pittore tutte riposte e imballate, le valigie accanto alla porta. Ma lui ebbe come un cedimento, mentre esaminavo il ritratto ― con la coda dell’occhio vidi ridursi in altezza e spessore lo spazio occupato dal suo corpo come se si stesse pian piano liquefacendo ― e quando lo guardai c’era nei suoi occhi un vuoto senza fondo ― quella plumbea opacità che i nostri avi chiamavano noia, e che poi a poco a poco è rimasta senza nome ― che mai e poi mai avrei immaginato di scorgere un giorno in essi.
«Non ci riesco, Mimmo!» gridò, vedendosi scoperto, più con odio che con disperazione. «Non ci riesco! Non ci riuscirò mai!... È brutta! Lo vedi com’è brutta?... Sembra...sembra una puttana!»
Non dimenticherò mai come mio fratello pronunciò quella parola, Traini. Non avevo mai udito nessuno pronunciarla così. Con una sorta di pudore, con disperata vergogna, come se non volesse, non volesse a nessun costo dirla e tuttavia dovesse, non come lo dice un uomo di una donna, ma come un padre che è costretto a dirlo di una figlia amatissima: «Sembra una puttana!» gemette, e pianse. Era così stanco, e quel grido aveva a tal punto dato fondo alle sue ultime energie, che piangeva senza voce e quasi senza lacrime.
Volle che lo prendessi io, il dipinto. Capii, dopo la sua morte, che proprio in quel momento aveva deciso di suicidarsi, e che perciò me l’aveva affidato. Così come capii che io, accettandolo, in quello stesso momento probabilmente decisi che l’avrei continuato e terminato al suo posto... Carla da bambina invece non c’era più, sulla mensola del camino. Era scomparsa, e la cosa dovette apparirmi talmente ovvia che né quel giorno né dopo mi venne fatto di domandargli dove fosse andata a finire. Non fu mai più ritrovata.
Nei mesi che seguirono, però, Antonello fece, senza che alcuno glielo chiedesse, quel che io avevo sempre sperato e pregato che facesse: lasciò la moglie, venne a stare qui e dipinse per l’ultima volta: sì, proprio quello, il ritratto di nostra madre sul quale lei, Traini, ha avuto la bontà di soffermarsi con tanto interesse la prima volta che entrò in questo studio. Se si fosse deciso prima, se mi avesse dato retta, io credo che non sarebbe morto. E confido che questa mia ultima frase non le suonerà ingenerosa o immodesta, poiché neanche lei è più così giovane da poter ignorare come sia dolorosa l’esperienza del rifiuto di fidarsi della nostra saggezza da parte di chi ci è caro, e quanto tragico lo scacco che esso continuamente ci infligge in ogni nostro rapporto.
Da allora, Carla e mia madre sono l’una dinanzi all’altra. Tranne quando Carla è voltata verso il muro per castigo. Mia madre è sempre più bella, perfino più giovane. Carla sempre più vecchia e brutta. La casa è come mia madre la volle, e così resterà. Come avrebbe voluto Carla, invece, non lo sarà niente. Mai’.
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6
Me ne tornai a casa, Nicola mio...” proseguì Enrico, un po’ affaticato, riempiendomi un altro bicchiere, “e per giorni e giorni non feci che riflettere su questa storia. Non potevo pensare ad altro: faceva parte della mia, ora, e sentivo che se non l’avessi compresa e risolta vi si sarebbe incistata e avrebbe fatto anche a me tutto il male che i gemelli Pedianti le avevano lasciato dentro come un aculeo velenoso... Riesci a immaginare come fu difficile e straordinario, per me, quel periodo? Come fu inebriante e doloroso? Non avevo che le mie intuizioni, su cui basarmi per capire, e nessuno accanto a me che le confermasse o smentisse. Eppure, a poco a poco, riuscii a restaurare in ogni dettaglio la verità che il caro Mimmo aveva così sottilmente travisato”.
“Vuoi dire che aveva mentito?” lo interruppi. “La storia in realtà era andata diversamente?”
“Qualche grossa bugia l’aveva detta, sì. Per esempio, non è vero che della famiglia di Carla nessuno sappia più niente: la mamma vive ancora in paese, stimata e benvoluta dalla maggior parte dei concittadini, e la sua casa non è affatto in rovina. Così come non è affatto vero che il ‘ragazzetto’ sia scomparso nel nulla: è solo venuto a vivere in città, ha finito col preferire l’architettura alla pittura e progetta edifici, soprattutto per abitazioni, in cui, senti: la circolazione e la purezza della luce ― l’ho letto in un suo articolo su una rivista specializzata ― non siano meno libere e vitali di quelle dell’aria che vi si respira.”
“Ma allora era stato Antonello a mentire, perché queste cose a Mimmo gliel’aveva dette lui!...”
“Non credo, sai? Le sparizioni, in questa storia, sono tutta farina del sacco di Mimmo: è lui quello che annulla, cancella, nasconde nei cassetti, volta contro il muro. È suo il rancoroso piacere della damnatio memoriae. Antonello, all’opposto, stava male perché non riusciva a far sparire. E perché, al tempo stesso, non sopportava ciò che non poteva fare a meno di vedere. È per questo che alla fine si è ucciso, per chiudersi gli occhi. Mentre Mimmo no: lui è di quelli che non si uccidono mai, che preferiscono di gran lunga far crepare gli altri...”
“Ma tu come l’hai saputo, della madre di Carla e del ragazzetto? Non mi dirai che anche questo te lo sei trovato, compreso e risolto fra te e te, a forza d’intuizioni e d’intelligenza?!”
“E se fosse?”
“Vorresti farmi credere...”
“Io non voglio farti credere niente. Ma tu, sei o non sei uno scrittore? E puoi ignorare, se lo sei, che non vi sono che due vie per la verità: l’esperienza e l’invenzione? E che la seconda, sotto ogni rispetto, è quella che conduce più lontano e più in alto? Dove la verità e il suo creatore rimangono poi soli soletti a contemplare l’orizzonte, in paziente attesa che li raggiungano quelli che con fatica si arrampicano sull’esperienza?”
Come vi ho già detto Enrico è così: non solo pittore, ma anche letterato e filosofo. È per questo che lo ammiro. Ma quando mi sembra che la fantasia gli prenda un po’ la mano non posso fare a meno di punzecchiarlo:
“Quindi non lo sai, in realtà!” dissi. “Non con certezza, almeno...”
“Lo so, invece, e con certezza. Perché non è possibile che sia vero quel che racconta Mimmo e falso ciò che sento io... E poi, Nicola ― dal momento che per distinguere la verità dalla menzogna hai bisogno di prove, come chi non sa se è amato o no finché non glielo dimostrano ― sappi che almeno una prova io ce l’ho che Pedianti mi ha mentito, ed è che non è affatto vero che il ritratto della bambina fosse andato perduto. Ce l’aveva lui, anche quello. E come ha mentito su Carla da bambina, così deve averlo fatto anche sulla sua famiglia e sul ragazzetto. Perché i tipi come Pedianti son fatti così: quel che riescono ad arraffare lo sprecano e sciupano, e su quel che gli sfugge calunniano e mentono. Perché la menzogna, là dove non è riconosciuta come tale, dà potere su tutto ciò che tocca, perfino su quel ch’è immenso o irraggiungibile: sul passato, sul futuro, sui moti delle stelle, sugli dei, sui cuori delle donne... E il ritratto di Carla da bambina infatti se l’era preso lui: lo teneva in un tiroir di quella stessa scrivania che ogni mattina accostavamo alla finestra per far posto al mio cavalletto. Cominciai a sospettarlo riflettendo sul carattere di Antonello, rendendomi conto che mai e poi mai sarebbe stato capace di disfarsi di un oggetto che aveva su di lui un potere di vita e di morte. E ne ebbi la prova, poiché neanch’io in fondo le disdegno del tutto, la notte in cui m’introdussi in casa di Pedianti e gli rubai il ritratto di Carla. Per trovare anche la bambina, col terrore d’imbattermi in chissà quale scempio, mi bastò rovistare un po’: era in un cassetto, avvolta alla bell’e meglio in un foglio di carta da regali usato, ed era intatta. Il che mi parve un miracolo, considerando ciò che Pedianti aveva fatto all’altra, ma in realtà non lo era: perché vi è una forza, in questa bambina ― come ora vedrai ― che terrebbe a bada anche un boia sul patibolo...”
Si alzò, uscì e quasi subito rientrò con un quadretto delle dimensioni di un foglio di carta da fotocopie:
“È della mia compagna, ora. Le piace così tanto che gliel’ho regalata...” mi spiegò. “Guardala bene, amico mio, e ti renderai conto anche tu che né Pedianti né Antonello avevano capito la cosa più importante...”
A dire il vero non la vidi subito, la differenza tra la descrizione che l’avvocato Pedianti aveva fatto a Enrico (ed Enrico a me) e l’immagine che era adesso fra le mie mani. Solo il visetto non era come me l’ero raffigurato, perché inconsciamente avevo attribuito a Carla da bambina i lineamenti di Maria, la mia fidanzatina di quando avevo tredici anni... Ma poi, a un tratto, mentre con un senso di lieve delusione mi accingevo a restituirgliela, la luce che emanava dal suo paffuto visetto di dodicenne, varcando alla velocità che le è propria l’immensa distanza tra lei e me, raggiunse finalmente i miei occhi e in un baleno li rese assai più potenti e acuti:
“E non se ne sono accorti!...” gridai. “Ma com’è possibile?”
“Di Pedianti non c’è da stupirsi, ti pare? Quelli come lui non son fatti per vedere e capire, ma per credere e sapere. Mentre Antonello se ne accorse, tanto che vide in lei la più bella ispirazione della sua infelice carriera di pittore, ma un attimo dopo corse a telefonare al fratello perché venisse a dirgli come la vedeva lui. E quando Mimmo insinuò che faceva pena, che al buio non sarebbe mai sfuggita, Antonello fece resistenza, sì, ma intanto cominciò a credergli, a pasticciare, a perdersi quel che aveva intuìto. Perché ci vedeva bene, ma dal cuore e dalla mente non era mai riuscito a togliersi l’anaffettività e l’insensatezza della madre, di Mimmo, del monsignore. Perciò faceva tanta fatica a dipingere: perché non era mai solo, alla finestra dei suoi occhi...”
“Eppure è così evidente!...”
“Che la bambina gioca?... Certo che lo è! Gioca col ragazzetto! Ha indossato un vecchio vestitino, come le ha chiesto lui; lo ha seguito fino alla stalla abbandonata, come voleva lui; e si è messa in posa, vedi?, lo si capisce dalla posizione lievemente innaturale dei piedini: si è messa in posa per lui. Non è così povera né malmessa come sembrava ai gemelli Pedianti, in realtà; ma ha intuìto che è così che egli desidera che appaia, e gioca a compiacerlo, con la sua malizia di bambina che non capisce bene quel che lui vuole da lei e che fra sé e sé un pochino lo prende anche in giro, ma che ad accontentarlo prova piacere, si diverte come se entrasse in una fiaba un po’ misteriosa, non priva di pericoli, ma dalla quale è sicura che verrà fuori sana e salva perché la più forte è lei... E la più forte è lei, glielo si legge negli occhi: per quanto il ragazzetto sia bravo, pieno di talento, sicuro di sé e di ciò che intuisce come può esserlo soltanto un adolescente di genio, in lei non c’è solo quello che ci vede lui ― benché non sia affatto poco, eh? ― non c’è solo la luce in cui lui l’accoglie e di cui le fa dono, ma di più, molto di più, mille volte più di quanto lei stessa immagini! Ed è nel suo sguardo, vedi? Nello sguardo che egli ha saputo sostenere, e come un alchimista tramutare in movimento della propria mano, in colore, in densità, pur senza capirlo e avendone perfino un po’ di paura. Nello sguardo che a Mimmo sembrava disperato, povero pazzo!, e ad Antonello colmo di gioia. E di gioia senza dubbio ve n’è, certo, ma è la gioia di sentirsi così forte, la forza che ogni donna scopre di possedere quando per la prima volta si rende conto del proprio assoluto potere sugli uomini. Come avrebbe potuto, anche il ragazzetto, non averne paura? Non v’è dubbio che ne abbia avuta, perché a 15 anni sei un Cherubino, se sei un Mozart, e le donne per l’appunto una forza della Natura di fronte alla quale ti puoi dare tutte le arie che vuoi ma sei come un grano di polline nella corrente di un fiume, e lo sai. Di certo non se l’aspettava, lui, finché non si son ritrovati l’uno dinanzi all’altra, che la luce negli occhi di Carla sarebbe stata più vivida, più misteriosa, più potente della sua. E di certo non l’avrà del tutto compresa, perché del tutto comprenderla non si può mai. Ma ha saputo sostenerla, non l’ha alterata, l’ha lasciata passare attraverso di sé, fluire intatta nella mano e nel pennello, mutare di sostanza e di forma senza snaturarsi: ed è riuscito, così, ‘a non tradire né lei né sé stesso’, come avrebbe detto Antonello... Il quale la vedeva anche lui, quella luce ― poiché, come ti ho detto, Antonello non poteva non vedere ― e così bene che alla fine c’è arrivato, anche se ci ha messo dieci anni!, a riaccenderla sana e salva nello sguardo della Carla di venticinque. Ma a quel punto non ha retto, ce l’aveva fatta con la bambina ma dinanzi alla donna è crollato: poiché per lui guardare negli occhi una donna così, sentire il potere di una donna non distrutta, era come incrociare lo sguardo di una tigre. E ancora una volta ha chiamato il fratello, ancora una volta ha imposto ai propri occhi l’odio e il disprezzo della mente che la madre aveva coltivato in entrambi ― anche se in lui con minore successo ― e l’ha vista come volevano loro: una ‘ragazzaccia’, una ‘scaltra puttanella’, una che ‘credeva di poter appendere il mondo alla propria bellezza come un pendaglio all’orecchio’... L’aveva fatto per tutta la vita, per tutta la vita era rimasto sospeso come un equilibrista sull’abisso tra vedere e annullare, conoscenza e ignoranza, amore e odio; ma questa volta è stato il fallimento totale, definitivo, senza possibilità di remissione...”
“Vuoi dire perché ormai era troppo vecchio per ricominciare? Ma anch’io, Enrico, tuttora ricomincio da capo quasi ogni giorno, e ho più di quarant’anni. Se dovessi perdere il coraggio solo per questo...”
“Non tanto per l’età, Nicola, né per le mille scelte sbagliate, e nemmeno per tutto il ciarpame di cui la madre e il fratello come imbalsamatori gli avevano riempito il cuore e la mente, ma soprattutto perché questa volta aveva permesso e collaborato a colpire e a distruggere, dentro di sé, la sola cosa che fino a quel momento era riuscito in parte a proteggere: il suo sguardo da pittore. La finestra buona, la chiamo io: quella delle due da cui qualche volta riusciva a vederci bene. Dopo di che, come Pedianti, si è ritrovato a vedere da ogni pertugio sempre la stessa cosa. Come Pedianti, ma senza la sua cattiveria. E ha capito che per lui era finita.”
“E Pedianti di tutto questo non ha mai capito niente, vero?”
“Chissà... I tipi come lui, amico mio, sono sfingi: non sai mai fino a che punto siano ciechi e quanto invece fingano di non vedere, quanto siano stupidi e quanto invece simulino la stupidità per colpire, ferire, uccidere, quanto travisino e quanto invece mentano. Come hai sentito mi disse un bel po’ di bugie, e ciò farebbe pensare che capisse molto più di quanto si potrebbe credere. Ma al contempo fu anche così dettagliato e preciso, che alla fin fine non posso negare che lui stesso mi fornì il materiale per conoscere e comprendere a fondo tutta la storia... Cominciai a stupirmene nel momento stesso in cui acconsentì a parlarne, perché per lui ero un estraneo col quale aveva scambiato sì e no duecento parole in diverse settimane di lavoro. Ma poi, ripensandoci, a poco a poco mi fu chiaro che non poteva farne a meno: compresi, cioè, quanto era intenso il suo senso di colpa per la morte del fratello e quanto aspro e urgente il bisogno di liberarsene convincendo della propria innocenza uno come me, nel quale inconsciamente lo rivedeva...”
“Ma perché in colpa?”
“Non ti è chiaro?... Perché era stato lui, in realtà, a uccidere il fratello, e sotto sotto lo sapeva bene.”
“Vuoi dire...”
“Sai anche tu, credo, e forse meglio di me, quanti della nostra generazione non siano sopravvissuti a quegli anni. Gli anni, dico, in cui Antonello tentò di dipingere Carla come egli desiderava immaginare che fosse in quegli stessi anni, poco più di una decina a partire dal ’68, in cui non pochi morivano e altrettanti si suicidavano. Alcuni, però, conservando l’apparenza della vita ancora per molto tempo... Come il caro Pedianti, per dirne uno: tanto rivoluzionario a parole e negli atteggiamenti allora quanto rigido, paludato e plumbeo ai giorni nostri. E come ogni estremista, del resto, che in genere ― se sopravvive al tentativo di illudersi di essere un vero ribelle praticando il furto e l’assassinio ― con l’andar del tempo si trasforma in una patetica macchietta se povero e in un fior di reazionario se ricco. Mentre Antonello la rivoluzione la fece davvero quando sperò e tentò di separarsi dalla madre, di evadere dalla sua soffocante tutela, dalla paurosa immobilità che imponeva ai figli nella vita pratica e nel pensiero, dalla religiosa fissità della mente in Dio che gli ottundeva la fantasia e l’intelligenza; ma la fallì quando sposò e accettò una donna che dalla madre non era diversa che per l’aspetto esteriore suo e delle idee che professava, poiché nel rapporto con lui voleva imporgli la stessa ritualità senza desiderio, lo stesso conformismo senza fantasia, lo stesso aggirarsi come sonnambuli in un’incomprensibile giornata che nel ripetersi identica fino alla morte non conosce altro progetto che la propria immutabilità né altri progressi che quelli della senescenza, la stessa perversa attrazione per la malattia, la disgrazia e il crimine che nel loro essere gli unici cambiamenti ammessi non si possono che festeggiare, e non del tutto inconsciamente. La fece davvero quando sperò e tentò di esser diverso da Pedianti, il politico senza creatività che s’intestardisce come un toro a voler cambiare la realtà a cornate, con la forza e la legge, mai neanche immaginando che vi sia in ogni essere umano un mondo fantastico e di pensiero cosciente e inconscio che è la fonte di tutto ciò che accade; ma la fallì quando di nuovo ne accettò la guida credendolo buono. La fece davvero quando sperò e tentò di essere un artista, un uomo libero che liberamente crea e ricrea il mondo e gli esseri umani come se fosse Dio, solo per la gioia di farlo, e poi dona le proprie creazioni agli altri; ma la fallì quando non ebbe il coraggio di andare fino in fondo e accettò la tutela e la schiavitù del lavoro. E soprattutto fece davvero la rivoluzione quando tentò un ritratto di donna che fosse l’opposto della madre e della moglie, ma la fallì quando non accettò l’immagine da lui stesso creata, ne ebbe paura al punto di accecarsi e la consegnò al fratello affinché la distruggesse in vece sua. Perché quell’immagine pretendeva che egli fosse alla sua altezza.
Poiché siamo così, noi umani: quasi mai degni di ciò che concepiamo e diamo alla luce. E Antonello non fece eccezione: dal seme che lo sguardo di una bambina gli aveva messo nel cuore aveva tratto, in dieci anni di lavoro e di lotta, l’immagine di donna che non aveva mai avuto ― o che tutti avevano aggredito in lui finché non l’aveva smarrita ― e poi, quando finalmente la vide, ne ebbe paura: troppo ‘libera, coraggiosa, appassionata, intelligente, saggia, piena d’amore e di fantasia’ perché ne reggesse la vista e la consapevolezza. Credette al fratello, alla madre, al monsignore, troppo stupidi per fare un’immagine di donna diversa da quella che altri stupidi avevano consegnato loro: sposata e fedele per domarne la sessualità che rende liberi, prostrata dai lavori di casa per logorarne il coraggio che induce a ribellarsi, consunta nel corpo e nella mente perché ne avvizziscano la passione e l’intelligenza che trovano sempre nuove vie di salvezza, resa un puro spirito affinché né l’amore né la fantasia insorgano più a turbarne la tranquilla attesa della morte... Gli credette, abbandonò Carla perché la distruggessero, e il fratello la prese e iniziò a distruggerla. Quando la vidi io, c’era quasi riuscito. Punendola, per dirla come lui. Facendone, cioè, quel che dal primo istante aveva voluto che diventasse.”
Tacque, Enrico, a questo punto, e in silenzio rimase a guardare, dietro di me, quello che chiamava il ritratto di Carla ― anche se la stanza era vuota e Carla vi era stata cancellata ― abbastanza a lungo perché cominciassi a temere che non avrebbe aggiunto altro. Mentre io volevo saperne di più...
“Non ho capito, però,” dissi, “perché sarebbe stato il fratello a uccidere il fratello...”
“Perché quella domenica di fine agosto, quando Antonello gli mostrò il ritratto e lo disse compiuto, Pedianti esercitò senza pietà il potere che lui non gli avrebbe mai dovuto offrire e stroncò la sua opera senza una parola: solo con lo sguardo, tenendola fra le mani in un certo modo, con pochi, minimi, quasi impercettibili aggiustamenti dell’asse del suo corpo da burattino da una parte e dall’altra di essa. Quanto bastò per convincere il fratello che ciò che temeva era più vero di quel che sperava. Tutto sarebbe potuto andare diversamente se in quel momento, con la medesima quieta eleganza, Mimmo avesse espresso ammirazione o addirittura desiderio. Ma non poteva. Non aveva mai desiderato una donna in vita sua. Qualche creatura che aveva creduto tale forse sì, ma non una donna. Poiché una donna, Mimmo, non sapeva neanche cosa sia. Non ne aveva idea. Ed era talmente atterrito dall’idea che aveva fatto sparire, da decidere, pur di continuare a non averla, di far pendere più o meno consapevolmente verso la morte la fragile bilancia della mente di Antonello... Del resto, ricorderai che fingendo (fors’anche con sé stesso) di provar compassione e tanta voglia di lotta, egli aveva già sottilmente svalutato agli occhi del fratello la fonte stessa della sua ispirazione: Carla da bambina”.
“Ma il ritratto di Antonello non poté distruggerlo. Stava per riuscirci, ma sei entrato in scena tu!...”
“Era una famiglia fatta così. Chi non ne ha conosciute? La madre, i figli: tutto, fra loro, procedeva da minimi impulsi distruttivi di cui nessuno era del tutto consapevole. Non erano i grandi eventi a cambiare le cose, semmai se ne verificavano ― non le litigate, le porte sbattute, i matrimoni, le morti ― ma le mezze parole, gli sguardi di un attimo, i toni di voce, i sussurri emessi nel sonno. Così l’avvocato Pedianti uccise il fratello. E con mezzi analoghi, quantunque più materiali, stava a poco a poco uccidendo anche Carla.
Decisi che non gliel’avrei permesso. Che gliel’avrei portato via. E che l’avrei restaurato, restituendogli la bellezza che Antonello era riuscito a evocare ma di cui poi non aveva sopportato la vista.
Presa la decisione, scoprii nel giro di pochi giorni ― come se il mondo intero si alleasse con me perché la mettessi in pratica ― che l’impresa non sarebbe stata difficile: passando davanti al palazzo in cui abitava il mio uomo constatai che vi si stavano montando delle impalcature; suonando al citofono e poi interrogando una vicina seppi che si era preso un periodo di ferie perché non sopportava il frastuono dei lavori e gli andirivieni degli operai; e riflettendo attentamente su come l’impresa stessa avrebbe potuto essere condotta a buon fine mi ricordai che lasciava sempre socchiusa, per timore delle fughe di gas, una finestra che dava sulla terrazza. Restava naturalmente il timore che avesse installato un qualche sistema di allarme, magari collegato con la polizia, ma anch’esso si dileguò quando mi resi conto che in tal caso non avrebbe potuto lasciare quella finestra aperta, perché la sirena sarebbe scattata di continuo... Potevo, almeno, esser visto dalla strada o da qualche vicino nottambulo? A rigore sì, ma in pratica sarebbe stato molto difficile che ciò accadesse, se per muovermi avessi atteso che fossero passate le due e avessi dato la scalata al palazzo dal lato del giardino condominiale, assai poco illuminato e prospiciente un edificio pubblico che a quell’ora sarebbe stato deserto.
Eppure non riuscivo a decidermi. Ogni notte, quando giungeva l’ora di uscire, la determinazione che per tutto il giorno mi aveva teso come una corda di violino si dileguava. Cadevo preda, per quanto a lungo mi fossi prima riposato e rilassato, di una sorta di sfinimento fisico e psichico che poi si insinuava nei miei sogni e in essi mi rendeva impotente a effettuare anche le operazioni più semplici, come fissare una tela al telaio o mescolare un colore con l’altro per ottenerne la sfumatura desiderata. Finché ― una notte di settembre particolarmente calda, in cui avevo rinunciato in partenza a tentare l’impresa e su una brandina in balcone ero caduto in un penoso dormiveglia ― poco prima dell’alba finii con l’addormentarmi del tutto per qualche minuto e sognai Carla: non da bambina o da ragazza, naturalmente ― dato che non avevo mai veduto né l’una né l’altra se non nelle parole di Mimmo Pedianti ― ma Carla com’era adesso, il ritratto di una donna fra i quaranta e i cinquanta che si sciupava a poco a poco sotto i maltrattamenti del suo aguzzino. Ed era nel quadro anche nel mio sogno ― era la prima volta che la sognavo ― ma si muoveva e mi guardava come mi era parso che facesse in quel giorno indimenticabile: solo che ero anch’io nel dipinto insieme a lei, ma fuori dalle due folli vetrate; guardavo dentro ― guardavo lei, Nicola, lei! ― cercavo di nasconderle col mio corpo almeno la squallida vista dei sacchetti dell’immondizia in cui a poco a poco stava andando a finire la sua vita; e tuttavia purtroppo al tempo stesso sapevo che forse non c’era più nulla da fare, era perduta, perché al di là delle folli vetrate non poteva che vedermi doppio... Ah, amico mio, so che potrai metterti nei miei panni perché anche a te, negli anni, saranno talvolta toccati in sorte incubi angosciosi come questo: a un tratto, infatti, mentre tentavo d’immaginare come Carla mi vedesse nell’una e nell’altra finestra, ecco che anch’io vidi doppia lei, ma non identica: di qua brutta e di là bella, perduta per sempre e appesa per un filo alla sua umanità, morta e viva, come l’aveva vista Pedianti e come invece l’avevano vista il ragazzetto di quattordici anni e fino a un dato momento anche Antonello. E io non sapevo chi avesse ragione, ignoravo se potessi fidarmi di lei o se dovessi abbandonarla al suo destino. E lei, dall’altra parte dei vetri ― Carla e Carla ― da una parte mi odiava e dall’altra mi desiderava, mi chiamava e mi scacciava, mi sorrideva e mi voltava le spalle, viveva e moriva...
Quando infine mi svegliai, erano da poco passate le due. Considerando il tempo che avrei impiegato a raggiungere il condominio di Pedianti, c’era di che temere che al mio arrivo più di una persona sarebbe stata già in piedi per guardarmi mentre lo scalavo! Ma l’impotenza che mi aveva impedito di tentar l’impresa quando sarebbe stata più facile era svanita proprio ora che avevo un buon motivo per rimandarla ancora: uscii a precipizio, senza quasi vestirmi ― per il gran caldo dormivo in costume da bagno, e non di rado trascorrevo l’intera giornata a dipingere nella medesima tenuta ― e feci quel che ti ho già raccontato: mi arrampicai sull’impalcatura, entrai da una finestra lasciata aperta sulla terrazza, in punta di piedi andai e tornai dallo studio, ridiscesi in strada e col favore delle tenebre mi portai via entrambi i ritratti. La storia è tutta qui”.
“Ma come tutta qui? Carla nel dipinto di Antonello non c’è più! Ti è rimasta solo la bambina! Dimmi la verità, Enrico: perché l’hai cancellata? Hai detto che era tua intenzione di restaurarla, di riportarla a come l’aveva ritratta lui... Evidentemente hai fallito! Ma perché cancellarla del tutto? Perché farla sparire?”
“Non sono stato io, Nicola, te lo giuro. Solo che quella notte, come puoi ben immaginare, ero letteralmente fuori di me. Non mi ero mai introdotto in casa d’altri di soppiatto, l’ultima cosa che avevo rubato in vita mia erano state mille lire dal borsellino di mia madre quando avevo undici anni! Avevo una fifa blu! Per prima mi misi alla ricerca della bambina, perché tanto la donna sapevo dov’era. Ma nel frattempo i minuti passavano, e la mia paura di essere colto sul fatto cresceva dall’uno all’altro... Alla fine presi il quadro di Antonello al buio, senza guardarlo ― fu già un miracolo che non prendessi al suo posto il ritratto della vecchia morta ― scappai a gambe levate, così in fretta che rischiai più volte di precipitare dall’impalcatura, e quando arrivai a casa e accesi la luce mi accorsi che Carla non c’era più. Solo quell’ombra quasi impercettibile era rimasta di lei, come se qualcuno l’avesse davvero cancellata... Però non sono stato io, te lo giuro”.
“Ma allora è stato quel maledetto! Prima di partire! Forse perfino immaginando quel che avresti fatto! Godendo come un riccio per il brutto tiro che ti giocava! E così alla fine ha vinto lui! Su tutti!”
“Chissà, amico mio... Non è detto. La vera Carla sarà viva e starà benissimo chissà dove, non ti pare?”
“Forse... Ma con certezza non lo sapremo mai.”
“Chissà... Non si può mai dire.”
7
Rincasò, poco dopo, la compagna di Enrico che non conoscevo ancora. Mi alzai, ci alzammo entrambi. E mentre le venivo presentato, e notavo com’era bella e simpatica e dolce ― iniziando come al solito a domandarmi se fosse felice con lui e quante chance avrei avuto, in caso contrario, di riuscire a rubargliela ― notai per la prima volta che alle pareti non c’era alcun suo ritratto dipinto dal mio amico; e solo allora mi resi conto con grande stupore che il nome che egli nel presentarmi aveva pronunciato sorridendo insieme al mio era quello di Carla.
(Il racconto Il Ritratto di Carla è protetto mediante registrazione da ogni forma di sfruttamento non autorizzato)
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