Maestra d’asilo
in marcia contro Hitler, a ventisette anni, nellaVienna del 1933
(Poiché il
primo contrassegno del nazifascismo, in qualsiasi veste si ripresenti,
sarà sempre
l’odio
per i Piccoli umani...)
Käte
Haider, ventisette anni, camminava tra le file di un quartiere estraneo.
Si era attardata nell’asilo
per i figli di operai. Avrebbe preferito di gran lunga non prendere
parte affatto alla marcia, dal momento che questa volta era stato
consigliato di non portarsi dietro i bambini. Ma aveva un appuntamento
col suo amico Franz Seidel, e lui, in queste cose, era molto preciso
(troppo preciso
― e lei lo sapeva: se non lo disabituo a tanta suscettibilità, poi è
troppo tardi, è tempo che lui impari qualcosa per amor mio). Si era,
dunque, baloccata nell’asilo
troppo a lungo, perché temeva di lasciare i piccoli alla sorveglianza
della tredicenne Rosl, e perché Reiterer non arrivava e non arrivava,
malgrado la promessa che avrebbe cantato con i bambini e risposto lui di
tutto.
Finché,
naturalmente, si era fatto troppo tardi; e non aveva più incontrato
quelli del quartiere nel luogo di concentramento, né più li aveva
raggiunti sulla strada verso il Ring. Inutile farsi strada in quella
corrente di 200.000 persone, chiedere dove si trovassero. Così, Käte
si era infilata in una fila qualsiasi e soltanto più tardi aveva saputo
di essere tra quelli di Florisdorf.
Volti estranei la circondavano. L’inquietudine
per l’asilo non la lasciava. Sentiva la mancanza della schiera dei
piccoli, che nei giorni di maggio e di novembre trotterellavano dietro
di lei lungo il Ring. Le mancava l’ansia costante di quei giorni: che
non siano stanchi? Saranno caldi abbastanza nei loro abitini? E il
compito ben difficile di dover spiegare ai più piccoli: questo è il
nostro parlamento. Sai che cos’è un parlamento?
Come ciascuno di
noi, quando manifestavamo sul Ring, aveva intorno a sé la propria
quotidianità, con la relativa gente, i relativi pensieri, così Käte
aveva bisogno qui dei suoi quaranta bambini. Senza di loro le sembrava d’essere
davvero inutile, come se, passando dalla sua propria attività vitale
alla calca, si fosse perduta e dovesse aspettare ora che qualcuno si
ricordasse di lei e venisse a prenderla, o come se si fosse smarrita in
un rione sconosciuto.
(...)
Käte
udì ancora una volta il coro che dominava questa marcia:
“Hitler, crepa!” Si domandò: “Perché abbiamo preso dai nazisti questa
parola orribile? Non vogliamo lottare con le armi dell’immaginazione?”
(...)
Käte
pensò ancora al luminoso asilo nella casa comunale e al fatto che, in
verità, era diventata socialdemocratica perché il comune faceva molto
per i bambini. Non era stato facile allora, dieci anni prima. Il padre
era un dirigente del sindacato cristiano, era della vecchia guardia di
Kunschak, cattolico tutto d’un
pezzo e terribilmente amareggiato. L’aveva perfino cacciata di casa; lei
ne aveva sofferto molto. La famiglia era stata fino a quel momento tutto
il suo mondo. Poi le capitò l’insperato: il partito le dà tutto, le
sostituisce tutto, anche la famiglia.
“Abbasso il fascismo!” ruggì la massa.
Fascismo?
― si domandò improvvisamente Käte.
Che significa veramente questa parola? Significa: tutto questo finisce?
Tentò di costruirsi su questo pensiero uno scenario: che aspetto avrebbe
avuto allora la vita?
Tradurre quel pensiero in immagini, rispondere a quella domanda risultò
impossibile.
Se tutto questo finisse, finirebbe la vita stessa.
(Jura Soyfer (1912-1939), Così morì
un partito, 1934-1937, romanzo rimasto
incompiuto per l’arresto
dell’autore e la sua morte nel campo di
Buchenwald, traduzione di
Eugenio Spedicato,
Marietti editore, Genova, 1988, pp 65 - 66.)
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Jura Soyfer
(Charkov, 1912 - Buchenwald, 1939) |
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David
Herbert Lawrence
(1885 -
1930) nel 1906 |
Amore e Ragione
William aveva solo un anno; sua madre era piena
d’orgoglio per lui tanto era grazioso. In quel
momento era in strettezze, ma le sue sorelle
pensavano a vestire il bambino, e così, con la
cuffietta bianca orlata di piume di struzzo, il
cappottino bianco e i riccioli biondi tutt’intorno
alla testina, era una gioia per lei.
Una domenica mattina la signora Morel indugiava
a letto mentre dal piano di sotto le giungeva il
chiacchierio del padre e del bimbo. Poi si
assopì. Quando scese a basso, nella stufa ardeva
un gran fuoco, la stanza era calda, la colazione
era preparata alla meglio e, nella poltrona di
fronte al camino, se ne stava seduto Morel
piuttosto intimidito; tra le gambe aveva il
bambino, tosato come una pecora, con una buffa
testa rotonda, che la guardava
stupito. Su di un giornale spiegato sopra il
tappeto c’era
una miriade di ricciolini, come petali di
calendula sparsi nel rosso acceso del focolare.
La signora Morel rimase impietrita: era il suo
primo bambino. Divenne pallidissima, incapace di
parlare.
“Che te ne pare?” le chiese Morel ridacchiando
imbarazzato.
Lei strinse i pugni e si fece avanti levandoli
per aria. Morel indietreggiò.
“Vorrei ucciderti!” gridò soffocata dall’ira,
coi pugni levati.
“Non avrai mica pensato di farne una ragazza”
disse Morel in un tono sbigottito, curvando la
testa per evitare lo sguardo di lei. Non aveva
più voglia di ridere.
La donna guardò la testa malamente tosata del
suo bambino; gli mise sopra la mano e prese ad
accarezzargliela disperata.
“Oh... bambino mio!” balbettò. Aveva le labbra
tremanti, il volto contratto, e, alzato il
piccolo tra le braccia, gli nascose il viso
sulla spalla e pianse angosciata. Era una di
quelle donne che non sanno piangere; il pianto
le fa soffrire come un uomo. Sembrava che i
singhiozzi le strappassero qualche cosa dalle
carni.
Morel stava seduto coi gomiti sulle ginocchia,
le mani così strette insieme che le nocche eran
bianche; guardava il fuoco stordito come se gli
mancasse il fiato.
Presto lei si ricompose, calmò il piccolo e
sparecchiò la tavola. Lasciò sul tappeto il
giornale cosparso di riccioli, e alla fine il
marito lo raccolse e lo gettò sul fuoco. Ella
continuò le sue faccende, tranquilla, le labbra
strette. Morel, avvilito, si aggirò per casa con
aria compunta e per quel giorno i pasti furono
uno strazio per lui. La moglie gli parlava con
gentilezza senza mai alludere a quel che aveva
fatto; ma capì che era avvenuto qualcosa di
decisivo.
Più tardi gli disse d’esser
stata una sciocca, che prima o poi avrebbero
dovuto tagliare i capelli al bambino; infine
giunse addirittura a dire al marito che aveva
fatto bene a improvvisarsi barbiere, come aveva
fatto. Ma sapeva, e lo sapeva anche Morel, che
l’episodio le aveva messo nell’anima qualcosa di
definitivo. Ricordò quella scena per tutta la
vita, come una di quelle in cui aveva più
intensamente sofferto.
(...)
Aveva temuto quel bambino come una sventura,
dati i suoi sentimenti verso il marito; e adesso
provava per quella creaturina un sentimento
strano: un stringimento di cuore, come se fosse
gracile o deforme; e tuttavia aveva un ottimo
aspetto. Ma aveva notato quel suo aggrottar di
ciglia e l’espressione
triste dello sguardo, come se cercasse di capire
qualcosa di doloroso. Quando considerava gli
occhi cupi e pensierosi di quel suo piccolino si
sentiva opprimere il cuore.
“Sembra che stia pensando a qualcosa di molto
penoso” diceva la signora Kirk.
E improvvisamente, guardandolo, i sentimenti
profondi del suo cuore di madre si sciolsero in
una appassionata angoscia. Si chinò su di lui
mentre subite lacrime le sgorgavano dal fondo
del cuore. Il piccolo alzò le dita.
“Agnellino mio!” gemette piano.
E in quel momento sentì, in qualche remoto punto
dell’animo,
che lei e il marito erano colpevoli.
(...)
Ancora una volta si rese conto del sole, ardente
sull’orlo
della collina di fronte. D’improvviso alzò il
bimbo sulle braccia.
“Guarda” disse “guarda, tesoro.”
Tese il bambino verso il rosso sole palpitante,
quasi con un senso di liberazione. Lo vide
alzare i pugnetti chiusi. Allora tornò a
stringerselo al seno, quasi vergognosa dell’impulso
di restituirlo là d’onde era venuto.
“Se vivrà” pensò “che cosa avverrà di lui... che
cosa diventerà?”
Aveva il cuore pieno d’ansia.
“Lo chiamerò Paul” disse d’improvviso,
senza sapere perché.
(David Herbert Lawrence, Figli e
amanti, 1913, traduzione di Ugo Dèttore,
Rizzoli editore, Milano, 1954, pp 24 - 25 e 49 -
50.)
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Odio gli indifferenti.
Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire
essere partigiani”. Non possono esistere i
solamente uomini, gli estranei alla città. Chi
vive veramente non può non essere cittadino, e
parteggiare. Indifferenza è abulia, è
parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.
Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia.
È
la palla di piombo per il novatore, è la materia
inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più
splendenti, è la palude che recinge la vecchia
città e la difende meglio delle mura più salde,
meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché
inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli
assalitori, e li decima e li scora e qualche
volta li fa desistere dall’impresa
eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia.
Opera passivamente, ma opera.
È
la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è
ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i
piani meglio costruiti; è la materia bruta che
si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò
che succede, il male che si abbatte su tutti, il
possibile bene che un atto eroico (di valore
universale) può generare, non è tanto dovuto
all’iniziativa dei pochi che operano, quanto
all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò
che avviene, non avviene tanto perché alcuni
vogliono che avvenga, quanto perché la massa
degli uomini abdica alla sua volontà, lascia
fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la
spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi
che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia
salire al potere gli uomini che poi solo un
ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è
altro appunto che apparenza illusoria di questa
indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti
maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate
da nessun controllo, tessono la tela della vita
collettiva, e la massa ignora, perché non se ne
preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati
a seconda delle visioni ristrette, degli scopi
immediati, delle ambizioni e passioni personali
di piccoli gruppi attivi, e la massa degli
uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i
fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma
la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento:
e allora sembra sia la fatalità a travolgere
tutto e tutti, sembra che la storia non sia che
un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un
terremoto, del quale rimangono vittima tutti,
chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e
chi non sapeva, chi era stato attivo e chi
indifferente. E quest’ultimo si irrita, vorrebbe
sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse
chiaro che egli non ha voluto, che egli non è
responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente,
altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o
pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il
mio dovere, se avessi cercato di far valere la
mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo
ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno
una colpa della loro indifferenza, del loro
scetticismo, del non aver dato il loro braccio e
la loro attività a quei gruppi di cittadini che,
appunto per evitare quel tal male, combattevano,
di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti
compiuti, preferiscono parlare di fallimenti
ideali, di programmi definitivamente crollati e
di altre simili piacevolezze. Ricominciano così
la loro assenza da ogni responsabilità. E non
già che non vedano chiaro nelle cose, e che
qualche volta non siano capaci di prospettare
bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o
di quelli che, pur richiedendo ampia
preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto
urgenti. Ma queste soluzioni rimangono
bellissimamente infeconde, ma questo contributo
alla vita collettiva non è animato da alcuna
luce morale; è prodotto di curiosità
intellettuale, non di pungente senso di una
responsabilità storica che vuole tutti attivi
nella vita, che non ammette agnosticismi e
indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà
noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.
Domando conto ad ognuno di essi del come ha
svolto il compito che la vita gli ha posto e gli
pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e
specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di
poter essere inesorabile, di non dover sprecare
la mia pietà, di non dover spartire con loro le
mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle
coscienze virili della mia parte già pulsare
l’attività della città futura che la mia parte
sta costruendo. E in essa la catena sociale non
pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non
è dovuta al caso, alla fatalità, ma è
intelligente opera dei cittadini. Non c’è in
essa nessuno che stia alla finestra a guardare
mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel
sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in
agguato, voglia usufruire del poco bene che
l’attività di pochi procura e sfoghi la sua
delusione vituperando il sacrificato, lo svenato
perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non
parteggia, odio gli indifferenti.
(Abbiamo
incontrato questo brano di Antonio Gramsci ―
tratto da La città futura, e compreso nei
suoi Scritti giovanili ―
visitando il sito di Gianfranco Mascia,
www.gianfrancomascia.it,
il fondatore dei comitati Bo.Bi. -
Boicottiamo il Biscione,
che il 19 febbraio 1994, nel corso di una
campagna nazionale contro le attività economiche
e politiche di Silvio Berlusconi, fu massacrato
da due individui mai identificati.)
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Antonio
Gramsci
(1891-1937) |
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Viviane
Forrester |
A chi toccherà dopo i Rom?
Ai Pensionati? Ai Disoccupati?...
Allora,
facendo eco alla domanda:
“È
utile vivere se non si è vantaggiosi per il
profitto?”,
essa stessa eco di una precedente domanda: “Bisogna
meritare di vivere per averne il diritto?”,
sorge di conseguenza la paura insidiosa, lo
spavento diffuso ma giustificato di vedere
esseri umani in grandissimo numero, o
addirittura in maggioranza, giudicati superflui.
Non subalterni né maltrattati: superflui. E di
conseguenza, nocivi. E di conseguenza...
Questo verdetto non è ancora stato pronunciato,
né enunciato, e neppure, senza dubbio,
coscientemente pensato. Siamo in democrazia. Per
l’insieme
della popolazione, questo
“insieme” costituisce
ancora l’oggetto
di un interesse reale, legato alla propria
cultura, ad affetti profondi, acquisiti o
spontanei, anche se va aumentando l’indifferenza.
(...)
Siamo o non siamo in democrazia? E intanto quel
che ci
minaccia è lì lì per essere detto, già quasi lo
si mormora:
“Superflui...”
E se ci succedesse, da un giorno all’altro,
di non essere più in democrazia? Questo
“eccesso” (che non farà
che aumentare) non rischierebbe di essere
formulato? “Pronunciato”,
e quindi consacrato ufficialmente? Cosa potrebbe
succedere se il “merito”,
da cui dipenderebbe più che mai il diritto a
vivere, e il diritto di vivere stesso fossero
messi in questione, gestiti da un regime
autoritario?
Noi non ignoriamo più, non possiamo pretendere
di ignorare che all’orrore
niente è impossibile, che non ci sono limiti
alle decisioni umane. Dallo sfruttamento all’esclusione,
dall’esclusione all’eliminazione, o a
sfruttamenti disastrosi e inediti: è davvero uno
scenario impensabile? Noi sappiamo per
esperienza che la barbarie, sempre latente, si
coniuga al meglio delle sue possibilità con la
tranquillità di quelle maggioranze così abili
nell’amalgamare il peggio alla stupidità.
Lo
si vede, di fronte a certi pericoli, reali o
virtuali: è ancora il sistema fondato sul lavoro
(benché ridotto allo stato larvale) che fa
mostra di baluardo: ed è forse per questo che
noi restiamo attaccati alle sue regole che non
hanno più corso. Ma questo sistema riposa su
fondamenta corrose, permeabili a qualsiasi tipo
di violenza e perversità. I suoi rituali, in
apparenza capaci di temperare il peggio, di
ritardarlo, in realtà girano a vuoto,
mantenendoci addormentati in quella che in altri
tempi ho chiamato
“la violenza della tranquillità”.
È la violenza più pericolosa, quella che
permette a tutte le altre di scatenarsi senza
ostacoli; proviene da una quantità di
costrizioni che sono a loro volta il frutto di
una lunga, terribilmente lunga, tradizione di
leggi clandestine. (...) Questa violenza,
mascherata all’interno
della tranquillità che ha istituito, procede e
agisce, incontrollabile. Veglia, tra l’altro,
sugli scandali che nasconde, facendoli accettare
sempre meglio, e riuscendo a determinare una
rassegnazione generale tale che non si riconosce
più a che cosa ci si è rassegnati: ne ha tanto
bene negoziato l’oblio!
(...) Se il profitto resta in queste zone
bruciate il grande ordinatore, esso viene
tuttavia tenuto segreto. Persiste a monte di
tutto, presupposto tanto evidente che è taciuto.
Tutto viene organizzato, previsto, impedito,
suscitato in funzione di questo principio, che
appare tuttavia sfumato, indefinibile, come fuso
nella trama stessa della vita, al punto che non
riusciamo più a distinguerlo. Opera sotto gli
occhi di tutti, ma inosservato.
È propagato, attivo dappertutto, ma non
viene mai citato, se non sotto la forma pudica
delle
“creazioni di ricchezze”
che dovrebbero beneficare tutta l’Umanità
e custodire dei tesori di posti di lavoro.
Andare a toccare queste ricchezze sarebbe perciò
criminale. Bisogna preservarle a tutti i costi,
non discuterle mai, dimenticare (o fingere di
dimenticare) che favoriscono sempre lo stesso
piccolo numero di persone, sempre più potente,
sempre più capace di imporre quel profitto (che
l’arricchisce)
come unica logica, come la sostanza stessa dell’esistenza,
il perno della civiltà, il garante di ogni
democrazia, il motore di ogni mobilità, il
centro nervoso di ogni circolazione, il movente
invisibile e silenzioso, intoccabile dei nostri
movimenti.
(Viviane
Forrester, L’orrore economico, traduzione di
Anna Maria Mori, Edizioni TEA, Milano,
1999, pagg 19 - 23.)
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L’ambiente in cui si viene educati vuol rendere ogni uomo non libero,
ponendogli davanti agli occhi il minor numero di possibilità.
L’individuo viene trattato dai suoi educatori come se fosse sì qualcosa
di nuovo, ma dovesse diventare una ripetizione. Se l’uomo appare
da principio come qualcosa di sconosciuto, di mai esistito, deve poi
essere trasformato in qualcosa di conosciuto e di già esistito. Si dice
buon carattere in un bambino il manifestarsi del suo essere vincolato a
ciò che è già esistito.
Accade forse non di rado che uomini nobili e di alte aspirazioni debbano
sostenere nella fanciullezza la loro lotta più ardua: o per il fatto di
dover far valere il loro modo di sentire contro un padre di mente
volgare, dedito all’apparenza e all’ipocrisia, o per il fatto di vivere,
come Lord Byron, continuamente in lotta con una madre puerile e
collerica. Se si è provato qualcosa del genere, per tutta la vita non si
supererà mai il dolore di sapere chi sia stato veramente per noi il
nemico più grande e pericoloso.
L’educazione giovanile (...) o è un
esperimento, compiuto su di un essere
ancora sconosciuto e inconoscibile, o un
livellamento di principio, inteso a
rendere il nuovo essere, quale che
sia, conforme alle abitudini e ai
costumi che dominano: in entrambi i casi
(...) un’opera dei genitori e dei
maestri, che uno dei sinceri temerari ha
chiamato nos ennemis naturels.
― Un giorno, quando già da un pezzo,
secondo l’opinione del mondo, si è
educati, si scopre sé stessi.
Quale brutalità è l’educazione
comune, l’invasione dei genitori nella sfera dei figli!
Utilizzarono
questi giovani (...) e li alienarono da sé stessi, li educarono all’essere
quotidianeamente usati,
di tutto questo crearono per loro una teoria di doveri
― e ora non possono farne a meno e non vogliono altro.
Volete inserirvi in un sistema in cui, o si deve essere pienamente e
completamente ruota, oppure è sotto le ruote che si va a finire! Nel
quale va da sé che ognuno è così come dall’alto
lo hanno
fatto. Nel quale la ricerca di
“relazioni influenti” fa parte dei doveri naturali. Nel quale nessuno si
sente offeso, se la sua attenzione è richiamata su di un uomo, con l’accenno
che
“Le potrà essere utile un giorno!” Nel quale non ci si vergogna di fare
delle visite per sollecitare la raccomandazione di una persona. Nel
quale non si ha la minima idea che attraverso un deliberato inserimento
in tali costumi si è caratterizzati una volta per sempre come vili
stoviglie della natura, che altri possono adoperare e mandare in pezzi,
senza sentirsene molto responsabili. Come se si dicesse: “Di roba del
mio genere, non ce ne sarà mai mancanza; prendetemi! Senza far
complimenti!”
Per la nuova
educazione del genere umano.
Voi uomini soccorrevoli e ben disposti, cooperate a un’unica opera, ad
allontanare dal mondo intero quel concetto di castigo che lo ha
soffocato! Non c’è malerba peggiore! Non soltanto lo si è posto nelle
conseguenze dei nostri modi di procedere ― e quanto è orribile e
ripugnante alla ragione già il solo fatto d’intendere causa e effetto
come causa e pena! Ma si è fatto di più, (...) sì, si è spinta tanto
lontano codesta pazzia da far sentire l’esistenza stessa come castigo: è
come se il vaneggiamento di carcerieri e carnefici avesse guidato fino a
oggi l’educazione del genere umano.
Maestri e scolari.
Conviene all’umanità di un maestro mettere i propri discepoli in guardia
contro sé stesso.
(Friedrich
Nietzsche, Umano, troppo umano, 1876-78, traduzione di Sossio
Giametta e Mazzino Montinari, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1970,
vol. 1, pagg 155, 221 e vol. 2, pag. 219; Aurora, 1879-81,
traduzione di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano, 1971, pagg 261, 124-125, 117, 18 e 211.)
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
Friedrich Nietzsche
(1844-1900) |
|
Anthony
Quinn in Zorba il Greco (1964), di Michael Cacoyannis, dal
romanzo omonimo (1946) di Nikos Kazantzakis (1883-1957). |
“Che
cosa credi, padrone? Secondo te, esiste o non
esiste Dio? E se esiste ―
tutto è possibile ―
come lo immagini?”
Mi strinsi nelle
spalle.
“Non
scherzo, padrone. Io vedo Dio molto simile a me, soltanto più grosso,
più forte, più pazzo. E immortale per soprammercato. Siede sopra un
mucchio di pelli di pecora, e la sua baracca è il Cielo, fatto di
nuvole, non di vecchie latte di petrolio come la nostra. Nella mano
destra tiene una grossa spugna piena d’acqua,
come una nube gravida di pioggia, non coltelli o bilance ―
arnesi adatti ai droghieri e ai macellai! Alla
destra ha il Paradiso, alla sinistra l’Inferno.
Ecco arrivare un’anima: poverina, è nuda perché ha perduto le spoglie
mortali che le servivano da vesti e trema. Dio la guarda, ridendo sotto
i baffi, mentre recita la parte del fantasma: "Accostati," tuona.
"Accostati, miserabile rottame!"
Allora ha inizio l’esame.
L’anima
nuda si getta ai piedi di Dio. "Pietà!" grida, "Ho peccato!" E comincia
a confessare le sue colpe, in una lunga tiritera senza fine. A un certo
punto Dio si stanca di quel divertimento. "Per amor del cielo!" esclama.
"Basta! Ho ascoltato fin troppo!" E con un colpo di spugna, lava tutti i
peccati. "Adesso vattene! Scappa in Paradiso!" le dice. Poi,
rivolgendosi a San Pietro: "Pietruccio, lascia entrare anche questa
povera creatura!"
Perché Dio è un
gran Signore, e la signorilità significa capacità di perdonare.”
(...)
Un’altra
sera, mentre fuori pioveva e ce ne stavamo accovacciati presso il
braciere in cui arrostivano le castagne, Zorba prese a fissarmi con
l’aria di voler investigare un grande arcano. Finalmente, incapace di
dominarsi oltre, disse:
“Padrone, vorrei sapere perché mi sopporti. Perché non mi prendi per un’orecchia
e non mi butti fuori. Ti ho detto che mi chiamano Muffa perché dovunque
vado metto tutto a soqquadro?... Anche i tuoi affari andranno certo in
rovina. Dammi ascolto: liberati di me al più presto.”
“Mi sei simpatico,” risposi, “e tanto basta.”
“Ma non capisci, padrone, che il mio cervello non ha il peso giusto?
Forse pesa troppo, forse troppo poco, ma è diverso da quello degli
altri, te lo assicuro io! Guarda, voglio dirti qualcosa che potrai
capire. Da non so quante notti non dormo, causa quella vedova. No, non è
a motivo di lei: so bene che non posso essere il suo tipo. Ma mi spiace
che sia sprecata, che debba dormire sola.
È una cosa ingiusta, padrone. Non posso sopportarla. Così, la sera, vado
a passeggiare vicino alla sua casa. Ecco che cosa facevo quando
scomparivo e tu mi domandavi invano dove andassi. Lo sai perché? Voglio
essere sicuro che qualcuno si corichi con lei: soltanto allora potrò
liberarmi da questo dubbio tormentoso.”
Mi
misi a ridere.
“Non ridere, padrona. Se una donna dorme sola, la colpa è di noi uomini
e dovremo renderne conto il giorno del giudizio. Come abbiamo detto
prima, Dio rimette tutti i peccati, è pronto a cancellarli con la sua
spugna. Ma per questo peccato non vi sarà perdono. Guai all’uomo
che, potendo giacere con una donna, non l’abbia fatto! Guai alla donna
che, potendo giacere con un uomo, l’abbia respinto! Ricorda le parole
del vecchio Hoggia!”
(...)
Si curvò a togliere le
castagne dalla cenere calda, me ne offrì alcune e colmò i bicchieri di
raki.
“Dio faccia pendere la bilancia a destra!” dissi, alzando il bicchiere.
“A sinistra!” mi corresse Zorba. “A sinistra! Fino a oggi dalla destra
non è venuto nulla di buono.”
(Nikos Kazantzakis, Zorba il Greco, traduzione italiana di
Olga Ceretti Borsini, Milano, Arnoldo
Mondadori Editore, 1966. Capitolo IX,
pp. 130 -132.)
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Ho
qualche difficoltà ad accettare per me, o a consigliare agli altri, la
credenza in base alla quale delle potenze che sono sopra di noi si dian
da fare personalmente per aiutarci o consolarci. Decisamente, confesso
che non so cosa pensare in proposito.
(...)
Sempre
di più penso che non si debba giudicare il buon Dio in base a questo
mondo: è uno studio che non gli è riuscito troppo bene. Che vuoi,
quando si ama l’artista,
non si trova molto da criticare neanche davanti agli studi meno riusciti ―
si tace. Ma ci si sente in diritto di pretendere
di più. Dovremmo vedere altre opere della
stessa mano; questo mondo, evidentemente, è un
po’
tirato via,
raffazzonato
in fretta in uno dei momenti meno felici, in cui l’autore non sapeva
bene cosa stesse facendo e non si trovava nelle sue piene facoltà...
Comunque, si è dato un bel da fare con questo “studio”
del mondo! Solo i grandi maestri si sbagliano così.
(...)
Troppo
a lungo appoggiato alla fredda e bianca parete di una chiesa: così ho
passato la mia giovinezza... E quella parete, reale o immaginaria, mi ha
raggelato fin nel profondo dell’anima...
Troppo
fredda, per me;
ho bisogno di una donna.
(...)
Si
continua a pensare senza tener conto della scienza. Si è creduto che la
terra sia piatta. È vero, lo è: da Parigi ad Asnières, per esempio.
Solo la scienza dimostra che la terra è rotonda, cosa che nessuno
contesta. Ora, oggi come oggi, nonostante tutto questo, siamo ancora al
punto di credere che la
vita sia piatta e vada dalla nascita alla morte. Invece anche la vita
è probabilmente rotonda, e molto più grande in estensione e volume di
quell’emisfero
che al momento ci è noto.
(...)
E
dietro la testa di quest’uomo,
invece di dipingere la banale parete del misero appartamento, dipingerò
l’infinito.
(Lettere
di Vincent Van Gogh alla sorella
Wilhelmine e al fratello Theo. Da Van
Gogh, o il posto dell’assente, di
Viviane Forrester, Paris, Editions du
Seuil, 1982, traduzione italiana di
Laura Guarino, Milano,
Feltrinelli,
1990.)
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Vincent Van Gogh (1853 - 1890),
Autoritratto con tavolozza,
agosto - settembre 1889,
olio su tela, cm 57 x 43,5
(collezione privata).
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Nicole
Kidman è Silvia Broome in The Interpreter, di Sydney Pollack
(2005). |
Silvia:
“Noi
non nominiamo i defunti.
Chiunque
perda una persona desidera vendetta su qualcuno.
Su
Dio, se non riesce a trovare nessun altro.
Ma
in Africa i Matopo e i Qu credono che l’unico
modo di estinguere il dolore sia salvare una vita.
Se
qualcuno viene ucciso, un anno di lutto finisce con un rituale chiamato la
prova dell’uomo
che affoga.
Per
tutta la notte c’è
una festa accanto a un fiume. All’alba,
l’assassino
viene messo su una barca, portato a largo e gettato fuori.
È
legato, così non può nuotare.
La
famiglia del morto deve fare una scelta.
Può
lasciarlo affogare... o raggiungerlo a nuoto e salvarlo.
I
Qu credono che, se la famiglia lascia che l’uomo
affoghi, avrà giustizia, ma passerà il resto della vita nel lutto.
Ma
se salva l’uomo ―
se
ammette che la vita non è sempre giusta... ―
proprio
quel gesto porterà via il dolore.
La
vendetta è una pigra forma di sofferenza.”
(dal
film The Interpreter, di Sydney Pollack, con Nicole Kidman e Sean
Penn. 2005) |
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Selva
si mosse, e girò dietro il tavolo, guardò se
l’acqua
bolliva.
“Speravo
che tu fossi la sua compagna,” disse.
S’interrompeva
parlando, eppure non dava più modo a Berta di parlar lei. Continuò:
“Un
uomo deve avere una compagna. Tanto più deve
averla se è uno dei nostri. Dev’esser
felice. Che cosa può sapere di quello che
occorre agli uomini se uno non è felice? Noi
per questo lottiamo. Perché gli uomini siano
felici.” Si
voltò, e si appoggiò al tavolo con le mani,
dalla parte dov’era.
“M’intendi
in questo che dico?”
“È
semplice,”
Berta rispose.
“È
molto semplice,”
disse Selva. “Un uomo che lotta perché gli
uomini siano felici deve sapere tutto quello che
occorre agli uomini per essere felici. E deve
avere una compagna. Dev’essere
felice con la sua compagna.”
“Lui
non ha una compagna?” Berta chiese.
Di
nuovo Selva guardò se l’acqua
bolliva.
“A
me lo domandi? Io speravo che fossi tu... Mai ho
saputo che ne avesse una.”
Venne
di qua dal tavolo con la teiera e due tazze.
“Quando
ti ho veduta,” disse, “ho subito pensato che
avresti dovuto essere la sua compagna. Sei come
lui la deve volere... Ma, tu,” domandò, “mi
credi in quello che dico?”
“Perché
no?” Berta disse.
“Se
io fossi stata giovane,” Selva continuò, “avrei
potuto esser io la sua compagna. Ma io potrei
essere sua madre. E quando ti ho veduta ho
pensato che dovevi essere tu.”
“Sono
anch’io
più vecchia di lui.”
“Potresti
esser sua madre? Non potresti esserlo. Dunque
puoi essere sua moglie.”
“Ma
sono già moglie di un altro.”
La
vecchia Selva fu attenta con la sua faccia fine.
“Sembra
strano che tu possa dirlo.”
“Pure
posso dirlo.”
“E
lo sei? Davvero lo sei?”
“Non
so,” disse Berta. “Che
cosa significa esserlo? Credo che vi siano molti
modi di esserlo.”
Disse
Selva: “Io
non lo credo.”
“Credi
che vi sia solo un modo di esserlo?”
“Vi
è un modo che conta più di tutto il resto.”
“Anche
voler essere buoni conta.”
“Sei
moglie di un altro perché vuoi essere buona?”
“Non
so. Forse è per questo.”
“È
per questo? È stato sempre per questo?”
“Forse
è stato sempre per questo.”
“Ma
è terribile,” disse Selva. “Tu
stai in una casa, e per essere buona pensi che sia la tua
casa?”
Berta
non rispose.
Era
come Selva diceva? Non aveva una casa, non aveva nulla, non aveva che uno
spettro; si metteva a letto e non dormiva nemmeno... E per essere buona pensava
di aver tutto? E pensava di essere moglie di un uomo, per essere buona? Era come
Selva diceva?
(Il
25 luglio 2008 saranno cent’anni dalla nascita di
Elio Vittorini. ScuolAnticoli lo celebra, nella
rubrica Righe di Libri, con alcuni brani de
Il
garofano rosso, con il saggio
I
preti feroci, tratto dal Diario in pubblico e con alcuni brani di
Uomini e no.
Del quale hai appena letto il capitolo LX...)
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Elio Vittorini (1908-1966) fotografato da Albe Steiner (1913-1974)
(http://www.archiviosteiner.dpa.polimi.it).
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Pietro
Ingrao |
“Al
mattino di buon’ora ero a Botteghe Oscure. Il dialogo con Occhetto fu
breve e gelido. Il segretario provò a
spiegarmi la sua iniziativa, ma il mio rifiuto
concluse rapidamente il nostro colloquio.
Presto fui a Montecitorio assediato da un nugolo
di giornalisti, e resi pubblico ―
con una dichiarazione aspra e breve ―
il mio dissenso dalla scelta di Occhetto. Ero
consapevole che nel nostro mondo s’apriva uno scontro
duro, una pagina difficile.”
“Non
pensasti a un compromesso, a una possibile
mediazione?” “No,
sentivo che era inutile. Conoscevo, mi erano
chiare le forze borghesi che
avevano alimentato quella proposta occhettiana
che colpiva alla radice la fonte e la storia di
quel partito che si nominava
comunista.
Entravano in pericolo il volto e l’ideologia di un
soggetto politico che durava da più di mezzo
secolo, coinvolgendo innumerevoli storie di vita
umana. Di fatto si avviava la liquidazione del
Pci. Ebbi subito chiaro che quella era la posta
del pronunciamento della Bolognina.”
[...] “Il
1991 fu l’anno cruciale. A
gennaio con l’operazione
Desert Storm una
coalizione con a capo gli Americani intervenne
contro l’Iraq che aveva invaso
il Kuwait.
Anche l’Italia partecipò nel
concerto delle 27 nazioni che affidavano la
parola alle armi. Era una decisione che
cancellava l’articolo 11 scritto in Costituzione.
Ma
il blocco democristiano-socialista non ebbe
dubbi, e si schierò con l’America...”
(Pietro
Ingrao, La pratica del dubbio, dialogo
con Claudio Carnieri, Manni
editori, 2007, San Cesario di Lecce).
(Clicca
qui per proseguire la lettura nella
rubrica
Righe
di Libri!) |
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Non troveremo mai un
fine per la Nazione, né una nostra personale
soddisfazione, nel mero perseguimento del
benessere economico, nell’ammassare senza fine
beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito
nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né
i successi del Paese sulla base del Prodotto
Interno Lordo. Il Pil comprende anche
l’inquinamento dell’aria, la pubblicità
delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le
nostre autostrade dalle carneficine del fine
settimana. Il Pil mette nel conto le serrature
speciali per le nostre porte di casa, e le
prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi
televisivi che valorizzano la violenza per
vendere prodotti violenti ai nostri bambini.
Cresce con la produzione di napalm,
missili e testate nucleari. Si accresce con gli
equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le
rivolte. E non fa che aumentare quando sulle
loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
popolari. Il Pil non tiene conto della salute
delle nostre famiglie, della qualità della loro
educazione o della gioia dei loro momenti di
svago. Non comprende la bellezza della nostra
poesia, la solidità dei valori familiari o
l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil
non misura né la nostra arguzia né il nostro
coraggio, né la nostra saggezza né la nostra
conoscenza, né la nostra compassione né la
devozione al nostro paese. Misura tutto, in
breve. Eccetto ciò che rende la vita veramente
degna di essere vissuta. Può dirci tutto
sull’America, ma non se possiamo essere
orgogliosi di essere americani.
(Robert Kennedy, 18
marzo 1968). |

Robert Kennedy (1925 - 1968)
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