ScuolAnticoli
Libera Scuola di Umanità diretta da
Luigi Scialanca
La Terra vista
da Anticoli Corrado
nel giugno-luglio
del 2017
Questa pagina segue dalla
homepage.
I post più recenti li trovi
lì.
Vuoi andare ai post del mese precedente,
maggio 2017? Clicca qui!
Vuoi
andare all’Indice
di tutti i post precedenti dal 2002 a oggi? Clicca qui!
Home
*
ScuolAnticoli va in ferie:
arrivederci al 1° agosto e...
...Buon Luglio a Tutti!!!
(Giovedì 29 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
Primo. Di queste
istruzioni potete tranquillamente fregarvene, tanto non verrò a saperlo.
Ma non ditemelo finché vivo: la mia reazione potrebbe non piacervi
affatto.
Secondo. Il solo
modo non idiota di annunciare la mia morte è: Luigi Scialanca è morto.
Non scrivete:
È
scomparso, non sono il mago Houdini. Né: Si è spento, non
sono una lampadina. Né: È defunto, è deceduto, è trapassato, non muoio mica perché
voi possiate esibire la vostra conoscenza dell’Italiano.
Né: Se n’è
andato, o qualche spiritoso potrebbe a buon diritto domandarvi:
Dove? Nell’Aldilà? Su Marte?. Né:
È
passato a miglior vita, se siete religiosi sono fatti vostri, non me
ne può fregare di meno, ma a sproloquiare su di me non vi ci voglio.
Né: Ci ha lasciato, è vero che talvolta non vi sopporto, ma non
fino al punto di voler crepare pur di non vedervi più. Scrivete,
semplicemente: Luigi Scialanca è morto, se vi è rimasto un minimo
di buon senso.
Terzo. Dite
esplicitamente cosa mi ha ucciso: non mi va che la gente fantastichi
chissà che. E siate chiari: espressioni come dopo una lunga malattia
servono solo a irritare chi vuole dati precisi per calcolare le
probabilità di fare la stessa fine.
Quarto (repetita
iuvant). Non siate così imbecilli da scrivere: Riposa in pace.
O così taccagni, oltre che imbecilli, da scrivere: R.i.p.. O,
ancora più taccagni: Rip.
Siete religiosi? E allora che cavolo vi significa quel riposa?
Credete che esista una qualsivoglia Aldilà in cui si riposi? Nell’Aldilà
si gioisce o si soffre o ci si rompe le scatole per l’eternità, ma di
sicuro non si riposa. (E in ogni caso, ve l’ho già detto, se siete
religiosi v’invito fermamente a parlare di santi e lasciar stare i
fanti). Siete atei? E allora che cavolo vi significa quel riposa?
Avete mai visto un marciume che riposa?
O, quando i vermi sono sazi, ossa che riposano? Il riposo è cosa da
vivi, non da cadaveri.
Quinto. Più in
generale, scrivendo che sono crepato, astenetevi dal rivolgervi a me
come se fossi vivo.
È stupido,
grottesco e perfino malvagio dire a un morto: Ci mancherai -
Grazie - Addio - Arrivederci - Eri questo o quest’altro
- Resterai nei nostri cuori (che schifo, immaginare il mio
cadavere divorato da voi!), ecc. ecc.. Addirittura malvagio? Certo! Se
avete voglia di parlare con me, fatelo finché campo! Altrimenti lo state
solo fingendo quando ormai non posso più smentirvi, mentre in realtà
desideravate la mia compagnia di gran lunga meno di quella dei vostri
televisori.
Sesto. Scrivete
in Italiano, cavolo! Se siete di quelli che scrivono beh,
o se non usate un pronome relativo neanche se vi pagano, o se credete
che il congiuntivo sia una malattia degli occhi, fate a meno di
commentare la mia morte:
non per fare un piacere a me, che non lo saprò mai, ma per non rattristare ancora di più
chi mi piange (ammesso e non concesso che qualcuno lo faccia) con le
vostre scempiaggini. E non
chiamatemi un personaggio: i personaggi stanno nei romanzi, io
sono un essere umano.
Settimo. Non
inventatevi cavolate del tipo: Voleva essere cremato o Voleva
donare il suo cadavere alla scienza. Mai ho espresso volontà di
sorta su quel che fare delle mie frattaglie. Per quel che me ne frega,
quella robaccia
potete darla in pasto ai cani (ma tenetene lontani i
preti, quelli sì). Fatene ciò che vi pare, insomma, e dopo che l’avrete
fatto cercate di organizzare invece un funerale decente per il mio
ricordo, se di me resterà qualcosa di umanamente valido da ricordare.
Ottavo. Non siate
così ingenui
― o, piuttosto, così sciatti nei miei confronti
― da chiedere a qualsivoglia
“autorità”
di intitolarmi un vicolo o un’aula
scolastica o una targhetta su un muro più o meno ammuffito: ho sempre
detestato il potere, ed esso mi ha sempre ignorato o ha diffidato di me,
che non vi venga in mente di permettergli di sfruttarmi da morto!
Nono. Se mi
odiate, non andate in giro a dire quanto mi volevate bene, né tanto meno
quanto vi amavo io, né come e qualmente abbiamo trascorso bei momenti
insieme o quant’altro: sappiate che la mia esecutrice testamentaria ha
una lista completa delle vostre malefatte nei miei confronti, e vi
smentirà punto per punto.
Decimo.
Se invece mi amate, e di conseguenza non avete perso occasione per
cercare la mia compagnia (non me ne ricordo, ma è possibile che talvolta
lo abbiate fatto), be’, non siate troppo tristi: è stato bello, finché è
durato, e quel bello non ve lo toglierà la mia morte, ma solo la vostra.
(Sabato 24 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
(Giovedì 22 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
Temo, cari ragazzi, che
alcuni di voi non stiano bene. Pochi, certo, ma questo non attenua
affatto il dolore e la preoccupazione.
C’è chi si gonfia giorno
dopo giorno di odio antiumano (fascista, nazista, o anche odio e basta,
senza nome). Chi non studia più, non legge più, non s’interessa più di
niente. Chi non si diverte più per il piacere di farlo, ma solo per
stordirsi. Chi non fa che ubriacarsi. Chi assume sostanze.
Derive, cari ragazzi,
che sono il sintomo di un disagio mentale che può, se non curato,
diventare grave. Dovete chiedere aiuto. Forse, anzi, lo state già
chiedendo. Forse, voglio dire, mentre vi rovinate così, senza rendervene
conto state anche gridando: “Fermatemi! Aiutatemi!” Sperando che chi vi
vuol bene smetta di far finta di niente.
Io non sono uno
psicoterapeuta. Ma non per questo voglio star zitto e fare, anch’io,
finta di niente. Qualcosa la so, e perciò ve la dico.
Primo. Ciò che vi sta
riducendo così sono stati e sono i rapporti che vi sono toccati, fin
dalla nascita (e che poi, a partire da un certo momento, vi siete anche
cercati): rapporti miseri, poveri di affetti, poveri d’intelligenza,
poveri di umanità. L’unica cosa che può farvi star meglio, perciò, sono
rapporti diversi, migliori. Esistono di sicuro: dovete cercarli e
trovarli, e il solo cercarli già vi farà bene, finché non li trovate. Ma
anche una buona psicoterapia, preferibilmente di gruppo, può aiutarvi
moltissimo.
Secondo. Cercate
―
in voi stessi, intorno a
voi e ovunque, perfino nei vostri smartphone
―
pensieri, parole, gesti,
immagini ricchi di sentimenti: non ve ne rendete conto, ma siete
assetati di sentimenti, ed è per questa sete insoddisfatta che le vostre
menti rischiano di impazzire.
Terzo. Fatevi meno
seghe. Non sto scherzando, sono molto serio. Non in quanto seghe, ma in
quanto assolutamente prive di sentimenti. State meno soltanto fra
maschi, e innamoratevi di più. Di chi? Di ragazze diverse dalle vostre
madri. Per quanto le ragazze possano essere “difficili”, per quante
delusioni possano talvolta darvi, amarle e rispettarle vi farà
immensamente bene.
(Mercoledì 21 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
L’insegnante
obiettivo... è stupido e cattivo
Clicca qui per scaricare
il testo in .pdf. O
qui per scaricarlo in
.doc
Quale che sia la tua
professione, immagina di scoprire che stai per essere sostituito da una
macchina. Da un computer. Da un robot. Insomma: da un algoritmo. Cosa
faresti, da uomo (o donna) intelligente? O cosa, se invece fossi
stupido?
Da
intelligente ― quale sei ―
cercheresti di
dimostrare che un robot non può sostituirti poiché, quello che
sai fare tu, nessun robot saprà farlo mai.
Se invece fossi stupido,
o stupida, cercheresti di competere col robot in ciò che sa fare
“lui”. E non solo verresti sconfitto alla grande, ma dimostreresti a
tutti
― e quel ch’è
peggio a te stesso
― di essere ormai superfluo (o superflua).
Immagina, ora, di essere un insegnante: un robot potrebbe sostituirti?
La
risposta non cambia: soltanto se tu cercassi di competere col robot in
quel che
“lui” sa fare meglio di te. Molto meglio.
Ma cosa un robot o un
computer, cioè un algoritmo, sa fare molto meglio di un insegnante?
Semplice: somministrare
una verifica e valutarla, assegnandole un punteggio, senza alcun
rapporto con l’allievo.
E cosa significa
senza alcun rapporto?
Semplice: senza
provare sentimenti di sorta, come se esista solo la verifica
― e l’algoritmo
in base al quale valutarla
― ma non esista
l’allievo (se non come
“dispositivo-sorgente” della verifica medesima).
In altre parole, nessun
insegnante potrà mai competere con un algoritmo nel valutare una
verifica obiettivamente, cioè come un oggetto (dal latino
obiectum).
Ecco: in fatto di obiettività un robot-insegnante sarebbe
imbattibile, poiché, essendo incapace di provare sentimenti, le sue
valutazioni sarebbero assolutamente oggettive.
Un
insegnante, quindi, è tanto più stupido quanto più cerca di essere
obiettivo.
Cercare di dimostrarsi superfluo: cosa c’è
di più stupido?
Si dirà: “Un insegnante
intelligente sarebbe dunque un insegnante non obiettivo?
Ingiusto? Uno che valuta come gli gira?”.
No.
L’obiettività non è giustizia. L’obiettività è assenza di
rapporto. Soprattutto avendo a che fare con l’essere umano. Poiché
essere obiettivi, avendo a che fare con l’essere umano, è ridurlo a
obiectum. A un “qualcosa”, cioè, nei confronti del quale è
impossibile provare sentimenti.
Quale didattica, quale
pedagogia sono possibili in assenza di sentimenti per tutto quel
che accade nel rapporto con l’allievo, ivi comprese le verifiche che
egli sottopone alla valutazione dell’insegnante?
È
dubbio che perfino del
“comportamento” delle
particelle subatomiche si possa capire qualcosa, senza considerare il
rapporto dell’osservatore con esse, figuriamoci di un essere umano!
“Ma... allora... un elaborato
d’Italiano, un compito di Matematica, una traduzione dal Francese, una
verifica di Storia, come si dovrebbero valutare? Non
obiettivamente?!”
Esatto. Non
obiettivamente. Non come le valuterebbe (molto meglio di un
insegnante) un algoritmo, ma come soltanto un essere umano può
valutarle: in contatto, costante e profondo, con la realtà umana
dell’allievo, la sua storia, i suoi rapporti con gli insegnanti e con
tutti gli altri, i suoi problemi, le sue capacità, i suoi continui
progressi e regressi, le sue vittorie e sconfitte... In contatto
costante e profondo con tutto, insomma, quel che nell’hic et
nunc dello svolgimento del compito assegnatogli ha influito sul
risultato. Nonché, altrettanto fondamentale, con quel che l’insegnante
si propone di ottenere in futuro nel rapporto con lui.
“Ma... allora... in un elaborato
d’Italiano, in un compito di Matematica, in una traduzione dal Francese,
in una verifica di Storia, non si dovrebbero più correggere e contare
gli errori?!”
Correggere, sì.
Contarli, no. Non con l’intenzione che il contarli sia determinante per
la valutazione. La valutazione di quel che un essere umano fa deve
far di conto il meno possibile.
Immagino già l’obiezione
dell’insegnante stupido: “Ma tu, professor So-tutto-io, un domani,
dall’allievo diventato idraulico o ingegnere, pretenderai o no che quel
che fa non contenga errori?”
Rispondere
è facile: “L’idraulico i cui scarichi perdono, l’ingegnere i cui edifici
crollano, caro Stupido, sono gli allievi tuoi, non i miei. Gli
allievi che da te furono convinti che la valutazione di quel che
fanno gli esseri umani si esaurisca nel conteggio obiettivo delle
risposte esatte e di quelle sbagliate. E che da te, pertanto,
furono indotti poi sempre a truccarli, quei conteggi, una volta
persuasi che quel che importa non è la sostanza dell’essere
umano, ma solo l’apparenza dell’obiectum da lui prodotto”.
E l’insegnante
intelligente, invece, cosa obietterà? Be’, prevedere le manifestazioni
dell’intelligenza è infinitamente più difficile che prevedere quelle
della stupidità... Diciamo che otrebbe obiettare, forse, che le
pressioni che un insegnante subisce affinché sia obiettivo come un
algoritmo sono tali e tante (ideologiche, politiche, mediatiche) che
resistervi è difficilissimo e penoso.
Ma resistere lo è
sempre. Poiché resistere significa, né più né meno, rimanere umani.
Post scriptum.
Mi sorge un dubbio: è mai possibile, mi domando, che
un insegnante stupido sia così stupido da non
capire tutto ciò? Così stupido, da illudersi
di poter valutare “algoritmicamente” le prove di un
allievo... meglio di un algoritmo?
No,
mi rispondo. Nessuno può essere tanto stupido. Ne consegue che
l’insegnante stupido non è stupido. O piuttosto: lo è, ma
perché è cattivo. Poiché già per suo conto, fin da prima che i
computer cominciassero a contendergli il posto, ha creduto e voluto
degradarsi a macchina. E ormai, di conseguenza, non sa più fare altro
che quel che una macchina fa meglio di lui.
Clicca qui per scaricare
il testo in .pdf. O
qui per scaricarlo in
.doc
(Lunedì 19 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
Clicca qui per scaricare
il testo in .pdf. O
qui per scaricarlo in
.doc
Interessante articolo,
su Internazionale del 9 giugno 2017 (Nel nome del padre,
di Ben Jackson, pp 66-68) sul grottesco e inquietante fenomeno delle
megaChiese ereditarie della Corea del Sud (ma che cominciano a
diffondersi, guarda caso, anche negli Stati Uniti). Eccone alcuni
estratti, così significativi
― e leggibili anche in chiave
“nostrana”,
direi ― che mi pare superfluo commentarli...
“La chiesa presbiteriana di
Myung-sung, che ha decine di migliaia di fedeli, è l’ultima delle
cosiddette megaChiese della Corea del Sud a trovarsi invischiata in uno
scandalo sulla successione ereditaria dell’ufficio di pastore: Kim
Sam-hwan sta cercando di lasciare la Chiesa al figlio, e non tutti ne
sono felici.
[...] Il 25 aprile, alle
otto e mezza del mattino, un uomo dai capelli bianchi vestito di grigio,
impalato dinanzi alla Chiesa di Myung-sung,
regge
un grande cartello di plastica
con la scritta: Eredità: successione del patrimonio, dello status o
dell’occupazione tra le generazioni di una singola famiglia. Una chiesa
non si eredita.
[...] La Chiesa
presbiteriana di Myung-sung è stata fondata nel 1980 dal pastore Kim
Sam-hwan [...]. Da allora è diventata una congregazione gigantesca, con
una sede imponente, un pastore potentissimo, e una lunga storia di
scandali e pettegolezzi. I suoi ricavi provengono quasi tutti dalle
offerte dei fedeli.
Gli anni settanta e
ottanta offrivano condizioni particolarmente favorevoli alla crescita
delle megaChiese. Esse offrivano un nuovo senso di appartenenza ai
migranti sradicati dalle campagne.
[...] Furono costruiti
luoghi di culto sempre più imponenti. E molte Chiese hanno poi allargato
la loro presenza sul territorio aprendo giornali, emittenti radio,
scuole, ospedali, organizzazioni di beneficenza e altro.
[...] Oggi, molti dei
pastori che hanno fatto crescere le Chiese durante gli anni del boom
sono vicini all’età della pensione o l’hanno superata. E i candidati
favoriti alla successione sono, il più delle volte, i loro figli. [...]
Nel 2014 il gruppo Protest 2002 registrava 95 casi di successione
ereditaria. Nel 2017 il numero dei casi segnalati è salito a 122.
In Corea del Sud c’è una
netta distinzione tra Stato e Chiesa, quindi esistono poche leggi che
regolano la pratica religiosa. E la successione ereditaria è
perfettamente legale.
[...] Perché questa
pratica è così diffusa? Kim Ae-hee, direttrice di Protest 2000,
spiega che molto dipende da una serie di antichi fattori culturali:
Nelle Chiese sono profondamente radicati molti elementi del
confucianesimo, dice. C’è un ordine gerarchico rigidissimo, molte
Chiese sono dominate dalla figura del pastore, e spesso i consanguinei
sono considerati gli eredi legittimi della sua autorità spirituale.
[...] Tuttavia Yoon
Gwan, presidente del sindacato studentesco dell’Università presbiteriana
e seminario teologico di Seoul, paragonando il comportamento della
Myung-sung a quello di un grande conglomerato industriale, cita una
serie di voci secondo le quali la successione ereditaria servirebbe a
coprire un grave illecito finanziario della famiglia Kim”.
Che dire?
Solo questo: chi è in
grado di farlo, ne tragga le conclusioni che il buon senso gli ispira.
Clicca qui per scaricare
il testo in .pdf. O
qui per scaricarlo in
.doc
(Giovedì 15 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
Cattolici
razzisti in Italia, visti da Mark Twain... nel 1867
Sono passati
centocinquant’anni esatti da quando Mark Twain, visitando l’Italia, così
vide trattare gli Ebrei
― in tutto il Paese, ma specialmente nello Stato della Chiesa ― durante
il pontificato di Pio IX:
Gli Ebrei non vengono trattati come esseri umani, ma come bestie.
Non possono svolgere qualsiasi attività lavorativa essi vogliano.
Non possono vendere oggetti nuovi di fabbrica.
Non possono aprire farmacie.
Non possono esercitare la professione medica tra i Cristiani. Anzi, ai
Cristiani non possono neanche stringere la mano, né hanno il diritto di
frequentarli come un normale essere umano fa con qualsiasi altro essere
umano.
Sono costretti a rimanere reclusi in un angolo delle città: non possono
risiedere dove preferiscono, né acquistare terra o case.
I
soldati li obbligano ad andare in chiesa per ascoltare le maledizioni
lanciate contro di loro.
E
durante il carnevale, per divertire la gente, vengono costretti a
correre nudi per le strade gareggiando con gli asini.
(Mark Twain, In questa Italia che non capisco, Mattioli 1885,
pag. 126).
(Mercoledì 14 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
(Venerdì 9 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
(Venerdì 9 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
(Mercoledì 7 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
Clicca qui per scaricare
il testo in .pdf. O
qui per scaricarlo in
.doc
Testimonianza tratta dalle
cronache del Grande Panico di Torino del 3 giugno 2017 (30.000
persone in piazza, 20 minuti di fuga di massa, 1527 feriti, di cui 8 in
codice rosso): “Pugni e gomitate selvagge come il colpo che mi ha fatto
saltare i denti. La gente correva verso i varchi e per guadagnare un
metro picchiava e strattonava chi aveva davanti e dietro, gente con la
quale fino a pochi minuti prima stava abbracciata” (Corriere della
sera, 5 giugno 2017, pag. 10).
Siamo dunque davvero dei mostri?
Pronti a scannarci l’un l’altro non appena riemerga in noi, irriducibile
e incontenibile, il mors tua vita mea (o l’homo homini lupus)
che l’evoluzione ha scritto una volta per sempre nel nostro patrimonio
genetico, e che la “civiltà” può “educare”, controllare e reprimere solo
fino a un certo punto? E davvero è soprattutto in una folla in pericolo (o che si crede
in pericolo) che questa volontà di sopraffarci l’un l’altro si rivela,
anziché un’aberrazione individuale, un “primordiale istinto” che ci
caratterizza tutti?
In realtà vi sono tre
tipi di folla: 1. La
folla
“casuale”;
2. La folla che non è casuale, ma crede di esserlo; 3. La
folla che non è casuale, e sa di non esserlo. Ed è nelle
ultime due, mai nella prima, che può accadere ciò che è accaduto
a Torino.
Solo
la folla n° 1, quella che si è formata per caso ― e tanto più quanto più è numerosa
― è (di solito) statisticamente rappresentativa dell’intera
Umanità. E solo dal suo comportamento, quindi, possiamo trarre
conclusioni sulla natura umana.
Qual è il più tipico
esempio di folla casuale?
È la
folla riunita da un’improvvisa
catastrofe, per esempio da un terremoto. Ebbene: tutte le testimonianze,
fin dai tempi più remoti, sono concordi nell’affermare
che in tali folle l’impulso predominante nella stragrande
maggioranza di coloro che le compongono è quello di soccorrersi a vicenda
per salvarsi insieme. Leggete, per sincerarvene, il
documentatissimo e appassionante saggio storico di Rebecca Solnit
intitolato
Un Paradiso all’Inferno
- Le straordinarie comunità
solidali dei terremoti e altri disastri.
Ma poi vi sono folle che
non si riuniscono per caso, ma per un motivo comune. E che, di
conseguenza, sono tanto meno rappresentative dell’intera Umanità quanto
più quel motivo, di per sé stesso, seleziona i componenti della
folla medesima. Il desiderio di trascorrere al mare una bella giornata
estiva, per esempio, seleziona pochissimo i componenti delle
folle che si accalcano sulle spiagge nei mesi di luglio e agosto, poiché
quel desiderio accomuna una percentuale assai elevata di esseri umani.
Di conseguenza, le folle che si riuniscono d’estate in prossimità del
mare sono quasi altrettanto rappresentative dell’intera Umanità di una
folla casuale.
Diversa è la folla che,
per esempio, si riunisce su una nave da crociera di gran lusso: essa
crede di essere casuale (tipo 2) ma non lo è, poiché è stata
selezionata dal censo (dalla ricchezza). Di conseguenza non rappresenta
l’intera Umanità, ma solo la parte più predatoria di essa. E si
può star certi, quindi, che difficilmente in caso di naufragio si
comporterà in maniera solidale, altruistica e generosa.
E la folla che si
riunisce, per esempio, per partecipare a un rito religioso? O a un
evento calcistico? O a una manifestazione politica?
Queste sono folle non
casuali che sono consapevoli di non esserlo (tipo 3). Folle che
non possono essere considerate rappresentative dell’intera Umanità
(analogamente a quelle del tipo 2) e il cui comportamento più probabile,
in un’eventuale emergenza, è selezionato a priori dal motivo comune
che le ha riunite.
Ebbene: io sostengo che
una folla riunita da una fede (religiosa, politica, sportiva, o
magari in un qualche tipo di
“sballo”), ben lungi dal
costituire un campione rappresentativo dell’intera Umanità, rappresenta
soltanto gli esseri umani nelle cui menti il
“rapporto” con l’oggetto della
loro fede (rapporto sempre inesistente, qualunque ne sia l’oggetto,
poiché perfino una squadra di robusti calciatori cessa di esistere come
tale, nelle menti in cui viene tramutata in una divinità) è diventato
di gran lunga più importante del rapporto con gli altri e con sé stessi.
Ed è pertanto una folla che in un’emergenza si comporterà
necessariamente nel modo meno solidale possibile: ognuno per sé e
Dio per tutti, questo è il motto (più o meno consapevole) delle
folle non casuali, ma riunite da una fede.
Guai a chi ci capita per
caso, nelle folle così!
Clicca qui per scaricare
il testo in .pdf. O
qui per scaricarlo in
.doc
(Sabato 3 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
(Sabato 3 giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
“Ralph” disse Fabian, “hai mai visto un insegnante mangiare?”
“No” disse Ralph. “E tu?”
“Nemmeno io... È strano, no?”
“Cioè?”
“Non lo so. Tu che ne pensi? Forse... non sono come noi?”
“Non umani, vuoi dire?”
Ma umani era un termine di cui Fabian non conosceva il significato, e si vergognò di rispondere.
In quel momento la figura allampanata di un insegnante maschio, come se li avesse uditi, emerse dal canneto sulla riva opposta scrutandoli come un uccello da preda.
“Scappiamo?” disse Fabian, fingendosi calmo.
“Perché?” disse Ralph, con allegra impudenza. “Hai mai visto un insegnante nuotare?”
Risero, e per l’uccellaccio fu come un segnale:
“Ragazzi!” urlò. “Tornate a scuola!” E dopo qualche istante, di nuovo: “Ragazzi! Tornate a scuola!”
Si alzarono, sapendo che altrimenti avrebbe seguitato all’infinito, e senza affrettarsi, dopo che Ralph ebbe assicurato la lenza a un arbusto, si nascosero nel folto.
“E se abboccano proprio ora?” disse Fabian.
“Sarebbe il colmo!” disse Ralph.
Il richiamo si ripeté per qualche minuto. Poi, dimenticandosi di loro, l’insegnante tacque, si allontanò e scomparve...
Entro la fine di giugno, su ScuolAnticoli, un capitolo (fra i tanti) de Il Pianeta dei Bambini, work in progress.
(Giovedì 1° giugno 2017. Luigi Scialanca,
scuolanticoli@katamail.com).
*
Vuoi andare ai post del mese precedente,
maggio 2017? Clicca qui!
Vuoi
andare all’Indice
di tutti i post precedenti dal 2002 a oggi? Clicca qui!
|