Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
Ricordi Immaginari - Spiegare un Film a un Bambino
Il Monello
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Perché Charlie Chaplin faceva dei film che facevano ridere e al tempo stesso piangere? (Valentina, a.s. 2001-2002)
Perché c’è un contrasto fra il bene e il male? (Silvia, a.s. 2002-2003)
Per un bambino è meglio crescere nella famiglia di origine, anche se povera, o essere adottato e crescere in una famiglia ricca?
(Nicholas, a.s. 2009-2010)
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Titolo: Il monello Titolo originale: The Kid Regia, sceneggiatura, montaggio, musiche: Charles S. Chaplin (1889-1977) Paese di produzione: U.S.A. Anno di produzione: 1921 Attori principali: Charlie Chaplin (il Vagabondo), Jackie Coogan (il Monello), Edna Purviance (la madre), Carl Miller (l’artista), Tom Wilson (il poliziotto), Charles Reisner (il bullo del quartiere) Durata: 51’
La storia
Una giovane donna, sconvolta per essere stata lasciata dal padre del suo bambino, abbandona il piccolo in una lussuosa automobile sperando che una persona ricca e generosa si prenda cura di lui e gli assicuri un futuro migliore. Poco dopo la vettura viene rubata, e il bambino, quando i ladri si accorgono della sua presenza, è di nuovo abbandonato in un quartiere poverissimo, in un vicolo pieno di rifiuti. Lì lo trova il Vagabondo, che decide di tenerlo con sé dopo aver invano tentato di “perderlo” a propria volta. Passano gli anni e tutto va per il meglio: qualcosina da mangiare non manca mai (anche perché il Vagabondo rinuncia spesso alla sua parte) e il bambino, divenuto un Monello, “aiuta” nel lavoro il padre adottivo rompendo le finestre a sassate in modo che il Vagabondo possa poi presentarsi, come per caso, a offrire ai proprietari i suoi servigi di vetraio improvvisato. Ma un brutto giorno cominciano i guai: dapprima, i due sono colti sul fatto da un poliziotto; poi il Monello si ammala, in seguito a un duro corpo a corpo con il fratellino del bullo del quartiere, e il Vagabondo deve chiamare un medico; quindi si fanno vive le autorità (che non si erano viste quando il Monello e il Vagabondo avevano bisogno d’aiuto) e portano via il bambino per abbandonarlo in un ospizio...
Il regista
Charlie Chaplin. Pseudonimo di Charles Spencer Chaplin. Nato a Walworth, Londra, nel 1889. Morto a Vevey, in Svizzera, nel 1977. Attore, regista, sceneggiatore, produttore, compositore. Clicca qui per leggere la vita e le opere di Charlie Chaplin su Wikipedia. |
Il commento di Luigi Scialanca
Una madre abbandona il figlio appena nato.
È una ragazza sola, povera, senza lavoro né alcuno che l’aiuti (in tempi in cui una donna, se rimaneva incinta pur non essendo sposata, non di rado finiva in mezzo a una strada) e noi comprendiamo perché si sia sentita costretta ad agire così. Nondimeno il suo atto ci riempie d’orrore, non possiamo giustificarlo in alcun modo, né tanto meno possiamo considerare giuste le culture e le società che istigano gli esseri umani a commettere azioni così mostruose... E che dire del padre del bambino, che l’ha lasciata sola in questa situazione? Come non provare disprezzo per un uomo simile?
Orrore, rabbia, disprezzo... Be’, la prima didascalia ci aveva avvertito: questo film vi farà ridere, ma anche piangere. E noi, anche se piangere non è la cosa che facciamo più volentieri, tuttavia ci sentiamo indotti a capire e accettare tale dichiarazione d’intenti se pensiamo che i tipi come quel padre, che fugge dinanzi alle proprie responsabilità, sono proprio i tipi che nella vita vogliono solo ridere. Quelli che odiano tutte le cose (discorsi, film e soprattutto persone) che li spingono a riflettere un po’.
Nell’unica e breve scena in cui compare, quest’uomo compie un gesto molto significativo: butta nel fuoco una fotografia della donna. A quanto pare, egli si crede un artista, un pittore: lo vediamo, infatti, discutere di quadri con un ridanciano collega. Ma che artista potrà mai essere, uno come lui? Tutt’al più un mercante d’arte. Infatti, quando l’immagine della donna gli cade nel fuoco, egli dapprima la raccoglie, lasciandoci sperare che senta per lei un po’ di nostalgia, ma poi, con un’occhiata distratta, la getta di nuovo nel camino e si accende una sigaretta con la stessa fiamma che la sta riducendo in cenere.
Attenzione: non lo fa in un momento di rabbia, come un uomo appassionato che sbaglia più per la collera che lo sconvolge che per inveterata cattiveria. Lo fa tranquillamente, come se niente fosse. Lo fa, cioè, approdando a una totale anaffettività: l’immagine della donna non significa più niente per lui, guardandola non prova più alcun sentimento, e dunque non la distrugge con odio, il gesto con cui la lascia cadere tra le fiamme è privo di intensità, così piatto da sembrar quasi casuale, da non lasciarci alcun dubbio che lo stato psichico da cui scaturisce non è quello di chi esecra un ricordo che lo fa soffrire e lotta per cancellarlo. E tuttavia, benché lo faccia placidamente, l’uomo distrugge l’immagine di proposito: lo fa apposta, come dicono i bambini.
Ma perché, se davvero della donna non gl’importa più niente? Perché l’immagine non distrutta continuerebbe a esercitare la virtù che le è propria: si opporrebbe alla sua anaffettività. Perché l’immagine, ogni volta che egli tornasse a guardarla, tenterebbe di far sopravvivere l’essere umano non del tutto gelido che egli era ieri e di rendere meno sicuro di sé il duro che egli vuole essere oggi. Potrebbe indurlo a odiare l’uomo che è diventato, e a capire e rimpiangere l’uomo migliore che un tempo era stato.
Poiché l’immagine della donna, insomma, come ogni altra immagine, non è solo “fotografia”, mera riproduzione della realtà, ma è (essendo stata voluta, preparata, scattata, sviluppata, stampata, conservata, donata ed esposta) anche sentimento, desiderio, fantasia, speranza, progetto, idea, storia: una piccola opera e una grande testimonianza di ciò che in un essere umano è specificamente umano.
L’uomo, dunque, brucia l’immagine della donna perché egli si sta follemente “realizzando” come non umano, e l’immagine invece cerca di trattenerlo tenendo sempre accesa dinanzi a lui una fiammella dell’umanità che in lui si sta spegnendo. La brucia per disumanizzarsi, per entrare a far parte della genìa di quanti danno origine, con il loro odio per l’umano, a tutte le nostre traversie. Ed è lui, infatti, come primo atto della sua nuova vita disumana, a causare tutte le sofferenze della donna e del bambino. Poiché i ladri che rubano la macchina, il poliziotto che insegue i deboli e lascia in pace i potenti, il teppista che terrorizza il quartiere, il medico che denuncia la presenza del Monello in casa del Vagabondo, il funzionario che porta via il Monello e lo fa cadere con uno spintone, ebbene, tutti costoro non commetterebbero alcun male, non esisterebbero, se prima non ci fosse l’uomo che, distruggendo l’immagine della donna, ha annullato lei e la sua creatura: poiché non vi sarebbe mai violenza contro l’essere umano, se egli non venisse prima annullato nel sentimento e nel pensiero dell’altro su di lui.
E cosa fa, quest’uomo, sùbito dopo aver distrutto l’immagine? Si volge ― geniale ironia di Chaplin ― a esaminare un’opera d’arte. S’illude di essere un artista, lui che si è appena servito della sua immaginazione non per creare qualcosa dove non era alcunché, ma per fare il nulla dov’era qualcosa!
Era il 1921, e nel mondo sciamavano individui per i quali gli esseri umani non avevano alcun valore: individui che non si sarebbero accontentati di bruciare gli uomini, le donne e i bambini solo in effigie...
Non vedremo più il padre “vero” del Monello (invece falso, poiché non è umanamente padre chi non ha affetti né immagini per il figlio). Ma la sua breve apparizione basta a farci capire che il solo, vero Cattivo del film non è altri che lui. Per capire che il Cattivo, qui, non è un tipo che sequestra, spara, ammazza. Non è un personaggio in cui nella vita reale, tutto sommato, è abbastanza difficile imbattersi. No. Il Cattivo è uno che guarda le immagini senza più provare alcun sentimento. Che le perde, le butta, le lascia cadere nel fuoco senza farci caso. Un tipo, cioè, che purtroppo non è affatto raro in un’epoca come la nostra ― della quale l’autore di Tempi moderni sapeva bene cosa pensare ― in cui si pensa e si blatera ovunque che abbia davvero importanza solo ciò che frutta denaro. Un tipo così comune, anzi, che anche i piccoli spettatori de Il Monello d’ogni tempo e paese, con la loro ancor breve esperienza del mondo, potrebbero averne già incontrato più di un esemplare perfino nelle loro vicinanze.
Così comune, invero, questo tipo, che con la sua apparizione ne Il Monello è come se Charlie Chaplin, all’inizio del film, dicesse a una parte del pubblico (non ai grandi criminali, ai genî del male o agli scienziati pazzi, ma a gente che potrebbe essere in sala) che la sua opera non è per loro, e che perciò possono accomodarsi fuori.
Al giorno d’oggi gli permetterebbero di alienarsi così una parte degli spettatori? Oggi che i film, in televisione, vengono interrotti con gli spot pubblicitari da chi è persuaso che ciò che è “solo” bello debba passare in secondo piano dinanzi a quel che produce utili? Meglio, molto meglio mostrare grotteschi “cattivi” alla Grimilde o alla Lex Luthor, se si vuole essere pubblicati e prodotti, e lasciare in pace gli affabili, disinvolti e lucidamente saggi cattivi veri che senza rabbia né violenza imbrattano, sfregiano e distruggono le immagini umane.
E invece un essere umano si distingue dagli altri animali solo in questo: perché pensa e cerca e crea e ama anche ciò che non “serve” a niente. Ciò che talvolta, addirittura, non è fatto di materia e non si percepisce coi cinque sensi. Ciò che talvolta, addirittura, non si può vendere né comprare. Come l’immateriale contenuto di memoria e di affetto che rende preziosa l’immagine di una donna amata.
Fin qui, Il Monello che fa piangere. Ma questo ― ci è stato promesso dai titoli di testa ― è un film che ci farà anche ridere, e l’impegno viene mantenuto quando appare il Vagabondo. Poiché noi, vedendo l’uomo abbandonare la donna e la madre abbandonare il figlio, avevamo temuto che il mondo sia così brutto da far diventare cattivi anche i buoni. Mentre ora, vedendo il Vagabondo (poverissimo, senza lavoro e solo anche lui) che vorrebbe abbandonare il bambino, che tenta di farlo e che non ci riesce, scopriamo l’esistenza di una persona che non è capace di essere cattiva neanche se ci prova con tutte le forze! E allora, mentre i suoi pasticci iniziano a farci ridere, ecco che ci vien quasi da piangere, sì, ma per il sollievo: i malvagi non vinceranno, pensiamo, finché ci saranno in giro tipi come lui.
Più tardi, però, quando il Monello gli viene portato via con la forza, anche il Vagabondo cede alla disperazione: e sogna che perfino se al mondo fossero tutti buoni come angeli, prima o poi la cattiveria si impadronirebbe di loro e trionferebbe lo stesso. Ma poi si sveglia e scopre che per fortuna non è così...
A proposito di questo sogno: non pensate, vedendo tutti quegli angioletti, che il Vagabondo sia un ingenuotto e un tontolone, perché vi sbagliereste. Lui sa benissimo come può essere crudele la nostra Società, tant’è vero che all’inizio, quando trova il neonato nel vicolo, si volta a guardare in sù perché crede perfino possibile che qualcuno lo abbia buttato dalla finestra insieme all’immondizia! E il suo sogno, infatti, a ben vedere è tutt’altro che ingenuo: benché ideato e narrato con lieve e affettuosa ironia, come una sorta di “favola nella favola”, è un vero e proprio incubo, di quelli che fanno disperare se gli si crede, perché dipinge l’essere umano come un malato incurabile, che neanche nelle condizioni più favorevoli è capace di conservarsi buono come quando viene al mondo. Ma non è così, lo ripetiamo: l’intatta bontà del Vagabondo prova che l’incubo è bugiardo, e ciò che egli vede quando si sveglia (e che naturalmente non anticipiamo) lo dimostra una volta per tutte anche a lui traendolo in salvo dal momento di cupa disperazione che gliel’ha ispirato.
“Ma è davvero buono, il Vagabondo?” domandano talora i bambini dopo aver visto il film. “E se lo è, perché commette cattive azioni? Perché, per esempio, va in giro a rompere i vetri delle finestre?”
Potremmo limitarci a rispondere che lo fa per guadagnare qualche soldo, per dar da mangiare al bambino e a sé stesso in un luogo e in un tempo in cui venir fuori onestamente dalla miseria è quasi impossibile, trovar lavoro è assai difficile e le leggi permettono ai poliziotti di schiaffare in gattabuia uno come il Vagabondo anche solo per... vagabondaggio. Potremmo rispondere così, e non diremmo il falso. Ma la verità de Il Monello è più profonda, ed è ― lo ripetiamo ― che il Vagabondo non riesce a incassarla, la minuscola monetina che gli spetta per la sostituzione del vetro (eseguita del resto a regola d’arte) perché la scoperta che colei che ha tentato di truffare è la moglie del poliziotto lo induce a restituire il maltolto prim’ancora di averlo intascato. Poiché il Vagabondo, cioè, che non è affatto un inetto ma al contrario è bravissimo a trarsi d’impaccio in mille situazioni e a fabbricare ogni sorta di marchingegni per sopperire alla povertà della sua stanzetta, nel fare il male è invece un buono a nulla... proprio come un bambino piccolo. Poiché la verità de Il Monello, insomma, è che una persona come il Vagabondo è colui che non riesce a fare il male neanche se consapevolmente vuol farlo a tutti i costi! E soprattutto che non riesce a farlo nemmeno se la Società in cui ha la sventura di esser venuto al mondo fa di tutto per farglielo fare. Mentre il vero cattivo, l’uomo che all’inizio del film lascia “distrattamente” cadere nel fuoco l’immagine della donna, è colui che è capace di fare il male perfino senza accorgersene.
No, Il Monello, pur essendo una bellissima favola, non è solo una favola. Così come sarebbe errato pensare che il mondo sia talmente cambiato, in novant’anni, da rendere anacronistico il messaggio sociale del film: poiché la miseria e l’abbandono di milioni di esseri umani, purtroppo, sono gli stessi di allora in molte parti del mondo. E la violenza contro i bambini, la peggiore di tutte, è ancora oggi feroce.
“Ma perché è muto, questo film? Perché è in bianco e nero? E perché gli effetti speciali si vede così bene che sono trucchi?” Anche queste sono domande che i bambini talora fanno, e non solo dopo aver visto Il Monello: risponderemo loro la prima volta per tutte, e tenteremo di farlo in maniera non banale.
Diremo che i film come Il Monello ― “muti” e in bianco e nero e tecnologicamente primitivi ― ai bambini più piccoli assomigliano molto: perché, come loro, ancora non sanno parlare e non sono esperti nelle cose della vita. E che per questo, come quei perfetti esempi di Umanità che i bambini sono, i film come Il Monello vanno guardati e ascoltati (sì, anche ascoltati, poiché anche i suoni apparentemente privi di senso e perfino il silenzio vanno ascoltati e compresi, se la loro origine è umana) con intensa attenzione e immenso rispetto. |
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(Le schede di Spiegare un film a un bambino sono per bambini e ragazzi di Quinta elementare, Prima, Seconda e Terza media.
Sono scritte, perciò, il più semplicemente possibile. Ma non sono affatto... semplicistiche.
Vuoi servirtene? Fai pure. Ma non spezzettarle, non alterarle e non dimenticare di citarne l’autore!)
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