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Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca

 

Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino

 

Hook

 

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Perché Peter, quando stava accarezzando Maggie e lei gli ha fatto odorare un fiore di carta,

le ha detto che era di carta ma non ha fatto finta di odorarlo? (Dorin, a.s. 2003-2004)

 

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Titolo: Hook

Titolo originale: Hook

Regista: Steven Spielberg (1946, vivente)

Autore del Romanzo: James Matthew Barrie (1860-1937)

Paese di produzione: U.S.A.

Anno di produzione: 1991

Attori principali: Dustin Hoffman (Capitan Uncino), Robin Williams (Peter Pan-Peter Banning), Julia Roberts (Campanellino), Maggie Smith (Wendy Moira Angela Darling), Bob Hoskins (Spugna), Caroline Goodall (Moira Banning), Charlie Korsmo (Jack Banning), Amber Scott (Maggie Banning), Dante Basco (Rufio), Arthur Malet (Tootles), Laurel Cronin (Liza).

Durata: 2h 24’

 

Il film

 

Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, ha lasciato l’Isolachenoncè per diventare grande. Per amore della figlia di Wendy, Moira Darling, è cresciuto ed è andato a scuola, come tutti i bambini; è stato adottato dai coniugi Banning, che gli hanno dato il loro nome; si è iscritto all’Università, diventando un brillante avvocato; e infine ha sposato Moira e ha messo al mondo due figli, Jack e Maggie. Ma nel corso del tempo, senza accorgersene o senza voler accorgersene, ha perduto cose importantissime: ha dimenticato il suo meraviglioso, straordinario passato, non sa più esultare, non sa più volare... Si è tramutato, insomma, in un adulto piuttosto antipatico: arido, povero d’immaginazione e d’amore, pieno di paure, freddo e goffo nei rapporti con gli altri. Della creatività, dell’intelligenza e della forza di un tempo non gli è rimasto quasi nulla: solo l’astuzia e la tenacia (ma più da pirata che da persona per bene) di cui dà prova nella professione, alla quale dedica molto più tempo e più impegno che alla famiglia. Ragion per cui sta cominciando a perdere anche l’affetto e la stima della moglie e dei figli.

Possibile che l’unica cosa che Peter Banning non ha perduto, del tempo ormai remoto in cui si chiamava Peter Pan, sia proprio il suo acerrimo nemico, Capitan Uncino? Sembra proprio di sì! Il vecchio Hook non si è dimenticato né di lui né di altro: continua a essere il filibustiere di una volta, fiero e al contempo vile, temibile e insieme puerile, geniale e tuttavia insensato. E ha una così intensa nostalgia di lui, Peter Pan, unico avversario che considera degno di sé e della propria incommensurabile sbruffoneria, che decide di portargli via la sola cosa che potrà (forse) indurlo a tornare sull’Isolachenoncè e ad affrontarlo come ai vecchi tempi: Jack e Maggie, i suoi bambini.

Riuscirà lamore per loro (insieme al benefico influsso dell’isola, di Campanellino e dei Bimbi Sperduti, e a quello malefico di Uncino e della sua ciurma) a resuscitare nel corpo inaridito, smemorato e appesantito dell’avvocato Peter Banning lo splendido ragazzo di tanti anni prima? La risposta e sì, naturalmente, trattandosi di un film di Steven Spielberg. Ma Peter, prima di tornare a essere un padre (e un uomo) degno del bambino che era stato, dovrà affrontare un lungo, avventuroso e faticoso training, che darà al regista tutto il tempo d’incantarci con una particolareggiata ricostruzione dell’Isolachenoncè, e di farci riflettere (per mezzo di una serie di rapide ma non superficiali notazioni psicologiche, affidate via via a ciascuno dei tanti personaggi della vicenda) su tutti gli aspetti della grande e antica questione del diventare grandi, e di cosa si debba fare (e cosa, invece, evitare) per diventarlo bene.

 

Il regista

 

Steven Spielberg

Il commento di Luigi Scialanca

 

1. Il Peter Pan di Barrie

 

Con Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere1, James Matthew Barrie compì un passo che sembrò (e sembra tuttora a molti) decisivo verso un’idea di bambino che ne riconosca a pieno l’umanità: innalzò l’infanzia a unica età davvero umana e a solo periodo dell’esistenza che valga la pena di vivere. Poiché, come scrisse nella prima pagina di Peter Pan and Wendy, “i due anni sono il principio della fine...”2

 

Dopo i due anni, inesorabilmente, inizia il processo distruttivo della crescita: i bambini cominciano a dimenticare come si vola, a poco a poco smettono di credere nelle fate, non tornano più sull’Isolachenoncè, dubitano addirittura della sua esistenza, e si tramutano infine (quando non hanno la fortuna di poter diventare tenere mammine, gli unici grandi in cui talora permanga un vago e malinconico ricordo dell’infanzia) in malvagi pirati come James Hook, che odia i bambini e ne fa scempio ogni volta che può. Poiché l’età adulta, per James Matthew Barrie (in un totale capovolgimento del pensiero che la concepiva come la sola in cui si possa raggiungere, per mezzo dell’educazione e dell’istruzione, la piena umanità) nel suo progressivo allontanarsi dalla purezza e dalla bellezza infantili sarebbe invece l’età della degenerazione, della scomparsa e della morte dell’essere umano3.

 

Il bambino, annuncia Peter Pan al mondo, può dunque restare umano solo se rifiuta e abbandona i grandi al più presto e nel modo più radicale4 (sfuggendo così a tutto ciò che altrimenti gli verrà da loro, e che inevitabilmente lo guasterebbe5) per dar vita a una nuova società esclusivamente infantile, da cui la crescita, sia del corpo che della mente, sia bandita per sempre6. Solo l’amore per una mamma che per miracolo non sia diventata del tutto adulta potrebbe trattenerlo da questo passo estremo o indurlo a recederne. Ma dato che neppure la migliore delle mamme può preservare un bambino dal crescere, egli, come Peter Pan, dovrebbe aver la forza di fare a meno anche di lei7.

 

Ma le cose non stanno così. Ed è per questo che molti genitori diffidano di Peter Pan: i miei, per esempio, benché prodighi di consigli e regali letterari, mi nascosero la sua esistenza, e non mi portarono a vedere il film benché fossero convinti che quasi solo la produzione cinematografica Disney fosse adatta a un bambino. Lo stesso Disney, del resto, nel 1953, pur nel contesto di una versione abbastanza fedele dell’opera, pensò bene di smussarne con molta cura gli “estremismi” e ne edulcorò sensibilmente il malinconico finale. Mentre Spielberg, dal canto suo, nel 1991 sentì l’esigenza di darne un’interpretazione nuova, che in modo intelligente e sottile ne tradisce, come vedremo, lo spirito originale.

 

Intendo dire che l’immagine di Peter Pan, invece che quella di un bambino (finalmente) umano, visto e rappresentato nella sua realtà e senza alcun riguardo per gli annullamenti e le negazioni del passato, è al contrario una puntuale riconferma (ancorché molto astuta, e attenta a quanto andava maturando nella cultura di quegli anni) proprio di quegli stessi annullamenti e negazioni. Pur essendo, infatti, l’immagine di un bambino come l’autore fantastica che un bambino sarebbe se, a partire da una settimana dopo la nascita, non avesse più alcun contatto con esseri umani adulti, non è, tuttavia, quella di un selvaggio come il Victor del dottor Itard8, “che non indossa vestiti, non parla, non risponde alle domande, non reagisce alle voci umane...” Al contrario, Peter Pan ha riportato ben pochi danni dalla perdita del rapporto con i propri simili: sta benissimo fisicamente e quasi sempre anche mentalmente, è più felice di qualsiasi altro bambino ed è capace di imprese eccezionali. Come mai? Come può, questo piccolo, sin dalla nascita far tranquillamente a meno dei grandi e perfino della madre? La risposta è semplice: perché, ancora una volta, quella di Peter Pan è l’immagine di un bambino umano... che non è umano. Di un bambino affascinante partorito da una fantasia straordinaria, non v’è dubbio, ma nondimeno di un bambino che non appartiene alla nostra specie. E pertanto è un’immagine che continua a ingannarci, ancorché in maniera suggestiva, sulla verità dei nostri veri bambini e del nostro vero rapporto con loro.

 

Peter Pan, insomma, non è nato da donna, e lo dimostra in molti modi anche nella sua più sorvegliata versione del 1911: come i bambini fantasticati dall’istitutrice di Giro di vite9, anch’egli ha misteriosi rapporti con l’Aldilà10; è capace di linguaggio ma non di pensiero11; non è in grado di mantenere un rapporto nella separazione, nemmeno per breve tempo, ma deve riannodarlo più o meno faticosamente ogni volta che ritrova una persona12; non ha memoria né senso del tempo13, e neanche i suoi stessi sentimenti (seppur ne prova qualcuno14) lasciano mai alcuna traccia in lui15; non può o non vuole fondere né far confliggere il proprio mondo fantastico con quelli degli altri, ma anzi lo impone loro nella convinzione che sia l’unico reale16; non è e non sarà mai capace di sessualità17; c’è qualcosa, in lui, a dispetto della sua immutabilità e immortalità, che lo spinge più d’una volta a scimmiottare Uncino, quasi si prepari a prenderne il posto18; non possiede, dunque, alcuna immagine o sentimento di sé19, ma come un animale egli è soltanto, di volta in volta, il sentimento che in quel momento sta provando; e i suoi sonni, infine, e probabilmente non per caso, sono talvolta turbati da terribili incubi.20

 

Solo il fascino che esercita su di lui la figura della mamma, che Peter non ha mai avuto (tranne che per sette giorni, per altro completamente dimenticati) ma che comprende al punto di dedicarle molte fantasticherie e qualche realistica sperimentazione con Wendy, riesce a creare e mantenere un legame tra il ragazzo che non voleva crescere e il mondo umano: è per effetto di questo sentimento che Peter di quando in quando si ricorda di tornare a Londra; ed è proprio il rimpianto e il desiderio di una mamma, oltre che l’ambigua somiglianza di carattere con Hook a cui ho già accennato, l’unico tratto psichico che egli ha in comune con i pirati. Poiché, per il resto, la presenza degli esseri umani e del loro mondo fantastico sull’Isolachenoncè non pare dovuta che al bisogno di Peter di combattere e sterminare gli uni21 e di sovvertire l’altro: solo per questo permette ai pirati e ai pellerossa di soggiornare sul suo “pianeta”; e perfino i Bimbi Smarriti, a giudicare almeno dall’assoluta spensieratezza con cui alla fine lo abbandonano, non vi sono stati ammessi che per servirlo e ammirarlo.

 

Ma vi sono elementi, in Peter Pan e nella sua storia, che parlano ancor più esplicitamente della sua origine da un’idea mostruosa del bambino, al punto da lasciar supporre che discendano da lui non solo i piccoli Bas-Thornton di Un ciclone sulla Giamaica22 (il cui autore aveva l’età di Peter proprio nell’anno in cui uscì Peter Pan and Wendy) ma perfino i giovanissimi alieni telepatici e senza cuore de Il villaggio dei dannati23. L’odio feroce di Peter per i grandi, per esempio, non è conciliabile con la sua immagine “disneyana”: “Buttò fuori con intenzione rapidi e corti sospiri alla velocità di circa cinque al minuto secondo. Fece questo perché nell’Isolachenoncè, ogni volta che uno sospira, un adulto muore. E Peter, per vendicarsene, li voleva uccidere più in fretta che poteva”24. È vero che anche i cuori dei bambini umani possono, talvolta, albergare sentimenti di forte avversione per i genitori; ma è cosa che accade pur sempre all’interno del rapporto quasi indistruttibile che li lega a essi (così solido che neanche le violenze di certi padri e certe madri riescono sempre a determinarne la fine); mentre l’odio di Peter Pan è un odio freddo, che parte e colpisce dall’esterno, poiché non c’è e non c’è mai stato alcun rapporto, tra lui e gli adulti della specie umana, né mai ci sarà.

 

Un altro elemento, forse ancor più sconcertante, è dato dalla natura dell’Isolachenoncè. Neverland, infatti, come dice il suo nome, non appartiene certo alla realtà, perché non è in nessun posto; ma d’altra parte non è neppure un luogo della fantasia, perché esiste davvero: è una mente, o forse una parte di essa, e come tale esiste in un cervello: “La pianta di una mente di bambino... non solo è confusa, ma è in continuo movimento. (...) Vi sono linee a zig zag... e con ogni verosimiglianza rappresentano le vie di un’isola. Infatti l’Isolachenoncè è, più o meno, un’isola con meravigliose macchie di colore qua e là, e banchi di corallo, e vascelli pirati al largo... (...) Sarebbe molto facile disegnare questa pianta se fosse tutto qui, ma c’è anche il primo giorno di scuola, il catechismo, papà e mamma, una vasca rotonda, il ricamo, assassini, impiccati, verbi che reggono il dativo, il giorno della torta al cioccolato, i primi pantaloni, le caselline, i tre soldi se ti levi il dentino da latte da solo, e così via. Ora, o tutte queste cose fanno parte dell’isola, o formano un’altra pianta che appare attraverso la prima, e ciò è abbastanza confuso, specialmente perché non v’è nulla di stabile. (...) Nell’insieme, però, tutte le Isolechenoncisono hanno un’aria di famiglia e, se le vedessimo in fila, vedremmo che una ha il naso come l’altra”25.

 

Sbarcare a Neverland significa, dunque, entrare nella mente di un bambino. Di qualsiasi bambino, come queste righe suggeriscono? Può darsi... Ma, se è così, com’è che solo il Pan regna da sovrano assoluto su questa terra, ne determina le caratteristiche e vi accoglie o vi porta chi vuole lui? No, l’Isolachenoncè è la mente di un solo bambino, Peter Pan, perché solo lui ha questa mente. Gli altri la pèrdono, a poco a poco ma senza scampo, a partire dai due anni. E tuttavia, finché non l’han perduta del tutto, possono mettersi in contatto con essa, leggere telepaticamente in essa e, per così dire, soggiornarvi col pensiero: “Peter si rivolse a tutti quelli che in quel momento stavano sognando l’Isolachenoncè e che perciò erano più vicini di quanto immaginiate. Bambini e bambine nelle loro camerine da notte e piccoli selvaggetti nudi nei loro panieri appesi agli alberi, tutti furono interpellati da Peter...”26. Neverland, insomma, è una mente infantile collettiva (e aliena) come quella che permette ai piccoli cuculi di Midwich27 di venire a conoscenza, in tempo reale, di tutto ciò che ognuno di loro apprende o pensa. Ma con due caratteristiche peculiari: che col passar del tempo, come abbiamo visto, la si perde e la si sostituisce con quella adulta (e umana); e che il suo contenuto, per l’appunto, è quello che solo Peter ha il potere di determinare, come dimostra anche il fatto che gli altri bambini la sentono, all’interno della propria, estranea e perfino spaventosa: “L’Isolachenoncè incominciava sempre a sembrare un po’ buia e a incutere paura soltanto al momento di andare a letto. Allora sorgevano in un lampo e ingrandivano spaventosamente strane macchie inesplorate. Nere ombre... belve feroci... e il buio diventava sempre più buio di momento in momento... Ora sorvolavano l’isola spaventevole... Così, brutalmente, i tre piccoli Darling impauriti capirono quale differenza esiste tra un’isola nata dalla fantasia e la stessa isola divenuta realtà...”28.

 

È questa, al di là delle svenevolezze e dei belletti, la mente neonatale di Peter Pan e la Neverland di James Matthew Barrie: un luogo alieno, pieno d’odio, spaventoso. E tuttavia si vorrebbe che i bambini, come Peter, la conservassero per sempre e vi si dedicassero allo sterminio fantastico degli adulti.

Barrie, del resto, riguardo alla natura aliena di Peter Pan e di tutti i bambini, aveva avuto assai meno pudori in Peter Pan in Kensington Gardens, prima versione della sua storia29. Dove l’incompleta umanità dei bambini viene dichiarata a chiare lettere: “Peter Pan è umano soltanto a metà...30 Era sfuggito alla condizione di essere umano quando aveva sette giorni...31 Si era già completamente dimenticato d’essere stato una creatura umana e credeva d’essere un uccello anche nell’aspetto, proprio come nei primi giorni di vita...32 ‘Allora non sarò... una creatura umana?’ chiese Peter. ‘No.’ ‘E nemmeno... un uccello?’ ‘No.’ ‘Che cosa sarò?’ ‘Sarai un Tra-il-Qua-e-il-Là’ disse Salomone, e certamente era un vecchio saggio, perché è esattamente ciò che avvenne...33 Ma (Peter) ricorda ancora vagamente di essere stato un tempo una creatura umana34 e questo ricordo lo rende particolarmente gentile con le rondini quando visitano l’isola, perché le rondini sono gli spiriti dei bambini morti. Esse si fanno i nidi nelle grondaie delle case dove hanno vissuto quando erano creature umane, e a volte tentano di volare verso le stanze dei bambini, e forse è per questo che Peter le ama più di tutti gli altri uccelli”35.

 

L’idea di bambino che l’opera di Barrie ha offerto al mondo è dunque, ancora una volta (ma con l’aggravante di una cert’aria da ora-metto-io-le-cose-a-posto-una-volta-per-tutte che si direbbe rivolta soprattutto al suo grande connazionale Stevenson) la vetusta idea di una creatura non del tutto umana e per più versi mostruosa. Che con qualche originalità viene tuttavia dichiarata migliore, per natura, degli esseri umani adulti, e di gran lunga superiore a quel che l’educazione e l’istruzione da essi impartite vorrebbero fare di lei. Ma, ahimé!, solo per riaffermare, sùbito dopo, il suo ineluttabile destino d’essere a poco a poco tramutata (lentamente già a partire dal primo vagito, e a rotta di collo dopo i due anni) in quell’essere inferiore che, altrettanto “per natura”, non può comunque evitare di diventare36.

 

2. Il Peter Pan di Spielberg

 

Fin dalle prime immagini di Hook apprendiamo che Spielberg non è d’accordo con Barrie e con il suo Peter Pan sulla questione più importante: non si può rimanere bambini, dice il regista americano allo scrittore inglese, diventare grandi si deve. Altrimenti non si potrà mai beneficiare dell’esperienza a cui nessuna esistenza umana può rinunciare, se umana vuole rimanere: l’amore.

 

Il Peter Pan di Spielberg se ne accorge il giorno in cui torna a cercare Wendy e scopre che rifiutando di crescere l’ha perduta per sempre, perché la bambina nel frattempo è invece diventata donna e madre, e dunque non potrà più essere colei che finalmente gli insegnerà a distinguere un bacio da un bottone. Ed è per questo che qualche tempo dopo, quando s’innamora della figlia di Wendy, Moira, Peter accetta, pur di non perderla, di crescere insieme a lei. Correndo il rischio, come tutti gli esseri umani, che la vita a poco a poco lo distrugga anche mentalmente, oltre che fisicamente...

 

Circa il timore che diventando grandi si rischi fortemente di guastarsi, infatti, Spielberg è d’accordo con Barrie: il pericolo è reale. Tant’è vero che il suo Peter Pan, tramutandosi in un brillante avvocato quarantenne di nome Peter Banning, ha perduto tutte le qualità che facevano di lui, quando ancora era bambino, quell’essere umano unico e straordinario che ogni bambino è. Ma ciò non significa, dice Spielberg a Barrie, che tale disastro debba succedere sempre e obbligatoriamente, come se fosse una sorta di prezzo da pagare per diventare adulti! Può accadere e accade, certo, ma la cosa dipende da noi.

 

Come mai, però, Peter Pan ha davvero perduto sé stesso, diventando Peter Banning? Come ha perduto la capacità di esultare e di volare? Com’è diventato un pirata? Perché il diventare adulti bene è così difficile, che Rufio crede di poter dire, guardandosi intorno, che “i grandi son tutti pirati, e noi i pirati li uccidiamo”? Qual è la causa di questa tremenda metamorfosi?

Il film non risponde esplicitamente a queste domande, non ci racconta quel che è accaduto nella mente di Peter in tutti quegli anni, ma nel corso della prima parte ci fornisce un paio di indizi, in proposito. Il più importante dei quali è il fatto che Peter, dell’infanzia, ha dimenticato tutto.

 

Mentre Peter cresceva diventando grande, cioè, la sua mente invece “si gonfiava” annullando: anziché creare, aver cura e trasformare, a poco a poco, il mondo di affetti, di fantasie e di pensieri che nasceva e si sviluppava in lui nei rapporti con gli altri, Peter lo trascurava, lo disprezzava, lo cancellava. Ecco perché Peter Banning non può più viaggiare nel tempo dentro di sé: perché ha soffocato, spento e sradicato i sentimenti di quand’era bambino: ha “ucciso” il cucciolo37, invece di crescere insieme a lui. E, trattando così la sua immaginazione (servendosi di essa, cioè, non per creare e arricchire il proprio mondo interiore, ma per sciuparlo e distruggerlo) l’ha resa bugiarda e pericolosa per sé e per gli altri: tanto che quando la figliola gli porge un fiore di carta perché lo annusi, la sua tremenda risposta è: “Ma non vedi che è di carta, tesoro?” Dove la parola tesoro, più o meno inconsciamente, più che un amore paterno ormai  ridotto al lumicino contiene l’intenzione di simularlo per impedire a Maggie di accorgersi del veleno nascosto nelle sue parole: “Sbrigati a crescere, anche tu, e a far sparire tutte queste sciocchezze”.

 

Per Barrie la storia sarebbe tristemente finita qui. Per Spielberg no. Per lui, Peter Banning può ancora salvarsi perché, in qualche modo (Spielberg non mostra come) l’amore per i figli si è invece salvato, in lui. È andato a finire molto in profondità, in un ripostiglio del cuore di cui ha smarrito la chiave e perfino il ricordo, ed è stato sostituito da un facsimile d’amor paterno che a paragone di come sarebbe potuto essere è come un abito acquistato ai grandi magazzini dinanzi a un abito realizzato su misura dal più bravo dei sarti. Ma non è ancora distrutto. Esiste ancora. È il suo pensiero felice, e Peter, per salvare Jack e Maggie dalle grinfie di Giacomo Uncino, riesce a ritrovarlo. A risentirlo.

 

A proposito. Ma chi è, poi, questo Giacomo Uncino? Perché non resiste alla tentazione di far tornare sull’Isolachenoncè il suo acerrimo e pericolosissimo nemico, Peter Pan? Perché, nonostante sia un pirata e un rapitore di bambini, ci è simpatico per (quasi) tutto il film? Come riesce a far dimenticare a Jack, per qualche ora, tutto il bene che vuole a suo padre? Perché ha paura del tempo che passa? E chi è il Coccodrillo, che un giorno gli amputò una mano e fra poco se lo papperà tutto intero?

 

Uncino è quello che diventeremmo se lasciassimo arrivare il brutto giorno in cui Peter Pan, in noi, sparisca davvero. Ci è simpatico per (quasi) tutto il film perché riesce a farci credere che rinunciando a Peter Pan non si vada a finire tanto male, ma anzi si diventi un gigantesco brigante geniale, possente, capace di farsi beffe del mondo intero. Ma quando uccide Rufio (che è il solo che muore perché, fra tutti i Bimbi Sperduti, è l’unico a credere a Uncino e sta diventando come lui) allora scopriamo la verità: non esiste nessun gigantesco e geniale brigante. Al contrario: se in noi non c’è più Peter Pan, quel che resta non è che un mediocre e meschino disonesto. Che però riesce a far dimenticare il padre a Jack perché gli dice la verità su di loro e al contempo lo inganna su sé stesso, proprio come sta ingannando Rufio. Anche Jack, infatti, come tutti i Bimbi Sperduti, è figlio di uno dei tanti padri che un tempo furono Peter Pan, ma che oggi si stanno tramutando in Giacomo Uncino. Il quale ha paura del tempo che passa perché, avendo fatto il vuoto dentro di sé (dov’erano le cose che il tempo non può consumare) che altro gli è rimasto se non quella vecchia carcassa che il Tempo, cioè il Coccodrillo, gli sta sgretolando pezzo a pezzo?

 

Le migliori domande dei bambini sul film

 


[1]. Ideato dallo scozzese James Matthew Barrie (1860-1937) a partire dal 1898, Peter Pan fece la sua prima apparizione pubblica nel 1903 nel romanzo The little white bird (“L’uccellino bianco”) del quale occupava sei capitoli con il racconto della sua nascita e della prima parte della sua vita. L’anno dopo, nel 1904, fu il protagonista della commedia Peter Pan, or the boy who wouldn’t graw up (“Peter Pan, o il ragazzo che non voleva crescere”) che descrive il suo incontro con Wendy, John e Michael Darling e le loro avventure sull’Isolachenoncè (Neverland). Nel 1906, in seguito all’enorme successo della commedia, Barrie autorizzò la pubblicazione separata dei sei capitoli del 1903 con il titolo di Peter Pan in Kensington Gardens (“Peter Pan nei giardini di Kensington”). Infine, nel 1911, uscì Peter Pan and Wendy, versione narrativa della commedia del 1904. Le sue trasposizioni cinematografiche più importanti sono state: Peter Pan, lungometraggio d’animazione prodotto da Walt Disney nel 1953; e Hook, diretto da Steven Spielberg nel 1991 e interpretato da Dustin Hoffman (nella parte di James Hook, conosciuto in Italia come Giacomo Uncino), Robin Williams (Peter Pan) Julia Roberts (Trilly, in Italia Campanellino), Maggie Smith (Wendy) e Bob Hoskins (Smee, in Italia Spugna).

(Le citazioni dalle opere di James Barrie sono tratte dalle seguenti edizioni italiane: Peter Pan, traduzione di Pina Ballario, Mondadori, Milano, 1996, d’ora in poi citato semplicemente come Peter Pan; e Peter Pan nei giardini di Kensington, traduzione di Renato Gorgoni, Rizzoli, Milano, 1999, d’ora in poi citato come Kensington).

 

[2] Peter Pan, cit., pag. 3.

 

[3] Nell’ultimo capitolo di Peter Pan, cit., (intitolato Wendy diventa grande) nel giro di pochissime pagine muoiono James Hook e la fatina Trilly, i signori Darling, Nana (la “bambinaia” canina), Wendy (e con lei, implicitamente, i suoi fratelli e tutti i Bimbi Smarriti, che come lei hanno scelto di lasciare l’Isolachenoncè e di crescere). Inoltre si avvia verso la vecchiaia e la morte anche Jane, la figlia di Wendy, e si comincia a parlare di quando sarà adulta e madre perfino Margaret, figlia di Jane. Solo Peter Pan, immortale e immutabile, sopravvive a tutti.

 

[4] “A sette giorni era fuggito dalla finestra tornandosene in volo ai giardini di Kensington...” (Kensington, cit., pag. 58). “Sai, Wendy, io sono fuggito da casa il giorno stesso in cui nacqui.” (Peter Pan, cit., pag. 33).

 

[5] “Io non voglio andare a scuola e imparare cose noiose” dichiarò egli con energia.” (...) “Indietro, signora! Nessuno mi prenderà per farmi diventare un uomo!” (Peter Pan, cit., pag. 182).

 

[6] “Quando poi sembra che i Bimbi Smarriti diventino adulti, cosa contraria al regolamento, Peter li butta fuori.” (Peter Pan, cit., pag. 58).

 

[7] “Non solo non aveva la mamma, ma non aveva nemmeno il più debole desiderio di averla.” (Peter Pan, cit., pag. 30). Ma non era stato sempre così: nei primi tempi, dopo la sua fuga da casa all’età di sette giorni, Peter aveva provato una nostalgia così intensa della mamma, che aveva pensato di tornare da lei. Aveva però lasciato trascorrere troppo tempo e, quando infine si era deciso, la finestra della sua cameretta era ormai chiusa e protetta da sbarre, e la mamma aveva avuto un altro bambino.

 

[8] Cfr. Il bambino selvaggio, di François Truffaut.

 

[9] Henry James, Giro di vite.

 

[10] “Si dice che allorché i bambini muoiono, egli li accompagni per un tratto di strada perché non abbiano paura.” (Peter Pan, cit., pag. 11).

 

[11] “Se avesse avuto la capacità di concepire un pensiero (ma io credo che non abbia mai pensato)...” (Peter Pan, cit., pag. 29).

 

[12] “Non di rado, infatti, al suo ritorno dalle scorribande celesti, Peter non li riconosceva affatto o per lo meno confusamente.” (Peter Pan, cit., pag. 48). “-Salute!- rispose Peter amichevolmente, sebbene avesse dimenticato del tutto chi fossero.” (Peter Pan, cit., pag. 75).

 

[13] “Egli non aveva nozione alcuna del tempo...” (Peter Pan, cit., pag. 184).

 

[14] “Quando si diventa grandi (...) non si è più spensierati, innocenti e senza cuore. Soltanto chi è spensierato, innocente e senza cuore è capace di volare.” (Peter Pan, cit., pag. 188; corsivi miei).

 

[15] “Peter, che aveva assistito a una quantità di tragiche vicende, le aveva tutte dimenticate.” (Peter Pan, pag. 95). “Nessun bambino dimentica la prima slealtà degli adulti. Nessuno, tranne Peter. Peter l’ha incontrata spesso e l’ha sempre dimenticata. Io credo sia questa la vera differenza tra lui e gli altri ragazzi.” (Peter Pan, cit., pag. 103).

 

[16] “Per lui, verità e favola erano la stessa cosa. Talora questo li metteva a disagio, soprattutto quando erano costretti a fingere di aver già desinato e Peter li picchiava sulle nocche delle dita se pretendevano di uscire dalla favola.” (Peter Pan, cit., pagg 76-77).

 

[17] All’acorporeità di Peter allude il suo malcerto legame con la propria ombra, ma del resto lo confermano le sue stesse parole: “Peter, (...) quali sono i tuoi veri sentimenti a mio riguardo?” gli domanda la bambina. “Quelli di un figlio devoto, Wendy!” risponde lui. E aggiunge, perplesso: “Sei tanto strana! E Giglio Tigrato è come te! Dice che vuol essere qualcosa per me, ma non una madre.” (Peter Pan, cit., pag. 117).

 

[18] Com’è testimoniato assai eloquentemente, oltre che dal suo modo dispotico di trattare i Bimbi Sperduti e dall’assoluta mancanza di pietà verso i nemici sconfitti, soprattutto dallo spettacolo inquietante che ci offre dopo la definitiva vittoria su Uncino: “La prima sera in cui Peter indossò quel costume, sedette a lungo in cabina con il vecchio bocchino di Uncino in bocca e una mano chiusa a pugno. Ne lasciava sporgere solamente l’indice e lo piegava e lo drizzava minacciosamente come un artiglio.” (Peter Pan, cit., pag. 170).

 

[19] “Pan, chi o che cosa sei tu?” gli domanda Uncino. “Io sono la giovinezza, io sono la gioia” risponde Peter a caso. “Sono l’uccello appena uscito dall’uovo.” (Peter Pan, cit., pag. 116; corsivi miei).

 

[20] “Qualche volta, non troppo spesso, Peter sognava e i suoi sogni erano più angosciosi di quelli degli altri ragazzi. Per ore e ore non riusciva a destarsi, e gemeva pietosamente, mentre sognava. Quei sogni avevano attinenza, credo, con il segreto della sua esistenza.” (Peter Pan, cit., pag. 139).

 

[21] Molti Indiani e quasi tutti pirati, in Peter Pan and Wendy, cit., muoiono trucidandosi a vicenda o per mano di Peter, come si può leggere specialmente alle pagg 133 e 168.

 

[22] Nel 1965 il regista inglese Alexander Mackendrick diresse negli Stati Uniti A high wind in Jamaica (letteralmente Un forte vento sulla Giamaica, ma “promosso” in Italia al grado di ciclone) tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1929 dallo scrittore inglese Richard Hughes (1900-1976) e interpretato, fra gli altri, da Anthony Quinn e James Coburn. Cfr. Richard Hughes, Un ciclone sulla Giamaica, Ugo Guanda editore, Parma, 2001.

 

[23] Il villaggio dei dannati, diretto nel 1960 da Wolf Rilla sulla base di un romanzo di John Wyndham (1903-1969) e rifatto da John Carpenter nel 1995.

 

[24] Peter Pan, cit., pagg 124-125.

 

[25] Peter Pan, cit., pagg 9-10.

 

26] Peter Pan, cit., pag. 144.

 

[27] De Il villaggio dei dannati, cit.

 

[28] Peter Pan, cit., pagg 50-51 e 55.

 

[29] Cfr., qui, la nota 48 a pag. 28.

 

[30] Kensington, cit., pag. 54.

 

[31] Kensington, cit., pag. 58.

 

[32] Kensington, cit., pag.60. In Peter Pan nei giardini di Kensington si legge infatti che i bambini vengono al mondo non come esseri umani, ma come uccelli, e che cominciano a diventare umani nel momento in cui, per esplicita richiesta delle donne che desiderano averli, vengono inviati nelle case delle loro future mamme e sottratti, così, all’ornitologico destino che altrimenti li attenderebbe. Solo Peter Pan, nel corso dei secoli, è riuscito a tornare fra gli uccelli. Non del tutto, però: infatti, per via di quei sette giorni che ha trascorso con la sua mamma, egli rimarrà per sempre per metà umano...

 

[33] Kensington, cit., pag. 67. Salomone è il vecchio corvo che riceve le lettere delle mamme e manda loro i bambini che esse gli richiedono.

 

[34] Solo per sette giorni, ripeto, perché prima era stato un uccello.

 

[35] Kensington, cit., pag. 149. Sulle rondini, e sui nessi fantastici che collegano questi uccelli (e, come si è visto, ancora una volta Peter Pan) al mondo dei morti, è illuminante e piacevole la lettura del bel saggio di Maurizio Bettini, Turno e la rondine nera, in Maurizio Bettini, Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Einaudi, Torino, 2000, pagg 125-143.

 

[36] I discendenti di Peter Pan sono stati legione, nell’immaginario del Ventesimo Secolo, e alcuni così deformi da non permettere un veloce e agevole riconoscimento, nei loro tratti, dei lineamenti aggraziati e sbarazzini del ragazzo che non voleva crescere. Mi limiterò a dire, per non farla troppo lunga, che hanno qualcosa a che vedere con la sua eredità genetica tutte le rassegnazioni giovanili del secolo scorso all’idea delirante che sia impossibile evolversi in un essere umano adulto serio e responsabile senza degenerare in un indifferente stupido e violento. Con gli inevitabili esiti, solo apparentemente opposti, della rinuncia a crescere, palesata dall’attardarsi di molti, via via più stereotipato e lugubre, in rituali ribellistici o misticheggianti o autodistruttivi (o tutti e tre insieme); oppure della rinuncia a essere umani, manifestata da altri con la piena accettazione (tanto più convinta e arrogante quanto più la ritengono “naturale”) del modello di adulto che per un attimo, al tempo in cui anch’essi avevano creduto in Peter Pan, si erano illusi di poter criticare e abbattere.

 

[37]. Cfr. Il Cucciolo, 1946, di M. K. Rawlings.

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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.

Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.

Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)

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